Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
Card. Walter Kasper
I. Sono trascorsi più di quaranta anni dalla conclusione, l’8 dicembre del 1965, del Concilio Vaticano II, che ha segnato una svolta decisiva per l’impegno ecumenico, definendo nel Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani uno dei suoi principali intenti. Questo documento inizia con le parole: “Il ristabilimento dell'unità da promuoversi fra tutti i Cristiani, è uno dei principali intenti del Sacro Concilio Ecumenico Vaticano Secondo” (UR 1). Questa opzione del Concilio Vaticano II è fondata sul mandato di nostro Signore, che alla vigilia della sua morte ha pregato “affinché tutti siano una cosa sola.” Il Decreto chiarisce che non si tratta di un ecumenismo qualunque, ma di un ecumenismo della verità e dell’amore, volto a ricomporre l’unità visibile della Chiesa (cf. UR 2 s.).
Da allora in poi l’opzione ecumenica del Concilio è stata dichiarata irreversibile da Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint (1995) (UUS 3), dove egli aggiunge che essa non è una semplice “appendice” all’attività tradizionale della Chiesa (UR 20), ma “una delle priorità pastorali” del suo pontificato (UR 99). E Papa Benedetto XVI fin dal giorno successivo alla sua elezione a sommo pontefice, in un discorso programmatico pronunciato davanti ai cardinali riuniti nel conclave, si è dichiarato disposto a fare quanto è in suo potere per promuovere la fondamentale causa dell’ecumenismo, ribadendo poi questa affermazione durante la cerimonia d’inaugurazione del suo ministero, il 24 aprile 2005 in Piazza San Pietro. Da allora Papa Benedetto ha ripetuto questa affermazione in più occasioni.
Da quando la Chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano II, si è aperta ufficialmente al movimento ecumenico, il dialogo ecumenico ha compiuto grandi passi in avanti. Questo è avvenuto sia a livello delle singole chiese locali che a livello della Chiesa universale. Il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani ha stabilito dialoghi ufficiali o conversazioni ed incontri con quasi tutte le Chiese e Comunità ecclesiali, con le Federazioni o Alleanze confessionali mondiali e con il Consiglio Ecumenico delle Chiese. Ne è scaturito un gran numero di documenti. Grazie a questi dialoghi è stato possibile pervenire ad avvicinamenti sostanziali in varie questioni ed, in alcuni casi, persino a consensi. Pietra miliare di questo percorso è stata la firma della “Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione” con la Federazione Luterana Mondiale (1999), e l’adesione a questa Dichiarazione da parte del Consiglio Metodista Mondiale nel luglio scorso.
Accanto a questi dialoghi è importante ricordare le visite di Papa Giovanni Paolo II a quasi tutti i Patriarchi orientali e soprattutto la recente visita di Papa Benedetto XVI al Patriarca ecumenico e la visita dell’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia a Roma. Le due visite a cui ho appena accennato sono da considerarsi storiche. Oltre ad esse, il rilancio del lavoro della Commissione teologica internazionale per il dialogo con le Chiese ortodosse nel loro insieme ha segnalato una nuova fase nei rapporti con le Chiese ortodosse. Ciò non vuol dire che abbiamo dimenticato i contatti con le comunità che nascono dalla Riforma del XVI secolo. Si potrebbe accennare a tanti incontri incoraggianti ad alto livello con queste Comunità ecclesiali durante l’anno scorso, l’ultimo in ordine di tempo è stata la visita di una delegazione finlandese all’inizio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
Ancora più importante dei singoli risultati dei dialoghi e degli incontri ufficiali ai vertici delle chiese è tuttavia ciò a cui Papa Giovanni Paolo II fa riferimento nella sua Enciclica sull’ecumenismo Ut unum sint (1995), ovvero la fratellanza nuovamente scoperta tra i cristiani. Oggi non parliamo più tanto – come fa osservare il Santo Padre – di “cristiani separati” o di “fratelli e sorelle separati”, ma di “altri cristiani” e di “altri battezzati”. Questo ampliamento di vocabolario è rappresentativo. I cristiani delle varie Chiese e Comunità ecclesiali oggi non si vedono più come avversari; non si pongono più gli uni di fronte agli altri con sentimenti di antagonismo, di competizione o di indifferenza, ma si considerano come fratelli e sorelle che hanno intrapreso insieme il cammino verso la piena unità.
Già oggi si impegnano insieme a favore della pace e della giustizia nel mondo. Sin dall’inizio del moderno movimento ecumenico la promozione dell’unità e la missione nel mondo sono andate di pari passo. Nella promozione dell’unità e nella missione si attua l’auto-trascendenza della Chiesa e inizia la raccolta escatologica di tutti i popoli già annunciata dai profeti.
