In ricordo di P. Franco

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Una lettura ortodossa del libro Gesù di Nazaret

Gesù della storia e Gesù dello spirito

di Vladimir Zelinskij




La lettura del libro “Gesù di Nazaret” mi ha fatto tornare in mente la domanda di Giovanni Battista: “Sei Tu Colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?” (Mt. 11,2). L’uomo di oggi potrebbe chiedere: “Sei tu di cui parlano i Vangeli e le Chiese istituzionali o sei solo un’ombra di qualcuno che è diverso e sconosciuto?”. Sembra che il libro di papa Ratzinger nasca dalla necessità di rispondere a questo interrogativo e perfino alla sfida spirituale che la nostra epoca rivolge all’Uomo di Nazaret: “Chi sei Tu?”. La risposta del “Gesù” del Papa è fatta con chiarezza e onestà, con sapienza erudita, ma anche col linguaggio del cuore che si fa sentire attraverso un’argomentazione precisa e dettagliata. Il suo scopo, come spiega l’Autore, è di “presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale” (p. 18), di colmare lo strappo aperto fra il “Gesù storico” ed il “Gesù della fede”. Strappo che dovrebbe essere così doloroso per l’Occidente cristiano e che, almeno per ora, ha risparmiato l’Oriente e che apre la strada alle altre “notizie” su Gesù. Un Gesù sottratto alla Tradizione apostolica e diventato protagonista di invenzioni letterarie, di libere fantasie, gnostiche o “troppo umane”. Il compito del libro è di fornire la nuova visione di Gesù, vero, evangelico, credibile, radicato nella tradizione del Suo popolo; in altre parole, ecclesiale. Il metodo del Papa è quello della Fides quarens intellectum, secondo la formula di Anselmo, la fede che cerca la comprensione attraverso una lettura attenta, che analizza, convince, si appoggia sulla scienza moderna della Scrittura. Alla fine del cammino questa fede arriva alla confessione di Pietro: “Tu sei Cristo, Figlio del Dio Vivente!” (p. 401). Ma la strada delle prove battuta dall’Autore - sempre con grande stile e impeccabile documentazione - ci porta ad un’altra domanda: si può ottenere con la ragione credente ciò che né la carne né il sangue possono rivelare, ma solo il Padre che sta nei cieli? Si può penetrare nel “pensiero di Cristo” (1 Cor. 2,16) soltanto col nostro pensiero o intravedere la Seconda Persona della Santissima Trinità attraverso la sola riflessione scientifica sulla storia di Gesù? O per avvicinarlo bisogna fare un salto che ci stacca dalla terra ferma del discorso logico e razionale permettendoci di entrare nell’incomprensibile?

Nella sua opera il Papa cita un pezzo del dialogo prestato dal libro di Jacob Neusner “Un rabbino parla con Gesù”. “Così – dice il maestro – è questo che il saggio Gesù aveva da dire?” Non, precisamente, ma quasi”. Egli: Che cosa ha tralasciato”. Io: Nulla. Egli: Che cosa ha aggiunto allora. Io: Se stesso” (p. 131). “La centralità dell’Io di Gesù nel suo messaggio - commenta l’Autore - imprime la nuova direzione a tutto”. La rivelazione di questo “Io” è il punto di partenza per ogni fede cristiana, ma possiamo conoscerlo solo attraverso la sua “parte visibile”? Possiamo dire che l’Io di Gesù è davvero aperto a noi? La persona di Cristo, come luce di Dio che abita nelle tenebre è, nello stesso tempo, celato e rivelato. Lui è “il segno di contraddizione” (Lc. 2,34), come dice il vecchio Simeone. Quel segno fa parte della realtà umana e nello stesso tempo la rende problematica, la mette sotto il suo giudizio. Lo vediamo nel Discorso della Montagna, analizzato nel nostro libro con grande cautela e profondità. Le beatitudini di Gesù, dice il papa, si sviluppano dai comandamenti di Mosè e formano la nuova Torah. Quel Discorso porta in sé “la cristologia nascosta”, ma anche “ un quadro completo della giusta umanità” (p. 157). Da un altro lato le Beatitudini appartengono ad una diversa realtà, quella della salvezza che mette la vecchia umanità sottomessa alla legge di Mosè sotto il giudizio del Regno promesso da Cristo.

Questo è il problema principale che pone il grande “Gesù di Nazaret” al lettore “orientale”: si può davvero entrare nel mistero della fede con lo sguardo concentrato solo sul personaggio storico, su tutto ciò che può essere capito, analizzato, chiarificato razionalmente? L’Io divino-umano di Gesù può essere “spiegato” dall’analisi del testo scritto? Quando Egli dice: Io sono sorgente d’acqua viva (Gv. 7,37), vediamo il miracolo della Parola, ma la sorgente che è nel Padre resta invisibile.

“’Io sono’ si colloca totalmente nella relazionalità tra Padre e Figlio”, dice il Papa, - “in tutto il suo essere non è altro che rapporto con il Padre” (p. 399). Ma noi in quale modo possiamo entrare in questa relazione? Il volto del Figlio si fa intravedere sotto i simboli dell’acqua, del vino, della luce, della vite, del pane, ma come questa acqua arriva a noi, questa luce ci tocca, questo pane e vino diventano il nostro cibo? Tra noi che viviamo oggi e i tempi di Gesù - oltre la nostra grata memoria, la venerazione, la comprensione, la conoscenza - c’è anche un protagonista invisibile, un attore che ci fa entrare nell’intima e diretta relazione con Cristo: lo Spirito Santo. È proprio Lui che riempie e fa vivere in noi i segni e le immagini di Gesù: acqua, luce, vita, parola. Perciò: “nessuno può dire “Gesù è il Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor. 12,3)

Il metodo del libro è sempre proprio del Ratzinger teologo, convinto che la via della vera ragione coincida con la via della fede (cfr. il discorso pronunciato a Ratisbona nel settembre 2006). Tutte e due hanno il medesimo fondamento della verità. Ma la verità dello Spirito coincide completamente con la verità che possiamo raggiungere con la mente? Qui sorge il primo solco di quell’incomprensione fra Oriente e Occidente che fa eco nei secoli: nel trattare dell’umanità di Gesù che, come venne detto, “non conosciamo... secondo la carne” (cf. 2 Cor 5,16) e neanche secondo la “carne” della sapienza umana. Chi legge queste quasi 450 pagine su Gesù non può non ammirare la qualità della forma letteraria di un testo perfettamente organizzato, preciso e denso, un testo in cui non c’è una riga di troppo e un’osservazione che aggiunga qualcosa al già detto. Ma dopo tutto questo cammino il lettore si ferma davanti ad un enigma, oltre il quale il pensiero analitico non può andare. Il libro di Benedetto XVI è, senza dubbio, un’incomparabile testimonianza della fede nel Gesù della Scrittura, ma la sua testimonianza fa appello ad un’altra dimensione, quella del Regno dello Spirito, che è sempre vicino, ma che è non di questo mondo.

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L'Eucarestia nella prospettiva Ortodossa

di Vladimir Zelinskij




L'approccio dogmatico ed eccesiologico

“In quanto a noi, il nostro pensiero si accorda con l'Eucarestia, dice S.Ireneo di Lione, - e l'Eucarestia in cambio conferma il nostro pensiero. Noi offriamo à Dio ciò che é Suo, proclamando la comunione e l'unione della carne e dello Spirito poiché come il pane che viene dalla terra, dopo aver ricevuto l'invocazione a Dio, non è più pane ordinario, ma Eucarestia, così i nostri corpi che partecipano dell'Eucarestia non sono più corruttibili, perché hanno la speranza della risurrezione” (“Contro le eresie”).

La speranza della risurrezione si trova proprio nel nucleo del mistero eucaristico nella vita della Chiesa Ortodossa anche se questo centro non è sempre visibile. Si può parlare dell'Eucarestia in modo diverso: dal punto di vista dogmatico, liturgico, spirituale, ecclesiologico, escatologico, ma lo scopo finale, il telos, come dicevano i greci, del discorso, sarebbe sempre lo stesso: la comunione con Dio nella persona di Gesù Cristo, morto e risorto, presente e vivo nei Suoi doni e nel Suo Regno, preparato per noi. Eucarestia nel senso ontologico e dogmatico è la partecipazione alla natura divina (vd. 2 Pt 1,4), nel senso personale e comunitario - la partecipazione liturgica all'Ultima Cena del Signore, nel senso ecclesiale è l'attualizzazione della Chiesa come Corpo di Cristo, nel senso escatologico è la preparazione per il Giudizio Finale e l’incontro con Cristo. La comunione come avvenimento sacramentale e spirituale è il cuore dell'ortodossia che batte nella sua teoria, come nella sua pratica, nella vita della Chiesa, come nella vita della persona che cerca la sua salvezza.

Fra la pratica e teoria non c’è una linea della demarcazione netta, come questa linea non dovrebbe essere fra la fede e la spiritualità. Dal punto di vista antropologico nella Chiesa Orientale esiste una sorte del primato della contemplazione e della "teoria" sull'azione umana perché il mondo è visto piuttosto come manifestazione del Divino (per la Chiesa Occidentale invece il mondo è piuttosto il risultato dell'azione di Dio). Questa differenza esisteva dall'inizio: I greci ponevano l'accento sull'immagine di Dio nella creazione, i latini vedevano la propria vita come attività, indirizzata verso Dio.

La diversità (naturalmente leggitima) si fa notare anche nel concetto di ecclesiologia. L'ecclesiologia ortodossa si chiama spesso l'ecclesiologia della comunione: la comunione alla SS.Trinità, ma anche la comunione ai santi doni che uniscono fedeli in Cristo. E la comunione mistica dà la sua forma anche alla struttura della Chiesa. Il vescovo (o il sacerdote che lo sostituisce) è in comunione con i suoi fedeli e con gli altri vescovi nei sacramenti e nella preghiera. L'ecclesiologia non è una pura logia, ma - sapienza - saggezza - salvezza. E la conoscenza della vita nella Chiesa può aiutare a portarci sul cammino della salvezza che si trova nella comunione con Dio.

"La Chiesa, - secondo la definizione del teologo russo Alexej Chomiakov (1804-1860), - è la vita di Dio fra gli uomini". Ma che cos'è la salvezza come vita di Dio? “Fra gli uomini", "nel mezzo di uomini", "dentro gli uomini" la vita di Dio vuol dire: "la santità". Siamo sempre al confine del mistero che vive in noi. Il mistero della fede e della presenza reale di Dio nella nostra vita ecclesiale è come la soglia e la condizione della nostra conoscenza della Chiesa. Avviciniamo la natura della Chiesa attraverso il mistero eucaristico.

"La natura della Chiesa stessa è eucaristica, - dice il teologo ortodosso Kiprian Kern (1899-1960). (1) Se la Chiesa è il Corpo di Cristo, anche l'Eucarestia è un Corpo di Cristo. Senza l'Eucarestia non c'è una vita ecclesiale, come l'Eucarestia è impossibile fuori della Chiesa". Parlando dell'Eucarestia parliamo della Chiesa e vice versa. Parlando della Chiesa confessiamo il nucleo della fede. L'ecclesiologia ci pone prima di tutto un problema dell'identità della Chiesa cioè dell'identità stessa del Cristo che vive fra noi. La Chiesa condiziona questa identità nell'Eucaristia.

"Il canone eucaristico - continua Kern, - è una interpretazione liturgica del dogma della SS.Trinità, della creazione, della redenzione o della santificazione". In altre parole, L'Eucaristia porta in sé e manifesta il cuore della fede che confessa che l'opera di Cristo sia la nuova creazione dell'uomo e del cosmo nello Spirito Santo grazie all'unità dell'umanità con Dio. Lo Spirito Santo entra nella creazione e invisibilmente riempie il nostro essere. Secondo San Gregorio Palamas, lo Spirito Santo c'include nel Corpo di Dio tramite i sacramenti della Chiesa. Ma la Chiesa stessa è un sacramento che ci prepara al Regno e alla trasfigurazione finale. La Chiesa è vista come luogo della nascita e della vita dell'uomo nuovo, non soltanto riconciliato, ma eucaresticamente unito con Dio. In questo senso la comunione al Corpo e al Sangue del Cristo fa vedere Crsito in lui, ciò che l’uomo è o piuttosto chiamare ad essere. Così l'ecclesiologia diventa una vertice della nuova antropologia.

L’approccio antropologico
L'antropologia ortodossa è trinitaria. Il concetto della
Trinità contiene in sé una premessa della moltitudine delle persone umane. Nella Trinità l'unità e la diversità coincidono e l’unità dei molti diventa un'immagine della Chiesa radunata nella stessa Eucarestia. In potenza tutta l'umanità è il Corpo del Cristo. L'Incarnazione ha riprodotto, ricreato l'unità umana. (“Adamo vive in noi” – come dice San Gregorio di Nissa). Come Corpo del Cristo abbiamo il sangue del Cristo, siamo uniti nell'Eucarestia, cioè nella Chiesa. L'unità della Chiesa è l'unità della natura umana restaurata in Cristo e questa unità si realizza nell'Eucarestia. L'Eucarestia è un atto con cui Dio ci unisce nel Corpo del Cristo. (P.N.Afanasiev). (2) I fedeli sono rifondati nel Corpo del Cristo, perché loro sono nutriti con lo stesso Corpo. Se la Chiesa avesse il cuore, quel cuore dovrebbe essere il sacramento dell'Eucarestia.

Il Cristo è la radice della deificazione della natura umana. L'uomo unito a Cristo è già la Chiesa (San Massimo il Confessore), perché la comunione con Cristo ci fa il Corpo del Cristo. Il corpo umano in quel caso è lo strumento, ma anche il tempio dello Spirito. La vita comune si fa come cammino verso la deificazione dell'uomo che può essere solo l'azione del Santo Spirito. Quando alla fine della Divina Liturgia il sacerdote dice: “Le cose sante ai santi”, lui proclama la santità del Corpo del Cristo già presente nella comunità dei credenti ch'è anche il popolo dei peccatori. Questo Corpo è unito nell'unità escatologica della Parusia. Già Didaché ci dà un'immagine del pane disperso e raccolto La Chiesa come un atto della ri-unione dell'umanità che vive in Cristo.

L'identità con Cristo è condizionata dall'esistenza delle moltitudini. Lo Spirito che costituisce l'identità del Cristo è lo Spirito della comunione e la sua opera consiste nella trasformazione in comunione della realtà umana incompatibile con l'individuo separato dagli altri. La Trinità stessa è la comunione e nello stesso tempo la personalità. Ma anche la Chiesa è la "personalità corporativa" e il suo essere personale si rivela proprio nell'Eucarestia. Il mistero della Chiesa è il mistero dell'"uno" che è moltitudine nello stesso tempo. Per questo motivo la cristologia ortodossa non è concepibile senza l'ecclesiologia. L'esistenza del corpo è una condizione necessaria che la testa sia la testa. Nella preghiera eucaristica la Chiesa diventa santa in tutti i suoi membri e colui che presiede la comunità, il sacerdote, si identifica con il Cristo stesso. Ma anche tutta la comunità diventa il Cristo che prega al Dio Padre nell'unità dello Spirito Santo

La Chiesa è sempre vista come icona del Regno che deve venire e la sua identità coincide con l'identità del Cristo e del Regno escatologico. La sua esistenza è iconica. Essa è l'immagine di ciò che la trascende.

L'approccio liturgico

Per l'ortodossia, la Chiesa vive nell'Eucarestia e anche attraverso l'Eucarestia. Il mondo intero può essere visto come "liturgia cosmica", che offre al trono di Dio tutta la Sua creazione. Ogni fedele porta il mondo in sé e devo portarlo al mistero eucaristico.

“Nella Chiesa antica i fedeli non si recano da soli in Chiesa ma accompagnat i dai doni della creazione. Il pane, il vino e l'olio vengono portati in processione liturgica e in sfilata - è l'odierno "grande ingresso" della liturgia - il quale a sua volta li "rapporterà al trono di Dio come Eucarestia”. (m. Ziziulas). La visione eucaristica del mondo ci apre la creazione dove l'Eucarestia non può essere oggetto o mezzo. L'Eucarestia è la rivelazione del cosmo.

Nel contesto liturgico l'Eucarestia si rivela come manifestazione di tutta la Chiesa. La Chiesa conosce e celebra un solo sacramento cioè il mistero del Cristo, del Cristo totale che salva il mondo. In questo senso l'Eucarestia non può essere solo un mezzo della grazia, ma la sua realtà. Dall'inizio del cristianesimo l'Eucarestia era vista come "Sacramento dei sacramenti" che esprime il mistero della Chiesa stessa come sacramento. Il sacramento può è primo di tutto una realtà divino-umana o come ritorno alla creazione nuova. Se il diavolo ci separa, il sacramento ci unisce nel Corpo di Cristo. E’ lo Spirito Santo ch’è l'ultimo criterio della verità della fede che non costituisce il mistero liturgico ma proviene da esso.

La gratitudine è un motivo principale del canone eucaristico. Nell'Eucarestia la Chiesa si effettua come la creazione nuova e come il mistero della conoscenza. La conoscenza cristiana (Gv.17,3) è anzitutto la gratitudine. Nella gratitudine scopriamo anche ciò che possiamo chiamare l'antropologia eucaristica. L'uomo che crede è l'uomo che loda, che ringrazia, che torna nella sua memoria al mistero della salvezza rivelata nella vittoria del Cristo sul peccato tramite la Croce. L'anamnesis, la memoria sacra ecclesiale, non è separata dal ringraziamento. Il sacrificio del Cristo è commemorato nella gratitudine. La memoria ecclesiale come la forma della presenza del Cristo e la realtà stesso del Regno. (“Come il Padre l’ho preparato per me, Io preparo per voi un regno perché possaite mangiare e bere alla mia mensa nel Mio Regno” – Lc 22, 30).

