In ricordo di P. Franco

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Domenica, 29 Maggio 2005 20:40

Lo scandalo di una parola (Vladimir Zelinskij)

Lo scandalo di una parola
di Vladimir Zelinskij


 



Fra tanti rumori che accompagnavano la fine del 2004 in Europa, una voce si è fatta particolarmente viva, quella che scandalizzava per il “peccato”. Sembra che qualcuno abbia tirato uno straccio rosso dallo scrigno della nonna per risvegliare un toro arrabbiato che dorme nel nostro continente, per ora assai pacifico. “Macché peccato! – mi ricordo il quasi un urlo di un noto conduttore televisivo, - si, sono laico (in lingua corrente: ateo), sono omossessuale, ma questo non è peccato, non è peccato!” Ma perché ti preoccupa così una parola? - viene spontanea la domanda, - da laico sei già vaccinato contro la malattia, di cui soffrono solo gli abitanti del pianeta dei credenti.

Davvero, si tratta di una certa logofobia: ciò che non esiste, ciò che è negato, ciò che fa ridere, appena prende “carne” (il suono, il senso) del concetto, provoca protesta pubblica. Ma perché non protestiamo noi nel nome del pluralismo del linguaggio? Il nostro discorso non è destinato, infatti, solo ad uso interno? Il nostro vocabolario non è accessibile esclusivamente agli adetti ai lavori religiosi? Nessuno vuol sostituire “il peccato” con “il reato”, ma davvero non possiamo chiamare le cose con i nomi che gli scegliamo? Sì, la nostra protesta sarebbe giusta, se a questa libertà di parola non avessimo rinunciato noi stessi.

Mi permetto di dire la mia verità, una confessione quasi. Vivo in un paese che poco fa poteva essere chiamato cattolico; amo la Chiesa Cattolica molto di più che una Chiesa-sorella. Sono legato a lei piuttosto come ad una madre che mi ha abbandonato. E con l’amore un po' ferito posso dire che questa Chiesa ha rinunciato con leggerezza alla sua coerenza ed onestà. L’onestà comincia con un buon uso del proprio lessico, non di quello preso altrove. Si può parlare anche in generale del fatto che il cristianesimo in Occidente ha voluto essere troppo inoffensivo, ben accolto da tutti. Leggo libri sulla spiritualità, ascolto ogni tanto le prediche nelle parrocchie, nei programmi religiosi in TV. Sono professionali, sono buoni. Direi, troppo buoni.

La realtà celeste o virtuale domina un po’ su quella quotidiana. Sì, la sessualità umana non può (o non dovrebbe) essere nient’altro che l’espressione dell’amore puro, unico, vero, eterno, perché il matrimonio è indissolubile. Quando le cose vanno molto diversamente, tutti dicono: qualcuno ha sbagliato. “Ha peccato” – non si pronuncia più, almeno in pubblico. Non solo politicamente, ma anche pastoralmente non è corretto. Tuttavia, chi può nutrirsi solo di dolcezze? Forse, per paura di far paura stiamo per buttare via il nostro sale. Ma se non abbiamo il corraggio di dire cose dure, a volte amare, davanti ai fedeli, come osare pronunciarle nel Parlamento Europeo?

Lasciamo stare il “peccato”, forse, questa parola è un po' compromessa. Ha qualche precedenza penale dell’abuso nel passato. Torniamo al linguaggio della Bibbia, a tutti chiarissimo: “Io ti ho posto davanti, - dice il Signore, - la vita e la morte, la benedizione  la maledizione; scegli dunque la vita...” (Deut 30, 19) Ma la morte, la maledizione, forse, sono parole ancora più fondamentaliste? Bene, parleremo dunque di quel nemico che impedisce a Cristo di venire ad abitare nei nostri cuori (cf. Ef 3,17). Oppure di quel muro che fa ostacolo all’amore di Dio, al Suo Spirito. Non so come un laico avrebbe reagito a questa definizione di peccato, anche nell’applicazione concreta a tante avventure e sventure sessuali (quelle omo, ma anche etero), ma sono quasi sicuro che, in fin dei conti, ci si capirebbe meglio.

Sono proprio l’ultimo a potersi vantare della sua Ortodossia. Il dialogo con il mondo contemporaneo è una vocazione che essa deve ancora scoprire. Per ora la Chiesa d’Oriente ha salvaguardato il suo vecchio linguaggio, spesso poco corretto, quello dei santi. Certo, non si può sentirla nei grandi areopaghi del mondo e chissà se è capace di parlare bene nella buona società. Ma nella sua camera, nel suo intimo, ogni ortodosso (almeno colui che prega), appena svegliato, dopo l’invocazione della SS. Trinità dice la supplica del pubblicano: “Signore, abbi pietà di me peccatore!”. Certo, sei parole non costano tanto. Ma alcuni le pronunciano mille volte, le vivono nell’abisso del loro cuore. Perché coloro che hanno provato la pienezza della grazia conoscono anche il tragico nudo dell’anima umana. Un altro santo antico che implorava il perdono di Dio tutta la sua vita disse sulla soglia della morte. “Credetemi, fratelli, non ho ancora cominciato la mia penitenza”. E' forse la confessione di un pazzo? Ma anche “peccato” è una parola che appartiene ad una lingua un po’ pazza, quella dell’animale umano che Dio ha scelto come Suo fratello e per il quale morì nello scandalo della croce.



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Venerdì, 13 Maggio 2005 01:06

Del buon uso di un ortodosso (Vladimir Zelinskij)

Del buon uso di un ortodosso
di Vladimir Zelinskij




“Spiegateci, quando il Papa andrà finalmente a Mosca?”; “Perché la Chiesa Russa parla sempre di proselitismo? Davvero il problema è così grave?” “Qual’è la politica religiosa di Putin?” E così via. Mi sono abituato a queste o simile domande. Le conosco a memoria. Conosco anche le risposte a questi “perché?” e “quale?”, che possono essere semplici, un po’ taglienti e... poco interessanti. Non sapremo proprio un bel niente dell’ortodossia con queste visite-lampo in un’altra realtà, un'altra mentalità, un'altra visione del mondo.

Un'escursione nel campo della politica ecclesiale, per dire la verità, è proprio l’ultima che mi piacerebbe fare. Non è qui il nostro punto di gloria. Ma il destino dell’ortodosso in Occidente è prima di tutto di essere chiamato come il rappresentante di turno di un certo enigma psicologico d’Oriente; poi, di servire da guardiano di un museo un po’ esotico che tutti ammirano dall’esterno (i canti, le icone, i Padri...), ma che pochi aspirano a penetrare sul serio. Al di fuori di questi due incarichi (aggiungiamo anche lo scarso lavoro nelle comissioni miste, che è roba da teologi), il “polmone orientale” non è particolarmente invitato a respirare accanto a quello occidentale; tutti i grandi problemi del cristianesimo di fronte al mondo contemporaneo di solito sono discussi in altre compagnie.