Alla base di questo sviluppo positivo ed incoraggiante, là dove il movimento ecumenico è inteso nella giusta maniera, non c’è né un filantropismo liberale, né un relativismo o un pluralismo postmoderno che non tiene conto delle differenze confessionali o abbandona l’identità cattolica; anzi, la base dei dialoghi è la comune confessione di fede nella santissima Trinità e in Gesù Cristo, unico e universale salvatore e redentore, e il mutuo riconoscimento dell’unico battesimo, attraverso il quale tutti i battezzati entrano a far parte dell’unico Corpo di Cristo e sono pertanto, fin da ora, in una comunione reale e profonda, anche se non ancora completa. La nuova fratellanza ecumenica dunque non significa semplicemente una realtà sentimentale e una sensazione familiare di cordialità, ma riguarda una realtà spirituale ontologicamente fondata.
Nonostante questi progressi incoraggianti, non si può tuttavia tacere che, al di là delle singole difficoltà, normali e facenti parte della vita, il dialogo si è in qualche modo arenato, anche se non si sono arrestati i colloqui e gli incontri, le visite e la corrispondenza. La situazione è mutata, l’atmosfera non è più la stessa, sono apparse all’orizzonte nuove sfide come per esempio l’enorme crescita dei movimenti evangelicali, pentecostali e carismatici che si sono sviluppati soprattutto nell’emisfero meridionale del mondo. D’altra parte, in alcune comunità protestanti si mostrano tendenze liberali soprattutto in questioni etiche, che creano nuove differenze e difficoltà. Mentre immediatamente dopo il Concilio si constatava talvolta un’atmosfera ottimistica e utopistica, oggi si prevede che il cammino ecumenico, almeno secondo le misure umane, sarà ancora lungo. Come frutto di questa riflessione il tema dell’ultima Sessione plenaria del PCPUC nel novembre 2006 aveva come titolo “L’ecumenismo in via di trasformazione”.
Come sempre ci sono diversi motivi per il cambiamento di una situazione. Uno dei motivi sta nel fatto che, dopo aver superato molti malintesi ed aver conseguito un consenso fondamentale sul fulcro della nostra fede, ora siamo giunti al nocciolo delle nostre differenze ecclesiologiche, o piuttosto delle nostre differenze istituzionali ed ecclesiologiche. Nel dialogo con le Antiche Chiese Orientali e con le Chiese ortodosse questa divergenza riguarda la questione del ministero petrino, mentre, nei rapporti con le Chiese riformate, concerne la questione della successione apostolica nel ministero episcopale. Quest’ultimo punto è tuttavia solamente la punta dell’iceberg di una differenza più profonda nella stessa ecclesiologia. Per poter risolvere tali punti, la Chiesa cattolica ritiene che sia fondamentale affrontare due questioni fondamentali.
Primo: abbiamo bisogno di un ecumenismo fondamentale, cioè dobbiamo rafforzare i fondamenti del nostro impegno ecumenico, la fede in Dio e in Gesù Cristo. Non solo per le altre Chiese, ma spesso anche per noi queste verità fondamentali e centrali stanno scomparendo in molti fedeli. Ma come si può parlare della giustificazione dei peccatori da parte di Dio, se non c’è più un vivace rapporto con Dio e se non c’è più la consapevolezza d’essere peccatore e di avere bisogno della redenzione? Secondo: la questione delle Chiese, quelle intese come Comunione. Intanto dobbiamo essere grati che la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio mondiale delle Chiese ha pubblicato un documento ancora provvisorio su “La natura e la missione della Chiesa”, alla cui elaborazione ha collaborato il nostro Consiglio e alla cui stesura finale vogliamo continuare a cooperare attivamente. Speriamo che questo possa essere un passo e un contributo importante per raggiungere la piena comunione e cioè la comunione eucaristica con i nostri fratelli e sorelle, il che è lo scopo dell’impegno ecumenico.