L'Eucarestia è come un farmaco dell'immortalità" (Sant'Ignazio d'Antiochia) per il mondo e per l'uomo perché loro siano realmente ciò che sono e che il peccato altera. La liturgia ci torna all'originale del mondo - questo punto è molto importante - quando non esisteva ancora divisione fra il "naturale” e il “soprannaturale". L'ortodossia anche adesso rifiuta questa dicotomia perché prima di tutto nel contesto liturgico la dicotomia non esiste. Esiste una natura e la creazione come unica realtà. Esiste un incontro completo fino all'identità del celeste con la realtà terrena. Qui tocchiamo un altro problema, quello del simbolo e della realtà. La funzione del simbolo non è fare figura, un segno esteriore, ma far apparire la realtà, farla manifestare. Il simbolo è il segno di qualche cos'altro presente nella stessa realtà creata. Il sacramento - qualsiasi, ma prima di tutto l'Eucarestia - non si trova in opposizione alla creazione o alla creatura, ma rivela la sua natura autentica. Perciò l'Eucarestia ha carattere cosmico ed escatologico. Essa include in sé tutta la creazione, perché la creazione è già il Regno, ma il Regno nascosto. Il sacramento è rivolto verso questo Regno del secolo futuro.

L'essenza della Chiesa è il cammino verso il Cielo, e l'Eucarestia è il mistero di questo cammino anche nella memoria o l'anamnesis. L'anamnesis che contiene anche la memoria della Croce come vittoria sul peccato, è la presenza mistica del cammino all'interno del nostro essere che ci porta al Regno. Ma l'anamnesis è anche la memoria del futuro, un atto escatologico. “Io sono l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, il Principio e la Fine” (Ap.22,13). “Vieni, o Signore Gesù” (Ap 22, 20). La memoria del Regno aperta al Ritorno del Signore.

Per questo motivo l'ecclesiologia ortodossa non usa la parola "transustanziazione". Prima di tutto per non introdurre la filosofia umana nell’incomprensibile. Il corpo destinato alla risurrezione è lo stesso corpo, non di un'altra sostanza, ma quello che è stato creato da Dio e cambiato o ricreato nell'atto eucaristico. Quando il sacerdote dice: "Questo è il Mio Corpo" le sue parole o piuttosto le parole di tutta la Chiesa cambiano la natura dell'offerta. Così questa parola del Salvatore, una volta pronunciata, è stata e sarà sufficiente per compiere il più perfetto sacrificio sulla tavola di tutte le chiese, dall'ultima Pasqua di Gesù Cristo fino ai nostri giorni e fino al suo avvento.

Il pane diventa il pane del cielo perché su di esso viene a posarsi lo Spirito, ma rimane il pane com'è. L'Eucarestia è fatta dallo Spirito Santo, ma il "momento", , dell'invocazione dello Spirito Santo, oltre l'epiclesi riempie tutta la liturgia. La presenza dello Spirito è convalidata dalla fede. Tutta la liturgia è già la tramutazione: la materia, il rito, il simbolo sono riportati alla loro origine di creazione.

Ciò che è lì davanti a noi non è l'opera del potere umano. Colui che ha fatto questo nell'ultima cena lo fa ancora adesso. In quanto a noi, il nostro compito è quello di servitori, ma è Lui che santifica e trasforma. "C'è (...) un solo Cristo, tutto intero qui e tutto intero là, un solo corpo (...). Noi non offriamo un'altra vittima, come il sommo sacerdote di allora (dell'Antico Testamento); è sempre la stessa, o piuttosto noi facciamo il memoriale del sacrificio”. (San Giovanni Crisostomo).

L’eucarestia e l’assemblea

Tutta l'azione liturgica fa parte del mistero eucaristico, cominciando dall'assemblea ecclesiale che costituisce uno degli aspetti della sacramentalità globale della Chiesa, e il suo cuore; "il mistero dei misteri", come dice Olivier Clément è l'Eucarestia”. Nella proscomidia (o protesi) tutta la Chiesa (la Madre di Dio, i santi più importanti, il clero, il popoli, i vivi, come anche i morti) è riunita davanti all'Agnello. L'assemblea ecclesiale è preceduta da quella mistica durante la proscomidia. L'assemblea - l'Eucarestia - la Chiesa costituiscono una tri-unità, l'una è inseparabile dall'altra.

Secondo Pseudo-Dionigi Areopagita l'Eucarestia è prima di tutto il sacramento dell'assemblea, perché si l'Eucarestia è la forma iniziale della Chiesa, l'assemblea è la forma iniziale dell'Eucarestia. La Chiesa stessa è il sacramento e il mistero nel senso escatologico e cosmico. La struttura della Chiesa è misterica perché essa nel sacramento si trasforma in realtà della vita nuova. Secondo la prospettiva ortodossa l'Eucarestia come sacramento non è divisibile durante la liturgia perché tutta la liturgia nella sua integrità è lo svolgimento del miracolo eucaristico. L'importanza dell'assemblea è nel fatto che essa manifesta il carattere sacerdotale del Popolo di Dio. Il popolo concelebra, perciò il sacerdote non può essere mai solo ed ogni liturgia ha - almeno in teoria - un carattere conciliare.

Perfino il tempio stesso deve avere la struttura "conciliare" come l'organizzazione dello spazio nel senso dialogico. Tutto lo "spazio" ecclesiale è consacrato come luogo della comunione con Dio. Soprattutto l'iconostasi come la visione del Regno dei Cieli ha il compito di esprimere questa idea della comunione del divino e dell'umano. La comunione è possibile perché tutta l'assemblea è già il Corpo del Cristo.

Nello stesso tempo l'assemblea ha un altro significato quello del popolo dei peccatori che cerca la loro salvezza nel pentimento, nella metànoia. La metànoia è un atto ecclesiale che liturgicamente, spiritualmente ci prepara all'Eucarestia che porta in sé anche il mistero del perdono, della tramutazione dei peccatori nei cittadini del Regno.

Ricordiamo le altre parole di Sant’Ireneo “Ubi Ecclesia, ibi Spiritus et omnis gratia”. Dov'è lo Spirito, lì è anche il Regno. L'Eucarestia inizia come l'ascensione verso la cena del Signore nel Suo Regno e il suo primo gesto è la benedizione del Regno. Tutto il suo svolgimento ci procede verso l'altare, simbolicamente espresso con la piccola entrata col Vangelo che significa la venerazione del luogo del sacramento, lo spazio che rivela e che nasconde la santità di Dio, ma anche la venerazione della Parola di Dio.

L'Eucarestia e il Vangelo

Il sacramento dell'Eucarestia è indivisibile dal sacramento della Parola come una parte della liturgia.

Entriamo nella comunione alla verità tramite la Parola. La verità fa parte del nostro essere, perché siamo stati illuminato dalla luce della Parola, ma la verità va rivelata e risvegliata nella nostra intelligenza. Così la Parola di Dio diventa la comunione della ragione, perché anche il Vangelo è il luogo della "presenza reale" dello Spirito. Il Vangelo come l'icona del Cristo risorto.

"È detto che noi beviamo il sangue del Cristo non soltanto quando lo riceviamo secondo il rito dei misteri, ma anche quando riceviamo le sue parole ove risiede la vita, come egli stesso dice :

“Le parole che ho detto sono spirito e vita” (Origene).

“In verità, prima di Gesù, la Scrittura era un'acqua, ma dopo Gesù è divenuta per noi quel vino nel quale egli l'ha tramutata” (Origene).

La predica che segue la lettura serve proprio alla risveglia della Parola nella nostra mente. La Parola deve essere rivolta al cuore e il cuore deve essere aperto. Ma l'apertura del cuore per sentire e capire è il dono ricevuto dalla Chiesa intera. L'assemblea, la venerazione dell'altare, la parola, la predica, la preghiera sono gli elementi diversi che costituiscono il sacramento della Chiesa preparandola al sacrificio eucaristico. La partecipazione dei laici al sacrificio della Chiesa è il sacerdozio di tutti, il sacrificio del Cristo stesso nella Sua Chiesa. Tutti i battezzati, tutti i membri della Chiesa sono inclusi in questo sacerdozio regale. I laici come fedeli non sono sacerdoti di secondo grado, anche loro sono consacrati al servizio del Cristo.

Così nasce "il corpo" della parrocchia come una Chiesa locale. Tutto il Cristo è presente nell'Eucarestia e dove c'è Eucarestia vera, c'è anche la pienezza della Chiesa. Tutti noi, sacerdoti, laici, siamo il Corpo del Cristo, tutti partecipano all'offerta del Cristo si è offerto per noi. L'offerta va fatta da tutti, gli elementi di questo mondo sono destinati ad essere portati come offerta, come sacrificio.

Il sacrificio eucaristico non è una ripetizione del sacrificio sul Golgotha (che è irrepetibile), ma, direi, il suo riconoscimento nell'atto liturgico. Nell'offerta riconosciamo il Cristo stesso. La liturgia e la Chiesa stessa sono possibili perché il sacrificio del Cristo è già stato fatto e noi lo commemoriamo e lo riconosciamo nell'azione della Chiesa. Questa commemorazione di cui parleremo ancora non è un semplice ricordo, ma la proclamazione dell'identità essenziale fra il sacrificio del Cristo con il sacrificio eucaristico che si fa in Chiesa.

L’Eucarestia e il sacerdozio

Da questa identità nasce anche il sacramento del sacerdozio come sacerdozio del Cristo stesso. Il sacerdozio del Cristo consiste nella riunione in sé di tutti i credenti, di tutti i fedeli. Il sacerdozio nel momento della celebrazione manifesta la sua unione e la comunione con tutta l'assemblea ecclesiale. Dunque, il sacerdozio è un sacramento perché ha una radice eucaristica.

Il sacerdozio è il dono di Dio e come tale è indipendente dalla qualità spirituale del sacerdote ma nello stesso tempo questo dono è personale, e la pienezza della vita ecclesiale dipende dalla capacità di ricevere questo dono. Perciò ogni Eucarestia include anche la preghiera del sacerdote per se stesso, la sua offerta spirituale.

Durante l'offerta quando il pane e il vino sono portati sull'altare, tutta la Chiesa è radunata nella commemorazione. L'offerta eucaristica è come la memoria attualizzata. Nella memoria il Signore si rivolge alla Sua creazione perché la memoria di Dio porta in sé l'amore che ci cerca e ci salva. La memoria dell'uomo in Dio è il dono della vita, la memoria del Dio nell'uomo è l'accettazione del dono, la sua risposta all'amore. Questa risposta che liturgicamente si manifesta nella gratitudine.

“L'Eucarestia esige il  m e m o r i a l e (o  a n a m n e s i s) di tutta la storia della salvezza, compendiata nel suo centro, la croce vivificante, la croce pasquale. Questi avvenimenti, iscritti nella "memoria" di Dio, la Chiesa li rende presenti, attuali, efficaci. In tale "memoriale" vivente, il prete è l'immagine di Cristo, un "altro Cristo", dice san Giovanni Crisostomo, egli è il testimonio dell'incrollabile fedeltà di Cristo alla Sua Chiesa. Per mezzo di lui, che compendia la preghiera del popolo e rappresenta per il popolo il segno di Cristo, questo unico gran sacerdote, compie l'Eucarestia. E tutto si fa nello Spirito Santo. Nello Spirito Santo la Chiesa è il "mistero" del Risorto, il mondo in via di trasfigurazione.” (Olivier Clément, Alle fonti con i padri)

L'approccio spirituale

L'Eucarestia è rivolta al tempo escatologico, alla gloria del Regno. Gli altri tipi di celebrazione sono orientati a questo tempo. La correlazione dei due tempi è il principio della struttura liturgica della Chiesa. La liturgia è sempre inclusa nel quadro della "celebrazione del tempo".

Il presente come attualizzazione del passato, ma anche come "mondo che verrà" è sempre presente nella celebrazione. Per questo motivo la Chiesa Ortodossa e la sua vita spirituale nasce dalla Tradizione e si appoggia sulla Tradizione che contiene in sé il tempo escatologico, il tempo che non si cambia come non si cambia la Chiesa stessa che, però può dare le risposte nuove alle sfide di ogni tempo. Il tempo del Cristo e l’epoca degli apostoli sono sempre presenti in qualsiasi periodo della vita della comunità ecclesiale e formano la sua identità metastorica. Sia la forma visibile di questa identità (le celebrazioni liturgiche, la successione apostolica ecc.), sia la sua espressione invisibile (la preghiera personale, la “custodia del cuore” ecc.) coincidono nella tradizione che continua a vivere nella Chiesa la quale, in virtù della sua identità sacramentale e spirituale, e nonostante i suoi cambiamenti culturali e rituali, può essere riconosciuta in qualsiasi momento della storia.

Perciò l'assemblea eucaristica rimane non soltanto il centro della vita ecclesiale, ma anche della vita dello spirito umano. La spiritualità ortodossa si realizza nell’unione con Dio incarnato, crocefisso, risorto che deve manifestasi anche nella fraternità fra i fedeli. Ogni liturgia è vissuta spiritualmente come sacramento della memoria della santità vissuta, dell'unità del popolo di Dio e della sua gratitudine alla soglia del Regno. “In ogni cosa rendete grazie” (o “fate Eucaristia”) dice San Paolo (1 Tess. 5,18) perché in ogni cosa - il cuore umano e tutto il creato – c’è il suo segreto centro eucaristico.

1) Eucarestia, Parigi, 1947 (in russo).

2) La Chiesa dello Spirito Santo, Parigi, 1971 (in russo).
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Bioetica, vie diverse
ma stesso approdo
tra cattolici e ortodossi

di Vladimir Zelinskij

Fede e ragione, due doni che Dio ha dato agli uomini insieme con il terzo: la libertà. Ma essi non vivono sempre in pace fra di loro. Anche quando hanno un punto di partenza comune: la sacralità della vita umana. La questione dell’inizio della nostra esistenza non è questione di fede, dicono i cattolici. È un semplice fatto della forza della logica che dovrebbe essere vincolante per i credenti e non credenti.

La logica, però, è come una guardia per l’ordine, sembra invincibile quando l’ordine c’è, ma appena arriva il trasgressore, si mostra innocua, perché tutti sanno che la sua arma è caricata a salve. Infatti, ognuno sceglie una propria logica e crede nella sua infallibilità. Le vere scelte umane provengono da una sorgente più profonda. Per l’Ortodossia nessun esperimento sull’embrione è lecito, non solo perché il concepito contiene in sé tutto il programma del suo sviluppo che può manifestarsi anche fuori del grembo materno, non solo perché tutta l’identità umana è già “piegata” in due cellule che si sono trovate per unirsi e per portare alla luce “gloria di Dio, uomo vivente”, ma anche perché il concepimento è un atto della creazione in cui partecipano non solo uomo e donna. È un miracolo dove Dio è presente, un sacramento in cui è offerto il suo amore. Forse, i cristiani non possono esprimere il loro pensiero non solo con le prove, ma anche con lo stupore?

Mi ricordo del mio incontro con il professor Jérôme Lejeune, il famoso genetista. «Posso spiegare lo sviluppo del concepito dal primo momento», disse lui, «ma pur con tutta la mia conoscenza mi rendo conto che mi trovo davanti a un mistero inesplicabile». Il mistero ci chiede un attimo della contemplazione che a volte può essere non meno convincente che il sistema della logica più ferrea. S’impone la domanda, però: perché dobbiamo dare la preferenza a quel mucchietto di cellule davanti a una persona adulta che ha i suoi problemi, di salute o di finanza? Davvero la ratio da sola è capace di risolvere questo dilemma? Perché, infatti, se le cellule staminali possono curare le malattie finora incurabili? Se la fede avesse il diritto di parola, risponderei così: perché colui che in ogni caso è più forte, che ha avuto la sua vita e, come diceva Dostoevsky, «ha già mangiato la mela», è chiamato a non impedire l’affacciarsi alla vita di un essere umano infinitamente più debole, che non ha vissuto, ch’è ancora innocente.

L’approccio “occidentale” alla bioetica (come agli altri problemi difficili del nostro mondo) può essere diverso da quello “orientale”, ma la soluzione cristiana è quasi sempre uguale. Se uno ha più fiducia nella luce della ragione e un altro nel mistero della luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo, davvero abbiamo ancora motivi validi per rimanere divisi?

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Vladimir Solovëv alle soglie del XXI secolo

di Vladimir Zelinskij


Il profeta della riconciliazione

Vladimir Solovëv morì un secolo fa e noi dobbiamo misurare bene questa distanza. Sembra che lui sia vissuto in un altro mondo, ma sullo stesso territorio che si chiama oggi con una pretesa un po' orgogliosa, "l'Europa dall'Atlantico agli Urali". Infatti, egli era sempre in viaggio dall'Est e dall'Ovest del continente europeo. Era il tipico pellegrino russo, ma con una schiacciante erudizione, un ex-professore itinerante, un trovatore e un interlocutore della caparbia Signora Sofia, ma anche uno spiritoso che poteva nascondere nello scherzo ciò che è più santo e ciò che è più profano, un vagabondo instancabile in ricerca della Città Celeste sulla terra, un alchimista del pensiero, uno scolastico, ma anche un poe­ta visionario che sembra venuto dal Medioevo per camminare verso quel futuro che non vediamo neanche noi.

L’Europa, però, l'area geografica del suo pellegrinaggio, come concetto sto­rico e culturale, come carta dei valori comuni, bagaglio legislativo, simbolo dei diritti umani, non era neanche in progetto. La terra dall'Atlantico agli Urali era occupata dagli stati nazionali con i loro egoismi e patriottismi sfrenati in cui fer­mentavano le due guerre mondiali, e poi c'erano il comunismo e l'olocausto, che non erano ancora giunti a maturazione, ma che tuttavia erano già stati con­cepiti nel seno della cultura e della mentalità europea.

