Riconosciamo Cristo
nei suoi apostoli
di Vladimir Zelinskij
Si dice, a volte, che i grandi apostoli abbiano anche lasciato il proprio sigillo sulle spalle delle grandi confessioni. Come se lo scisma tra l’Oriente e l’Occidente fosse stato generato dalla fatale incompatibilità tra Pietro, guardiano delle chiavi del Regno, e Giovanni, guardiano del tesoro della contemplazione celeste. E che in seguito, all’interno dell’Occidente cristiano, lo scontro sia stato inevitabilmente prodotto dal fermo e freddo blocco istituzionale e dal fuoco della predica, dalla spada della parola. Vale a dire, dal conflitto covato fra Pietro e Paolo, che è poi esploso nella Riforma. Queste figure di pensiero sono comode, forse, a livello di immaginazione, e ci portano, tuttavia, lontano dalla verità, dal legame indissolubile del messaggio apostolico.
Tra gli apostoli esiste non soltanto una essenziale parentela, ma in ciascuno di essi si può scoprire la paternità spirituale di un’altra Chiesa, il genio che è proprio ad altri. Così in Pietro, emblema dell’azione e dell’ordine, un ortodosso trova una sorgente della propria spiritualità, una "mina" per il suo "tesoro di Giovanni". Quando il Principe degli apostoli chiama ad «adornare l’interno del… cuore con un’anima incorruttibile piena di mitezza e di pace» (1Pt 3,4), non apre forse la strada che porta alla ricerca del cuore, alla teologia dell’uomo interiore, alla purificazione dell’anima? Quando il pescatore di Galilea rivela agli uomini il dono di diventare «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4), sembra che lui abbia istruito san Gregorio Palamas o pregato con san Serafino di Sarov.
Esiste forse un’icona propria di san Paolo, dipinta a Bizanzio o in Russia? Le sue parole sul «mistero di Cristo che è in voi» (Col 1, 27) non hanno forse ripercussioni con la visione giovannea della luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo (cf Gv 1,9)? O la rivelazione del Cristo partorito nel dolore «finché Lui non sia formato in voi» (cf. Gal 4,19) – ma anche in noi tutti – non anticipa la strada dell’ascetica orientale? La stessa lettera unisce il Paolo "mistico" che parla di «Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre», col Paolo "cattolico" che proclama che questa scelta gli è stata offerta per l’annuncio del Figlio «in mezzo ai pagani» (Gal 1, 15-16). Oppure, la Lettera ai Romani – che parla della giustificazione per fede (5,1), proclamata con tanto entusiasmo da un Lutero o da un Karl Barth – non entra, forse, anche nell’orecchio orientale, insieme col messaggio di pace di Dio? Giustificazione gratuita e nello stesso tempo conquistata con la battaglia interiore.
Questa pace non può essere che il frutto della collaborazione con Dio, effetto di una sinergia. I nostri accordi ecumenici vengono sempre cercati nel dominio del pensiero o dei puri concetti, ma è nel cuore della fede vissuta che bisogna incontrarci gli uni cogli altri, prima che la fede si possa esprimere in formule immutabili o in tradizioni intoccabili. Ci si deve capire reciprocamente, nella vita con Dio e davanti a Dio: in una vita nutrita dalle stesse radici apostoliche. Ho sempre creduto che per ritrovare l’unità visibile bisognasse riconoscere il "nostro" Cristo nella fede degli altri. Ora penso che si possa andare avanti, imparando anche a riconoscere lo stesso Cristo nelle parole e nelle confessioni degli apostoli. Si possono discernere i tratti di Paolo in Pietro e scoprirne di ambedue in Giovanni – che dimora in loro.