II. Dopo aver affermato tutto questo e tenendo in considerazione anche i vari passi di avvicinamento, rimane comunque un certo sentimento di delusione e di frustrazione. Per rimettere in moto la situazione attuale, è necessario un impulso ben più forte e vigoroso di quello che, per loro natura, i dialoghi accademici possono dare. In questo momento critico, dobbiamo richiamarci alla forza motrice originaria del movimento ecumenico ed alla dimensione pneumatologica dell’esistenza cristiana e della Chiesa. Perciò accanto alle basi teologica e ecclesiologica già menzionate bisogna riflettere sulle basi pneumatologica e spirituale. Perché l’unità dei discepoli di Cristo non si può “fare”, né tramite dialoghi teologici anche se sono importanti e irrinunciabili, né tramite una certa così detta diplomazia ecclesiastica o tramite azioni pragmatiche, anche se hanno una loro utilità. In ultima analisi l’unità della Chiesa è, sebbene visibile, una realtà peumatologica e quindi un dono dello Spirito di Dio. Secondo l’apostolo Paolo c’è una diversità di carismi nella Chiesa, ma uno solo è lo Spirito (1 Cor 12,4), che è quasi l’anima della Chiesa. È significativo che le parole di Gesù “affinché tutti siano una sola cosa” non è un comandamento ma una preghiera; e l’ecumenismo in ultima analisi non è altro che unirsi a questa preghiera di nostro Signore e farla nostra.
Queste per me non sono solamente riflessioni astratte, sono pensieri che vengono della mia esperienza personale, maturata nel corso di molti anni ma anche di ogni giorno. In questo lasso di tempo ho partecipato a molti dialoghi e a molti incontri ecumenici. Ed era sempre lo stesso. Se questi dialoghi rimanevano soltanto a livello accademico erano forse interessanti ma non portavano frutto. Spesso, quando non c’era preghiera e un’atmosfera spirituale, si poteva dimenticarli. Mentre se c’era un clima di preghiera i cuori si aprivano, era possibile superare malintesi e pregiudizi, promuovere comprensione anche per le differenze, trovare convergenze e talvolta anche consensi e soprattutto cresceva il mutuo amore e lo slancio per continuare.
Questa esperienza personale è confermata dall’esperienza storica della Chiesa. Le divisioni in seno alla cristianità non sono dovute primariamente a dispute a livello di discussioni o a controversie su formule dottrinali divergenti, ma ad un’esperienza di vita che ha portato ad un reciproco allontanamento. Varie forme di vita di fede cristiana sono diventate estranee le une alle altre, fino a non potersi più capire. Così le divisioni del passato sono il risultato – come ha detto il Concilio – di un raffreddamento dell’amore. Problemi, come tali risolvibili, sono diventati ostacoli insormontabili, da differenze, di per sé legittime, sono sorte controversie, che si sono esagerate e assolutizzate. Alla fine ci si è allontanati e non ci si è più compresi. Questo ha condotto ad inevitabili fratture. Diverse condizioni e costellazioni culturali, sociali e politiche hanno svolto un ruolo importante in tutto ciò. Con questo non vogliamo scordare che si è trattato anche di una ricerca della verità e di serie differenze di fede. Ritorneremo in seguito su questo importante aspetto. Ma la ricerca della verità è stata sempre iscritta nell’esperienza concreta e legata a questa inscindibilmente.
D’altra parte già agli inizi, il movimento ecumenico fu in gran parte alimentato da un movimento spirituale, che ha trovato una sua espressione soprattutto nella Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, avviata nel 1933 dall’Abate Paul Couturier, e per noi questa settimana è tuttora il centro ecumenico dell’anno liturgico.
Il Concilio Vaticano II, nel suo Decreto sull’Ecumenismo Unitatis Redintegratio, vede il movimento ecumenico come impulso ed opera dello Spirito Santo (UR 1; 4). E non a caso il Concilio ed il Papa di allora hanno descritto l’ecumenismo spirituale come il cuore del movimento ecumenico (UR 8). Ecumenismo spirituale secondo il Concilio significa: preghiera, soprattutto preghiera ecumenica comune, conversione personale e riforma istituzionale, penitenza e sforzo per la santificazione personale (UR 5-8). Papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica Ut unum sint e in molti altri documenti ha spesso ripetuto e sottolineato questa posizione e Papa Benedetto XVI continua sulla stessa scia.
Recentemente il PCPUC ha pubblicato un piccolo libro sull’ecumenismo spirituale, che si fonda su molte esperienze concrete. La pubblicazione era stato raccomandata dalla Plenaria del 2003. Un primo progetto era stato presentato e discusso alla Conferenza internazionale tenutasi a Rocca di Papa nel novembre 2004 in occasione della celebrazione del 40mo anniversario del Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II. Nel frattempo abbiamo ricevuto molti suggerimenti da organismi ecumenici internazionali e locali. Così il libro è il risultato di molte esperienze mie personali e di tanti altri in varie situazioni e parti del mondo. L’intento della pubblicazione è di dare suggerimenti concreti e pratici a tutti coloro che – come si suol dire sono alla base, cioè nelle diocesi, nelle parrocchie e nelle varie comunità – sono impegnati nel lavoro ecumenico.