Ammetiamo di praticare anche noi analoghi atteggiamenti: il guardare con un po' di superiorità, dall’altezza della nostro torre d’avorio, sulle piccole faccende della storia e di proclamare con l’aria un po’ offesa che siamo quasi vittime di una nuova crociata. (Non facciamo il paragone, però, fra i russi convertiti al cattolicesimo e gli occidentali che sono attirati dall’ortodossia). Forse, tutto questo proviene dal fatto che culturalmente gli “orientali” rimangono fuori uso; in questi ultimi anni, centinaia di migliaia di loro sono venuti in Italia (clandestini ieri, regolari oggi, cittadini dopo), ma dove si può sentire la loro voce? Certo, il loro imperativo vitale è la sopravvivenza fisica e l’aiuto alle famiglie; ma il bisogno della soppravvivenza dell’anima segue sempre ad esso e quasi gli è inseparabile. Non si tratta solo del luogo del culto o di un club della canzone popolare; anche il pensiero venuto dall’Est potrà chiedere un giorno lo spazio per sè.

La saggezza antica e sempre rinascente della Chiesa d’Oriente è ancora in attesa di essere reclamata. E allora un amico cattolico prima di chiedermi sul viaggio sempre rimandato del Papa (io, da parte mia, credo che l’abbraccio fraterno fra la Prima Roma e la cosiddetta Terza sia più che indispensabile), mi interpellerà: quale è “il vostro” mistero del Cristo? Come è vissuto e celebrato proprio da voi, ortodossi? E che dice questo mistero oggi, alla famiglia umana?

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Sant’Andrea
e la Chiesa del Terzo millennio
di Vladimir Zelinskij

 


Cosa resta della suddivisione del mondo in campi d’azione che fu fatta alle origini della missione cristiana, quando gli apostoli vennero mandati
ad gentes? Invece di conservarli e di tradurli in gelose contrapposizioni, il cristianesimo del Terzo millennio deve spalancarsi al nuovo mondo, in un rinnovato slancio missionario che della Tradizione conservi solo l’essenziale, e l’unità.

Immaginiamo per un minuto un mosaico, uno di quegli antichi mosaici conservatisi solo a frammenti che rivestivano le cupole o le pareti delle antiche chiese bizantine. Supponiamo che un ignoto maestro, in una certa cattedrale, abbia deciso di dispiegare davanti a noi l’intera storia dell’Incarnazione del Verbo di Dio, trasmettendo attraverso le pietruzze il racconto degli evangelisti. Entrati nella cattedrale ci troviamo di fronte a una raffigurazione in cui ogni tessera musiva rappresenta un rigo di Vangelo. Alzando gli occhi vediamo prima di tutto l’immagine di Cristo al centro, dominante sugli altri, circondato dai dodici apostoli. Vi sono degli apostoli la cui figura è tracciata, o meglio scolpita dai versetti evangelici in modo più ricco e pieno, come Pietro e Giovanni. E tuttavia, di molte raffigurazioni è rimasto soltanto il nome, l’orma di una persona vivente che ha attraversato a suo tempo la storia, tutto il resto - agiografia, martirio, glorificazione – si è composto in un’immagine organica solo più tardi, nella Tradizione.

Fra questi apostoli - che diremmo "di prima grandezza" - e tutti gli altri, Andrea si pone per così dire a mezza via, la sua immagine è costituita soltanto di poche "tessere" evangeliche. Noi possiamo tentare di ricostruire la figura intera dell’apostolo, non come fu in vita (operazione quasi impossibile), ma quale ci è stato tramandato in qualità di "messaggero", come la bocca che ha pronunciato quel particolare annuncio che ci è stato inviato proprio attraverso di lui. Infatti tutto ciò che sapremo in seguito di Andrea dai racconti agiografici, - i suoi pellegrinaggi apostolici verso le coste del Mar Nero, "nella terra di Frigia" e "nella Propontide" come dice san Dimitrij di Rostov, la benedizione del luogo dove sarebbe sorta Kiev, quindi il martirio a Patrasso – non è che la continuazione e lo sviluppo di quell’annuncio. Leggendo attentamente questi passi, cerchiamo di comporli come pietruzze per ricostruire le parti mancanti del nostro mosaico. Cominciamo dal primo capitolo del Vangelo di Giovanni.

"Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)" e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" (Gv 1, 40-42).

Abbiamo trovato il Messia

In un primo momento Andrea, che faceva ancora il pescatore in Galilea, era stato discepolo di Giovanni il Battista. Da lui il futuro apostolo avrebbe sentito per la prima volta le parole che in bocca a Cristo sarebbero diventate la Buona Novella: "Il regno dei cieli è vicino". Ma cosa significava questo regno nelle parole di Giovanni? Quando Giovanni predicava, sembrava che il regno, pur restando invisibile, si ergesse minaccioso e fiammeggiante davanti agli uditori, pronto a concedere grazia e ad accogliere nella "sua ammirabile luce", ma anche a giudicare con ira, ira che sembrava levarsi come un’onda oscura alle spalle del profeta, pronta ad abbattersi. "Razza di vipere!" esclama Giovanni rivolgendosi a farisei e sadducei che sono venuti da lui per farsi battezzare, "Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? Fate dunque frutti di conversione" (Mt 3, 7).

La predicazione del più grande dei profeti "nati da donna", Giovanni il Battista, annuncia l’imminente regno messianico e il giudizio, il quale, secondo le parole di san Pietro, deve iniziare "dalla casa di Dio" (1 Pt 4, 17). "Il regno è vicino…" e Andrea ha saputo ascoltare. È lui cronologicamente il primo testimone del passaggio più importante o, per usare una terminologia eucaristica, della "frazione" della fede esigente dei profeti nella fede degli apostoli, una fede che parla del realizzarsi di ogni promessa nella venuta di Gesù di Nazaret. In quel "mormorio di un vento leggero" (1 Re 19, 12) con cui Gesù si è manifestato al mondo, egli riconoscerà il regno messianico e l’Unto stesso, atteso da tanti secoli. Prima ancora di Pietro, Andrea dà una definizione della fede apostolica. "Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo". Questa formula assumerà la sua compiutezza teologica in Pietro: "Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivente". La confessione di Pietro è più ardita, più ampia, la confessione di Andrea vale per sé e per il fratello, infatti dice "abbiamo". In questa comune confessione di Andrea e Pietro risuona la voce del regno "che viene", della legge e dei profeti che si compiono nel Messia.

Tuttavia Gesù, nell’atto di assumere il nome di Cristo, sa che questo nome diventerà una confessione piena soltanto dopo la Croce. "Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo" (Mt 16, 20). È necessario che egli compia l’altra parte della profezia: diventare il servo sofferente, l’Agnello offerto in olocausto, "soffrire molto". Tutto questo Andrea, Pietro e gli altri discepoli ancora non lo potevano accettare. Pur confessando la fede apostolica nel Messia che viene, essi rimangono per ora solo suoi discepoli. Sarà Gesù stesso che farà di loro degli apostoli nel vero senso della parola.

"Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini"" (Mt 4, 18-19).

Pescatori di uomini

Le parole di Gesù si realizzano immediatamente: Andrea si affretta a fare ciò cui è chiamato. Essendo "pescatore", egli "pesca" Pietro, poi Filippo; Filippo, a sua volta, diventa "pescatore" di Natanaele. Le "reti degli apostoli" ancor oggi sono il simbolo della missione, il dono dell’annuncio. Ma qual è il segreto di questa "pesca di uomini"? Da dove viene agli apostoli il potere sulle anime umane?

Torniamo ancora a considerare la chiamata di Andrea. Essa inizia con la frequentazione del Signore. Giovanni il Battista, "fissando lo sguardo su Gesù che passava disse: "Ecco l’agnello di Dio!". E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: "Che cercate?". Gli risposero: "Rabbì, dove abiti?". Disse loro: "Venite e vedrete". Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui" (Gv 1, 35-39). Riflettendo su questo incontro, sant’Agostino dice: "Uno dei due era Andrea. Andrea era fratello di Pietro, e dal Vangelo sappiamo che Cristo invitò Pietro e Andrea a lasciare la loro barca dicendo: "Vi farò pescatori di uomini". Cristo mostrò loro dove viveva, ed essi andarono e restarono con Lui. Che giornata meravigliosa devono aver trascorso! Chi potrà dirci cosa avranno sentito dal Signore? Edifichiamo anche noi nel nostro cuore una casa in cui il Signore possa venire e ammaestrarci, e possa rimanere per conversare con noi" (Omelia 9).

"Essendo restato con Gesù, e avendo imparato tutto ciò che Gesù gli insegnava", dice san Giovanni Crisostomo, "Andrea non nascose in sé questo tesoro, ma si affrettò dal fratello per comunicargli il tesoro che aveva ricevuto". Ascolta bene ciò che disse: "Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo" (Gv 1, 41)… Le parole di Andrea erano le parole di un uomo che attendeva con impazienza la venuta del Messia, la sua discesa dai cieli; di un uomo che fu tutto pervaso dalla gioia quando vide la Sua venuta, così che si affrettò a comunicarla agli altri" (Omelia 19 sul Vangelo di Giovanni) (1).

Anche dalle poche menzioni ad Andrea che si trovano nella patristica possiamo tracciare la struttura interiore del suo apostolato: l’attesa del Signore e del Suo regno assieme al profeta, l’incontro col Signore faccia a faccia, la gioia della rivelazione, la fermezza della confessione, quindi la predicazione dell’annuncio che aveva ascoltato e accolto col cuore, a coloro che ne avevano bisogno, a chi cercava di ascoltarlo. "La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo", dice san Paolo (Rm 10, 17). Al seguito di Cristo l’apostolo "aprì la mente all’intelligenza delle Scritture" (cfr. Lc 24, 45), e tuttavia queste Scritture non sono semplicemente annotate "con l’inchiostro e lo stilo" sulla pergamena o la carta, ma sono incise con la voce di Cristo "sulle tavole di carne dei vostri cuori" (2 Cor 3, 3). Il dono di diventare apostolo consiste nell’"ascoltare le Scritture" e predicarle al cuore dell’uomo dall’interno, nel far sì che questi abbia intelligenza di sé fino in fondo, fino all’ultima profondità accessibile nella Parola di Dio, poiché solo in Cristo possiamo conoscere e vedere noi stessi fino in fondo. L’apostolo non avrebbe potuto catturare nessuno nelle reti di Cristo, se Cristo stesso, non riconosciuto come il seme nella parabola del seminatore, non fosse stato "gettato" in ogni uomo.

Come avvenga questa "pesca" apostolica lo vediamo dalla storia di Natanaele. Filippo, che "era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro" (Gv 1, 44), porta da Cristo Natanaele, il quale è convinto a priori che da Nazaret non possa venire niente di buono. Ma Cristo gli dice delle parole che lo trapassano per la sorprendente conoscenza che dimostrano. "Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico" (Gv 1, 48). E Natanaele non si limita a ricordare qualcosa, ma soprattutto riconosce se stesso sotto lo sguardo del Dio vivo, in quell’episodio del passato "sotto il fico" che era noto solo a lui e a Dio. Così avviene il miracolo dell’incontro; riconoscendo il Signore, l’uomo riconosce di nuovo anche se stesso. "Sarebbero manifestati i segreti del suo cuore", dice san Paolo, "e così, prostrandosi a terra adorerebbe Dio, proclamando che veramente Dio è fra voi" (1 Cor 14, 25).

Il "pescatore di uomini" conduce l’uomo ai segreti del suo cuore, al sacramento della conoscenza del Dio vivo, ma lui stesso non accede a questi segreti, e non partecipa all’incontro. È come se Andrea si tirasse da parte, come se si allontanasse; si limita a "condurre" qualcuno, a "dire" a qualcuno, a presentare, a far conoscere, a mostrare la via, lui che durante la vita terrena di Cristo si è semplicemente trovato al Suo fianco. Così, avendo visto un giorno una grande folla raccolta per ascoltarlo, e vedendo che la gente aveva fame, Gesù dice all’apostolo Filippo: ""Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?" Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare… Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: "C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?"" (Gv 6, 5,8).

La moltiplicazione dei pani, l’incontro con gli elleni

Altri due importanti passi evangelici sono legati alla partecipazione e alla mediazione di Andrea, e tutti e due toccano l’essenza stessa del suo servizio apostolico. Sto parlando della moltiplicazione dei pani e della prima comparsa dei gentili nel contesto evangelico, di quei greci che erano venuti per la festa a Gerusalemme e avevano voluto vedere Gesù. In entrambi gli episodi il ruolo di Andrea è oltremodo modesto, quasi impercettibile; in uno di essi egli parla all’apostolo più anziano del cibo di cui è in possesso un ragazzo; nell’altro, assieme a Filippo annuncia a Gesù l’arrivo degli elleni. Tuttavia, se leggiamo la Bibbia come la leggevano un tempo i Padri, anche in questi due passi possiamo cogliere l’allegoria di cui è carica ogni frase della Scrittura. La moltiplicazione dei pani contiene in sé la visione profetica del pane "sceso dal cielo", come si definisce Cristo stesso, è la chiara prefigurazione dell’Eucaristia. Gesù sazia con cinque pani e due pesci un’enorme folla di popolo; dopo la Sua resurrezione sazierà col proprio corpo generazioni e generazioni di cristiani. "Tu infatti o Cristo Dio nostro sei colui che offre e colui che viene offerto; colui che riceve e colui che viene distribuito", si dice in una preghiera sacerdotale della liturgia ortodossa. Una delle vocazioni apostoliche consiste appunto nell’adempiere questa profezia: compiere il sacramento della moltiplicazione dei pani, quando ormai Cristo non è più tra noi nella carne, "creare nella memoria di Cristo", nel pane eucaristico che diventa il Suo corpo e la Sua Chiesa, mettendosi però in disparte nel far questo. Essere la parola di Gesù, il gesto di Gesù, l’annuncio di Gesù, il miracolo compiuto dalle Sue mani, infine la Sua stessa presenza sacramentale, senza mai coprire neppure un lembo di questa presenza con se stessi.