Solovëv non si è accorto di questi fermenti del XX secolo sul finire del XIX, come non ha previsto lo sviluppo delle ideologie e dei regimi. Non ha potuto immaginare il tragico ruolo del marxismo nel destino della Russia e, nel "Blut­und Bodenromantik" tedesco non ha indovinato le cellule di cancro che già sta­vano per crescere. Solovëv, per dire la verità, non ha nemmeno sentito la fiori­tura del simbolismo russo, di cui proprio lui, come poeta mistico, è diventato il padrino a pieno diritto. Nel suo Racconto dell’Anticristo, che contiene una cer­ta previsione del futuro, la guerra si fa ancora con le armi della campagna del 1877-1878 per la liberazione dei popoli ortodossi dal dominio turco. Ma ades­so che il XX secolo è già alle nostre spalle e il dominio ideologico appartiene alla storia passata, quasi come quello turco sull'Europa, noi scopriamo di nuovo il Solovëv-profeta, il precursore o l'uomo del presentimento geniale, più spiritua­le che letterale, delle cose che noi non abbiamo ancora raggiunto, ma che im­pariamo ancora a pensare e a sperare.

E non per caso abbiamo cominciato a parlare della nuova nascita dell’Euro­pa alle soglie del XXI secolo, perché davvero questo filosofo-pellegrino, studio­so rispettabile, studente permanente, cercatore della Sofia e dell’"Ewig-Wiebliche", "pazzo in Cristo" nel senso più nobile della parola, è diventato uno dei padri spirituali della nuova unità europea, colui che "prepara la sua strada", forse, senza conoscerla e allo stesso tempo uno dei primi a denunciare il suo ani­mo secolarizzato e privo di slanci ideali. Solovëv è riuscito ad assorbire e trasfor­mare in sé quasi tutto il patrimonio dello spirito europeo, filosofico, sociale, mistico, ad esprimerlo in un grandioso tentativo di sintesi degli elementi più contraddittori e inconciliabili. Questo tentativo porta, a mio avviso, un grande ed autentico vigore profetico che noi dobbiamo leggere con gli occhi della no­stra esperienza, della memoria e della speranza comune.

Si vuole sottolineare che questa lettura, che nasce dalla comprensione e dall'incontro nella fede condivisa, è ancora davanti a noi e dipende dal nostro coinvolgimento nelle cose che "si sperano e non si vedono" (cf. Eb 11,1). È vero che durante la sua breve vita Solovëv voleva fare il profeta e sentiva dall'infanzia la sua vocazione come missione ecclesiale, ma ciò che lui considerava come pro­fezia, coincideva con la sua opera che è ancora legata o condizionata dal tempo che fa il suo. Dopo la sua morte, però, Solovëv è diventato il pensatore russo, forse più famoso in Occidente, ma non molto ricordato in Russia; in ogni caso, mi sembra che lui non abbia ancora manifestato tutto il suo spirito, quello che nasce lentamente quando noi ci apriamo al suo messaggio principale.

Nonostante le numerose pubblicazioni (nel 1999 è iniziata la 4a edizione della sua Opera omnia in russo in 20 volumi), Solovëv non è molto letto nell'ambito ecclesiale e ai nostri giorni (cioè nel primo decennio di libertà di parola dopo il comunismo) suscita un interesse più accademico che religioso. Il suo spirito, in tutti i suoi scritti di filosofo, di poeta lirico, di pubblicista, di teologo, di critico letterario, di pensatore politico ed etico, è profondamente e intrinsecamente re­ligioso nel senso cristiano ed ecclesiale, ma, forse, la sua religione, quella dello Spirito Santo che avrebbe dovuto unire in sé Oriente ed Occidente (come lui confessò una volta nella lettera privata a V. Rosanov), non è ancora nata all'in­terno delle Chiese storiche. Per questo motivo se avessi dovuto parlare su Solovëv nella Russia d'oggi, avrei potuto dire ben poco, al di là di un paio di conferenze filosofiche, sostenute materialmente dall'estero.

Quella Russia tradizionalista che cerca la sua identità nel sogno del passato, che vive nella resistenza spirituale, visibile ed invisibile, con l'Occidente-invasore, con poche eccezioni, non è una grande lettrice ed ammiratrice di Solovëv che ha una fama, pesante ed ambigua, di occidentalista militante. Per quanto riguarda l'Occi­dente, soprattutto cattolico, che manifesta la sua particolare stima, interesse, perfi­no venerazione nei confronti del filosofo russo, esso vede in lui anzitutto un grande "araldo" dell'unità cristiana, solo uno dei primi orientali che osava "respirare a due polmoni", quello russo e quello romano. (Va ricordato anche che non è per caso che il termine, o piuttosto l'immagine, dei "due polmoni" appartiene a un altro grande poeta e pensatore russo: Vjačeslav Ivanov). Ci risulta che la tendenza che domina oggi nell'Ortodossia russa rigetti o semplicemente dimentichi Solovëv per lo stesso motivo per cui il mondo cattolico lo apprezza e lo elogia. Questo fatto ci dice soltanto che lo “spirito” o il messaggio profetico di Solovëv non si è ancora liberato dalla polemica.

Questo spirito o diciamo, il centro più profondo, a volte nascosto, della sua missione, che è anche ecclesiale in senso proprio, è il servizio della riconciliazio­ne nel suo significato iniziale, filosofico, ed ecclesiale. In qualunque sezione della sua opera grandiosa, la sorgente manifestata o celata rimane sempre il messaggio" dell'unità e della ricerca di una visione sintetica nella sua versione globale, che porta il nome della "divino-umanità".

La "divino-umanità", cioè la famiglia umana nel suo cammino verso Dio e nella sua trasfigurazione in Dio, secondo tutti i ricercatori del pensiero di Solovëv, non è soltanto il suo concetto centrale, ma la sorgente stessa della sua ispi­razione. Se noi togliamo questa idea di fondo, tutte le sue splendide speculazioni, come afferma lo storico della filosofia russa V. Zenkovskij, sem­brano un “mosaico” di idee eterogenee. La "divino-umanità" è un progetto uto­pistico, un sistema teologico, un sogno, una visione profetica, una filosofia mistica, ma soprattutto la radice e il cammino del suo pensiero ecclesiale che cercava il Dio Vivente nell'edificio delle "pietre vive" (cf. 1Pt 2,5). Ma l'inizio personale di questo cammino, come ritiene lo storico della teologia russa G. Florovskij, forse, con un po' di esagerazione critica, era "la ricerca della giustizia sociale". Certo, non si può spiegare tutta l'opera di Solovëv, che mi ricorda una costruzione incompiuta di una maestosa chiesa gotica, solo partendo dalla ri­cerca della giustizia, ma tutto il suo pensiero porta l'impronta della preoccupa­zione sociale, quando "misericordia e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno" (Sal 84,11), nell'edificazione della Città di Dio. Solovëv, che era fi­glio del più grande storico della Russia, cresciuto negli anni '60 del secolo XIX, cioè nel periodo del dominio del nichilismo e del positivismo, ha ereditato tutto il bagaglio materialistico-utopistico-ateo dell'intelligencija russa. Ma egli l'ha messo al servizio della fede e della divino-umanità.

"Tutta l'originalità dell'opera cristiana di Solovëv si vuol cercare nel fatto, scrive Berdjaev, che lui si è formato alla fede dei padri e ne è diventato un di­fensore dopo esser passato attraverso l'esperienza umanistica della storia nuova, dopo l'autoconferma della libertà umana nella conoscenza e nella costruzione sociale".

il positivismo volgare contro la vita mistica, l'atei­smo scandalizzante contro la pietà rituale, la salvezza collettiva nella protesta contro l'ordine pubblico e la salvezza personale nella devozione di stampo mo­nastico; la benedizione della realtà sociale tale quale era e la rivolta contro di es­sa; il canto della distruzione che va fino ai terrorismo individuale e poi fino al terrorismo di Stato e, dall'altro lato, l'elogio come virtù principale di un buon cittadino, l'umiltà e l'ubbidienza alla volontà di Dio che agisce nella gerarchia della società. Le radici spirituali di questo conflitto degli anni 60-70 del secolo XIX sono rivelate nei romanzi di Turghenev e Dostoevskij, soprattutto nei Fratelli Karamazov.

L'intelligencija russa dalla sua origine si è presentata come ordine, con il suo proprio monachesimo a rovescio, con il suo ascetismo, la sua dottrina, i suoi ri­ti, i suoi santi martiri, la sua scrittura sacra (dal "precursore" Büchner al “mes­sia” Marx). L'adolescente Solovëv è entrato con grande entusiasmo in quest'ordine dei servitori dell'umanità e, come uno degli eroi di Turghenev, ha cercato nei riflessi delle rane la risposta a tutte le domande della sua anima in­dagatrice. Successivamente ha trovato lui stesso una formula per questa "fede" nei riflessi: "Siamo discesi dalla scimmia, dunque, amiamoci gli uni gli altri". Ma verso i 20 anni, forse anche un po' prima, si convertì all'Assoluto e dopo la Facoltà di Scienze naturali, si iscrisse alla Facoltà di Lettere e quindi all'Accademia teologica. Le "conversioni" di questo genere, le fughe da un ordine ad un altro, non erano poi così eccezionali, ma questi passaggi si accompagnavano sempre ad uno “scuotimento della polvere" (Mt 10,14), ovvero ad una rottura spettacolare ed irreversibile con il campo rigettato. Solovëv fu il primo a speri­mentare la strada della riconciliazione delle due esperienze, delle due verità fino allora inconciliabili, perché anche in un altro campo egli ha potuto scorgere il seme evangelico, ancorché rinsecchito e calpestato.

Quando, molti anni dopo, nel suo libro La Russie et l’Eglise universelle, scrit­to in francese, leggiamo che i giusti atei hanno fatto il lavoro dei credenti passivi ed ingiusti, che tutto il progresso sociale è opera della gente che cercava la verità senza Dio e spesso contro Dio, riconosciamo subito il vecchio pathos dell'intel­ligencija russa, ma inserito nella visione ecclesiale e messo nello spazio del mes­saggio evangelico. Questo pensiero, dopo Solovëv, è diventato quasi un luogo comune, come il tentativo moralistico di costruire un ponte fra i due tipi di umanesimo: quello bizantino ortodosso, che parte dalla visione dell'uomo sal­vato per la sua vita in Cristo, tramite i sacramenti della Chiesa e la disciplina ascetica, e quello secolare che ha le sue radici nella cultura europea del XVII­-XVIII secolo, ma che ha ricevuto sulla terra russa uno slancio particolarmente forte. È l'umanesimo incarnato nella lotta per la giustizia sociale all'epoca di So­lovëv; oggi se ne può riconoscere il suo discendente nel liberalismo occidentale, nella charta dei diritti umani, nel concetto dell'Europa unita. Ma egli fu anche il primo ad avvertire che l'umanesimo che perde le sue radici in Cristo presta subito il suo "volto umano" all'Anticristo che non tarda ad occupare il suo po­sto.

Sì, il conflitto e l'opposizione fra i due campi esiste anche ai nostri giorni e nelle forme non meno acute che ai tempi di Solovëv e i due campi rimangono sempre in guerra ideologica. Solovëv ha percorso la strada verso la riconciliazio­ne non con un compromesso fra idee diverse, ma nella sua personale scoperta di un "altro" Cristo, ancora poco conosciuto. Si può dire che nel Cristo della fede tradizionale, egli ha rivelato il Cristo della coscienza e del dolore di Colui che "assunse la condizione di servo” (cf Fil 2,7) e che si trova sempre davanti al nostro sguardo spirituale, come modello che vive dentro di noi (con questa immagine Solovëv finisce il suo libro I fondamenti spirituali della vita). Ma egli vede lo stesso Cristo anche come principio dinamico della storia (nelle sue Le­zioni sulla Divinoumanità) e noi possiamo indovinare alcuni tratti che saranno sviluppati da Teilhard de Chardin. La rivelazione del Cristo inizia dentro di noi, nella nostra esperienza e nella nostra coscienza e abbraccia tutta la famiglia umana nel suo cammino verso la divino-umanità. Ma nell'ambito dell'essere eterno e divino il Cristo rimane il centro eterno spirituale dell'organismo uni­versale.

Sulla strada del pensiero speculativo Solovëv cercava sempre di costruire questo organismo che più tardi riceverà il nome dell'uni-totalità. Si tratta prima di tutto della sintesi della scienza, della filosofia e della religione. "Tutte le idee, essendosi legate fra di loro, sono partecipi all'idea dell'amore incondizionale che secondo la sua propria natura contiene all'interno di sé tutto l'altro, è l'espres­sione concentrata del tutto come unità" (Lezioni sulla Divinoumanità). Il progetto di Solovëv, che può sembrare utopistico, è di vedere, in questa unità che abbraccia tutto, la dinamica intrinseca dell'amore oppure della rivelazione del Cristo, non soltanto nell'anima umana, ma anche nella storia e nella società. In questo progetto si può riconoscere l'universalismo, ma anche lo spirito sognan­te tipicamente russo che parte dall'idea dell'umanità come un essere unico, come un organismo collettivo, soggetto dello sviluppo storico.

Questo organismo deve avere una conoscenza integrale - Solovëv usa questo termine della filosofia degli slavofili, ma con scopi opposti a quelli di qualsiasi particolarismo nazionale. Egli vuole trovare una sintesi, come dice nella sua pri­ma opera filosofica I fondamenti filosofici della conoscenza integrale, fra "le con­templazioni dell'Oriente e il lavoro speculativo dell'Occidente". Per esempio, sulle tracce di Schelling, Solovëv fa distinzione fra l'essere e l'essente e prende l'essente come l'inizio di ogni essere concreto. L'essere è l'inizio della pluralità, l'essente è l'origine dell'unità di tutto ciò che esiste. L'essente in assoluto porta in sé la forza positiva dell'essere, lo possiede e va chiamato "superessente”. Rifiu­tare il superessente vuol dire negare l'esistenza delle cose e del mondo come tale. Ma questa costruzione si realizza, per il giovane Solovëv, nel tentativo delta te­ologia trinitaria quando egli riferisce l'idea del «superessente" all'ipostasi del Pa­dre che rivela l'essere tramite il Logos o il Figlio, ma tutto l'essere torna all'unità nel Padre nello Spirito Santo. Così nasce il sistema della conoscenza integrale, in cui la speculazione puramente filosofica non può essere staccata dall'intuizio­ne teologica, caso motto caratteristico proprio nel pensiero religioso russo. Le idee di Solovëv cambiano durante tutta la sua vita, ma questa confusione che io preferirei chiamare "riconciliazione" tra i due filoni del suo pensiero, quello ra­zionale e quello intuitivo-mistico, rimane la costante della sua creatività.

Da filosofo (che non ha fatto in tempo a costruire il suo sistema, ma, si può dire, lo portava sempre in sé) Solovëv cercava di trovare la sintesi fra i vari tipi di conoscenza (empirico, mistico, razionale), da uomo di vocazione universalista ha creato il primo grande ponte fra il pensiero russo nella sua ricerca della verità della ragione astratta, basata sulla verità del cuore, e tutta la ricchezza del pensiero occidentale del passato ed anche della sua epoca. Peccato che la filosofia dominante del suo tempo fosse il positivismo, un avversario che non era sempre a livello delle sue ispirazioni. Egli cercava di superare il secolarismo del pensiero positivista e metafisico nell'idea slavofila della conoscenza, che potreb­be abbracciare tutta l'esistenza umana per date la priorità alta "vivente ed auten­tica comunione con l'Assoluto”. Infatti la conoscenza integrale sboccia nella vita integrale che, secondo V. Zenkovsky, è una sorta di “trasformazione dell'idea del Regno di Dio".

Il programma filosofico di Solovëv, cioè sintesi del pensiero occidentale con il pensiero ortodosso, non è ancora realizzato. Solovëv è diventato il precursore e il maestro di una grande scuola di pensatori russi, in cui alcuni hanno apertamente adottato le sue idee. L'opera più grande di P. Serghij Bulgakov si chiama Della divinoumanità. Bulgakov, P. Florenskij, S. e E. Tiubeckoj, L. Karsavin hanno svi­luppato la sua idea di Sofia; Nicola Berdaev ha invece ereditato i temi della crea­zione della vita nuova e dello spirito creatore rivolto alla sinergia con Dio. Semion Frank, un altro grande pensatore russo, purtroppo poco conosciuto in Occidente, può essere chiamato il discepolo di Solovëv in gnoseologia perché ha dato sviluppo alla sua idea della certezza dell'Incomprensibile (da Solovëv "l'idea di Assolu­to") come premessa della nostra conoscenza. Solovëv stesso è diventato come la radice di un grande albero filosofico, i cui frutti non sono ancora stati raccolti per­ché tutte le sue idee sono rimaste come sospese dopo la rottura con la cultura in­tellettuale e spirituale nel 1917. "La filosofia di Solovëv, dice il filosofo contemporaneo S. Chorugij, ha distrutto una barriera che impediva l'espressione del pensiero russo nella sviluppata forma filosofica. Essa ha dato inizio a un grande movimento di pensiero da cui sorge una pleiade di filosofi che svilupparono le sue idee senza riconoscere di esserne discepoli".

Il suo progetto della sintesi dei due tipi di pensiero che, forse, non è più attuale alla lettera, in quanto elaborato nei termini della filosofia del XIX secolo, rimane più che mai attuale nello spirito. La grande sintesi fra le due tradizioni intellettuali rimane un compito che tocca ogni generazione di pensatori religiosi in Russia, perché il loro pensiero porta sempre in sé lo stesso disegno: la costruzione di un sistema, o piuttosto di un'immagine intuitivo-razionale, della conoscenza aperta alla realtà divina, della visione organica dell'universo e della storia sulla base della filosofia occidentale trasformata nell'esperienza spirituale ortodossa o, in altre pa­role, la fonte dei principi astratti nella "conoscenza vivente". Il pensiero russo da Solovëv in poi si rivolge al pensiero occidentale più metafisico (nel caso di Solovëv si tratta prima di tutto di Spinoza e di Schelling) e lo legge a modo suo.