Il particolare accento posto sull’ecumenismo spirituale è importante anche alla luce della situazione spirituale attuale che, da una parte, è segnata dal relativismo e dallo scetticismo postmoderni, e dall’altra presenta un desiderio nostalgico di esperienza spirituale, spesso vago e imprecisato. È evidente una scontentezza che scaturisce da un vuoto lasciato da una civilizzazione tecnica, funzionale ed economica. Si percepisce anche una scontentezza con una chiesa prevalentemente istituzionale, che non dà abbastanza nutrimento spirituale, che non soddisfa i desideri più profondi del cuore. Questo è uno dei motivi per cui tanti fedeli lasciano la Chiesa e si associano in comunità carismatiche e pentecostali o si affidano a pratiche esoteriche. Questa situazione ci obbliga a chiarire dapprima il concetto di spiritualità.
III. Attualmente, la parola “spiritualità” è molto utilizzata e racchiude molti significati. È bene allora, per prima cosa, fare un po’ di chiarezza su questo termine e sul suo significato. E poi potremo dare suggerimenti concreti.
Spiritualità è un “prestito” lessicale, che proviene dal cattolicesimo francese. Tradotto letteralmente significa: “pietà”. Tuttavia, con ciò, non è coperta tutta la gamma di significati di tale concetto. Il Dictionary of Christian Spirituality descrive la spiritualità come quel comportamento, quella fede e quell’insieme di pratiche che definiscono la vita degli uomini, aiutandoli a raggiungere realtà che vanno oltre la percezione dei sensi. Per migliorare questa descrizione, potremmo dire che spiritualità è uno stile di vita guidato dallo spirito. Il Lessico ecumenico dice pertanto: “La spiritualità consiste nel dispiegamento dell’esistenza cristiana sotto la guida della Spirito Santo.”
È chiaro allora che il concetto di spiritualità ha due componenti: una dimensione che proviene “dall’alto” e che non è influenzata dall’uomo poiché è opera dello Spirito di Dio, ed una dimensione “dal basso”, che racchiude la condizione umana e la situazione contingente in cui si trova l’esistenza cristiana ed in cui essa tenta di forgiarsi e definirsi spiritualmente. La spiritualità vive dunque in tensione tra l’unico Spirito Santo, che opera ovunque ed in tutto, e la varietà delle realtà e delle forme di vita umane, culturali e sociali. È quindi nella tensione tra unicità e pluralità che risiede fondamentalmente il significato della spiritualità.
Con questa tensione la spiritualità racchiude il pericolo o di una spaccatura o di preponderanza di un elemento. In quanto espressioni culturali e terrene della fede incarnata, le spiritualità portano in sé il rischio del sincretismo, quando la fede cristiana si mischia ad elementi religiosi e culturali non adatti, che falsano la fede stessa. Le varie spiritualità possono anche unirsi a scopi e questioni politiche, conferendo alla fede cristiana non solo un tono nazionale, ma anche un’impronta ideologica pseudo-spirituale o nazional-sciovinista. In alcune forme di fondamentalismo religioso tale pericolo è estremamente evidente. A fianco di queste, esistono altre forme di spiritualità, di cosiddetta spiritualità ecumenica che sono solo emotive e sentimentali e possono essere descritte come banalizzazione borghese della fede cristiana.
Ogni spiritualità deve pertanto chiedersi da quale spirito si lascia guidare, dallo Spirito Santo o dallo spirito del mondo e del tempo. La spiritualità richiede un discernimento degli spiriti. La spiritualità non è esonerata dalla ricerca della verità. Per questo, non ci si può sottrarre comodamente alla teologia richiamandosi alla spiritualità. La spiritualità, per rimanere sana, ha bisogno di una riflessione teologica.
IV. I grandi maestri della vita spirituale ci hanno lasciato un ricco tesoro di esperienze per il discernimento degli spiriti. Le più conosciute sono le regole per il discernimento degli spiriti del libretto di esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Vale la pena rileggerle attentamente, dal punto di vista ecumenico; è possibile, in tal senso, trarne un grande beneficio. Tuttavia, io preferisco intraprendere qui un altro cammino ed interrogarmi, in tre punti, su quale sia la natura e l’opera dello Spirito a livello sia biblico che sistematico per giungere ad una spiritualità ecumenica oggettiva sulla base di una teologia riflettuta dello Spirito Santo.