La moltiplicazione eucaristica dei pani, accanto all’annuncio del Verbo, è lo scopo e il significato interiore dell’apostolato, che è volto innanzitutto a "moltiplicare" Cristo stesso, il Suo nome, la Sua vita, la Sua opera di salvezza. Questa moltiplicazione è già iniziata durante la vita del Salvatore, quando ha preso a diffondersi rapidamente sulla terra l’annuncio che le profezie si sono avverate, che il Messia è venuto sulla terra, che il Verbo di Dio parla agli uomini per bocca di Gesù. I greci giunti per la festa a Gerusalemme alla vigilia della Pasqua "si avvicinarono a Filippo… e gli chiesero: "Signore, vogliamo vedere Gesù". Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose: "È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo"" (Gv 12, 22-23).

Gesù sa che il suo cammino terreno ormai volge al termine. Inviato dal Padre celeste solo alle "pecore perdute della casa d’Israele" (Mt 15, 24), il Messia di cui parlavano la Legge e i profeti, va verso la crocifissione, per poi "essere glorificato" come Signore di tutti i popoli. L’incontro con gli stranieri anticipa la Sua glorificazione, che sarà opera dello Spirito Santo e degli apostoli. Questi dovranno diventare testimoni della nuova era, lavoratori e portatori dell’annuncio pasquale. Questo annuncio è destinato a tutti i popoli. La confessione di Andrea e Pietro parlerà per bocca dei loro lontani e ignoti discendenti. Il nome di Cristo sarà udito fino agli estremi confini della terra.

"Per tutta la terra è corsa la loro voce, e fino ai confini del mondo le loro parole" (Rm 10, 18), ricorderà san Paolo il Salmo 18.

Il territorio di Andrea

Di qui inizia la divisione del mondo in confini, che poi diventeranno i territori apostolici.

"I confini della terra", leggiamo nella Storia della Chiesa russa di Anton Kartas'ov, "sono soltanto il compito massimo, lo scopo, la direzione. Da Gerusalemme sono tracciati idealmente dei raggi, e i settori compresi fra di essi rappresentavano i territori della missione apostolica, che per le loro dimensioni universali superavano le possibilità fisiche e la durata stessa della vita di un uomo. Gli apostoli, recandosi a predicare nella direzione assegnata a ciascuno… venivano mandati dallo Spirito Santo… esattamente in quei determinati paesi, quindi essi in linea di principio, sul piano spirituale (e su quello concreto, nella persona dei loro continuatori e successori) diventavano gli apostoli di quei determinati paesi e dei popoli che li abitavano; erano i loro protettori celesti nella storia, per sempre". (2)

Sicuramente dopo la Storia della Chiesa russa scritta da E. Golubinskij, la versione per cui l’apostolo Andrea sarebbe approdato nella regione del fiume Dniepr e avrebbe benedetto il luogo dove, a distanza di cinque secoli, doveva sorgere la città di Kiev, non è più considerata come un fatto reale, scientificamente dimostrabile, e tuttavia la realtà spirituale di questa tradizione rimane valida e viva ancor oggi. Per altro, il senso di una tradizione può cambiare col tempo, obbedendo a quello che "lo Spirito suggerisce alle Chiese", come dice l’Apocalisse. Per noi oggi non è tanto importante il fatto della diretta discendenza apostolica del cristianesimo nella Rus’, di cui tanto andavano fieri i nostri antenati, ma piuttosto il fatto di concepire la Chiesa russa come parte del territorio della Gerusalemme storica e celeste. In sostanza, i confini a cui gli apostoli sono stati inviati dallo Spirito Santo, e dove magari essi non sono mai giunti fisicamente, sono diventati nuove province del regno di Dio, che "viene" nella penitenza predicata dal Battista, nella fede messianica abbracciata da Andrea, nella confessione di Pietro divenuto roccia della Chiesa, nelle visioni di Giovanni che ha dischiuso i misteri del regno di Cristo. Difficilmente qualcuno di noi potrebbe affermare che un territorio apostolico, il nostro o uno altrui, si è mantenuto perfettamente fedele a questo regno, tuttavia la nostra infedeltà non rende la vicinanza del regno più lontana, la rende solo umanamente più difficile. Poiché, come dice Gesù, "Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono" (Mt 11, 12).

Questo "impadronirsi" del regno di Dio, che come compito interiore è affidato al singolo cristiano e a tutta la Chiesa, porta in sé una memoria storica e al tempo stesso escatologica. Il regno di Dio è venuto nel Cristo storico, crocifisso sotto Ponzio Pilato, che ha inviato i "pescatori di uomini" perché lo portassero in tutta la terra, ma questo regno deve ancora venire nel "regno del secolo futuro", nel "Figlio dell’uomo che viene sopra le nubi del cielo" (Mt 24, 30). E tuttavia i due regni non sono divisi come sono divise le nostre Chiese; il territorio terreno del Salvatore non è diviso da quello celeste e non si contrappone ad esso, sono le due realtà dell’unico regno, del quale "ci si impadronisce" per gli sforzi apostolici, cui spetta il compito di aprire la strada a questo regno nella storia, di legare le due realtà, quella passata e quella futura in una sola, che diventerà un presente indescrivibile, la vita in Dio. Agli apostoli (e quindi ai loro successori) è dato lo spazio, "i confini della terra" cui sono stati mandati, ma è dato anche l’intero tempo storico, l’intero cammino da un regno all’altro da percorrere. E non soltanto percorrere, ma portarvi tutta il proprio territorio terreno, per inserirlo nel futuro regno di Cristo, che non avrà mai fine.

Perciò, se la Chiesa russa rimane "territorio mistico" dell’apostolo Andrea, anche l’intero cammino storico di questa Chiesa, dalla leggendaria benedizione del I secolo fino all’ingresso nel regno del secolo futuro, si può considerare tempo del suo apostolato, iniziato già in Galilea, poi dopo la Pentecoste nella Gerusalemme storica, e ritornato infine alla Gerusalemme celeste. E in questa nuova Gerusalemme si incontreranno alla fine, e si uniranno tutti i territori apostolici con tutte le loro Chiese. Così, dopo l’Ascensione, si incontrarono a Gerusalemme i discepoli di Cristo; "salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota e Giuda di Giacomo" (At 1, 13).

Questo piano superiore si è spalancato "fino agli estremi confini della terra" (At 1, 8).