La visione della divino-umanità non ha potuto non includere la ricerca ap­passionata dell'unità cristiana. A parte il caso molto particolare di Caadaev o del principe Gagarin o di Pecerin (questi ultimi nel secolo XIX hanno dovuto lasciare la Russia per diventare religiosi cattolici in Occidente) o alcuni salotti aristocratici di S. Pietroburgo, nessun tipo di ciò che si chiama oggi ecumeni­smo era all'ordine del giorno all'epoca di Solovëv. L'ortodossia e il cattolicesimo si trovavano nella situazione di "guerra fredda" che, a ben guardare, continua anche oggi, nonostante le relazioni reciproche e una sorta di armistizio diplo­matico, sempre molto fragile. Alle soglie del XX secolo non esisteva nemmeno questo. Per poter predicare la sua idea della divino-umanità Solovëv dovette fare una doppia rottura: prima uscire dell'isolazionismo intellettuale dell'intelligencija russa per entrare nell'ambito religioso; quindi uscire dell'isolazionismo spirituale della sua epoca per proclamare l'idea dell'unità cristiana.

Siamo abituati a pensare che, da teologo partigiano dell'unità Solovëv abbia proclamato un grande progetto di unione delle Chiese nella storia alla metà della sua vita e fuori della storia alla fine della vita. Ma questo è solo uno schema. Co­nosciamo la sua proposta di unire il Papa di Roma e l'imperatore russo, cioè il po­tere spirituale con quello temporale. Quando il Papa Leone XIII venne a sapere di questo progetto, esclamò: "Che bell'idea, ma sarebbe un miracolo se fosse rea­lizzata!". Ma "la lettera" di questa bell'idea è sicuramente fuori dal contesto stori­co, invece il suo “spirito” e più vivo che mai.

Rivolgiamoci per un attimo al suo Racconto dell’Anticristo, la sua opera più fa­mosa e conosciuta da tutti, per evidenziare un altro momento di cui Solovëv par­la, questa volta in modo allegorico. Egli racconta una bella storia sulla fine del mondo di cui sappiamo solo ciò che al detto nel Vangelo. Questa parabola serve non per rimandare l'incontro e l'unione delle Chiese, o delle tre grandi confessio­ni, fuori dal mondo e dalla storia umana, ma al contrario, per rendere questa unione più vicina e dentro la storia, per ricordarci che non occorre attendere l'An­ticristo in persona per trovarci in una sola Chiesa, ma dobbiamo assumere questa unione come un compito che non si può rimandare all'infinito, perché l'apoca­lisse nella spiritualità ortodossa è un avvenimento interiore. Il Racconto di Solovëv è rivolto prima di tutto agli Ortodossi, perché la figura dell'Anticristo rimane sempre attuale nella loro cultura e nella mentalità della Chiesa Orientale.

Questa figura ha in Russia una storia molto lunga. La paura dell'Anticristo, che è già venuto per distruggere la vera fede, fa una delle cause dello scisma del XVII secolo; qualche anno prima del Racconto, Constantin Leontiev, un altro brillante pensatore e intransigente oppositore di Solovëv, fece la profezia che sarà proprio la Russia che perde la fede a far nascere l'Anticristo. Il senso lette­rale del Racconto è forse opposto alla credenza dei "vecchi credenti" e di Leon­tiev, come a quella delle sette apocalittiche, ma lo spirito è lo stesso: quando la vera fede è "danneggiata", come dicevano i rascolniki, la minaccia dell'Anticri­sto diventa più attuale, poiché lui è già alle nostre porte. Ma per Solovëv la fede è danneggiata proprio dalla divisione, perciò l'unione delle Chiese non si fa per addizione di una Chiesa ad un'altra, ma per il riconoscimento reciproco fra tut­te le tradizioni apostoliche in un'unica Chiesa che, secondo lui, non è stata mai divisa nella sua essenza, nella sua origine in Cristo.

Il Racconto dell’Anticristo ha avuto una continuazione che non è ancora finita. Come è noto, nelle Tre conversazioni (il Racconto fa parte di questa opera) Solovëv ha apertamente polemizzato contro la dottrina di Tolstoj, contro il cosiddetto "tolstoismo", perché il suo Anticristo è "buono e geniale", è un gran benefattore, un amico dell'umanità. Dopo la rivoluzione, nella raccolta degli articoli dei filo­sofi russi sotto il titolo De profundis, Berdjaev, che in un certo senso è uscito dalla scuola solovioviana, nel suo saggio Gli spiriti della rivoluzione russa, ha dichiarato colpevole il moralismo tolstoiano per la follia della rivoluzione effettuata in nome del "bene dell'Anticristo". Qualche anno dopo, G. Fedotov, altro spirito brillante della cultura russa, nel suo articolo sull'Anticristo, scritto durante il periodo dell'emigrazione, contro Solovëv e contro Berdjaev, difendeva un'altra tesi: il bene dell'Anticristo è un bene-miraggio, un bene finto, un male che porta la ma­schera della beneficenza. L'esperienza della nostra epoca, soprattutto l'esperienza russa, potrebbe aggiungere che il bene dell'Anticristo è un bene puramente ideo­logico, il bene che esiste solo a parole e che fa sempre male nella realtà.

Il secolo XX, che può considerare Solovëv il suo vate, è diventato una grande fabbrica della falsificazione del bene e l'idea o l'immagine dell'Anticristo è così attuale come nel secolo XVII, all'epoca dello scisma dei vecchi credenti.

Anche ai nostri giorni nella cultura e pietà ortodossa c’è una reazione molto for­te e a volte un po' nevrotica contro l'Anticristo venuto dall'Occidente sotto la ma­schera del bene del liberalismo, permissivismo, capitalismo con i suoi numeri del codice fiscale che contiene la cifra apocalittica 666. Il Racconto di Solovëv continua, anzi include altri argomenti e riceve nuovi stimoli, ma il suo soggetto è il tema per­manente della storia russa, quella di ieri, quella di oggi, e molto probabilmente an­che quella di domani. Il problema formulato e a suo modo risolto da Solovëv è il seguente: il bene, o in altre parole tutta l'eredità dell'umanesimo secolare, staccato da Cristo, è condannato subito a diventare l'eredità dell'Anticristo; oppure il bene può essere autonomo, può servire l'uomo senza Cristo, può diventare "degno e giusto" anche nell'ambito secolare, privato della fede vera e salvifica?

Direi che questa domanda è tipicamente orientale, perché per l'Occidente di oggi il problema semplicemente non esiste. Chi, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, metterà in dubbio il valore in sé della democrazia, dei diritti uma­ni o della libertà di parola? La libertà come tale, cristiana o meno, è fuori discus­sione, mentre il dibattito ortodosso, che continua anche oggi, e soprattutto oggi, nell'epoca del liberalismo decaduto e peccaminoso, che è venuto per sostituire l'impero dell'Anticristo dell'utopia, fa sempre la stessa domanda quasi soloviovia­na: la libertà è il dono più avvelenato dello stesso nemico della nostra salvezza o il più difficile dono del Cristo? Questa era anche la domanda di Dostoevskij che è tornata ai nostri giorni con le profezie di Solovëv, con la polemica di Leontiev, di Berdjaev, di Fedotov fino ai pubblicisti dei nostri giorni.

La maggior parte dei lettori forse non si è accorta che il vero protagonista del Racconto non è l'Anticristo, che a me sembra una figura un po' schematica, ma proprio il Cristo, il Cristo vivo e confessato, presente nella fede dei tre grandi rappresentanti delle Chiese divise. Solovëv aveva un reale e profondo senso del Cristo durante tutta la sua attività ed egli è riuscito ad esprimere questo senso nella fede del Papa Pietro II, dello “starets" Giovanni e del professore protestan­te Pauli. Ma non è questo il punto più importante: il Racconto dell’Anticristo ci fornisce la testimonianza del suo personale incontro con Cristo, Messia e Sal­vatore, Colui che è, che era e che viene, secondo le parole dell'Apocalisse (1,4) e che era anche presente durante tutto il suo cammino. Il vero messaggio di Solovëv è il ritorno di Cristo e l'annuncio che l'umanità, per diventare divino-umanità, deve stare in guardia.

Da questo senso del Cristo apocalittico che è lo stesso Cristo storico, deriva anche “la conversione" di Solovëv a ciò che ai nostri giorni si chiama il dialogo con l'ebraismo. Si deve, a mio avviso, parlare proprio della conversione, come di un avvenimento spirituale nuovo, coraggioso e straordinario nella sua epoca. Non si tratta solo della difesa della popolazione ebrea della Russia dall'antise­mitismo, che cominciò a crescere proprio all'epoca di Alessandro III, perché la difesa dei perseguitati era come una sorta di obbligo morale per l'intelligencija russa. Ma Solovëv pone questo problema in altro modo. "Se i giudei, dice nel suo articolo Giudaismo e la questione cristiana, trattavano sempre i cristiani se­condo i principi della loro fede, i cristiani non hanno mai imparato a trattare i giudei nel modo cristiano. Perciò non esiste il problema ebreo, esiste solo il pro­blema cristiano" e la soluzione di questo problema è la conversione dei cristiani alla loro propria fede. Allora, secondo la profezia di Solovëv, gli ebrei entreran­no nella teocrazia cristiana quando i cristiani saranno uniti e così, secondo le parole di san Paolo, "tutto Israele sarà salvato" (Rm 11,26).

Si tratta non soltanto del dialogo sui “buoni rapporti", ma proprio dell'incontro religioso, dell'apertura dell'anima al confronto con tutto il patrimonio e il mistero dell'Antico Testamento. "Il trattato di Dio con Israele costituisce l'essenza della religione ebraica", dice Solovëv, un avvenimento unico nella storia religiosa dell'umanità. Il senso della storia d'Israele è la preparazione delle ani­me sante e dei corpi santi per l'incarnazione della Parola di Dio, ma questa sto­ria non può essere ridotta solo alla preparazione. Solovëv prevede la riconciliazione finale e cristiana tra il popolo d'Israele, fedele al Dio uno, e la Chiesa unita. Per questo motivo nella Russia di oggi Solovëv rimane il precur­sore del dialogo della riconciliazione che non è ancora iniziato. Il suo inizio ap­partiene, forse, al secolo futuro. Non si può dimenticare la tonalità profetica della sua morte prematura, con i Salmi recitati in ebraico negli ultimi momenti della sua vita.

ma il cen­tro della sua enorme attività intellettuale e del suo sforzo spirituale rimane sem­pre la visione, l'utopia, la costruzione o la profezia dell'unità e della riconciliazione delle cose e delle idee che sembrano più lontane. Il nucleo del suo messaggio è sempre l'incontro nel Cristo e col Cristo.

Da metafisico, Solovëv crea una grande sintesi fra la conoscenza integrale, la conoscenza che parte dal cuore che vive nella Parola di Dio, e tutta l'eredità del pensiero occidentale.

Da pensatore politico, Solovëv propone un progetto della società organica nel senso slavofilo e libero nel senso moderno ed attuale, ma fedele al Vangelo.

Da mistico, Solovëv costruisce il ponte fra la vita più intima della sua anima, ricercatrice della Sapienza di Dio, e la sua dottrina sofiologica, imbevuta dalla visione della bellezza del creato.

Da poeta, Solovëv si rivela a noi nel suo universo "notturno", che sembra così diverso dalla sua attività "diurna», rivolta alla Giustificazione del Bene nel pensiero speculativo e nella società, ma il "giorno" e la «notte" della sua anima riflettono lo stesso cielo, illuminato, come dice il suo verso, dal “Sole dell'amore”.

Da uomo del dialogo, Solovëv ha fatto il primo e grande passo intrinsecamente cristiano verso la riconciliazione con i giudei e anche con i musulmani.

Da portatore di pace, Solovëv prevede non soltanto la tanto sperata unità delle Chiese, ma anche la vittoria e il ritorno del Cristo, il mondo in cui "Dio sarà tutto in tutto".

Per tutte queste strade il pensatore russo si è mostrato il precursore che è ve­nuto per il suo paese prima del suo tempo, che fu e rimane ancora il tempo della divisione. Il secolo in cui si manifesterà la riconciliazione in Cristo, sarà anche il secolo del ritorno dei suoi profeti e dei suoi poeti e uno dei primi sarà il "pel­legrino" Vladimir Solovëv.



Pubblicato in Chiese Cristiane
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La Chiesa ortodossa russa e la sfida missionaria

Fedeli alla tradizione, audaci verso il mondo

di Adalberto Mainardi *

Dopo l’esperienza tragica dell’ateismo di Stato, nuove opportunità si aprono per l’annuncio del Vangelo. Ma come testimoniare la comune passione per Cristo senza tradire il cammino verso l’unità?

«La fonte del Vangelo si è gonfiata d’acqua e ha ricoperto la terra, dilagando fino a noi»: all’alba della storia della Rus’ cristiana, Ilarion di Kiev (XI secolo) guarda con stupore alla corsa del Vangelo che giunge al popolo dei «russi», e vede già aprirsi gli «ultimi tempi».

Mille anni dopo, la Federazione russa è la più estesa formazione geopolitica del globo terracqueo, e con i suoi 143 milioni di abitanti forma un composito mosaico di etnie, credi e religioni; dopo la drammatica esperienza dell’ateismo di Stato, la Chiesa ortodossa russa è tornata a essere un punto di riferimento per la ricostruzione morale del Paese. Quali sono oggi le sfide per la Chiesa russa? Quale il linguaggio per annunciare il Vangelo in una società ancora segnata da una transizione incerta, da nuovi conflitti tra culture e religioni? E soprattutto, come le Chiese possono vivere questo annuncio senza contraddire il cammino comune verso l’unità?

Sono tutte domande a cui si è cercata una risposta al XIV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (14-20 settembre 2006), organizzato dal Monastero di Bose con il Patriarcato di Costantinopoli, il Patriarcato di Mosca e la partecipazione di autorevoli rappresentanti delle diverse Chiese ortodosse, della Riforma e della Chiesa cattolica. La seconda sessione del Convegno era infatti dedicata alle «Missioni della Chiesa ortodossa russa» negli immensi spazi del Nord e della Siberia, fino alla Cina, al Giappone e all’Alaska. Quello che sembrava un cristianesimo perfettamente inculturato, ma anche chiuso nella sua forma bizantino-slava, si è rivelato capace di un’esperienza attualissima di ascolto della ricerca di Dio che abita ogni uomo e ogni cultura. «Fino a poco tempo fa», osservava Alexander Schmemann, il grande teologo russo emigrato negli Stati Uniti, «in Occidente era opinione diffusa che il movimento missionario fosse passato a fianco del cristianesimo “statico” dell’Est senza esercitare alcun influsso». Un pregiudizio che il convegno di Bose aiuta a superare.

È in epoca moderna che le esplorazioni nel lontano Oriente mettono a contatto la Russia ortodossa con le popolazioni nomadi dell’Asia centrale, della Siberia, fino agli indigeni della Kamcatka (korjaki, itelmeni, cutkci), dell’Alaska. Se l’equazione tra Stato russo e ortodossia (un’ortodossia che Pietro il Grande aveva completamente asservito allo Stato) trasforma spesso la missione cristiana in uno strumento al servizio della colonizzazione, la storia dei santi missionari russi offre un modello alternativo di incontro tra popoli e culture.

L’archimandrita Spiridone, missionario in Siberia all’inizio del Novecento, avvertiva acutamente l’inconciliabilità tra l’annuncio del Vangelo ai poveri e una predicazione che spesso finiva per essere un momento della russificazione. Nel suo diario annotava la risposta di un Lama: «Se i cristiani credessero e vivessero così come il Cristo ha insegnato, non sarebbe più necessario che predicassero, perché la realtà è più forte delle parole». È inevitabile che gli evangelizzatori siano anche portatori di una determinata cultura; ma l’Evangelo - che è Gesù Cristo - trascende ogni inculturazione, rimane un’istanza di purificazione e rinnovamento in ogni cultura, la apre all’incontro con l’altro.

È proprio questa trascendenza del Vangelo, questa rinnovata apertura delle tradizioni alla novità dell’annuncio cristiano, che ritroviamo nell’esperienza missionaria dei monaci, i primi evangelizzatori delle terre russe: nel XIV secolo Stefano di Perm’ inventa un alfabeto, traduce la Bibbia e la liturgia per le popolazioni zyriane del Nord; tra XVIII e XIX secolo, l’eremita German incarna l’ideale di Cristo tra gli indiani aleuti dell’Alaska; l’archimandrita Makarij (Glucharev) traduce la Bibbia in lingua altaica per le tribù dell’Altaj e contemporaneamente (per la prima volta!) in russo… Il metropolita Innokentij Veniaminov traduce il Padre nostro per gli indiani di Unalaska chiedendo «il nostro pesce quotidiano». Senza utilizzare il termine, i santi missionari russi praticano un’inculturazione del Vangelo capace di diventare dialogo tra le culture, seme di una nuova creazione.

Ma qual è il valore per l’oggi di questa esperienza? Per la Chiesa ortodossa russa la risposta a questo interrogativo sta nella difficile ricerca di un equilibrio tra fedeltà alla tradizione e audacia evangelica di fronte alle nuove sfide.

In una società civile ideologicamente disorientata, disillusa dall’Occidente e a volte attratta dal ritorno del mito autoritario, l’ortodossia rappresenta in Russia un ideale positivo per la ricostruzione di un’identità nazionale e culturale. Se tuttavia la percentuale di quanti si dichiarano ortodossi tocca il 70-80 per cento, analisi sociologiche più dettagliate mostrano che solo il 10 per cento crede alla resurrezione dei morti, e un numero ancora inferiore frequenta regolarmente la chiesa (2 per cento).

Secondo l’arcivescovo Ioann, presidente del Dipartimento missionario del Patriarcato di Mosca e presente al convegno di Bose, uno dei compiti primari della missione è non solo «il lavoro missionario con coloro che cercano Dio, ma anche con coloro che, pur essendo già battezzati, non hanno ricevuto un adeguato insegnamento sui fondamenti della fede e della vita cristiana». Nel mondo contemporaneo, ha proseguito l’arcivescovo, «dove i processi di globalizzazione, la frammentazione sociale, le turbolente migrazioni di massa sono accompagnati dalla pressione della violenza, dell’estremismo e delle tensioni etniche e confessionali, la testimonianza e l’annuncio della riconciliazione è divenuto uno dei fondamenti cruciali della missione ortodossa». È perciò essenziale saper attingere dal Vangelo la creatività necessaria a una nuova inculturazione.