1. Il significato fondamentale in ebraico e in greco di “spirito” (ruah, pneûma) è vento, respiro, soffio e – poiché il respiro è segno di vita – vita, anima ed infine, in senso traslato, lo spirito come principio vitale dell’uomo, come sede delle sue sensazioni spirituali e della sua volontà. Non si tratta tuttavia di un principio immanente nell’uomo; si riferisce piuttosto alla vita donata e resa possibile da Dio. Dio dona lo spirito e lo può anche riprendere. Lo spirito di Dio è dunque la forza vitale creatrice di tutte le cose. Esso dà all’uomo sensibilità artistica e perspicacia, discernimento e saggezza.
È lo Spiritus creator, che opera in tutta la realtà della creazione. “Lo spirito del Signore riempie l’universo, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce” (Sap 1,7; cf. 7,22-8,1). Secondo l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, soccorre nelle attese e sofferenze del mondo, intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili (Rom 8,26 s). Secondo Agostino, lo Spirito è “la forza di gravità della carità, lo slancio verso l’alto, che si oppone alla forza di gravità verso il basso e conduce tutto alla realizzazione in Dio” (Conf. XIII, 7,8). Ogni verità – come ci insegna Tommaso d’Aquino – da ovunque essa derivi, proviene dallo Spirito Santo (cf. S. th I/II,109,1).
Una dottrina dello Spirito Santo pertanto non si deve rintanare fin dall’inizio dietro le mura di una chiesa o ripiegarsi su se stessa. Essa deve situarsi all’interno di una prospettiva universale. La pneumatologia è possibile soltanto nell’ascolto, nell’attenzione rivolta alle tracce, alle attese, alle gioie e alle vanità della vita, nell’osservazione dei segni del tempo che si trovano ovunque, là dove la vita nasce, è in fermento, si espande, ma anche là dove le speranze di vita vengono frantumate, strozzate, imbavagliate e soppresse. Ovunque si mostri la vita vera e nuova, là è all’opera lo Spirito di Dio.
Il Concilio Vaticano II ha visto questo operare universale dello Spirito non solo nelle religioni dell’umanità, ma anche nella cultura e nel progresso degli uomini (cf. Gaudium et spes, 26; 28; 38; 41; 44). Papa Giovanni Paolo II ha sviluppato ulteriormente questo pensiero nella sua Enciclica sulle missioni Redemptoris missio, dove leggiamo: “Lo Spirito, dunque, è all’origine stessa della domanda esistenziale e religiosa dell’uomo, la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti, ma dalla struttura stessa del suo essere”. Poi il Santo Padre continua: “La presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni. Lo Spirito, infatti, sta all’origine dei nobili ideali e delle iniziative di bene dell’umanità in cammino” (n. 28).
Una spiritualità ecumenica ispirata alla Bibbia non può dunque ripiegarsi su se stessa o essere esclusivamente ecclesiocentrica. Essa deve essere attenta alla vita e servire la vita. Deve occuparsi della quotidianità, delle piccole esperienze di tutti i giorni, così come delle grandi questioni di vita e sopravvivenza dell’uomo moderno, ma anche delle religioni e delle opere della cultura umana. Secondo un principio della mistica tardomedioevale e di Ignazio di Loyola, è possibile trovare Dio in tutte le cose.
Spiritualità ecumenica significa cooperazione in favore della vita, della giustizia, dei diritti dell’uomo e della pace. In questo contesto non penso in primo luogo a azioni spettacolari, ma a cooperazione nelle opere di carità di ogni giorno, per i bambini, i giovani, i malati, gli handicappati e gli anziani. Penso anche alla cooperazione nella pastorale per i turisti, nei mass media ecc. In tutti questi ambiti dobbiamo superare lo spirito di competitività, perché deve imperare la solidarietà. Possiamo fare tante cose insieme, e tramite questa cooperazione ci conosciamo meglio e cresciamo insieme.
2. Lo spirito nella Bibbia non è solo forza creatrice di Dio: è anche la forza divina che si esplicita nella storia. Lo Spirito parla attraverso i profeti e viene promesso come lo spirito messianico (Is 11,2; 42,1). È la forza della nuova creazione, che trasforma il deserto in paradiso e lo rende luogo di legge e di giustizia (Is 42,15 ss). “Non con la potenza, né con la forza, ma col mio spirito” (Zac 4,6). Lo spirito avvicina dunque la creatura che geme e soffre al Regno della libertà dei figli di Dio (cf. Rom 8,19 ss).