Il Terzo millennio

Dov’è oggi questo piano superiore abitato dagli apostoli? Dove sarà domani? Certe volte guardiamo con tanto amore, quasi con passione, il nostro passato, la nostra tradizione e la preziosa eredità dei secoli trascorsi, che stacchiamo gli occhi dal futuro. Ma il futuro non lascia che ci dimentichiamo di lui. Viene, com’è venuto un tempo Giovanni il Battista, e parla di giudizio, di penitenza, dell’ira divina, del regno che si avvicina. Il giudizio si può manifestare nelle persecuzioni, com’è accaduto nel XX secolo alla Chiesa russa, o nell’asfissia spirituale, morale, culturale del cristianesimo che incombe inesorabilmente su di noi. Ciò che chiamiamo oggi "globalizzazione", se ne consideriamo l’aspetto più profondo, quasi intimo, è opera di una nuova razza umana, una razza che "non ha orecchi per sentire", come dice il Vangelo, che ha perso l’udito per la Parola di Dio, che perde la vista interiore e non ne vede il Volto.

Grazie ai mezzi per scambiarsi le informazioni, la terra fino ai suoi confini più estremi ci sta in pugno, come dice un proverbio inglese, il mondo è diventato la nostra ostrica (the world is our oyster), che possiamo mangiare come vogliamo. E tuttavia l’informazione stessa può mangiare, inghiottire o tagliare a fette noi, fare di noi il proprio schermo, un oggetto, un accumulatore. Penso che stiamo assistendo solo alle prime doglie del parto, che preannuncia la nascita di un mondo apparentemente nelle mani dell’uomo. E in questo mondo, sotto i nostri occhi si disperde, si volatilizza l’aria stessa di cui il cristianesimo respira. Le parole che erano dense di significato per noi 2000 anni fa, e in base alle quali continuiamo a comprenderci e a riconoscerci l’un l’altro - giudizio, penitenza, speranza, salvezza, preghiera, timor di Dio, rapporto col Signore - si disseccano, perdono il proprio contenuto mentale, e lentamente passano nella categoria degli oggetti da museo, venerandi, divertenti, dimenticati, praticamente inutili. Cosa sarà di tutti i territori apostolici e delle nostre Chiese storiche nell’aria rarefatta del nuovo millennio? A differenza di molti ortodossi, io non penso che non abbiamo niente da offrire alla storia futura, oltre a una rapida fine, cruenta e fiammeggiante. E se oggi viviamo in un’epoca di crisi del cristianesimo, in tempi di crescente apostasia, il cui acme non è ancora stato toccato, mi pare di cogliere al di là di questa un nuovo ritorno della Buona Novella, che non parlerà nella lingua di un mondo morto e sepolto, ma in quella del mondo che nasce sotto i nostri occhi, e gli sarà comprensibile, verrà recepita così come fu recepita due millenni fa: come il lieto annuncio della salvezza. La Buona Novella ritroverà se stessa immancabilmente anche in questa nuova esistenza che sembrerebbe così lontana dal cristianesimo, saprà ritrovare un terreno sotto i piedi, attraversare la terra "fino agli estremi confini", non in senso spaziale, infatti per la parola non c’è più spazio, ma in senso antropologico, saprà arrivare a nuovi "estremi confini" dell’uomo.

Come dev’essere la Chiesa di Cristo per percorrere il cammino che le sta davanti? Cosa deve rimanere e cosa deve rinnovarsi? Cosa, della sua eredità, è segnato col marchio incancellabile degli apostoli? Nel pormi queste domande torno col pensiero ad Andrea, il primo chiamato.

Il Vangelo di Andrea

L’immagine di Andrea nel Vangelo è resa con pochi tratti, apparentemente casuali. Ma nelle Sacre Scritture non c’è mai niente di casuale. Sono tratti precisi e lievi, tanto lievi che sembrano quasi confusi, se però li consideriamo con più attenzione creano una sorta di icona dell’apostolo, come l’immagine di una vetrata.

E quel poco che si dice di Andrea ci aiuta non solo a ricostruire la sua figura, ma anche a rileggere la Buona Novella a partire dai pochi segni che ne denunciano la presenza. Ovunque Andrea si presenta come un intermediario, come un messaggero. Porta suo fratello Simone, il quale diventerà principe degli apostoli, parla a Gesù degli elleni che Lo vogliono vedere, Gli riferisce le parole sui pesci e il pane che nutriranno una folla di uomini, e questo avviene alla vigilia della crocifissione e glorificazione di Gesù. Dietro a tutti questi segni si indovina un’allegoria: il "pescatore di uomini" li rende discepoli del Salvatore, il pane terreno diventa pane celeste, la mediazione fra Gesù e gli stranieri diventa missione, e la missione porta con sé l’annuncio pasquale. E in tutto questo vediamo l’apostolo quasi simile al suo primo maestro Giovanni, che poteva dire di sé: "Egli deve crescere e io invece diminuire" (Gv 3, 30).

Giovanni annunciava il giudizio e il regno, ma sia il giudizio che il regno vengono sempre, sono nascosti nella nostra storia terrena. Il giudizio, o crisi, può toccare tutto, anche ciò che consideriamo sacro per noi, inseparabile dalla nostra fede. Eppure, riflettendo sul destino del cristianesimo nel terzo millennio, mi piace ricordare le parole di Teilhard de Chardin: dietro a ogni crisi Cristo ritorna rinnovato. E dopo ogni crisi, in ogni epoca fino alla fine dei secoli, verrà gente nelle cui parole la presenza dell’apostolo Andrea non farà che rinnovarsi, come si rinnova un’icona:

"Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo".

Note

1) Patrologia Greca 59, 120-121.
2) A. Kartas'ov, Oc'erki po istorii Russkoj Cerkvi, Mosca 1993, v. 1, pp. 50-51.

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Domenica, 20 Marzo 2005 17:37

Ortodossi divisi da Mosca (Luigi Prezzi)

Ortodossi divisi da Mosca
di Luigi Prezzi




Cresce la tensione all'interno del mondo ortodosso in Francia e nell'Europa occidentale. La lettera di Alessio II in cui si formula l'invito alla riunificazione di tutte le Chiese di origine e tradizione russa in Europa sta provocando polarizzazioni crescenti.

Cirillo di Smolensk, responsabile del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato di Mosca, ha confermato nell'ottobre scorso il senso definitivo dell'orientamento («Non ci torneremo sopra e non abbiamo l'intenzione di rinunciare alla posizione di principio espressa nella lettera»), lamentando la scarsa collaborazione dei responsabili dell'arcidiocesi di tradizione russa sotto giurisdizione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli.

Nel mirino anche il prestigioso Istituto San Sergio di Parigi. Fonti vicine all'archidiocesi (SOP, dicembre 2004) denunciano tentativi di limitare la libertà accademica sia sul versante della nomina dei professori (senza risultati), sia su quello delle sovvenzioni private. La riduzione dell'istituto (una tradizione teologica prestigiosa, 50 studenti da una ventina di paesi, una formazione teologica per corrispondenza, due filiali in Belgio e un presenza in Spagna) a semplice avamposto russo impoverirebbe l'intera Chiesa ortodossa e il dialogo ecumenico.

Un'ortodossia plurale

I circa 500.000 ortodossi di Francia (ma con le recenti immigrazioni il numero è destinato a crescere) sono divisi per appartenenze etnico-tradizionali: la diocesi legata al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, quella del Patriarcato di Antiochia, quella serba e quella romena.

