Bioetica, vie diverse
ma stesso approdo
tra cattolici e ortodossi
di Vladimir Zelinskij
Fede e ragione, due doni che Dio ha dato agli uomini insieme con il terzo: la libertà. Ma essi non vivono sempre in pace fra di loro. Anche quando hanno un punto di partenza comune: la sacralità della vita umana. La questione dell’inizio della nostra esistenza non è questione di fede, dicono i cattolici. È un semplice fatto della forza della logica che dovrebbe essere vincolante per i credenti e non credenti.
La logica, però, è come una guardia per l’ordine, sembra invincibile quando l’ordine c’è, ma appena arriva il trasgressore, si mostra innocua, perché tutti sanno che la sua arma è caricata a salve. Infatti, ognuno sceglie una propria logica e crede nella sua infallibilità. Le vere scelte umane provengono da una sorgente più profonda. Per l’Ortodossia nessun esperimento sull’embrione è lecito, non solo perché il concepito contiene in sé tutto il programma del suo sviluppo che può manifestarsi anche fuori del grembo materno, non solo perché tutta l’identità umana è già “piegata” in due cellule che si sono trovate per unirsi e per portare alla luce “gloria di Dio, uomo vivente”, ma anche perché il concepimento è un atto della creazione in cui partecipano non solo uomo e donna. È un miracolo dove Dio è presente, un sacramento in cui è offerto il suo amore. Forse, i cristiani non possono esprimere il loro pensiero non solo con le prove, ma anche con lo stupore?
Mi ricordo del mio incontro con il professor Jérôme Lejeune, il famoso genetista. «Posso spiegare lo sviluppo del concepito dal primo momento», disse lui, «ma pur con tutta la mia conoscenza mi rendo conto che mi trovo davanti a un mistero inesplicabile». Il mistero ci chiede un attimo della contemplazione che a volte può essere non meno convincente che il sistema della logica più ferrea. S’impone la domanda, però: perché dobbiamo dare la preferenza a quel mucchietto di cellule davanti a una persona adulta che ha i suoi problemi, di salute o di finanza? Davvero la ratio da sola è capace di risolvere questo dilemma? Perché, infatti, se le cellule staminali possono curare le malattie finora incurabili? Se la fede avesse il diritto di parola, risponderei così: perché colui che in ogni caso è più forte, che ha avuto la sua vita e, come diceva Dostoevsky, «ha già mangiato la mela», è chiamato a non impedire l’affacciarsi alla vita di un essere umano infinitamente più debole, che non ha vissuto, ch’è ancora innocente.
L’approccio “occidentale” alla bioetica (come agli altri problemi difficili del nostro mondo) può essere diverso da quello “orientale”, ma la soluzione cristiana è quasi sempre uguale. Se uno ha più fiducia nella luce della ragione e un altro nel mistero della luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo, davvero abbiamo ancora motivi validi per rimanere divisi?