Il Nuovo Testamento annuncia la venuta del Regno della libertà in Gesù Cristo. Egli nasce dallo Spirito (Lc 1,35; Mt 1,18.20); nel momento del battesimo, lo Spirito discende su di lui (Mc 1,9-11); tutta la sua opera sulla terra è nel segno dello Spirito (Lc 4,14.18; 10,21; 11,20). Lo Spirito riposa in lui; così egli può annunciare il messaggio di gioia ai poveri, la libertà ai prigionieri, la vista ai ciechi e la giustizia agli afflitti (Lc 4,18). La sua risurrezione avviene nella forza dello Spirito (Rom 1,3) e nella forza dello Spirito egli continua ad essere presente nella Chiesa e nel mondo. “Il Signore è spirito” (2 Cor 3,17).
Poiché in Gesù Cristo, nella sua vita sulla terra e nella sua opera come Redentore, l’azione dello Spirito iscritta nella storia della salvezza giunge alla sua pienezza escatologica, lo Spirito è per Paolo lo Spirito di Cristo (Rom 8,9; Fil 1,19), lo Spirito del Signore (2 Cor 3,17) e lo Spirito del Figlio (Gal 4,6). La confessione di Gesù Cristo è quindi il criterio fondamentale per il discernimento degli spiriti: “…nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire: ‘Gesù è anatema’, così nessuno può dire: ‘Gesù è Signore’, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12,3).
Con ciò viene affermato il criterio cristologico, che è decisivo in una spiritualità ecumenica. Esso vuole lottare contro il pericolo di un relativismo e sincretismo spirituale, che minaccia le esperienze spirituali delle varie religioni, confondendole tra loro o selezionandole in maniera eclettica. La spiritualità ecumenica preserva l’unicità e l’universalità del significato salvifico di Gesù Cristo. Essa è anche contraria alla tentazione sognatrice ed esaltata di eliminare l’intermediazione cristologica e accedere direttamente a Dio. E ricorda: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18).
Una spiritualità ecumenica legittima sarà dunque in prima linea una spiritualità biblica ed avrà un influsso sulla lettura comune delle scritture e sullo studio comune della Bibbia. Essa si impregnerà della Lectio divina, tanto raccomandata dal Concilio (DV 25), cioè la lettura della Bibbia legata alla preghiera che diventa un colloquio fra Dio e l’uomo. Essa rifletterà continuamente sui racconti biblici della venuta di Gesù, sul suo messaggio di libertà, sulla sua opera liberatoria e salvifica, sul suo servizio degli altri, sulla sua kenosi fino alla morte, sulla sua intera persona e sul suo intero operato, facendo di questi il criterio fondante. Essa si impregnerà della sequela di Gesù e continuerà a cercare il volto di Cristo, come ha menzionato in maniera programmatica Giovanni Paolo II nella sua Lettera Apostolica Novo millennio ineunte del 2001. Tale spiritualità si rivela in ciò che Paolo definisce i frutti dello Spirito: carità, gioia, pace, pazienza, affabilità, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza (Gal 5,22).
Spiritualità cristocentrica significa spiritualità dell’ascolto della parola e significa anche spiritualità sacramentale. Cristo è presente nella parola e nei sacramenti; il Concilio ha rinnovato l’immagine della mensa della parola e del corpo di Cristo (DV 21). Ecumenicamente abbiamo in comune soprattutto il Battesimo, tramite il quale siamo membra dell’unico corpo di Cristo e già adesso in una comunione profonda sebbene non piena. Pertanto le celebrazioni di commemorazione del Battesimo comune sono centrali per una spiritualità ecumenica. Si può pensare alla festa del Battesimo di Cristo o a cerimonie nel periodo della Quaresima. Purtroppo non è possibile una piena comune partecipazione all’eucaristia. Conosco bene i problemi pastorali che ne possono scaturire. Negli ultimi anni si è sviluppata la consuetudine, che coloro che non possono pienamente partecipare e non possono comunicarsi chiedono la benedizione del sacerdote; così non si sentono esclusi e partecipano come è loro possibile.
La spiritualità cristologica valorizza anche i testimoni di Cristo. Abbiamo in comune molti santi dei primi secoli e abbiamo moltissimi testimoni, che possiamo chiamare martiri soprattutto nel secolo scorso. Essi sono modelli ed esempi della sequela di Gesù. Non da dimenticare Maria, la Madre di Gesù. Anche molti evangelici oggi la riscoprono come una figura biblica e come sorella nella fede.