Per la tradizione russa operano tre diocesi: quella di obbedienza moscovita, quella dipendente dalla Chiesa ortodossa oltrefrontiera (con sede negli USA) e l'arcidiocesi di tradizione russa ma di obbedienza costantinopolitana, presieduta dal vescovo Gabriel di Vylder. Queste tre ultime sono le più interessate alla lettera di Alessio accanto alle diocesi del Patriarcato russo in Gran Bretagna e in Belgio. L'arcidiocesi presieduta da mons. Gabriel è la più vecchia (nasce con l'emigrazione russa dopo la Rivoluzione d'ottobre) e la più estesa: 60 parrocchie, un monastero, 70 preti, 14 diaconi, l'istituto San Sergio, presenze pastorali in Belgio, Olanda, Germania, Norvegia, Svezia, Danimarca, Spagna e Italia. Nel 1931 l'allora metropolita Evlogij, fondatore anche dell'istituto San Sergio, si sottrasse all'ultimatum delle autorità moscovite rifiutando di firmare il giuramento di fedeltà alle autorità sovietiche e trovando ospitalità presso il Patriarcato di Costantinopoli. Quest'ultimo ha riconosciuto alla diocesi uno specifico statuto la cui autonomia è stata ulteriormente allargata nel 1999.

La Russia e Parigi

Per sostenere le ragioni di Mosca è nato un movimento laicale (OLTR) che ha promosso due assemblee: la prima in febbraio e la seconda in aprile 2004. Le motivazioni a favore, espresse dai presidente S. Rehbinder, sono la fine delle ragioni politiche della separazione da Mosca, la scarsità di linfa spirituale proveniente dalla curia di Cotantinopoli e l'ampia autonomia promessa da Mosca. Di contro si sottolinea l'assoluto rispetto da parte di Costantinopoli, l'evoluzione storica propria dell'arcidiocesi, la già piena comunione con Mosca, la situazione plurilinguistica e plurietnica delle comunità.

Ma il problema interessa tutte le diocesi ortodosse perché in Francia è attiva l'Assemblea dei vescovi ortodossi (dal 1997), prolungamento dei Comitato interepiscopale ortodosso. Essa esprime un'ecclesiologia che prefigura un'unica Chiesa ortodossa sul territorio pur composta da molte etnie e da differenti giurisdizioni. L'ipotesi sostenuta dal Patriarcato di Mosca è invece quella più tradizionale della dipendenza dalla Chiesa madre, maggiormente esposta ai nazionalismo. I vescovi responsabili dell'Assemblea sono già stati a Costantinopoli (novembre 2004) e saranno presto ad Antiochia (poi a Mosca, Belgrado e Bucarest) per un confronto con le grandi sedi patriarcali.

(da Il Regno-attualità, 2/2005)
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Cosa significa essere ortodosso
 in un paese di maggioranza cattolica?
di Vladimir Zelinskij


Se posso parlare della mia esperienza, per me è una grande ricchezza. Non ho nessunissimo "complesso antiromano", perché sono nato ateo in una famiglia che ha perso ogni traccia della vita religiosa nel paese che riduceva in ceneri o calpestava queste tracce per decenni. Mi sono convertito al cristianesimo e sono stato battezato negli anni 70 a Mosca all'età di 29 anni. Nella mia conversione la scoperta del Volto di Dio nella persona di Cristo era molto più importante che l'adesione alla Chiesa locale.

Certo, ho trovato anche la Chiesa proprio come Madre (quel legame intimo fra Cristo e la Madre, come Maria, ma anche come l'Ortodossia Russa, è sempre vivo in me), ma insieme con la fede non ho scelto la cecità premeditata di non vedere il Volto del mio Dio fuori dell'Ortodossia. Provo sempre la gioia quando riconosco lo stesso Volto, ma con espressione, forse, diversa nella vita spirituale, nelle varie manifestazioni della santità incontestabile nella fede di un altro. Vedo, per esempio, questi tratti nella persona di Giovanni Paolo II, nei missionari, persi nei lontanissimi angoli del nostro pianeta rischiando la loro vita; nelle testimonianze del sacrificio, del servizio al prossimo, della carità.

Ma nello stesso tempo il mio soggiorno in Italia con tantissimi contatti con i cattolici mi ha aiutato di riscoprire di nuovo la mia fede ortodossa. Le cose che appartengono all'eredità apostolica e che mi sembravano ovvie per la vita cristiana quando ho vissuto a Mosca, come la preghiera individuale, il senso del pentimento, la sacralità vissuta dell'Eucarestia, il senso acuto del mistero, gli elementi dell'ascetismo con il suo ritmo di digiuni, la presenza permanente della memoria ecclesiale nella forma della Tradizione ecc., sono un po' indeboliti fuori dall'Ortodossia.

Ho scoperto la mia vocazione sacerdotale che dormiva in me per tanti anni proprio qui, in Occidente. Credo nello "scambio dei doni" e che il nostro contributo ortodosso è la testimonianza della Chiesa indivisa, appena nata. Dobbiamo portare quella testimonianza non con una malevolenza polemica, ma con amore, apertura ed amicizia.

(da Madre, gennaio 2005)


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L’iniziativa del dialogo in Ucraina
di Vladimir Zelinskij




Purtroppo, le vie del dialogo non sempre sono facili. Ne è riprova la vicenda legata al testo che proponiamo qui di seguito. Il dialogo nasce da un autentico ascolto. Voler sentire dall'altro soltanto quello che rientra nei propri interessi non è una buona premessa. P. Vladimir non è stato per niente contento di come il giornale Avvenire ha utilizzato il suo articolo (pubblicato il 25 gennaio 2005 con il titolo "Da Kiev la nuova via del dialogo"): «M'ha utilizzato e  strumentalizzato. Il testo completo è diverso». Qui di seguito pubblichiamo il testo di P. Vladimir e il "suo" articolo pubblicato da Avvenire.


Una delle grandi scommesse delle elezioni presidenziali in Ucraina è la formazione della società civile. L’indipendenza nazionale, un sogno secolare per alcuni, un dramma per altri, avvenuta 13 anni fa, ha messo in fermentazione un popolo di 50 milioni di abitanti che dalla metà del XVII secolo ha vissuto nell’impero russo ed in seguito, ancora 70 anni sotto il piombo sovietico. Subito sono venute fuori le vecchie e le nuove opposizioni fra i nazionalisti e comunisti, l’Ovest, a volte accanitamente antirusso e l’Est russofono, fra gli ortodossi e i greco-cattolici, ma anche fra gli ortodossi stessi. Sembra che oggi non si possa trovare un paese nell’Europa orientale con delle divisioni così dolorose e delle cicatrici più profonde. Basta guardare la mappa religiosa: accanto alla Chiesa greco-cattolica con il suo centro a Lviv esistono almeno tre Chiese ortodosse dello stesso rito che non possono neanche parlare fra di loro, quella dipendente dal Patriarcato di Mosca (canonica), quella del Partiarcato di Kiev (il cui capo è scomunicato da Mosca), e la Chiesa autocefala, anch’essa non-canonica. Senza parlare della presenza della Chiesa Ortodossa Russa all’estero che non riconosce neanche l’esistenza dell’Ucraina indipendente e che sogna di tornare nella Russia della monarchia Romanov, più che dei giorni nostri...

