Essere ortodosso in Occidente
di Vladimir Zelinskij
Il tema che mi è stato proposto non solo non si potrebbe esprimere nel quarto d'ora che mi è stato accordato, ma neppure in quella che è la mia lingua madre. “Essere ortodosso in Occidente” come argomento, forse, corrisponde perfettamente allo spazio di un quarto d'ora, ma tutto quello che può essere abbracciato dalle parole russe “byt' pravoslavnym na Zapade” [essere ortodosso in Occidente] basterebbe a scrivere un libro intero “di fredde osservazioni della mente e dolenti note del cuore” (Puškin). La differenza tra la frase italiana e il suo legnoso calco russo è simile alla differenza tra la russa “confessione di un cuore ardente” (Dostoevskij) e la conferenza cortesemente distaccata, che si mantiene entro precisi argini. Tuttavia lo stile del nostro discorso spesso ne condiziona la sostanza e perciò, se vogliamo mantenerci fedeli al tema, dobbiamo trovare una via intermedia, che operi un compromesso fra queste due tonalità, esprimendo in russo un'esperienza italiana, vissuta tra due realtà e per lo meno in due lingue.
Com'è noto la terra d'esilio - esprimiamo con questo elevato termine puškiniano la strana sensazione di strappo fisico dal nostro stesso passato - ci condanna a tornare in noi. Per questo “essere ortodosso in Occidente” prima di tutto ha voluto dire per me cercare di esserlo di nuovo, tornare all'ortodossia ricco di una nuova esperienza, compiere un pellegrinaggio interiore “nel paese d'Oriente” (Hesse) pur restando in Occidente, mantenendo contatti quotidiani, culturali, amicali e spesso di preghiera con la Chiesa cattolica. E questo mio ritorno non ha voluto dire in alcun modo dissociarsi dalla nuova esperienza occidentale, ma ricercare la comune origine spirituale. Poiché in questa origine, ortodossia e cattolicesimo rimangono nel profondo, nonostante tutto ciò che li divide, rivolti l'uno verso l'altra, direi che segretamente si cercano. Segretamente, perché nessuna delle due parti ancora si rende conto del bisogno che ha.
Innanzitutto, come ben sappiamo, le due Chiese confessano se stesse negli stessi identici termini, proclamando di essere una, santa, conciliare o cattolica, basata sulla comune eredità apostolica. E questo rivendicare un'unica verità indivisibile, ferme restando le sue diverse interpretazioni, crea ad un tempo il terreno per un secolare conflitto e per una riconciliazione nell'unica fede, riconciliazione che dobbiamo ancora scoprire o meglio lasciare che si rinnovi, come può rinnovarsi un icona in risposta alle preghiere umane. Anche per questo non bisogna parlare della necessità di trovare una verità comune, quanto della necessità di un nuovo incontro nella verità eterna che “da tempo è stata trovata” (Goethe), ma che si cela sotto la coltre delle nostre tradizioni e neanche in primo luogo delle tradizioni ma delle forme, delle ombre storiche e confessionali che una Chiesa getta sull'altra.
Tuttavia la divisione tra Oriente e Occidente non corre solo tra le diverse forme della verità ma anche, per dirla con le parole di Buber, “tra due tipi di fede”, che naturalmente, oltre al fondamento dogmatico, ne hanno anche uno umano. L’Occidente visto da Oriente, così come l'Oriente visto in proiezione da Occidente manifestano spesso il nostro segreto desiderio di guardare l'altro come vorremmo vederlo, o meglio, il desiderio di non guardarlo affatto, a seconda che lo consideriamo con simpatia o con ostilità. La libertà che è esplosa in Oriente - e non parlo solo della Russia - ha dato via libera a questi desideri ed oggi si sono delineate per lo meno due immagini “ortodosse” di Europa, che continuano a respingersi l'una l'altra.