In questo senso è sintomatico che l’identificazione tra ciò che è russo e ciò che è ortodosso, oggi volentieri propagandata dai mass media in Russia, provoca simmetricamente il rigetto dell’ortodossia nelle popolazioni non russe delle Repubbliche centroasiatiche o siberiane, che dopo l’ateismo sovietico ritornano al paganesimo (o all’islam) quale elemento fondante della cultura autoctona.

Questo quadro aiuta anche a comprendere meglio le tensioni sorte tra Chiesa ortodossa russa e Chiesa cattolica sul tema dell’evangelizzazione. La graduale ripresa dell’attività pastorale della Chiesa cattolica in Russia negli anni Novanta ha infatti coinciso paradossalmente con un raffreddamento delle relazioni con la Chiesa ortodossa. Il Patriarcato di Mosca in più occasioni si è ufficialmente lamentato che gruppi cattolici, nel contesto di un rinnovato impegno nell’evangelizzazione, agissero in modo poco rispettoso verso la millenaria tradizione ortodossa russa, fino a forme di proselitismo che contraddicevano l’ecclesiologia di «Chiese sorelle» proclamata dal Concilio Vaticano II. Il Patriarcato si è sovente richiamato alle direttive della commissione pontificia Pro Russia (1992), che chiede ai cattolici «una reale sollecitudine verso i loro fratelli ortodossi» per «preparare con loro l’unità voluta da Cristo». Concretamente, questa sollecitudine avrebbe dovuto tradursi in un costante coordinamento di ogni iniziativa caritativa e missionaria con i vescovi ortodossi locali. «L’attività della Chiesa cattolica in territori profondamente segnati dalla presenza della tradizione ortodossa» deve infatti esercitarsi «secondo modalità sostanzialmente diverse da quelle della missione ad gentes».

Occorre inoltre tener presente il fenomeno delle sètte straniere (Moon, Aum Shinri-kyo, Sri Chinmoy, Scientology e altre ancora), presenti in modo massiccio in Russia dai primi anni Novanta. Questa situazione fluida e spesso confusa ha condotto nel 1997 - per la pressione di nazionalisti e comunisti - a una nuova legge «sulla libertà di coscienza», che di fatto impedisce l’attività missionaria degli stranieri e priva di riconoscimento giuridico le associazioni religiose esistenti da meno di quindici anni. Se le conseguenze più restrittive della legge, spesso in contrasto con la Costituzione, sarebbero state sostanzialmente ridimensionate dai decreti attuativi, l’idea stessa di una «testimonianza comune» dei cristiani era però compromessa. Presso gli ortodossi riprendevano forza gli antichi pregiudizi anticattolici, mentre autorevoli esponenti della Chiesa cattolica ritenevano del tutto incompatibili evangelizzazione ed ecumenismo.

Le relazioni tra le due Chiese si sono ulteriormente raffreddate quando Giovanni Paolo II, nel gennaio 2002, ha eretto in diocesi le Amministrazioni apostoliche nella Federazione russa, con sede a Mosca, Saratov, Novosibirsk e Irkutsk, in un contesto ecumenico deteriorato dalle irrisolte tensioni tra greco-cattolici e ortodossi in Ucraina. Nel 2004, dopo la visita del cardinal Walter Kasper al patriarca di Mosca Alessio II, è stata istituita una commissione mista cattolico-ortodossa per valutare i singoli episodi che potessero essere interpretati come proselitismo di una Chiesa nei confronti dell’altra.

Non sembrano esserci soluzioni immediate o a basso prezzo a questa dolorosa incomprensione. L’unica via per un rinnovato incontro nella carità e nella verità è quella di una comune conversione al Vangelo. Solo allora sarà possibile anche una missione non soltanto spoglia di ogni spirito di proselitismo, ma anche di quella competizione che non è evangelica, perché umilia e non riconosce la qualità ecclesiale di una Chiesa sorella.

«Oggi ci troviamo a uno spartiacque, all’inizio di una nuova epoca», ha detto a Bose padre Georgij Kocetkov, rettore dell’Istituto ortodosso cristiano San Filaret di Mosca: occorre «saper rinnovare ogni cosa, lasciare che il Signore faccia ogni cosa nuova (Ap 21,5)». Proprio in questo senso il metropolita Anthony (Bloom), recentemente scomparso, parlava di missione: «Dobbiamo riscoprire il nostro essere missione in modo nuovo: non dobbiamo metterci nella condizione di insegnare agli altri uomini, ma noi stessi dobbiamo diventare altri, diventare uomini nuovi. Così che la gente, guardando a noi, cominci a interrogarsi, a chiederci conto della speranza che vede in noi». Se i cristiani cominceranno a mettere in pratica il Vangelo gli uni verso gli altri - prima di ogni antagonismo reciproco - il Vangelo stesso susciterà la novità capace di attrarre ogni uomo, ogni cultura.

* monaco di Bose

(da Mondo e Missione, Gennaio 2007)

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La risurrezione di Cristo,
fonte di ogni nostra speranza
di Vladimir Zelinskij




Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la vostra predicazione « ed è vana la vostra fede», dice san Paolo. Non lascia lo spazio al vago e passeggero “senso religioso” che dice che «Dio è nell’anima» e non importa, se ci sia, cosa faccia fuori. Sembra che l’apostolo voglia sottomettere l’impalpabile “tessuto” del credere alla logica aristotelica che esclude la terza via. Non è la logica a essere in gioco, però. Non si tratta di un evento esterno a noi, di un dogma imposto, di un articolo del Credo che siamo costretti a fare nostro.

Il messaggio di Paolo può essere letto diversamente: ogni esistenza umana porta dentro di sé il suo fuoco segreto, un nucleo nascosto che si chiama speranza. E’ la fede che dà alla speranza la gioia di crescere nella fiducia in Dio che, nato da uomo, morto da uomo, sia anche resuscitato da uomo. La fede nella risurrezione è il linguaggio della speranza inespugnabile e irriflessiva, messa in noi, che ci parla della vita del «mondo che verrà». Se Cristo non fosse risuscitato, ogni speranza sarebbe una fantasia, un inutile slancio d’animo, l’evidenza della decomposizione generale sarebbe più forte di quella voce pazza dentro di noi che grida, come Giobbe: «Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso» (19,27).

La speranza dice che si può gridare senza paura, senza cercare le parole corrette e bilanciate perché la notizia della risurrezione porta la promessa folle in cui “io” trovo me stesso solo nell’incontro con il Risorto. La mia vera personalità si rivela solo nella sua rivelazione. Essa tocca me come grano di sabbia nella terra deserta che un giorno, secondo le Scritture, diventerà di nuovo il giardino dell’Eden, come ossa secche che si ricopriranno dalla carne viva nella profezia di Ezechiele.

La promessa s’accende con la Luce che illumina ogni uomo, con la Parola che entra e s’incarna nel nostro cuore, col Volto che ci guarda negli occhi. Quella promessa è la radice di ogni fede cristiana, ma anche il suo “segno di contraddizione”, perché la speranza può parlare con toni diversi. Nell’Ortodossia il suo modo di esprimersi è piuttosto paradossale: Dio è più vicino a noi di quanto lo siamo noi stessi, ma per raggiungerlo ci manca tutta la vita; il Regno è gratuito, è dato a tutti, ma - come dice Gesù nel Vangelo di Matteo - solo «i violenti se ne impadroniscono» (11,12); la promessa è eredità di ciascuno di noi, ma bisogna combattere per acquistarla nel proprio spirito.

L’attesa troppo sicura, quando la salvezza ti arriva come il premio per essere concepito, non è quella che non delude. Il vero messaggio della risurrezione inizia con la follia e la lotta per quella vita che ci fu promessa e che dobbiamo scoprire con «l’amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori».

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Il cuore materno dell'Ortodossia
Una piccola introduzione al culto mariano
di Vladimir Zelinskij



I volti di Maria

"Il cuore dell'ortodossia (soprattutto dell'ortodossia russa), forse, non si è mai espresso così pienamente, come nella venerazione della Madre di Dio e dei santi", dice il filosofo del XX secolo Vladimir Iliyn. "Tutta la nostalgia dell'umanità sofferente che non ha l'audacia di aprire il proprio animo davanti a Cristo per il timore di Dio, - fa eco un altro grande pensatore, Georgij Fedotov, - liberamente e con amore si versa sulla Madre di Dio. Assunta nel ramo divino fino alla dissoluzione con l'Altissimo, lei rimane, a differenza di Cristo, legata con il mondo umano, una madre compassionevole e protettrice".

Il volto ortodosso di Maria ha tante immagini che si trovano in una permanente correlazione. La Sua presenza riempie tutta la vita liturgica della Chiesa, ma anche la devozione personale dei fedeli. Sono davvero innumerevoli le espressioni della pietà mariana nell’anima ortodossa che con tante sfaccettature e sfumature portano verso lo stesso mistero: l’Incarnazione del Figlio di Dio. La Madre rivela che il senso del Verbo che si è fatto carne è davvero inesauribile e Lei fa vedere nella Sua persona la santità della carne della Creazione. La radice della venerazione di Maria è centrata nella fede e nell'amore verso il Suo Figlio, "la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (Gv.1,9), ma in mezzo agli uomini la luce assume la sostanza "materiale" di questo mondo. E la sua prima "materia" è stata la carne di sua Madre, piena dello Spirito. La luce di Cristo arriva come mistero insondabile, come Buona Notizia, come Volto di Cristo tornato a noi, ma anche come purezza della Vergine, tenerezza e protezione della Madre, Sua intercessione ed amore. Tutte queste sono le "sostanze" della Parola (o "impronte" dello Spirito) che entrano nell'anima e nel senso primordiale si fanno carne nell'anima come nella Chiesa.

“La maternità di Dio”

Maria è sempre presente accanto a Gesù ed illumina ciò che il grande teologo russo S. Bulgakov chiamò “la maternità di Dio”. La rivelazione della maternità di Dio è un altro volto dell’amore di Dio. Maria è come “il canale” privilegiato dell’amore che sgorga sugli uomini. Perciò il fiume della lode e della gratitudine nei confronti di Maria non si esaurisce, anzi, con il tempo trova espressioni sempre nuove; di volta in volta si fa più ricco, più abbondante. Così i nomi delle icone esprimono a modo loro le varie sfaccettature dell’amore di Dio che parla attraverso la Vergine-Madre. Sembra che questi nomi cerchino di indovinare il Suo segreto : "La gioia inaspettata", "La ricerca dei perduti", "La Sollecitatrice per i peccatori", "Il fiume divino d'acqua viva"; “Odighitria” (Colei che guida), “Orante” (Colei che prega), “La Regina dei cieli”... e cosi via. La “fonte vivificante" delle immagini e delle parole nate in seno della fede ortodossa rivela il rapporto intimo con Dio che prende origine nella parola della Scrittura e ci porta altre immagini, che da secoli sono legate indissolubilmente con profezia a Maria : "il paradiso terrestre" (Gn 2,8-10), "il roveto ardente" (Es 3,1-8), "l’acqua dalla roccia" (Es 17,5-7) e tante altre. La fede ortodossa riconosce la Sua presenza ovunque il mistero del Dio Vivente e Misericordioso ci avvicina veramente.

Nella più profonda vita con Dio c'è un rapporto segreto fra il Figlio e la Madre, fra la Parola ed il silenzio, fra la fede fissata e conservata nelle formule conciliari ed il mistero, nascosto nella fonte stessa della fede. Dalla Parola andiamo al silenzio, da Cristo a Maria, dalla Chiesa all'anima e torniamo indietro perché lo Spirito della verità unisce queste realtà in sé come qualche cosa di inseparabile, ma anche di distinto. Il Padre stesso manda il Suo Spirito "che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori" (Ef.3,17) e Gesù diventa concepito nei nostri cuori per mezzo della maternità di Maria. In Maria ogni cuore che "vive mediante la fede" (Rom 1,17) diventa madre e dimora della Parola.

Come dice San Massimo il Confessore: "Ogni anima che crede, concepisce e partorisce il Verbo di Dio, secondo la fede. Il Cristo è il frutto e noi tutti, siamo madri del Cristo".

La gioia del creato

Tutti i credenti hanno Maria come Madre e Cristo come fratello, ma questa maternità e questa fratellanza si aprono nella rivelazione dello Spirito Santo. É lo Spirito che fa vedere anche il miracolo della creazione nella figura umana di Maria.

"In Te gioisce, Colmata di grazia, tutto il creato, la compagine degli Angeli e la progenie degli uomini, o Tempio santificato e Paradiso razionale..." (Liturgia di San Basilio). Nel pensiero liturgico Maria è vista anche come incarnazione della gioia del creato. Ella porta sempre nella Sua memoria il momento eterno quando la creazione fu proclamata dalle labbra del Signore: "la cosa buona" - e il peccato non ancora l'aveva toccata. In Maria tutto il creato si ricapitola, torna alla sua bontà iniziale, sapienziale, quella dello Spirito. In Lei il mondo appare trasfigurato.

Perciò, oltre la preghiera, una delle espressioni principali della sapienza della fede è quella dell'icona. L'icona è l'autentica voce di Maria, l'immagine di ciò che è stato veramente visto e vissuto dalla Chiesa. L'icona è un ricordo escatologico di quel Regno che Dio ci ha preparato, di quelle cose “che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo...” (1 Cor. 2,9). Queste cose si scoprono con amore e l'icona cerca di vederle. L'icona in sostanza deve divenire il luogo visibile dell’abitazione dello Spirito che entra nel cuore degli uomini. Pregare con le icone vuol dire entrare in dialogo interiore con l’immagine - nel nostro caso quella della Madre di Dio. In altre parole: con il Verbo che parla tramite il Suo silenzio, con lo Spirito che si manifesta nel volto umano. E quel volto lascia il proprio sigillo nell’esistenza di colui che entra in rapporto con Dio.

L'icona è una "teofania" che procede dalla fonte sempre nascosta della fede; essa rende testimonianza di questa fonte con la luce che essa risveglia in noi e con la quale caccia "la tristezza dei peccati". La vera immagine di Maria è quella che fa scoprire il “progetto” di Dio su di noi. Quel “progetto" è di creare un uomo aperto a Dio, trasparente per Lui stesso, un "essere deificato" - e si realizza nella santità.

Il modello della santità

La santità nella visione ortodossa, se cerchiamo di esprimerla con la formula trinitaria, è anzitutto l'adozione nel Padre, la vita in Cristo, l'acquisizione dello Spirito Santo, ma anche la parentela con la Santa Vergine.

Uno che era davvero "carne della propria Madre", fu San Serafino di Sarov, uno dei più grandi mistici e santi russi. La figura di San Serafino porta in sé il suo segreto teologico. Egli conosceva non per sentito dire la presenza e la protezione di Maria: tante volte durante la sua vita, Ella stessa, circondata da molti santi, entrava nella sua cella (fatto attestato da molti testimoni oculari), per parlare con lui o per guarirlo. In ogni momento della sua vita Ella gli era sempre vicino.

In San Serafino dire "vita" equivaleva dire "la preghiera". La sua preghiera fu sempre "triadecentrica" e, secondo la tradizione ortodossa, con moltissime invocazioni mariane. San Serafino pregava il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma sempre davanti ad un'immagine della Madre, come se Ella dovesse portare la sua preghiera alla Santissima Trinità, come se Lei fosse mediatrice della sua supplica. Egli ha pregato per anni davanti alla sola icona chiamata "tenerezza" ("u m i l e n i e" - La Vergine con le mani conserte, con gli occhi abbassati e senza il Bambino divino) e davanti ad essa morì. Un giorno la Madre di Dio apparve a Serafino in compagnia di San Giovanni Teologo e di altri santi. Rivolgendosi all'Evangelista definì il santo monaco come uno "della nostra razza" (o della nostra stirpe). La stirpe dei santi e della Madre di Dio era quella dello Spirito. Perciò tutti i doni dello Spirito - e per primo quello della fede -, sono portati o piuttosto "riempiti" da Maria, soprattutto nella vita dei santi.

Non si può neanche contare tutte le apparizioni di Maria ai santi, tutti i miracoli legati alle sue immagini nella storia della Chiesa ortodossa. A volte queste immagini nascono da un miracolo, come la salvezza inaspettata da un pericolo imminente. Le icone miracolose, quelle di Vladimir, di Kazan, di Pociaev, di Tichvin (solo in Russia si trovano qualche centinaia d'icone miracolose), tutte esprimono - in modo ogni volta diverso - il "messaggio" dell’intercessione, il segno della protezione, il mistero della mediazione.

La protezione

"La protezione", in russo "Pokrov", non è soltanto la memoria di un miracolo accaduto una volta, ma è la protezione materna - la quale fa parte della fede stessa che ci mette davanti l'occhio di Dio. Come tutte le feste, essa si ricollega ad un avvenimento mistico e storico: l'apparizione della Madre di Dio nella chiesa di Blacherne, nella Costantinopoli del X secolo. Accompagnata da una nutrita schiera di santi guidati da Giovanni Battista, Maria sarebbe stata vista da un "folle in Cristo", Andrea, e dal suo compagno Ephraim. Sollevato il suo velo (Pokrov), l'avrebbe poi disteso sui due uomini e sulla città di Costantinopoli in segno della protezione contro un attacco imminente delle nave nemiche.

L'idea della protezione è particolare nell'anima dell'ortodossia russa. Fra tutte le feste mariane (la Natività della Madre di Dio, l’Ingresso nel Tempio, L'Annunciazione, la Dormizione) anche dogmaticamente più importanti, "Pokrov" rimane una delle più amate. Nella maggior parte della Russia del Nord il "Pokrov", festeggiato il 14 ottobre (1 ott. secondo il calendario giuliano) coincide spesso con la prima nevicata. La terra si copre di un lenzuolo bianco. La bianchezza del manto di neve è come icona della purezza, dell'Immacolata. Ma nello stesso tempo l'arrivo dell'inverno cela in sè una vaga angoscia: il freddo, la fame (il contadino russo doveva sempre pensare a come sopravvivere durante l'inverno). E questa angoscia si fonde con l’immagine della purezza e insieme danno origine ad una terza immagine, quella della morte. La neve è come negazione della vita precedente, un'altra vita nella prova. Ma il mistero della protezione è ancora più profondo, e la logica razionale non può esprimerlo che con il paradosso. Una delle preghiere mariane più amate nella Chiesa ortodossa, che il popolo canta spesso spontaneamente dopo il vespro, quando l'ufficio è finito, contiene la confessione: "Non abbiamo un altro aiuto, non abbiamo un'altra speranza oltre Te, la nostra Signora, speriamo in Te, lodiamo Te, siamo i tuoi servitori e non ne abbiamo vergogna." Unico aiuto, unica speranza? Si può chiedere: ma dov'è il Cristo? Il Cristo è visto in Maria e Maria appare nel Cristo, senza confusione e senza divisione, nello stesso mistero della salvezza.