Infine, nello Spirito, possiamo e dobbiamo dire “Abba, Padre!” come Gesù ha detto a Dio (Rom 8,15.26 ss; Gal 4,6). Pertanto, una spiritualità ecumenica è una spiritualità della preghiera. Come Maria e gli Apostoli – ed insieme ad essi – tale spiritualità deve raccogliersi sempre nella preghiera per la venuta dello Spirito che unisce tutti i popoli nell’unica lingua, nella preghiera per la venuta di una Pentecoste rigeneratrice (cf. Atti 1,13 ss.). Una spiritualità ecumenica vive, come lo stesso Gesù, della preghiera; si accorda alla preghiera di Gesù e si unisce a lui, nel chiedere che tutti siano uno (cf. Gv 17,21). Nella preghiera sopporta, come Gesù sulla croce, anche l’esperienza dell’abbandono dello spirito e dell’abbandono di Dio (cf. Mc 15,34); solo nella forza della preghiera può sopportare difficoltà e delusioni ecumeniche, come pure l’esperienza ecumenica del deserto.
3. Accanto al criterio cristologico per Paolo c’è anche il criterio ecclesiologico. Paolo collega lo Spirito alla costruzione della comunità e al servizio nella Chiesa. Lo Spirito è stato donato per il bene di tutti. I vari doni dello Spirito devono servire quindi gli uni agli altri (1 Cor 12,4-30). Lo Spirito non è uno Spirito di confusione, ma un Dio di pace (1 Cor 14,33). Però l’opera dello Spirito non è limitata alle istituzioni della Chiesa e monopolizzata da esse, lo Spirito è dato a tutti come afferma la Bibbia, ognuno ha il suo carisma. Ma lo Spirito non opera quando gli uomini sono gli uni contro gli altri, ma quando essi sono gli uni con gli altri, e grazie al contributo personale da parte di ciascuno. Lo Spirito è avverso ad ogni divisione in fazioni e partiti. Il maggior dono dello Spirito è la carità, senza la quale la conoscenza non ha nessun valore. La carità non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio; tutto sopporta e non viene mai meno (cf. 1 Cor 13,1-4.7).
La tradizione teologica ha sviluppato proprio questo aspetto. Secondo Ireneo di Lione, la Chiesa è “il recipiente, in cui lo Spirito ha riversato la fede e la mantiene fresca”; là dove è la Chiesa, è anche lo Spirito di Dio; là dove è lo Spirito di Dio, là è la Chiesa e tutta la grazia” (Adv. haer. III, 24,1). Ed Ippolito dice: “Festinet autem et ad ecclesiam ubi floret spiritus” (Trad apost. 31; 35). In tutta la tradizione occidentale, ispirata soprattutto da Agostino, lo Spirito è l’amore tra Padre e Figlio, è ciò che c’è di più interno a Dio ed al tempo stesso è di più esterno a Dio, poiché, in lui e attraverso di lui, l’amore di Dio si riversa nei nostri cuori. Nello Spirito Dio dona il suo intimo all’esterno cosicché noi possiamo condividere la sua vita. Lo Spirito è dunque il principio vitale della vita cristiana e quasi l’anima della Chiesa (cf. LG 7).
La spiritualità ecumenica è dunque una spiritualità ecclesiale e, per questo, una spiritualità comunitaria. La spiritualità ecumenica si sforzerà di giungere al “Sentire ecclesiam”, tenterà di entrare più profondamente nell’essenza, nella tradizione ed in particolare nella liturgia della Chiesa, rendendo la liturgia attuale e consapevole. La spiritualità ecumenica vive della festa della liturgia. Tale spiritualità ecumenica perlopiù viene vissuta soprattutto in gruppi e circoli ecumenici. Questi gruppi, tuttavia, non possono distaccarsi dalla più ampia comunità della Chiesa ed elevarsi sopra di essa. Non possono fare ecumenismo a loro proprio gusto e maniera. Debbono sentirsi come membri che contribuiscono alla vita di tutto il corpo della Chiesa e d’altra parte ricevono anche dalla comunità più grande. La spiritualità ecumenica si studia di conservare l’unità dello Spirito (cf. Ef 4,3).
Vivere nella Chiesa, con la Chiesa e vivere la Chiesa vuol dire soffrire anche nella Chiesa e con la Chiesa. Essa soffre e sanguina per le ferite inferte dalle divisioni. Tale sofferenza è essenziale per la spiritualità ecumenica. Così, la spiritualità ecumenica mobilita la coscienza della Chiesa, impedendole di ripiegarsi su se stessa e sulla sua autosufficienza confessionale stimolandola, al contrario, a ricorrere e ad attingere alla ricchezza delle altre tradizioni per cercare una più ampia unità ecumenica e, in tal modo, pervenire alla pienezza concreta della sua cattolicità. Essa, quindi, schiude in maniera profetica una visione del futuro davanti alla realtà ecclesiale concreta, senza sfuggire di fronte a questa realtà, ma sforzandosi invece con pazienza e costanza di giungere al consenso.