In un caso l'immagine ortodossa dell'Europa si leva come un baluardo per respingere l'ininterrotta aggressione occidentale contro l'ortodossia. È una sorta di linea Maginot psicologica posta a salvaguardare l'ultimo sostegno dell'autentica pietà, mentre quest'ultima, più si sente dolorosamente circondata da ogni lato più si spinge verso l'alto, arrivando ormai fino al cielo, anzi “nel più alto dei cieli”, per suddividerlo in settori, quello aperto per noi, e quello chiuso per gli altri. È pur vero che l'Europa e l'America, in certi casi, servono da spauracchio preso a prestito da agitare davanti al nemico di casa, e la stessa parola Occidente non è altro che il simbolo della tentazione occidentalista, che agisce e corrode oppure che si accinge a rinnovare l'ortodossia dal di dentro. Capita che l'antiecumenismo più sfegatato in Oriente, anche se si atteggia a san Giorgio che uccide il drago, possa tranquillamente instaurare rapporti amichevoli e persino cordiali col drago, che gli renda visita nella sua stessa tana in Occidente, e arrivi persino a fargli dono dei propri libelli anti-drago. In realtà, il mostro cattolico, per quanto astuto e ostile possa essere, resta per chi lo combatte un oggetto di scarso interesse; del resto anche la diaspora ortodossa in Occidente spesso lo considera un vicino seccante e poco simpatico (che per di più occupa tutto lo spazio a disposizione) e gli volta le spalle. Di conseguenza, nella prospettiva dell'unità, l'antiecumenismo ortodosso freddo e rigido qui in Europa è ben peggiore e senza rimedio degli anatemi orientali. Ma qui si aprirebbe un altro discorso.
Esiste, a dire il vero, anche un'altra immagine ecumenica, o piuttosto antiantiecumenica dell'Occidente che ha solide radici in Oriente, immagine che parte più o meno consapevolmente dal presupposto che il cattolicesimo sia appunto l'ortodossia ideale, tornata finalmente al Vangelo, liberatasi dallo spirito mercantile moscovita, dalla pesantezza imperiale, dall'iraconda intolleranza da Avvakum e dall'abbietta adulazione untuosa. Ricordo come si crea quest'immagine in base alla mia esperienza personale, ma ora so anche che le Chiese ideali non si edificano cercando di eliminare con un'operazione mentale determinati difetti della propria Chiesa, poiché la strada dell'unità non incomincia dalle nostre proiezioni, ma deve prendere corpo organicamente dal terreno, dallo spazio spirituale in cui sussistiamo.
UNA CHIESA RIDOTTA A MUSEO
Ma se l’Oriente, nei riguardi dell'Occidente, come dice Blok, “scruta, scruta e scruta, con odio e con amore”, l'Occidente, dal canto suo, spesso incapace persino di immaginare un tale ribollire di sentimenti, prende le distanze dall'Oriente, posto che vogliamo chiamare convenzionalmente con questo nome l'ortodossia, con una scelta più conciliante, più amichevole e soprattutto più astuta. L'Occidente non costruisce baluardi, però circonda l'Oriente con una sorta di recinto invisibile ma impenetrabile, alle cui porte sta scritto “museo delle credenze orientali”. Su queste porte fa bella mostra di sé la chiesa di San Basilio, imponente come un lustro samovar, copiato dai dépliant turistici. E dietro al San Basilio-samovar incomincia subito quello che io chiamo “la più vieta Zagorsk” (perché, bene o male, in Occidente hanno assimilato il concetto che la Lituania e la Georgia non fanno più parte della Russia, ma quasi nessuno ce la fa a pronunciare il nome della “Lavra della Trinità di san Sergio”).
A Zagorsk dunque (nella Lavra vera e propria o più o meno là attorno), le lampade davanti alle icone tremolano in modo così intimo e misterioso, il popolo canta così a lungo, in modo incomprensibile ma tanto, tanto devoto, che sembra venuto fuori dritto dalla santa Rus'; insomma qui spira, scintilla e alita quello che è definito dalla misteriosa parola spiritualità. La spiritualità (non troveremmo un termine analogo che sia adeguato nell'uso linguistico russo) viene spesso concepita come una sorta di lusso orientale un po' eccessivo nella vita cristiana normale; è questa spiritualità che si mette in mostra e si onora talvolta proprio come un reperto del museo di Zagorsk.