Non esiste una ricetta miracolosa che possa riconciliare tutte queste ispirazioni, ideologie, nazionalismi, sogni, opposizioni. Esiste una proposta: integrazione del vecchio stampo, sotto l’occhio del padrone imperiale; e un’altra: la costruzione della società civile in cui forze irriconciliabili fra di loro potrebbero trovare il loro posto legale e riconoscere la legalità, almeno sul piano civile, dell’esistenza dell’altro. Solo da questo riconoscimento si può fare un grande passo verso la riconciliazione umana, cristiana, ecclesiale. Perché la riconciliazione è il nome autentico dell’ecumenismo...

Per ora siamo ancora lontani da questa maturità sociale, senza parlare di quella cristiana. La vita reale, però, non corrisponde mai al suo quadro dipinto da lontano. Nel tempo delle divisioni e delle lacerazioni si può trovare in Ucraina delle iniziative stupende di vero lavoro spirituale e culturale che riunisce le comunità più lontane le une dalle altre e che già oggi portano i loro frutti. Immaginiamo le importanti conferenze internazionali che si svolgono fra le mura della Laura delle Grotte di Kiev, nella culla stessa del cristianesimo russo (conosciuto per il suo spirito assai poco ecumenico), con la partecipazione dei cristiani e dei laici, degli ortodossi tradizionali e dei cattolici, degli uomini di cultura e di fede. Ma il fatto, forse, più positivo è che questi incontri si svolgono davanti agli studenti dell’Accademia teologica (quasi 3.000 studenti), cioè davanti ai futuri chierici della Chiesa Ortodossa in Ucraina, non nelle condizioni della semiclandestinità, ma con l’approvazione e la partecipazione attiva del capo della Chiesa canonica metropolita mons. Vladimir e con la partecipazione del metropolita di Minsk mons. Filaret.

Forse, lo spirito di questi incontri ha trovato la sua adeguata espressione nella figura di Serghei Averintzev, un ortodosso, membro dell’Accademia Pontificia (1937-2004), uno dei più grandi studiosi e pensatori russi della nostra epoca, uno dei più devoti cristiani che io abbia mai incontrato. Averinzev era l’incarnazione della pace fra forze che erano sempre in guerra (fredda, ma a volte anche calda) nella terra russo-ucraina: intellighenzia e Chiesa, Est e Ovest, l’anima patriottica e una straordinaria apertura alle altre culture e fedi che, forse, si può trovare solo tra i russi.

Questi incontri sono stati organizzati dal Centro Europeo delle ricerche umane che lavora all’interno dell’Accademia Pietro Moghila a Kiev e in qualche modo sono segnati da questa grande personalità della prima metà del XVII secolo. Moghila, metropolita di Kiev, autore del catechismo ortodosso (scritto da lui in greco e in latino) fondò nel 1615 la prima Università (che a quell’epoca era più importante nell’Europa Orientale dopo quella di Cracovia). Questa Università, diventata simbolo della più alta cultura ucraina, è esistita fino alla rivoluzione russa ed è stata chiusa dal potere comunista per essere più riaperta nel 1991. Oggi, l’Accademia S. Pietro Moghila, a differenza delle altre Università in Ucraina, non ha una vecchia nomenclatura e ciò ha fornito un’ottima occasione per creare lo spazio per un respiro nuovo.

La figura chiave di questa attività è il giovane professore di filosofia (che insegna a Kiev, a Parigi, a volte anche in Italia), Konstantin Sigov. Egli è l'organizzatore delle conferenze e degli incontri (La famiglia nella società post-atea, Le vie dell’educazione e i testimoni della verità, La personalità umana e la tradizione, ed altri ancora). La prossima conferenza del settembre 2005 avrà come titolo: “Il Messaggio, l’uomo, la storia” e sarà dedicata alla situazione del cristianesimo nell’epoca della globalizzazione, nel contesto del dialogo con il mondo contemporaneo - il dialogo che respira sempre con i due polmoni. In questi incontri hanno preso parte, oltre a teologi e a pensatori ortodossi provenienti dalla Russia, dall’Ucraina e dall’estero, come il vescovo Kallistos Ware da Oxford, p. Boris Boibrinskoy, p. Nicolas Lossky da Parigi (Istituto Saint-Serge), Nikita Struve (Parigi); ma anche cattolici, come il vescovo John Faris (New York), mons. Michel Van Paris, già l’abbate di Chevetogne (Belgio), mons. Bernard Dupire (Parigi), il Prof. Patrick de Laubier (Ginevra), il prof. Adriano Roccucci dalla Comunità di Sant’Egidio, il prof. Guglielmo Forni Rosa (Bologna), il prof. Jonathan Sutton (Londra) ed altri ancora. Bisogna menzionare che la costruzione dei ponti culturali era ispirata, oltre che dal Prof Sigov, anche dai suoi amici della Commissione per l’Unità cristiana mons. Pierre Duprey e Paola Fabrizi.

Dopo 10 anni di attività del Centro Europeo si può parlare di un successo eccezionale delle sue iniziative perché le cose che si sono perfettamente realizzate in Ucraina, sembrano oggi quasi utopistiche a Mosca. E’ davvero difficile trovarle in Russia ove, dopo il “boom” religioso degli inizi degli anni 90, il dialogo tra l’intellighenzia e la Chiesa è quasi interrotto; e dove tutte le comunità religiose vivono nel loro ghetto culturale. Manca uno spazio nel quale i rappresentanti delle diverse denominazioni possano condividere la propria esperienza, dove si incontrino non tanto le posizioni e le ideologie, ma prima di tutto le persone e le fedi.

Oltre alle regolari conferenze il Centro ha una propria casa editrice che si chiama “Duch e Litera” (Lo Spirito e la Lettera) e che pubblica in ucraino e in russo una cinquantina libri di teologia e di filosofia all’anno. Non conosco una casa editrice religiosa così importante neanche in Russia. Più di una metà delle pubblicazioni sono libri tradotti dalle lingue europee. L’anno scorso il card. Kasper è venuto appositamente a Kiev per la presentazione del suo libro “Gesù Cristo” in ucraino. Fra qualche mese deve uscire il libro del card. Etchegaray “Vero Dio, vero uomo”, anche in ucraino.

