In ricordo di P. Franco

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Nella sua dimensione universale, la vita di Gesù riempie anche l’esistenza terrena e celeste della Madre, la verità della sua parola parla con la amore materno, la via da lui indicata è quella dell’unione totale con Dio realizzata in lei. "Il solo nome della Madre di Dio contiene tutto il mistero dell'Economia", dice S. Giovanni Damasceno.

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Ho sempre creduto che per ritrovare l’unità visibile bisognasse riconoscere il "nostro" Cristo nella fede degli altri. Ora penso che si possa andare avanti, imparando anche a riconoscere lo stesso Cristo nelle parole e nelle confessioni degli apostoli.

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Domenica, 30 Maggio 2010 18:39

La Chiesa una: è possibile?

Una riflessione su Olivier Clément (Vladimir Zelinskij)

Proveniente da una famiglia repubblicana e agnostica, Clément, storico di professione, partecipante alla Resistenza francese durante l’occupazione nazista, si è convertito al cristianesimo ortodosso ed è stato battezzato nella Chiesa russa a Parigi all’età di 30 anni.

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L’immagine della Risurrezione è spesso raffigurata come metafora della salvezza dei dannati, di tutti quelli che sono vissuti prima della venuta del Salvatore.

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Provengo dalla Chiesa Ortodossa Russa. Di queste ultime tre parole le prime due sono le più importanti poiché non esiste una differenza radicale fra le diverse Chiese ortodosse. Che cosa significa Ortodossia? Significa fedeltà alla retta e giusta glorificazione di Dio - prima di tutto con la propria vita.

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Poche famiglie russe ortodosse vivono oggi in Israele. La maggior parte di esse discendono da pellegrini che si sono stabiliti in Terra Santa. Il denaro offerto dallo zar a coloro che compivano un pellegrinaggio nei luoghi santi attirò, nella metà del XIX secolo, migliaia di pellegrini russi.

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Solo dopo la metà del XIX secolo la Chiesa russa è visibilmente inserita in Gerusalemme. Certamente, nel corso di tutto questo millennio, numerosi furono i pellegrini venuti a visitare la Terra Santa dalle terre della «Russia».

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Averincev: l’esperienza di costruire cultura

di Vladimir Zelinskij

È possibile ascoltare tutte le voci della cultura universale senza perdere di vista l'armonia nascosta che accomuna ciascun o dei fenomeni studiati? Sì, se l'attività intellettuale non parte da un'avida ricerca di nozioni ma dalla coscienza che tutto ciò che si incontra è riflesso della Sapienza divina, vera meta del viaggio esistenziale di ogni uomo. Sergej Averincev spentosi a Vienna nel febbraio 2004, con tutta la sua vita e la sua opera ne ha dato un esempio umile e al tempo stesso grandioso.

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Domenica, 11 Gennaio 2009 18:31

La cattolicità del martirio (Vladimir Zelinskij)

La cattolicità del martirio

di Vladimir Zelinskij





“Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso… Sia che viviamo, sia che moriamo siamo dunque del Signore”, dice san Paolo (Rom 14,7). È il pronome al plurale che stupisce in questa confessione. Che l’io di un convertito, fulminato da Cristo, si sia tramutato in “noi”. Come se qualsiasi battezzato fosse l’apostolo delle nazioni. Come se le nazioni fossero Paolo. “Ogni cosa era fra loro comune” (Atti 4,32): anche il proprio io può essere prestato alla Chiesa, senza perdere la sua identità particolare. Il nocciolo della persona è davvero quel “del Signore”, in cui ogni uomo può riconoscere l’altro come se stesso, nel suo credere, vivere, morire. La morte, come la fede, può essere una, santa, cattolica e apostolica perché “nessuno muore per se stesso”, ma entra nella vita condivisa con il Crocefisso e con tutti i fratelli addormentati o ammazzati in Lui. L’unità nella morte del Signore e la cattolicità del martirio una volta erano il deposito della fede comune, la ricchezza che insieme possedevamo. Con i secoli della divisione abbiamo però perso la certezza che il sacrificio del mio prossimo si riflette su di me e sulla mia fede - e se il suo tempo è compiuto, il mio sta maturando.

Quel tempo s’avvicina ogni volta che ci giunge la notizia della morte di un cristiano martirizzato in qualche angolo della terra. “Non chiedere per chi suona la campana”, disse John Donne, il poeta inglese del XVII secolo, “essa suona per te”. Il suo rintocco apre le nostre orecchie al mistero del sacrificio nel quale siamo tutti partecipi. I veri martiri non sono solo vittime o poveri sfortunati, la loro morte è come un’offerta portata al medesimo altare dove si compie il sacramento fatto “in memoria di Me”. I testimoni entrano in questa memoria e così nasce anche la loro comunione spirituale che supera i confini del tempo – ma anche, oserei dire, gli abissi delle divisioni. Nella cattolicità del martirio per il Signore la comunione invisibile dei martiri potrebbe un giorno diventare visibile e concreta e l’unità stessa – da un ricordo lontano o dal sogno - può manifestarsi in una realtà vivente e sacramentale. La campana continua a suonare per risvegliare in noi le voci delle testimonianze passate, future, odierne, eterne. In questo coro il piccolo io finora chiuso in sé si riconosce e si apre alla fratellanza senza confini temporali, geografici, confessionali.

Il secolo alle nostre spalle è un secolo di una grande apostasia, ma anche di un grande martirio. Lo tsunami dei regimi atei o idolatri ha ucciso più cristiani che, forse, in tutte le persecuzioni dei tempi antichi. Dobbiamo però confessare: la loro eredità spirituale lasciataci nella morte, nella tortura o nell’umiliazione oggi non è da noi molto richiesta. Sentiamo davvero la campana che fa risuonare la speranza della risurrezione dell’unico Corpo Mistico, quando veniamo a sapere del sangue versato dai cristiani nel Medio o nell’Estremo Oriente o nelle ultime riserve dell’utopia?

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Paolo ci insegna che ogni essere umano porta quel mistero nel proprio cuore e può illuminarlo con la luce di Cristo. “Il suo cuore era quello di Cristo, la cronaca dello Spirito Santo, il libro della grazia”, dice San Giovanni Crisostomo.

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