Qualche volta, non avendo sottomano il famoso popolo o un bel pellegrino vecchio stile, mi invitano come massimo esperto di Zagorsk che c'è in circolazione, ai più svariati incontri e conferenze per sentirsi raccontare in quindici minuti che là a Zagorsk le vicende ecumeniche, la riconciliazione tra le Chiese e l'amore per tutta l'umanità stanno andando a gonfie vele. Chissà perché ogni volta, dopo queste conferenze, mi vien voglia di controproporre un mio tema non troppo conciliante però tipicamente zagorskiano e discutere, ad esempio, dei chiari, sinistri e indiscutibili segni della venuta dell'anticristo in questo mondo, oppure della cerimonia per accogliere nell'ortodossia un eretico e secondo quale Rituale scacciare da lui i demoni. Il tentativo di disfarsi dell'Occidente tradisce una specie di reazione di difesa dell'Oriente, il quale continua a pensare, per quanto si cerchi di farlo ricredere, che l'altro lo voglia rendere totalmente uguale a sé. In compenso in Occidente si coltiva viceversa la molteplicità più rigogliosa, la dissimiglianza, l'insistita orientalità di tutto ciò che non è Occidente, e nel complesso, si ammette con assoluta tranquillità che le fedi debbono essere tante, che sono tutte “belle e buone”, e che ognuno può averne una sua personale.
Ricordo che la redattrice di una famosa rivista, una signora praticante e colta, nel commissionarmi un articolo sull'ortodossia mi ha chiesto con estrema benevolenza di spiegare ai lettori, i quali “non sanno assolutamente nulla”, che differenza passa tra la mia religione e il cristianesimo. Nella sua domanda non c’era nessun sottinteso complesso di superiorità cattolica, ma piuttosto la coscienza che tutte le religioni sono buone e quelle orientali, nella loro stranezza, sono ancor meglio; ma ammetto che ogni volta, davanti a questo genere di interesse verso l'ortodossia, mi viene da rispondere come il Mancino leskoviano (1): “Che differenza? Semplice: che i nostri libri contro i vostri sono più grossi, e che abbiamo anche le icone fatte dalla mano di Dio, e le teste che stillano tomba, e i monaci veggenti, e i Zosima di Dostoevskij, e i pope col barbone...”. Fate del Mancino un dottore in teologia e la sua risposta diventerà esattamente come quella che si aspettano da me, basta solo aggiungere un pizzico di ecumenismo dolciastro. Infatti la benevolenza occidentale verso il museo di Zagorsk, mi par di capire, deriva in sostanza da una segreta, strettissima parentela con l'intolleranza di Zagorsk; che l'una e l'altra usino maniere ben differenti è evidente, ed ha il suo peso, ma per quel che concerne l'unità cristiana non sono di alcuna utilità.
IL RICHIAMO PROFONDO DELL'UNITÀ
Essere ortodosso in Occidente, se non ti vuoi seppellire da solo in un ghetto dorato e non scegli di stare in un perenne stato di guerra fredda con l'Occidente, vuol dire sentire ogni tanto che la tua ortodossia non solo è chiusa a sette mandate dietro alle spesse mura della vera Zagorsk, costruite contro gli eterodossi, ma è anche difesa da un'ampia cancellata da museo, dietro alla quale si trovano diverse “riserve religiose”, comprese le più esotiche e le più intolleranti.