L’Eucarestia ed il tempo liturgico

Il mistero della protezione non si spiega, ma si chiarisce in un altro, quello dell'Eucaristia. La comunione con il Figlio nello Spirito Santo è rivolta a Dio-Padre e si svolge nella memoria e nel cuore di Maria, in cui l'unione perfetta con Dio, fu e rimane pienamente realizzata. Come dice la preghiera: "Facendo memoria della Tuttasanta, intemerata, più che benedetta, gloriosa Sovrana nostra Deipara e Semprevergine Maria insieme con tutti i santi, noi stessi e gli uni gli altri e tutta la nostra vita a Cristo Dio affidiamo".

Gli ortodossi affidano a Maria anche il tempo della Chiesa con i suoi confini ben delineati. Quel tempo serve (diciamo con le parole di Platone) come "immagine mobile dell'eternità". É Maria che apre la finestra all’eternità condensata nella storia del Dio-uomo. Lei è l’accompagnatrice alla salvezza, perciò ogni preghiera indirizzata a Dio si rivolge anche a Maria, come se fosse Lei a fare sempre la mediazione di questa preghiera - che a volte può dire cose che il fedele non ha il coraggio di confessare al suo Giudice e Salvatore. Per questo motivo le preghiere, che dogmaticamente possono essere rivolte solo al Cristo, vanno spesso a Maria. In generale nell’ortodossia il linguaggio del cuore è più eloquente, più impegnativo di quello della ragione e la preghiera liturgica si azzarda spesso a pronunciare cose su cui la dogmatica tace o si esprime in modo un po' diverso o più discreto. Questa piccola "divergenza" non è mai proclamata come principio, ma è vissuta proprio nel foro interno dell'esperienza spirituale e dà spazio al mistero mariano.

L'anno liturgico che inizia il primo settembre si apre con la prima festa mariana, quella della nascita della Madre di Dio (celebrata l’8 settembre) e finisce con la festa della Dormizione (il 15 agosto). Fra queste due feste passa tutta la storia della nascita, della vita terrestre, della Passione e della Risurrezione di Gesù Cristo. Liturgicamente tutto il tempo della Chiesa ortodossa ed il dramma della Redenzione si svolgono nell'ambito mariano creato dalle feste, dalle preghiere e dalle immagini. La preghiera e l'immagine sono i due modi umani per creare il mondo dove Dio manifesta la Sua presenza all'uomo, il tempio dell'incontro in cui il mistero dell'Incarnazione continua a vivere nella moltitudine delle sue dimore umane.

“Dimora santa”, porta della salvezza

Fra di esse Maria è vista sempre come prima immagine dell'ineffabile presenza di Dio, l'abitazione splendida della divina Trinità:

"Vergine pura, - dice un inno bizantino, - noi ti esaltiamo con cantici, quale castissima dimora del Verbo, ricettacolo dello Spirito Santo e oggetto della compiacenza del Padre: per tuo mezzo, infatti, avvenne il contratto della nostra salvezza".

Questa dimora è anche un luogo dove l'uomo scopre sempre il mistero dell'amore di Dio rivolto a noi uomini. Di più: questo amore ci salva fino al punto che il nome di Maria diventa il nome della salvezza:

"Maria venerabile dimora del Signore, risolleva noi caduti nell'abisso di paurosa disperazione, di colpe e di afflizioni, perché Tu sei la salvezza dei peccatori, loro aiuto e sicura difesa, e Tu salvi i Tuoi servi" (Icona “Gioia inaspettata").

La parola "dimora" cela in sé un triplice senso: cristocentrico, escatologico e soteriologico. Cristocentrico: perché "in Cristo... abita tutta la pienezza della divinità" (Col.2, 9) e noi adoriamo la Madre di Dio come abitazione, come luogo sacro di questa pienezza. Escatologico: perché "la pienezza della divinità" è il destino del "mondo che verrà" e noi vediamo in Maria il segno e la promessa di questa deificazione della stirpe umana quando Dio sarà "tutto in tutti" (1 Cor. 15,28). Soteriologico: perché "non vi è, infatti, altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" (Atti, 4,12), ma il tempio dove questo nome è venerato "nello Spirito" è Maria.

Nel mondo liturgico ortodosso Maria ha tantissimi nomi che riflettono non soltanto il miracolo inesauribile della Sua presenza, ma tramite i Suoi nomi tutta la Chiesa di Cristo si fa intravedere. Così Cristo dice nel Vangelo : “Io sono la via” (cf. Gv 14,6), e la Chiesa si riversa in Maria: "Salve, o Immacolata, che hai generato la via della vita...." Cristo dice : “Io sono la verità” e la Chiesa in uno dei suoi inni ricorda le parole paoline (cf. Col 1,26): "Il mistero da secoli nascosto ed agli angeli stessi sconosciuto, per Te, o Madre di Dio, è stato manifestato agli uomini...". Cristo dice: “Io sono la vita” e la Chiesa canta : "Sappiamo Vergine, che sei l'albero della vita...". Alla verità aperta, proclamata rispetto al Cristo ed alla Redenzione si aggiunge un'altra verità che riguarda Maria. E spesso si tratta della stessa verità, ma che trova la sua espressione nelle preghiere mariane, poiché solo in questo modo discreto ed intimo si può esprimere la profondissima certezza della fede. Questa fede, a volte, venera Maria come un "alter ego" materno del Suo Figlio. Cristo dice: "Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo" (Gv. 10,9), e la Chiesa glorifica continuamente Maria come porta mistica:

"Salve, unica porta per la quale solo il Verbo è passato..."
"O mistica porta della vita, immacolata genitrice di Dio..."
"Madre di Dio, porta del cielo, aprici la porta della Tua misericordia...".

La salvezza entra per questa porta che è nello stesso tempo il dono fatto a Dio dagli uomini, come dice ’inno del mattutino ortodosso.

"Cosa Ti offriremo, o Cristo, per esserTi mostrato sulla terra? Ognuna delle creature create da Te, Ti offre infatti la Sua riconoscenza: gli Angeli - il canto; i cieli - la stella; la terra - una grotta; il deserto - un presepio; ma noi - una Madre Vergine!"
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“Il pensiero di Cristo”:
la conoscenza mistica
nelle "Centurie gnostiche"
di San Massimo Confessore
di Vladimir Zelinskij


Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture...” (Lc.24, 45)

San Massimo il Confessore, “il genio della sintesi” secondo l’espressione di Harnak, “il modello esemplare per una nuova era” (1), come lo chiama lo studioso moderno W. Völker, ha creato il ponte fra l’eredità patristica dei primi cinque secoli e lo sviluppo teologico delle epoche successive. Nel suo pensiero la fedeltà assoluta ai predecessori va insieme con l’originalità non meno assoluta del suo spirito creativo. E fra le sue numerose opere le “Centurie gnostiche” sono ritenute da un teologo di statura come Hans Urs von Balthasar “ciò che di più significativo noi possediamo dalla penna del Confessore”. (2) Ma, forse, anche ciò che vi è di più difficile, come già faceva notare il patriarca Fozio.

Ma che cosa sono le “Centurie”? Un mosaico di sentenze sparse, con la loro ricchezza stupenda di colori, di sfumature, di incisioni del pensiero, ma con una struttura irreperibile? Un albero di duecento rami, con foglie che mantengono tutta la loro freschezza spirituale ed intellettuale, ma con la radice, che dà la vita a tutto, nascosta? La forma aforistica, abbastanza tradizionale, che Massimo ha recepito dal suo maestro Evagrio, ha una somiglianza soltanto esteriore con le opere analoghe dei suoi predecessori: né in Evagrio, né in nessun altro troviamo questa stupenda confusione di generi. Infatti, nei “Duecento capitoli sulla conoscenza di Dio e sull’incarnazione di Cristo” (un altro titolo delle “Centurie gnostiche”) la teologia non si separa dall’amore alla sapienza, il trattato gnoseologico dalla poesia del pensiero, e il concetto dall’allegoria e dalla contemplazione.

Questa originalità del genere letterario proviene da un carattere esistenziale dell’opera massimiana: qui non si tratta della dottrina cristologica nel senso stretto e preciso, ma - diciamo in modo metaforico – dell’“inabitazione” nel pensiero imbevuto dalla preghiera davanti al mistero aperto e rivelato del Dio Vivente. Questo mistero agisce nell’essere umano, e noi siamo chiamati dal nostro autore ad essere non soltanto testimoni di questa “inabitazione”, ma anche gli ospiti invitati a condividere il suo spazio spirituale. Quando entriamo in questo spazio, sembra di sentire il battito del cuore, mentre il pensiero prega nella contemplazione.

Ma dalla densità esistenziale nasce anche la difficoltà del testo: esso non è scritto come sistema logico e coerente, e neanche come codice segreto da decifrare per ricostruire il senso celato, ma è come un cammino che, già battuto, ogni lettore deve fare proprio sulle tracce del santo pensatore, diventando discepolo alla scuola della sua fede. E il cammino si ripete in quasi tutte le duecento stradine che portano alla stessa meta: la vita nella Parola di Dio, che è – secondo le parole di s. Massimo - “rugiada, acqua, fonte e fiume” (Centurie, II, 67), ma altresì “via, porta, chiave e regno” (II, 69) nascosti nel cuore umano; il lettore è in tal modo condotto a quel “Verbo-pensiero”, che nasce nell’uomo e lo santifica.

Come avviene questa nascita? Il capitolo 83 della seconda “Centuria” dice:

“Il pensiero di Cristo che i santi ricevono secondo il detto ‘Noi abbiamo il pensiero di Cristo’, non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettiva, né come completamento del nostro pensiero, ma come illuminando mediante la propria qualità la potenza del nostro pensiero e portandola alla sua stessa operazione. Anch’io, infatti, dico di avere il pensiero di Cristo, che pensa secondo Lui e pensa Lui attraverso tutte cose”. (3)

Così san Paolo, alla domanda del Libro della Sapienza e del profeta Isaia: “Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?”, risponde: “Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1 Cor.2,16), “Nos autem sensum Christi habemus”, secondo la Vulgata. Qui in un attimo, come è spesso da Paolo, tutta la visione trinitaria si svela davanti a noi. Il “pensiero di Cristo” (νουν Χριστου), il modo di sentire, di intendere, di vedere le cose come le vede e le vive Cristo stesso, significa che il nostro intelletto e “il Cristo che abita per la fede nei nostri cuori” (Ef.3,17) abbiano qualche sostanza in comune e questa sostanza si chiama lo Spirito Santo. “Conformando l’operazione intellettiva umana a quella di Cristo, lo Spirito Santo mette l’anima in grado di conoscere per oscura, intima esperienza mistica Colui nel quale si concentra la contemplazione del Cristo: il Padre... Lo Spirito Santo, che scruta la profondità di Dio comunica al credente il mistero di Dio che non può essere scrutato da nessun intelletto umano, lo rende partecipe – attraverso la fede – della conoscenza che Cristo ha del Padre”. (4)

Questa rivelazione del mistero trinitario vissuto nell’intelletto umano, che è stata data all’apostolo dei pagani, trova il suo sviluppo nella teologia di Massimo il Confessore, teologia costruita alla scuola dello Pseudo Dionigi, ma anche dell’esegesi di Filone d’Alessandria e di Origene. Da tutta questa eredità il Confessore è riuscito a creare una sintesi completamente originale ed organica. Il suo “pensiero di Cristo che ricevono i santi” si situa nella visione trinitaria paolina con la presenza dello Spirito Santo, “in quanto guida di sapienza e di conoscenza” (II, 63) e con l’apertura verso il Padre, che “si trova naturalmente tutto intero indiviso, in tutta la Sua Parola” (II, 71).

“Il pensiero di Cristo... non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettuale” (in altre parole i nostri sensi conservano le loro forze naturali), ma come “illuminando mediante la propria qualità la potenza del pensiero...”. La potenza del pensiero nella visione massimiana si trova nel suo logos, in altre parole, nell’idea o nel principio di ogni cosa o essere. Il logos costituisce la natura spirituale di qualsiasi creatura o, secondo le parole del vescovo Basile Osborn, la sua “struttura interiore”. Ma, come sappiamo, il simile è riconosciuto dal proprio simile, per il fatto che porta in sé l’immagine di lui, che è capace di partecipare al suo “archetipo”, in questo caso al Logos come Seconda Persona della Santa Trinità. Qui non si tratta dell’analogia fra il divino e l’umano, ma del primo paradosso della conoscenza di Dio, che si realizza nel “pensiero di Cristo”: con il “pensiero di Cristo” pensiamo ciò che non può essere pensato, tocchiamo ciò che non può essere toccato, né con i sensi, né con l’intelletto.

“Ogni pensiero è proprio di chi pensa e di chi è pensato, ma Dio non appartiene né alla categoria di chi pensa, né di chi è pensato: infatti è superiore a queste”, dice s. Massimo (II, 2), poiché il nostro intelletto - pensando – sottopone Dio alle condizioni delle cose che appartengono all’intelletto stesso, cioè limitate. Dio non può in nessun caso essere un soggetto del pensiero, ma nello stesso tempo può essere vissuto e “toccato” con la mente, il cui “logos” umano partecipa al Logos divino. L’essenza del divino è oltre qualsiasi atto della conoscenza; ma essa si lascia “spogliare” dall'illuminazione dello Spirito Santo, che si unisce all’intelletto. “Il pensiero di Cristo” si riempie con la forza illuminatrice dello Spirito che si comunica attraverso la fede in Cristo. In altre parole: il nostro pensiero con il suo logos partecipa, per la fede, al Logos divino e alla Trinità, ma anche a tutto il creato. Perché

“infatti la fede è una conoscenza vera che possiede principi indimostrabili (i logoi), essendo come sostanza (ipostasi) di cose superiori alla mente ed alla ragione” (I, 9).

La fede in Massimo è un organo della vera conoscenza delle cose, in cui i logoi, o “principi indimostrabili”, offrono (mediante la fede) “la prova delle cose, che non si vedono”, come dice la Lettera agli Ebrei (11,1).

Ma c’è un’analogia con la definizione paolina anche più profonda: la fede come conoscenza della “sostanza di cose superiori alla ragione” coincide – ciò che ha notato anche von Balthasar - con il fondamento delle cose che si sperano: la parola greca – ipostasis – è la stessa, ed anche il messaggio è quello di Paolo. La fede, che viene come dono, scaturisce della stessa dimensione divina che l’uomo porta in sé. (5) La capacità di credere, il dono della fede e l’ipostasi stessa della fede, logica massimiana, sono come “una cosa sola”, di cui l’immagine più incisiva è “il pensiero di Cristo”. In questo pensiero tutte le cose, nel loro logos, si riflettono ed è data la presenza di Cristo nella sua realtà ipostatica; in questo pensiero siamo chiamati ad entrare, immergendoci nel mistero dell’Incarnazione.

“Il mistero dell’Incarnazione (letteralmente “incorporazione”) del Verbo ha la fede, forza di tutti i segreti e le figure della Scrittura e la scienza di tutte le creature visibili ed intelligibili” (I, 66).

Il capitolo sull’Incarnazione, che ci introduce - secondo von Balthasar - nel santuario del pensiero di Massimo”, (6) serve da chiave alla pratica della sua conoscenza mistica. Il mistero dell’Incarnazione entra in ogni suo pensiero, in ogni immagine; si chiarisce nella profondità splendida dalla sua vita in Cristo.

Ma è davvero corretto, secondo l’essenza delle cose, parlare di mistero nei confronti di Colui che il profeta (Ml. 4,2) chiama, “Il Sole di giustizia” (I,12)? Di fatto in Lui s’incontrano la sostanza dell’inconoscibilità e l’essenza della luce; ciò che si cela, che sfugge all’occhio e ciò che si rivela a noi; ciò che non può essere visibile e ciò che è più reale di qualsiasi realtà terrena. La presenza di questo mistero, che si rivela in noi “nel pensiero di Cristo”, come in tutte queste immagini della Parola che troviamo nei Capitoli, mantiene il suo carattere paradossale. Infatti, nella logica delle “Centurie” si possono trovare due “teorie della conoscenza”: una areopagitiana, che insiste sull’inaccessibilità assoluta di Dio allo spirito umano; un’altra di radice origeniana ed evagriana, che sviluppa il proprio cammino verso Dio nell’abbandono di qualsiasi immagine e forma per accedere direttamente alla luce del Dio trinitario. Ma, come osserva Hans Urs von Balthasar, (7) una siffatta contrapposizione è artificiale: le due visioni provengono dallo stesso “mistero dell’Incarnazione” che, nella vita spirituale, si esprime attraverso la carità e la pratica dell’ascesi.

Questa pratica serve per la purificazione, ossia la liberazione del mistero dentro di noi, nascosto e incarnato nella sostanza dell’ipostasi della speranza. La liberazione del mistero significa la ricerca della sua trasparenza nel buio del nostro essere, il suo “sfaccettarsi” in immagini e concetti. I “Duecento capitoli” ci offrono, con particolare ricchezza, i simboli sfaccettati del cammino interiore dell’uomo verso il mistero di Cristo nascosto dentro lui. L’idea dell’ascetismo, tradizionale per l’Oriente cristiano, sotto la penna del Confessore si riveste della poesia biblica delle allegorie.