Ma le conferenze organizzate a Kiev e nelle altre città non bastano più. Dall’estate del 2004 in un piccolo villaggio a 30 chilometri da Kiev è stata organizzata la Scuola Teologica estiva che è durata due settimane con la partecipazione dei docenti venuti dagli Stati Uniti, dalla Francia, dalla Germania, su vari argomenti (liturgia, bibbia, diritto, ecc.). É prevista un'altra sessione con una partecipazione internazionale più ampia per la prossima estate. Ma le iniziative che portano lo stesso spirito della riconciliazione fra le persone, le culture, le fedi, le tradizioni crescono e adesso bussano alle porte dell’Europa Occidentale. C’è già il progetto di fare un incontro simile in Italia. Perché l’Italia dove oggi si trovano oggi decine e decine di migliaia di immigrati dall’Est Europeo (soprattutto dall’Ucraina) deve diventare il luogo dell’incontro delle culture e della riconciliazione.



Il testo pubblicato da Avvenire
Da Kiev la nuova via del dialogo
di Matteo Liut





Accanto a un antico monastero cattolici e ortodossi si incontrano per discutere sui temi più importanti della società odierna

Nel cuore di un Est europeo che vive sul filo delle divisioni è la fede cristiana a tracciare un percorso di ricomposizione nel segno del dialogo. E se Kiev di recente ha mostrato al mondo un volto lacerato, nasce proprio nella capitale ucraina il progetto di un futuro diverso. Ce ne parla padre Vladimir Zelinskij, teologo ortodosso e docente presso l'Università cattolica di Brescia.

Padre Zelinsky, qual è il volto religioso dell'Ucraina odierna?

«L'Ucraina presenta ancora cicatrici profonde e dolorose. Accanto alla Chiesa greco-cattolica con il suo centro a Lviv esistono almeno tre Chiese ortodosse dello stesso rito che non si riconoscono: quella dipendente dal Patriarcato di Mosca, quella del Patriarcato di Kiev e la Chiesa autocefala».

Un nodo difficile da districare.

«Non esiste una ricetta miracolosa per riconciliare tutte queste ispirazioni, ideologie, opposizioni. Se da una parte si predica l'integrazione vecchio stampo sotto lo sguardo del "grande fratello del Nord", dall'altra si auspica la costruzione di una società in cui le diverse identità trovino un riconoscimento giuridico. Almeno sul piano civile e legale».

E dal punto di vista religioso?

«I frutti più efficaci stanno nascendo a Kiev, grazie a un'iniziativa a carattere spirituale e culturale che riunisce soggetti molto lontani tra loro».

Di cosa si tratta?

«Di conferenze internazionali che si svolgono fra i muri della Laura delle Grotte di Kiev, nella culla stessa del cristianesimo russo, noto per il suo spirito poco ecumenico. Vi partecipano ortodossi e cattolici, religiosi, laici e uomini di cultura. Ma il fatto forse, più positivo è che questi incontri si svolgono davanti agli studenti dell'Accademia teologica: il futuro clero della Chiesa Ortodossa in Ucraina».

Quindi c'è l'approvazione ecclesiastica?

«Gli incontri vedono la partecipazione del capo della Chiesa canonica metropolita Vladimir e del metropolita di Minsk monsignor Filaret».

Da dove nasce questa iniziativa?

«Gli incontri sono stati organizzati dal Centro Europeo per le ricerche umanistiche, nell'Accademia "Pietro Moghila" a Kiev, un ateneo senza vecchia nomenclatura e quindi più aperto al dialogo. Lo spirito di questi appuntamenti ha trovato la sua espressione più alta nella figura di Serghei Averintzev, un ortodosso e membro dell'Accademia Pontificia (1937-2004), uno dei più grandi studiosi e pensatori russi della nostra epoca. Oggi la figura chiave di questa attività è il giovane professore di filosofia, che insegna a Kiev e a Parigi, Konstantin Sigov, appoggiato all'origine dai suoi amici della Commissione per l'Unità dei cristiani, monsignor Pierre Duprey e Paola Fabrizi».

Quali sono i temi affrontati in queste conferenze?

«Finora si è parlato di temi come la famiglia nella società post-atea, le vie dell'educazione e i testimoni della verità, la persona e le tradizioni. La prossima conferenza il prossimo settembre avrà come titolo: "Il Messaggio, l'uomo, la storia". Sarà dedicata alla situazione del cristianesimo all'epoca della globalizzazione».

Chi vi prende parte?

«Teologi e pensatori ortodossi dalla Russia, dall'Ucraina e dall'estero, come il vescovo Kallistos Ware da Oxford, padre Boris Boibrinskoy, padre Nicolas Lossky da Parigi (Istituto Saint-Serge), Nikita Struve (Parigi), ma anche cattolici come monsignor Michel van Paris, già abate di Chevetogne (Belgio), monsignor Bernard Dupire (Parigi), padre Patrick de Laubier (Ginevra), il professore Adriano Roccucci dalla Comunità di Sant'Egidio, il professore Guglielmo Forni Rosa (Bologna), il professor Jonathan Sutton (Londra)».

Un confronto che coinvolge anche l'Europa occidentale quindi.

«Certo. L'anno scorso il cardinale Walter Kasper è venuto a Kiev per la presentazione dell'edizione in ucraino del suo libro "Gesù Cristo". Fra qualche mese uscirà anche un libro del cardinale Etchegaray. E, vista la presenza di migliaia di emigrati dall'Est europeo, si pensa a incontri simili anche in Italia».



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È naturalmente impossibile raccontare in breve tempo le vite o le immagini dei santi più importanti o spiegare il loro cammino spirituale. il nostro compito è di cercare di esprimere lo spirito…

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Domenica, 14 Novembre 2004 20:12

Lo stupore si fa lode

di Vladimir Zelinskij



Il rapporto tra la sfera umana e il resto del creato è diventato "il problema" da quando l'uomo ha capito di poter essere il peggior nemico del proprio habitat. La strada che ha preso la nostra civiltà - ne sono già visibili i tratti futuri - va verso la ricreazione o la sostituzione del vecchio ambiente umano.

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di Vladimir Zelinskij

Nel gennaio del 2004 il Patriarca ecumenico Bartolomeo I, su richiesta dell'esarcato russo del Patriarcato di Costantinopoli, ha proclamato cinque nuovi santi, i primi santi ortodossi vissuti e morti in Europa occidentale, in Francia. L'"elevazione agli altari" nell'Ortodossia non richiede un processo speciale, con prove e dimostrazione di miracoli.

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di Vladimir Zelinskij

Le radici cristiane dell'Europa non sono cose da scoprire. Storicamente non sarebbe difficile mostrare che la maggior parte delle idee, che sono in circolazione sul continente europeo nei nostri giorni, è d'origine cristiana anche se la loro posizione attuale è esplicitamente laica, perfino atea. Non si tratta qui solo della chiarificazione della memoria, ma della sua riscoperta, anzi della sua scelta consapevole. Il dibattito che si sta svolgendo in questi anni in Europa riguarda soprattutto ciò che vogliamo davvero ricordare e come vogliamo interpretare il nostro passato. La prima cosa che si coglie subito è che quel dibattito sulla nostra eredità intellettuale e spirituale ha un senso implicitamente antropologico.

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