Tuttavia, questa mentalità è resa un tantino retrograda dal fatto che prende in considerazione un'immagine del mondo che sta scomparendo a vista d'occhio. Per questo l'Occidente, se parliamo delle masse popolari, della gente della strada, non si accorge affatto dell'ortodossia che ha in casa, non dico del mosaico delle più diverse Chiese nazionali, ma appunto della fede che è già nata, che ha messo radici e intende svilupparsi qui. All'ortodossia si trova un posto solo nella “riserva indiana”, russa, greca o romena che sia. Del resto, la maggioranza dei parrocchiani e tutti i sacerdoti del Patriarcato di Mosca in Italia, tanto per fare un esempio, ormai sono di nazionalità italiana; tra i monaci del Monte Athos si possono trovare anche giovani francesi; le Chiese ortodosse locali (ovvero la diaspora ortodossa) crescono a poco a poco ma costantemente negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Finlandia, in Polonia, eccetera. Io sono in corrispondenza con un predicatore carismatico ortodosso del Kenya; ad ascoltarlo, a vedere nelle foto la popolazione locale che prega genuflessa davanti a un icona della Madre di Dio, viene involontariamente da pensare: guarda dov'è andata a finire la Santa Rus'. La vecchia geografia confessionale cambia ogni giorno e la fede della Chiesa bizantina, estinta da tempo immemorabile, dopo tutti gli uragani e i turbini che l'hanno colpita nel nostro secolo (e che non l'avevano risparmiata neppure nei secoli precedenti), ha manifestato all'improvviso un’insolita vivacità e inaspettatamente, contro la propria volontà e quasi inosservata, si è diffusa per i sei continenti. E penso che l'esistenza di un’ecumene ortodossa sia un bene non soltanto per l'ortodossia stessa, ma anche per il mondo cristiano che la circonda e che interagisce con essa, dato che dopo l'epoca delle escursioni nei musei dell'ecumenismo che le Chiese si sono scambiate fino ad ora, incomincia finalmente il tempo di un autentico scambio di doni.
Esattamente allo stesso modo, non si può non vedere che il nascere e il diffondersi del cattolicesimo nell'Oriente ortodosso è un processo altrettanto irreversibile ed organico, forse parzialmente forzato, ma certo non totalmente impiantato dall'esterno. Il cosiddetto cattolicesimo russo, e sottolineo questo aggettivo, affonda le sue radici non solo in personalità come Čaadaev e Solov'ëv, come Leonid Fëdorov e il vescovo Varfolomej Remov, ma anche nella persona di padre Sergij Bulgakov, benché questi, dopo il suo improvviso avvicinamento a Roma, continuò poi a polemizzare con essa per tutta la vita. Il fatto è che la cattolicità (kafoličnost', come diciamo noi rifacendoci al greco), o universalità, è il tema o piuttosto uno dei temi dell'anima religiosa russa. L’impulso spontaneo di padre Sergij Bulgakov, che trova espressione nell'opera Alle mura di Chersoneso, anche se ripudiato e rimosso subito dopo, ha messo a nudo meglio di qualsiasi altra cosa, per un istante ma con chiarezza penetrante, questa aspirazione all'universalità, o la “ricerca universale della verità” che talvolta si nasconde nell'anima ortodossa, in quella russa in particolar modo, anche se spesso ne viene scacciata come una “tentazione dell'Occidente”. E si troveranno sempre degli uomini, in terra ortodossa, che si comporteranno come se non avessimo mai litigato e non cercassimo cospirazioni esterne, per i quali questa ricerca della cattolicità-universalità e della “Città Nuova” prenderà le forme di un pellegrinaggio spirituale e confessionale dalla Terza Roma alla Prima.
D'altro canto, in Occidente non fa che crescere il numero delle persone che, nelle proprie confessioni occidentali sente la mancanza della viva tensione al mistero, della sacralità, della tradizione, dell'opera della preghiera, della ricchezza simbolica. Esiste una particolare nostalgia dell'ortodossia anche nell'anima cattolica (quella protestante, in particolare di tendenza fondamentalista, in questo senso è un po' più corazzata), esiste una passione che non è solo per il museo religioso e le esposizioni di icone, ma per la sorgente spirituale da cui nasce l'icona, per la quale si compie l'Eucaristia, da cui cresce tutta la struttura ascetica e spiritualizzatrice della Chiesa orientale. E questo interesse ha sotto di sé un fondamento eucaristico. Se qualche anno fa avrei potuto percepire solo intuitivamente questa sete e questa ricerca reciproca fra le nostre Chiese-sorelle, ora la mia sensazione ha trovato conferma nell'esperienza del rapporto con una moltitudine di cattolici, sacerdoti e laici, non soltanto in Italia. Essere ortodosso in Occidente vuol dire portare in sé l'esperienza e l'annuncio che la divisione in confessioni su base nazionale ha fatto il suo tempo, che il mondo cerca una Chiesa universale o plerodossa, come dice Vjačeslav Ivanov, aperta al mistero di Dio e al mistero dell'uomo, dove una non può sussistere senza l'altra.