Ascetismo, secondo la tradizione patristica, è un ritorno a se stesso, alla propria natura creata da Dio, attraverso la purificazione del cuore e il rifiuto dei “movimenti innaturali dell’ira e della concupiscenza” (I, 16). L’uomo si purifica trattandosi come una pietra preziosa, liberando lo splendore interiore a lui proprio; così “chi risplende è ritenuto degno di riposare con il Verbo sposo nel talamo dei misteri” (I,16).

Il suo cammino spirituale, secondo i “Capitoli” di s. Massimo, ha due livelli. Il primo grado si acquista con il silenzio (ossia, il sabato) e con la circoncisione dell’anima (ossia, con la mietitura). Tutte queste figure hanno lo stesso significato di stadio iniziale della guerra contro le passioni e “l’assalto dei nemici invisibili”. Perciò il lavoro ascetico (spiegato da s. Massimo sulle tracce dei suoi grandi predecessori) precede sempre i frutti della conoscenza nello Spirito.

Il sabato nel suo sistema ha tanti significato, o piuttosto compiti che l’anima deve svolgere. Il sabato è l’attuazione di buone opere, ma anche il compimento della saggezza - che deriva dalla vita attiva - nella carità, il compimento della conoscenza, naturale e divina, dei logoi delle cose e del loro divenire; il sabato è il possesso del logos degli esseri, ma anche “l’imperturbabilità dell’anima razionale che secondo la vita attiva ha eliminato del tutto le tracce del peccato” (1,37).

Ma dopo essere ascesa al sabato, l’anima va avanti ed entra nel “sabato dei sabati”, nella circoncisione della circoncisione, nella mietitura della mietitura ch’è “la comprensione di Dio, a tutti inaccessibile, che sussiste in modo inconoscibile nella mente in seguito alla contemplazione mistica degli esseri intelligibili” (1,43).

La comprensione di Dio nella Sua incomprensibilità fa intravedere la Sua sapienza, scoperta anzitutto negli esseri, poi nella Sua propria sostanza inaccessibile, che può essere trovata, ma non toccata, vissuta, ma non posseduta, rivelata, ma non conquistata, perché “Dio dona senza fatica a noi, che non ce l’attendevamo, le sagge contemplazioni della sua sapienza” (I,17)... “Ora l’esperto asceta è un agricoltore spirituale, che trapianta - come un albero selvatico - la contemplazione delle cose visibili alla sensazione nella regione delle cose intelligibili, e trova il tesoro, cioè la manifestazione per grazia della Sapienza che si trova negli esseri” (I,17).

Ma l’anima dell’asceta che scopre la sapienza del “pensiero di Cristo” in sé (quel pensiero che abbraccia tutti gli esseri nella luce della grazia), l’anima che vive l’ineffabile esperienza della scoperta della propria vicinanza con Dio diventa - nel suo sabato mistico e silenzioso - il modello del cosmo in cui si riuniscono i “principi” di tutte le cose. “Riposo del sabato - dice il Confessore - è il totale incontro in Lui di tutte le creature” (I,47). E poco oltre ripete le parole del Libro della Genesi: “E Dio vide quanto aveva fatto ed ecco andava molto bene” (I,57).

Il cammino delle “Centurie” ruota attorno alla sua scoperta di una bellezza ineffabile che non si lascia mai esprimere pienamente nelle parole o nelle immagini. Per questo esso crea tante immagini, tante parole, che cercano di raccogliere “il tesoro in vasi di creta” (2 Cor. 4,7), ossia i “beni della grazia” che si ricevono e si danno.

Il pensiero di Cristo” è uno dei tanti nomi del tesoro scoperto; significa la vera e propria comunione intellettuale, o comunione della ragione (secondo il termine di Lev Karsavin), che si realizza nello Spirito Santo, il quale illumina ogni cosa vissuta nel pensiero. La mente comunica al mistero di Cristo, al pensiero di Cristo nascosto in tutte le cose create, visibili ed invisibili, e “contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute” (Rom.1,20). L’arte della conoscenza mistica è l’arte della contemplazione: il dono di vedere tutte le cose nello Spirito “che ci è stato dato” (Rom.5,5) o, se si vuole, nel “pensiero di Cristo che pensa Lui attraverso tutte le cose”.

Rileggendo i “Capitoli gnostici” e le altre opere di Massimo il Confessore si capisce ciò che dovrebbe essere la vocazione della filosofia cristiana. Non si tratta solo dell’insegnamento della sana dottrina, ma della cosa più essenziale: di ragionare nello Spirito, di creare la conoscenza a partire dalla propria vita spirituale. Infatti le “Centurie” portano in sé i semi delle grandi idee che avranno il loro sviluppo nella filosofia europea, anche più recente. Non riconosciamo forse nel concetto massimiano del “pensiero nudo”, “della mente spogliata” (I, 84) che percepisce Dio, l’intuizione fondamentale dell’“epoché” della fenomenologia husserliana? O nell’idea dell’essere che non può essere pensato, ma che si apre alla conoscenza negli esseri, la distinzione fra “das Sein” e “das Seiende” di Heidegger? O nell’immagine di Dio come Pensiero puro una certa eco della filosofia della religione di Hegel (“Dio stesso è secondo la sostanza il pensiero, dice Massimo...” (I. 82)? O nel concetto di due tipi della conoscenza ciò che diventerà quasi un luogo comune nella filosofia europea? E nella visione della “sapienza che si trova negli esseri” non c’è una radice della sofiologia russa? Anche il confronto spirituale dell’uomo con il suo proprio pensiero non è degenerato all’alba del razionalismo moderno nella solitudine metafisica del “Cogito ergo sum”?

Certo, c’è una differenza radicale fra la creazione del suo universo a partire dalla ragione pura e la scoperta del mistero della Parola fuori e dentro di noi. Il pensiero di s. Massimo non è teso a sviluppare un sistema segnato dalla coerenza intellettuale, chiuso ed autonomo, ma si trova in comunione permanente con la fonte che lo nutre. Esso aspira alla trasparenza assoluta dell’intelletto aperto ed illuminato dalla vita di Cristo, per cui la trasparenza del pensiero diventa la sapienza che porta in sé i logoi degli esseri. In tal modo la mente umana riesce ad “uscire dal ‘se stesso’, oltrepassare il pensiero, rimanere nel silenzio” (I,81) o, in altre parole, riesce a diventare il sacramento della conoscenza, la comunione dell’intero nostro essere alla “pienezza della divinità” che abita in Cristo (Vd. Col. 2,9)

“Chi ha imparato a scavare secondo i patriarchi mediante la vita attiva e contemplativa i pozzi che sono in lui della virtù e della conoscenza - dice s. Massimo (II,40) - vi troverà dentro Cristo fonte della vita, da cui la sapienza ci ordina di bere dicendo: ‘Bevi le acque dalle tue cisterne e dalla fonte dei tuoi pozzi’ (Prov.5,15). Facendo ciò, troveremo i suoi tesori che sono dentro di noi”.

Nella filosofia russa esiste il concetto della “conoscenza integrale”, che fa eco alla nostalgia, all’ideale impossibile, all’ideale perduto piuttosto che alla realtà della sapienza. Nel pensiero di s. Massimo questa conoscenza è pienamente realizzata, non soltanto nella genialità dell’intelletto creativo, ma nell’armonia di tutto l’essere umano in quanto tempio di Dio, in cui l’attività del pensiero si svolge come celebrazione liturgica, come offerta portata all’altare. La conoscenza integrale può nascere solo nell’uomo deificato, e le “Centurie” servono in questo caso anche come scuola pratica e spirituale della deificazione. Nella conoscenza integrale il corpo e la mente diventano lo strumento di Dio; e la parola umana che dà la sua carne alla parola di Dio e il pensiero completamente posseduto da Dio appaiono lavoro dell’intelletto che - nella luce dello Spirito - si trasforma nel pensiero di Cristo.

“Chi mediante la virtù e la conoscenza - dice s. Massimo nell’ultimo capitolo delle Centurie - ha armonizzato il corpo con l’anima, è divenuto cetra, flauto e tempio di Dio: cetra, perché ha custodito bene l’armonia delle virtù; flauto, perché ha accolto mediante la contemplazione divina l’ispirazione dello Spirito; tempio, perché è divenuto dimora della Parola mediante la purezza della mente” (II,100).

Note

1) Cfr. W.Völker, Maximus Confessore al Meister der geistlichen Leben, Wiesbaden 1965. In Massimo Confessore, Il Dio-uomo, a cura di Aldo Ceresa-Castaldo, Jaca Book, Milano, 1980, p. 15-16.

2) Hans Urs von Balthasar, Kosmische Liturgie. Das Welbild Maximus‘ des Bekenners, Zweite Auflage, Einsiedeln, p. 482; in Massimo Confessore, Il Dio-uomo, p. 17.

3) Massimo Confessore, Il Dio-uomo, p. 103.

4) Giuseppe de Gennari - Elisabetta S. Salzer, Letteratura mistica. San Paolo mistico, Libreria Editrice Vaticana, 1999, p. 203.

5) “Dio offre ai pii la capacità di credere e confessare la sua reale esistenza” (I,9).

6) Von Balthasar, Kosmische Liturgie, p. 628.

7) Von Balthasar, Kosmische Liturgie, p. 504.

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Martedì, 08 Agosto 2006 00:55

Il dramma della religione (Vladimir Zelinskij)

Il dramma della religione
di Vladimir Zelinskij


Il Padre Alexander Schmemann, (1921-1983) (1) che con i suoi libri scritti in russo ed in inglese ha fatto crescere un’intera generazione di teologi in Russia (fra cui anche il Patriarca Alessio II, secondo le sue stesse parole), dopo la sua morte ha lasciato un “Diario”, pubblicato per la prima volta l’anno scorso. Questo libro è diventato una vera e propria scoperta non solo per le sue qualità spirituali e letterarie, ma prima di tutto per il suo “messaggio”, per il pensiero che ha tormentato l’autore durante tutta la vita: l’ambiguità della religione. Grande conoscitore della storia e della tradizione della sua Chiesa, innamorato dell’Ortodossia fin dalla prima infanzia, convintissimo della sua verità, egli usa nel suo “Diario” due “O”: una è maiuscola - quando si tratta della bellezza delle celebrazioni, della fedeltà alle radici apostoliche - e l’altra “o” è minuscola - quando parla dell’ambiente umano, della realtà parrocchiale, degli alterchi giurisdizionali, ecc. P. Schmemann ha vissuto la sua vita con questo contrasto nel cuore che egli rivelava, piuttosto con cautela, nei suoi scritti pubblicati. Una sorta di tensione fra fede e religione, percepita da ortodosso nella vita quotidiana della Chiesa come sacramento del Regno di Dio sulla terra, ma anche come confessione che vuole essere umanamente più pura, migliore delle altre.

Dall’inizio di quest’anno quasi tutta la Russia credente e pensante è diventata lettrice appassionata di questo libro. Perché? Perché tanti ortodossi, spesso senza accorgersene, vivono lo stesso conflitto interiore, per cui ciò che è di Dio e ciò che è dalla carne e dal sangue, nascostamente si contestano reciprocamente. Perché nella nostra esistenza religiosa l’eredità degli Apostoli e dei Padri può essere mescolata con l’orgoglio confessionale, la grazia della vita secondo lo Spirito con la pesantezza storica ed etnica (che chiede anche i suoi “diritti mistici”), il senso della verità col gusto del potere - almeno sulle anime. E perché in un modo o nell’altro tutti sentono o percepiscono: “la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio” (1 Cor 15,50).


(1) Teologo e liturgista ortodosso, primo decano al St. Vladimir Seminary di New-York.
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L’uomo davanti al volto della Sindone
di Vladimir Zelinskij



IL VOLTO E IL VERBO

Oltre ad essere un oggetto della ricerca scientifica, la Sindone è anche un avvenimento spirituale che ci tocca come persone, ci coinvolge come avvenimento spirituale in un modo o in un altro. Non sono uno studioso della Sindone, perciò il tema della mia riflessione sarà proprio questo incontro con il Volto espostoci davanti, ma, in un certo senso, rivelatoci anche dentro di noi. Da quest’incontro usciamo sempre diversi, cambiati, segnati dal contatto col mistero che ci attira e ci supera. Il Volto della Sindone già nel momento del primo contatto rappresenta un appello che ci chiama alla contemplazione ed anche alla riscoperta di ciò che si trova nel fondamento di noi stessi. Noi ci riscopriamo come cristiani, ma anche come esseri umani, quando entriamo nella contemplazione di quel mistero con il Volto umano. Proviamo a fermarci davanti a questo Volto e ad accoglierlo come un appello, un messaggio personale.

La prima cosa che ci colpisce nel Volto della Sindone è il suo linguaggio espressivo e comunicativo. Sembra che il Volto entri in contatto con la parte nascosta e più profonda del nostro essere. Cosa ci dice? Cerchiamo di leggere questo messaggio, anche se in modo incompleto, parziale, troppo libero e poco scientifico. Cominciamo con una breve riflessione di san Gregorio di Nissa (dal suo trattato “La creazione dell’uomo”) che può servire come chiave della nostra lettura.

«Dice san Paolo : ‘Chi mai ha conosciuto lo Spirito del Signore?’ (Rm 11, 34). Io aggiungo: e chi mai ha conosciuto il proprio spirito? Quelli che si ritengono capaci di comprendere Dio, farebbero bene a guardare dentro se stessi: hanno forse compreso lo spirito che è in loro?

A mio parere, bisogna tenere presente la parola di Dio: “facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza”.

La natura divina ha come caratteristica l'incomprensibilità: la sua immagine deve somigliare anche in questo…

Di fatto, noi non arriviamo a comprendere la natura del nostro spirito. Perché esso è ad immagine del suo Creatore ed ha uguaglianza col suo Signore, reca l'impronta della natura incomprensibile, custodisce il mistero».

Il nucleo del messaggio: che lo spirito umano custodisce in sé il mistero dell’immagine. Ma quel mistero è illuminato dall’impronta del Verbo. L’immagine riflette in sé la rivelazione del Verbo, perché il Verbo che si fa carne diventa icona. E l’icona porta il messaggio del mistero dell’immagine. La prima cosa che vediamo con uno sguardo non fuggente sulla Sindone è che il suo Volto rappresenta un prototipo delle icone, con la sua espressività specifica della tradizione orientale. L’icona, però, prima di nascere come opera d’arte, è concepita nella contemplazione, nell’esperienza spirituale. Dio creò l’uomo a sua immagine, cioè secondo un modello preesistito - e questo modello fu il Verbo che era presso di Lui. L’immagine uscita dal Verbo diventa una realtà fisica, visibile e questa realtà si mantiene, dura, rimane con noi. Il compito dell’icona è di rendere visibile il perenne mistero del Verbo, il miracolo dell’Incarnazione. Proviamo, però, a rischiare nel porre una domanda: è davvero possibile trovare qualche legame comune fra il Volto ed il Verbo, fra l’immagine di Dio e la raffigurazione della Sindone? Sotto un’altra forma, la stessa domanda se la ponevano anche i Padri della Chiesa. Alcuni di loro rispondevano in modo affermativo: sì, l’uomo fu creato su “modello” del Cristo, nella previsione dell’Incarnazione. L’atto di fede nel Verbo che si è fatto carne suggerisce anche che il Verbo si sia fatto Volto. E non un qualsiasi volto umano, ma in un certo senso il Volto modello, il Volto archetipo.

Cosa vuol dire archetipo in questo contesto? Per i cristiani l’incontro con il Volto come Verbo prima di tutto è un avvenimento di riconoscenza. La riconoscenza è uno degli atti costitutivi della nostra fede. Crediamo in ciò che riconosciamo. Riconosciamo ciò che troviamo adatto alla nostra visione, simile al nostro pensiero. Non conosciamo e non conosceremo mai l’essenza di Dio, ma possiamo conoscere la Sua manifestazione nella Vita e nel Volto dell’Uomo. E quell’Uomo esprime l’incomprensibile essenza del Padre. Ma anche il Volto - questo è la nostra ipotesi o, piuttosto, intuizione - parla dell’essenza del Padre, perché anche il Volto del Figlio esprime ciò che il Padre ci dice.

Ricordiamo quel brano famoso del Vangelo di San Giovanni: “Se conoscete Me, conoscete anche il Padre; fin da ora Lo conoscete e Lo avete veduto. Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”: Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto Me ha visto il Padre” (Gv. 14,9).

Cosa dice il Padre con il Volto del Figlio ucciso? Il Padre parla con il silenzio, con il tormento del Figlio Unico, con le tracce della morte sulla croce, con la morte che promette la vita. Il Volto non è sfigurato, anzi, è ancora bello, stupendo. Il Volto che tace è anche il Verbo che continua a parlare con noi, anche con la lingua del suo silenzio e della sua bellezza. La bellezza del Volto porta anche un suo messaggio, quello della bontà della santità umana. Così il Padre parla di noi stessi.

Se facessimo un bilancio dell’antropologia ortodossa in una riga, essa consisterebbe nel ritorno a questa bellezza iniziale, persa dopo la caduta. La bellezza vuol dire la santità dell’uomo appena creato con il Verbo di Dio e per il Verbo. La santità è il ritorno all’autentica natura umana creata per Cristo, in Cristo e con Cristo. Questo punto è importante; per l’Ortodossia, non è l’uomo com’è nella sua condizione empirica, macchiata dal peccato, un vero uomo, ma solo colui che è stato concepito e plasmato nell’amore di Dio. In altre parole, la vera natura umana è l’icona dell’uomo, la sua somiglianza con Dio, che va ricercata, restituita e manifestata. Perciò l’antropologia cristiana porta in sé anche la soteriologia.

Prima di tutto l’uomo riconosce nel Volto il suo modello perduto, il nucleo del suo proprio “io”, come lui riconosce il Verbo nella sua fede. Il Verbo con il Volto di Dio martirizzato si trova alla radice della nostra vera personalità. Il Verbo si è fatto Volto di Colui che si è sacrificato per noi e questo Volto rimane l’espressione della rivelazione del Padre, la rivelazione che continua e che si manifesta anche come opera d’arte. Anche l’arte - nel senso primordiale - è il ritorno al mondo buono (in senso biblico), vale a dire, bello e santo, creato e voluto da Dio. L’arte ecclesiale è quella che non soltanto porta in sé la memoria nostalgica “dell’originale del mondo”, ma anche ha la coscienza chiara della sua nostalgia.

