La cattolicità del martirio
di Vladimir Zelinskij
“Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso… Sia che viviamo, sia che moriamo siamo dunque del Signore”, dice san Paolo (Rom 14,7). È il pronome al plurale che stupisce in questa confessione. Che l’io di un convertito, fulminato da Cristo, si sia tramutato in “noi”. Come se qualsiasi battezzato fosse l’apostolo delle nazioni. Come se le nazioni fossero Paolo. “Ogni cosa era fra loro comune” (Atti 4,32): anche il proprio io può essere prestato alla Chiesa, senza perdere la sua identità particolare. Il nocciolo della persona è davvero quel “del Signore”, in cui ogni uomo può riconoscere l’altro come se stesso, nel suo credere, vivere, morire. La morte, come la fede, può essere una, santa, cattolica e apostolica perché “nessuno muore per se stesso”, ma entra nella vita condivisa con il Crocefisso e con tutti i fratelli addormentati o ammazzati in Lui. L’unità nella morte del Signore e la cattolicità del martirio una volta erano il deposito della fede comune, la ricchezza che insieme possedevamo. Con i secoli della divisione abbiamo però perso la certezza che il sacrificio del mio prossimo si riflette su di me e sulla mia fede - e se il suo tempo è compiuto, il mio sta maturando.
Quel tempo s’avvicina ogni volta che ci giunge la notizia della morte di un cristiano martirizzato in qualche angolo della terra. “Non chiedere per chi suona la campana”, disse John Donne, il poeta inglese del XVII secolo, “essa suona per te”. Il suo rintocco apre le nostre orecchie al mistero del sacrificio nel quale siamo tutti partecipi. I veri martiri non sono solo vittime o poveri sfortunati, la loro morte è come un’offerta portata al medesimo altare dove si compie il sacramento fatto “in memoria di Me”. I testimoni entrano in questa memoria e così nasce anche la loro comunione spirituale che supera i confini del tempo – ma anche, oserei dire, gli abissi delle divisioni. Nella cattolicità del martirio per il Signore la comunione invisibile dei martiri potrebbe un giorno diventare visibile e concreta e l’unità stessa – da un ricordo lontano o dal sogno - può manifestarsi in una realtà vivente e sacramentale. La campana continua a suonare per risvegliare in noi le voci delle testimonianze passate, future, odierne, eterne. In questo coro il piccolo io finora chiuso in sé si riconosce e si apre alla fratellanza senza confini temporali, geografici, confessionali.
Il secolo alle nostre spalle è un secolo di una grande apostasia, ma anche di un grande martirio. Lo tsunami dei regimi atei o idolatri ha ucciso più cristiani che, forse, in tutte le persecuzioni dei tempi antichi. Dobbiamo però confessare: la loro eredità spirituale lasciataci nella morte, nella tortura o nell’umiliazione oggi non è da noi molto richiesta. Sentiamo davvero la campana che fa risuonare la speranza della risurrezione dell’unico Corpo Mistico, quando veniamo a sapere del sangue versato dai cristiani nel Medio o nell’Estremo Oriente o nelle ultime riserve dell’utopia?