E tuttavia, se in un caso questo mistero fa di tutto per seppellirsi dietro alle mura di Zagorsk (sia in senso letterale che figurato), nell'altro spesso si desacralizza in quel culto sconfinato e addirittura fanatico dell'uomo che sotto i nostri occhi si fa religione. La tolleranza e l'interesse per l'ortodossia come oggetto da museo, di cui ho parlato, ha alle spalle un fondamento filosofico ben preciso, anche se non sempre consapevole. Lo si potrebbe esprimere con la formula con la quale Reinhold Niebuhr una volta ha cercato di definire la sostanza del protestantesimo liberale americano: “un Dio senza ira conduce un uomo senza peccato in un Regno di Dio senza giudizio, tramite un Cristo senza croce”. In questa religione senza spigoli tutto assume le forme della cultura e del folclore, e la cultura stessa porta in sé la propria salvezza e la propria forma di religiosità. In tale religiosità l'uomo talvolta si permette, senza tanti complimenti, di giudicare e decidere di cose di cui non sempre ha il diritto e la capacità di giudicare e decidere. A questo punto incomincia una fede personale, che non saprei se si possa ancora chiamare cristiana.
SENTIRE IL DRAMMA DELLA DIVISIONE
Per finire vorrei raccontarvi una storia tipica, che mi ha alquanto sorpreso. Nella scuola frequentata da mio figlio l'insegnante di religione ha trattato, come si usa dire, il tema della morte. E ha deciso di prendere come esempio la storia di un ragazzo drogato, con spiccate doti d'artista, che è vissuto nella nostra città ed è morto un paio d'anni fa di Aids. Dopo aver raccontato della sua morte, ha chiesto agli alunni di dieci-undici anni di scrivere una poesia. E tutti i bambini dal primo all'ultimo, ispirati dal suo racconto e toccati dal mistero della morte che si era un po' rivelato loro, anche se non come una cosa terribile ma familiare, hanno scritto dei versi su questo Fabio. La cosa sorprendente è che la maggioranza ha scritto delle poesie non brutte (poi sono state pubblicate e donate al padre del pittore), dimostrando che persino nell'anima di calciatori sfegatati, quali sono quasi tutti i bambini italiani, ancora albergano dei rivoli di poesia. Queste poesie sono state lette sul palcoscenico, messe in musica e dotate di coreografia. Fra l'altro tutte le poesie, in base al tema assegnato, non parlavano del Fabio che era vissuto recentemente ma di quello che vive adesso, nell'aldilà. I bambini, per lo più provenienti da normali famiglie cattoliche, ci avevano messo tutto quello che pensavano dell'aldilà, quello che gli hanno insegnato a scuola, a casa, al catechismo, e cioè che dopo la tomba c'è un paradiso fantastico, allegro, dove si sta bene, e Fabio in special modo. Qualsiasi accenno di riflessione inquietante o anche serena veniva spazzata via dalla censura scolastica. In questa visione non c'era il minimo posto né per la preghiera, né per il suffragio, e neppure per qualche dubbio sulla gloria celeste e la pace eterna preparate per tutti e per ciascuno, al punto che poteva persino nascere il desiderio di non fermarsi troppo in questa vita per correre subito dietro al defunto, cantando e ballando. A dire il vero, qualcosa che assomigliava a una preghiera si è sentito, tuttavia non era una preghiera per Fabio ma a Fabio; nella scena finale, tutti insieme (si era arrivati a una vera e propria messa in scena teatrale) i ragazzi, presisi per mano, gridavano verso il cielo: Fabio sei il nostro fiore, il nostro sole, la nostra cometa, la nostra fonte di luce, Fabio sei tu il nostro azzurro!.