Perciò il messaggio della contemplazione del Volto è quello della nostalgia e della similitudine. Similia similibus cognoscuntur. Tutta la famiglia umana partecipa all’Incarnazione perché ogni uomo ha una particella del Verbo, il raggio del Logos, nella sua umanità. Troviamo questa intuizione, dopo il suo sviluppo nella teologia patristica, soprattutto nella “liturgia cosmica” di San Massimo il Confessore che parla dei logoi delle cose nel loro insieme che celebrano il Logos di Dio che si è fatto Uomo.

Concludiamo questa prima parte con il kondakion della domenica dell’Ortodossia:

“L’indescrivibile Verbo del Padre, incarnandosi da Te, Madre di Dio, è stato circoscritto e riportata all’antica forma l’immagine deturpata, l’ha fusa con la divina bellezza. Noi dunque, proclamando la salvezza a fatti e a parole vogliamo descriverla”.

IL VOLTO COME ICONA

1. Tre principi dell’arte ecclesiale

Cominciamo dall’inizio.

(Gn 1,31) – così finisce ogni giorno nella storia della creazione del cielo e della terra, della luce e delle acque, degli alberi e degli animali. La patria dell’uomo e della donna, creati nell’ultimo giorno, fu il giardino dell’Eden, con tutta la sua bontà iniziale - di cui la famiglia umana non perse completamente la memoria, anche quando le porte del giardino vennero chiuse dietro di loro. Il primo principio dell’arte ecclesiale è il ritorno al mondo appena creato, perché essa porta in sé la memoria nostalgica “dell’originale del mondo”. dentro di sé. Ma anche un riflesso del Volto. Troviamo quest’intuizione nella teologia patristica che parla dei logoi delle cose che celebrano tutte insieme il Logos divino, il quale tramite l’uomo ha dato il volto a tutta la creazione. Così si può definire il secondo principio dell’arte ecclesiale: la celebrazione del mondo in Cristo o piuttosto la riscoperta del Volto di Cristo nel mondo creato da Lui.

Questa celebrazione, però, ha un suo scopo, una sua indicazione, non solo verso il passato (quasi che esso non fosse degno di una memoria sempre viva), ma anche verso l’incontro imminente con Dio nel “mondo che verrà”. “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino”, dice Gesù (Mt 4,17) e questo annuncio può risuonare al nostro udito come terzo principio dell’arte ecclesiale: la testimonianza della conversione, vale a dire, del profondo cambiamento del nostro essere sulla soglia del Regno, per vedere Dio “faccia a faccia” (1 Cor 13,12).

Con questi tre princìpi (esposti qui in modo per forza schematico): la memoria sacra e personalizzata della creazione, la ricapitolazione del creato nel Verbo e la trasfigurazione del creato nella luce del suo Volto che porta la promessa del mondo che verrà, abbiamo un primo approccio all'arte dell’icona. Ma questi tre princìpi possono essere ridotti ad uno solo: alla visione e alla raffigurazione artistica della santità nascosta del mondo e della sua creazione prediletta: l’uomo.

Scoprire e far vedere nell’uomo la propria icona è compito dell’arte della pittura, come anche dell’arte della santità.

2. L’arte come comunione

La vera natura umana, come abbiamo detto, è l’icona dell’uomo, la sua somiglianza con Dio che va ricercata, restituita, manifestata.

Alle soglie del Regno ci conducono tre accompagnatori o testimoni principali di Dio: la Santa Scrittura, l’immagine e il sacramento - che hanno una profonda e reciproca affinità. Credo che nella propria essenza ognuna di queste realtà sia convertibile all’altra, poiché la Scrittura veramente accolta e vissuta diventa un sacramento della comprensione che si compie nella mente e nel cuore dell’uomo, e dal sacramento nasce la contemplazione delle immagini come opere di Dio. L’icona è il frutto della contemplazione, ma la contemplazione cresce e si sviluppa nell’esperienza spirituale che è la manifestazione della presenza reale di Dio in senso eucaristico, sacramentale. Lo scopo dell’icona è quello di esprimere il mistero della presenza di Dio che ci guarda in faccia mediante il segreto del Suo Volto - ch’è infatti il sacramento della luce nascosta.

Tutto quello che si manifesta è luce”, - afferma san Paolo (Ef 5,13) e la vocazione dell’uomo è di scoprirla e di manifestarla nella propria vita, nella propria fede, come anche nella propria creatività artistica. L'icona è il mezzo della comunione con la luce nascosta, e rivelata nel nostro mondo creato nella materia. La materia, la creta della creazione, contiene in sé ciò che va manifestato nello spirito. Sotto l’influenza della filosofia neoplatonica anche nel cristianesimo dei primi secoli è emerso un certo disprezzo per il mondo materiale, aspetto che era all’origine dell’eresia degli iconoclasti (VII-VIII sec.). La fede cristiana, però, che confessa la sua speranza nella risurrezione dei morti e nella trasfigurazione del mondo attuale (che non sarà sostituito completamente con il “mondo che verrà”, ma svelerà la sua bellezza nascosta) si ricorda sempre della sacralità della materia che è servita nell’atto della creazione del mondo, ma anche dell’incarnazione del Figlio di Dio.

3. L’icona come teofania

La materia è venerata non per se stessa, ma come portatrice delle immagini, dei messaggi della salvezza. Nel miracolo dell’incarnazione il Signore ha nuovamente consacrato tutto ciò che Egli aveva creato. La Sua parola, la Sua morte e resurrezione hanno lasciato le immagini della Sua presenza e la Chiesa manifesta questa presenza attraverso l’immagine, il volto trasfigurato dell’uomo. L’arte in Chiesa è il nostro saper organizzare a modo nostro la materia “personalizzata” che ci circonda o trasferirla nelle immagini, che scopriamo in noi stessi. Nell’arte che chiamiamo laica siamo padroni della nostra ricchezza interiore e possiamo giocare con le immagini come vogliamo.

L’arte ecclesiale è diversa. Il suo messaggio è già conosciuto dall’inizio, i segni che essa utilizza sono contenuti nella nostra fede. L’uomo non deve scegliere fra le immagini accumulate e mescolate nel proprio “io”, ma deve manifestare ciò che esiste già, nella profondità o nel “principio” del suo essere. L’arte ecclesiale esprime ciò che è dato fin da principio, messo in noi, manifestato a noi: il Volto del Verbo. Di questo dono, della profondità umana che si svela solo nell’esperienza del santo, ne parla San Giovanni nella sua prima lettera:

Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza…” (1 Gv 1,1-2).

L’icona, se la guardiamo alla luce di queste parole, è la testimonianza di ciò che noi, uomini, abbiamo veduto, anche se “in maniera confusa”, toccato, anche se solo nello spirito, contemplato, anche se in momenti rarissimi, di ciò che portiamo dentro noi stessi, anche se non lo sappiamo - e di ciò che dobbiamo far vedere agli altri, il Verbo della vita, ed anche il Volto della vita, la vita avvolta nella morte. Ma l’icona è la testimonianza della vita che continua a vivere nel popolo di Dio e nel Suo corpo che è Chiesa. Osiamo dire che la Chiesa stessa è anche l’icona della testimonianza, del vedere ciò che è invisibile, del comprendere ciò che è incomprensibile, del vivere ciò che appartiene a Dio. L’icona del Volto del Figlio morto porta in sé la caparra della Risurrezione e la vittoria della vita in Dio e con Dio.

4. L’icona e lo spazio liturgico

Secondo la fede ortodossa, le immagini, quelle vere, presentano i propri prototipi. L’icona ha vita propria solo all’interno dell’attività spirituale, nella vita della preghiera o della contemplazione; nell’album, nel museo, nella collezione privata essa perde il suo senso sacramentale. Ciò che il Vangelo dice con la parola, il Volto lo dice con il suo messaggio.

Le icone, in un certo senso, “raccontano” il loro prototipo, portano una buona notizia della loro presenza fra di noi e nel Regno dei cieli, fanno vedere l’indescrivibile fra di noi. L’idea principale dell’iconoclastia del VI-VII secolo fu che l’indescrivibile e l’incomprensibile non potessero essere raffigurati, che il mistero divino non si lasciasse svelare. Ma in verità l’icona non vuole riportarci “l’immagine dell’inesprimibile”, come afferma san Gregorio Palamas, ma soltanto il suo volto umano, penetrato dalla luce inesprimibile.

è l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura”, afferma San Paolo (Col. 1,15) e ciò vuole dire che il Cristo rende presente l’invisibile volto del Padre, ma anche il visibile volto della creazione nella luce della Trinità. “Io sono la luce del mondo”, afferma Cristo (Gv 8,12) e la Chiesa canta: “La Tua luce risplende sui volti dei Tuoi santi”. L’icona di Cristo fa risplendere il vero volto dell’uomo nella luce della Trinità - così si può esprimere la saggezza antropologica dell’icona. Pregare con le icone significa proprio questo: sentire e percepire la stessa grazia o la stessa luce che riempie il Santo Volto e che santifica anche noi.

IL MESSAGGIO DELLA SINDONE

Ma la Sindone non è un’icona fatta dall’uomo. Questo è vero, e vero è anche ciò che il Volto della Sindone porta in sé nell’arte, ma con la pienezza e la profondità che deriva dall’originale del Volto umano. Questo Volto ci riporta all’immagine, al Modello inciso nello spirito umano, all’arte come immagine dello spirito. La sindone è come un’icona del Verbo, che ci parla e si trova in comunione con lo spirito che ci fu dato.

Sì, possiamo parlare del Volto della Sindone come dell’avvenimento della comunione spirituale al Corpo di Cristo, poiché il Volto diventa Verbo che si offre nei santi misteri celebrati dalla Chiesa.

L’atto della comunione a questa icona include un messaggio l i t u r g i c o, come glorificazione del Verbo che si è fatto Volto.

Questo avvenimento contiene anche un messaggio p e n i t e n z i a l e, cioè la purificazione del cuore davanti al Dio crocefisso.

La Sindone ci parla anche della "k e n o s i s", nella quale ricordiamo che Cristo ha rinunciato alla natura divina (vd. Fil 2,6). La kénosis fa l’uomo partecipe della natura di Cristo, nel suo sacrificio fino al rifiuto della vita stessa nel martirio.

Un altro messaggio della Sindone è il ricordo e u c a r i s t i c o, perché la contemplazione del Volto contiene in sé l'unione del nostro spirito con Cristo. Da qui si chiarisce il senso della santità perfetta come sacramento dell'unione, che trasfigura il nostro corpo, riempito dal fuoco nascosto dell'Eucaristia.

Leggiamo qui anche un messaggio a p o f a t i c o, perché il Volto parla del mistero che non potremo mai decifrare.

Nonché un messaggio e s c a t o l o g i c o: il Volto morto promette la vita in abbondanza.

Un altro messaggio del Volto è quello della t e s t i m o n i a n z a; tutto ciò che è santo è testimone di un altro Regno davanti agli uomini.

Ma la Sindone porta anche un messaggio e t i c o: nella luce del Volto possiamo vedere anche il volto di un altro uomo.

"Tu hai visto il volto del tuo prossimo, disse un santo antico, tu hai visto il volto del tuo Dio". E questo amore si esprime sempre come servizio, come libero sacrificio per lui. La libertà senza amore porta alla schiavitù, all'ideologia che impone il suo giogo. La libertà penetrata dall'amore è sempre personale, essa è destinata a scoprire il mistero e l’unicità di un'altra persona, a scoprire l'amore di Dio riversato su di lei. Attraverso questo amore da persona a persona noi scopriamo anche la "personalità" della creazione del mondo in Dio.

Ma ogni personalità è dotata di un volto.

IL VOLTO COME LUCE

Alla Tua luce vediamo la Luce”, esclama Davide (Ps. 35, 10) e la gioia e la nostalgia di questo grido fa la grandezza e il dramma del Primo Testamento. Dio entra nel mondo da Lui creato e nello stesso tempo rifiuta la sua rivelazione, “perché il Signore ha deciso di abitare sulla nube” (1 Re, 8, 12). Manifestandosi nel roveto ardente, negli Angeli, nella legge, e sotto tante altre immagini, Egli rimane tuttavia al di là di questi e del mondo umano.

Nel momento in cui il Signore ha deciso di rivelare il Suo volto nel volto umano, l’aurora è spuntata e “il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce” (Mt. 4, 12). Questa luce che Cristo ha portato ha la stessa “sostanza” della luce che illumina le genti ed ogni uomo. Dio entra nel nostro mondo oscuro, rivela il Suo nome, non nasconde più il Suo volto. La storia di questa rivelazione, raccontata nel Vangelo come con una linea tratteggiata, raggiunge la piena chiarezza in quel brano profetico che parla della trasfigurazione. Qui traspare una delle tracce che mostrano la strada al mistero della similitudine del volto divino ed umano. Proviamo a rileggere quest’episodio e a meditarlo nello spirito della fedeltà alla tradizione cristiana orientale.

“...Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” – dice san Matteo (17, 1-2). Il tropario bizantino cantato durante la celebrazione liturgica nel giorno della festa della Trasfigurazione dà la sua interpretazione di questo racconto: “Ti trasfigurasti sul monte, o Cristo Dio, mostrando ai tuoi discepoli la tua gloria, per come potevano. Fa' splendere anche a noi peccatori, la luce tua eterna, per l'intercessione della Deìpara, o datore di luce: gloria a te!”. Il contenuto è lo stesso, ma la storia della Trasfigurazione si trasforma nella preghiera e nella speranza. “Fa' splendere anche a noi peccatori, la luce tua eterna”, perché questa luce ci porterà alla vera conoscenza di Dio nella sua manifestazione accessibile agli uomini o nella Sua “energia”, come dice Gregorio Palamas.

Cristo mostra la Sua gloria, ma non avviene in lui alcun cambiamento perché - dice - è: “quella gloria che avevo presso di Te prima che il mondo fosse” (Gv. 17, 5); ciò che cambia è la percezione umana. La Trasfigurazione, secondo l’interpretazione ortodossa, prima di tutto apre le occhi agli apostoli, trasforma la loro anima e la loro vista, rivelando anche l’autentica natura umana.

Ma il messaggio di Giovanni, come quello di Pietro, di Paolo e degli altri apostoli è non soltanto già un frutto della vera visione, della perfetta conoscenza di Dio “come Egli è” (1 Gv. 3,2), ma anche la testimonianza discreta degli uomini come essi sono. Vedere Dio “come è” significa raggiungere la somiglianza con Dio e vedere nello spirito ciò che non può essere visto, toccare nel pensiero ciò che non può essere toccato. L’Invisibile apre il suo volto, perché, come dice Sant’Ireneo di Lione, “Cristo è il visibile di Dio”, ma lo stesso Cristo - Verbo, Vita e Volto - è anche l’invisibile dell’uomo. E lo Spirito Santo quando l’uomo Lo cerca, fa nascere, apparire, manifestare l’invisibile nel cuore umano.

Tutta la Scrittura ci porta alla rivelazione della luce nella quale si chiarisce anche tutto ciò “che c’è in ogni uomo” (Gv. 2,25). Perché in Cristo ogni uomo, anche se immerso nelle tenebre, si avvolge della luce che non perde il suo carattere ineffabile. Dal momento della sua creazione ad immagine di Dio, dal suo concepimento per l’amore del Signore, ogni uomo è cristico, penetrato dallo splendore del Verbo. Ma il mistero dello splendore, nell’uomo “naturale”, è quasi introvabile, brucia appena e ha bisogno di essere acceso dalla fede, dalla scelta umana, da quella scintilla che illumina il Volto con la luce di cui ogni uomo è dotato. L’uomo lo riceve come dono e lo rivela in sé con lo sforzo, e così la vita della sua fede può diventare un avvenimento permanente della teofania interiore.

All’inizio di questa teofania si trova un’esperienza dell’incontro, del Volto rivelato. Non si tratta qui di un’esperienza psicologica o sentimentale, ma spirituale in senso ontologico: nell’”anima mia” (Ps. 102,1) lo Spirito Santo dipinge l’immagine del Figlio che rivela il Padre che è “nei cieli” - ma sono “cieli” aperti nel cuore umano. La rivelazione porta in sè la presenza reale e vivificante del Volto del Figlio di Dio, “ricordato” e manifestato dallo Spirito Santo, e il Figlio di Dio e lo Spirito Santo rivelano il Padre come unica fonte del mistero trinitario. Così il mistero si rivolge a noi, si apre a noi e si rivela dentro di noi e noi assistiamo alla sua teofania, in cui Dio mostra nell’anima dell’uomo la gloria del Suo volto trasfigurato. Il luogo della teofania è la fede stessa, la conoscenza di Dio, la celebrazione, l’icona, la santità, il martirio, la bellezza, tutta la creazione.

“Dio è Luce, - dice San Simeone il Teologo, - e coloro che Egli rende degni lo vedono come Luce; quelli che lo hanno ricevuto lo hanno ricevuto come luce. La luce della sua gloria anticipa infatti il suo volto ed è impossibile che Egli appaia altrimenti che nella luce.”

Da questa luce nasce anche la santità umana che è, in un certo senso, la “processione” dal Regno promesso (che si trova dentro di noi) a quello che si apre fuori di noi, dalla luce invisibile al visibile. L’irradiazione del Regno, che si può vedere a volte negli occhi del cittadino del Regno, in modo impercettibile penetra e avvolge tutto ciò che lo circonda: il suo deserto o il suo bosco, la sua famiglia o la sua comunità, le sue parole o il suo silenzio, la sua missione o il suo eremitaggio, anche il suo corpo mortale o la memoria che lui lascia dopo la morte. La memoria di lui si cristallizza nella sua immagine dipinta che esprime l’idea o il mistero del volto umano che è sempre quello di Cristo, incarnato, crocefisso, risorto...

Perché “è Dio che disse, - scrive san Paolo, - Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor. 4,6).

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