In sostanza, se con la bocca dei lattanti e della povera maestra, nel nostro caso, non è affermata tutt'intera la verità, forse questa risuonerà allora per bocca del presidente della Società teologica italiana il quale, nella presentazione di un suo libro sulla Chiesa, ha esordito chiedendosi a cosa serva la Chiesa se comunque sono già tutti salvati senza eccezione. Risposta: perché esiste la via regale, ampia, mentre ci sono sentieri e viottoli d'ogni tipo, e comunque, alla fine, tutte le strade portano al cielo. Sarebbe troppo bello, ho pensato io, e la mia testarda memoria ortodossa mi ha richiamato immediatamente alcune citazioni del Vangelo, il quale non è altrettanto indulgente al riguardo e non afferma assolutamente che la via più ampia ci porta sempre dove vogliamo. Se la Chiesa viene strappata dal contesto della salvezza (che sarebbe per tutti indistintamente), allora effettivamente per quanto ancora sarà necessaria? Per contro, nelle ultime pubblicazioni ortodosse di stretta osservanza che ho portato da Mosca e tengo in biblioteca, non si fa che ribadire con accanita esultanza, con gusto direi, il concetto che la sola idea dell'apocatastasi (cioè che l'inferno e le sue pene potranno un giorno, dopo un tempo interminabile, avere fine) è chiaramente demoniaca, e che l'ecumenismo è di per sé l'eresia delle eresie, che va colpito da anatema, e che al di fuori della vera Chiesa si spalanca la geenna, dove non si può neppur pensare alla salvezza... Da una parte una crescente e diffusa insensibilità verso il “mistero dell'iniquità” che opera nel mondo e nell'uomo, e dall'altra quasi l'ossessione delle tenebre che incominciano subito, senza alcuna gradualità, oltre il cerchio magico dell'ortodossia da noi tracciato...
Essere ortodosso in Occidente vuol dire sentire il continuo richiamo di voci che non si sentono l'una l'altra; vuol dire sentire sulla pelle e nello spirito la differente temperatura spirituale e confessionale di due mondi religiosi che non confluiscono l'uno nell'altro. Vuol dire scoprire di nuovo, non solo nelle ricerche ma nel profondo del cuore, quello che si chiama “il dramma della divisione”, che non è affatto tolto ma solo leggermente anestetizzato dalle facili fraternizzazioni e dall'ecumenismo ufficiali. La drammaticità di questa divisione consiste nel fatto che gli attori stessi, nella gran maggioranza, in sostanza non sentono alcuna divisione; le loro verità, a dispetto del bisogno e della nostalgia reciproci, stanno rinchiuse nelle loro corazze protettive, e ciascuno conserva la propria ricchezza, la propria memoria, l'unica visione del mondo giusta, che è la sua. E se una di queste verità ha trattenuto fermamente in sé le parole “quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio” (Gv l6,8) sul destino di ogni singola anima che sta davanti a Dio, l'altra, almeno nelle intenzioni iniziali, si fonda sulla concezione dell'unità sostanziale, ontologica del genere umano, raccolto e redento da Cristo. E tuttavia, la differenza di misura e il contrasto nel modo di interpretare e di vivere queste verità in “Occidente” e in “Oriente” (temo non mi bastino le virgolette per sottolineare l'assoluta convenzionalità di questa distinzione geografica) confermano appunto che prima o poi questi due mondi dovranno intersecarsi come i due bracci della croce del Signore; che alla fine dei conti non potranno fare a meno di incontrarsi e di ritrovarsi nel mistero comune, nell'annuncio comune e nel calice condiviso.
Nota
1) Protagonista dell’omonimo racconto di Leskov (Levša). La citazione parafrasa comicamente dei lughi comuni della devozione ortodossa.