È lo Spirito che ci fa entrare nella verità sempre più grande e sempre più profonda; esso deve guidarci in tutta la verità (Gv 16,13). Ciò avviene in vari modi, uno dei quali, secondo il testo conciliare già citato, è l’esperienza spirituale. Di questa fa parte anche l’esperienza spirituale ecumenica. Infatti, il dialogo ecumenico non è semplicemente uno scambio di idee, ma uno scambio di doni e di esperienze spirituali (UUS 28). Ciò è possibile per ogni cristiano, nel luogo e nel modo suo proprio, poiché ognuno a suo modo è un esperto, è una persona che ha fatto delle esperienze e vuole comunicarle ad altri. Per il dialogo ecumenico vale dunque quanto ha detto Paolo per ogni raduno della comunità: Quando vi riunite, ognuno porti il proprio contributo (cf. 1 Cor 14,26).
Negli ultimi decenni noi cattolici abbiamo imparato molto dalle esperienze dei nostri fratelli e delle nostre sorelle protestanti per quanto riguarda il significato della Parola di Dio e l’interpretazione della Sacra Scrittura; essi, a loro volta, imparano dalla realtà dei nostri segni sacramentali e dal nostro modo di celebrare la liturgia. Nell’incontro ecumenico con le Chiese orientali, possiamo apprendere dalla loro ricchezza spirituale e dal loro rispetto per il mistero, mentre esse possono condividere le nostre esperienze pastorali e le nostre esperienze a contatto con il mondo odierno. Come suggerisce un’espressione ispirata di Papa Giovanni Paolo II, la Chiesa può dunque imparare a respirare di nuovo con due polmoni.
Pertanto, il dialogo ecumenico non ha come obiettivo primario quello di indurre gli altri a convertirsi alla nostra Chiesa ma la conversione di tutti a Cristo. Naturalmente, le singole conversioni nel senso tradizione non possono e non devono essere escluse; dobbiamo avere un grande rispetto per le decisioni prese a livello di coscienza personale che motivano tali scelte. Tuttavia, anche nel caso della singola conversione, difatti non si tratta di una conversione ad un’altra Chiesa, ma di una conversione alla piena verità di Gesù Cristo. In tal senso, tutti devono convertirsi, dato che la conversione non è un atto compiuto una volta per sempre, ma è un processo continuo.
L’incontro ecumenico sostiene tale conversione, poiché conduce all’esame di coscienza ed è inseparabile dalla conversione personale e dal desiderio di una riforma della Chiesa (cf. UUS 16; 34 ss; 83 ss). Quando, scambiandoci le nostre reciproche esperienze confessionali e partendo dai nostri diversi presupposti, ci avviciniamo a Gesù e raggiungiamo la misura della piena statura di Cristo (Ef 4,13), allora diventiamo con lui una cosa sola. Lui è la nostra unità. In lui, dopo aver superato le nostre divisioni, possiamo realizzare storicamente, in maniera concreta, anche tutta la pienezza della cattolicità.
Chiediamoci adesso: qual è l’unità della pienezza verso cui ci avviamo? La risposta è la seguente: non si tratta di una fusione come quella delle grandi ditte internazionali nel nostro mondo globalizzato; non è neppure un sistema complessivo, dal punto di vista speculativo o istituzionale, nel quale gli opposti si annullano, sul tipo della dialettica hegeliana. In questo risiede la differenza di fondo tra dialogo e dialettica. Certo, il dialogo tenta di dissipare i malintesi e superare le divisioni tra i partner, tendendo alla riconciliazione. Ma proprio la riconciliazione non cancella l’alterità dell'altro, non l’assorbe e non la risucchia, facendola scomparire. Al contrario, la riconciliazione riconosce l’altro nella sua alterità. L’unità nella carità non viene raggiunta quando l’identità dell’altro è annullata e assorbita, ma, al contrario, quando questa viene confermata e riempita.
Quest’esperienza dell’unità nella carità è il modello dell’unità cristiana ed ecclesiale. Essa trova, in ultima analisi, il suo fondamento nell’amore trinitario tra Padre, Figlio e Spirito Santo ed è il modello per l’unità ecclesiale; l’unità della Chiesa è come un’icona della Trinità (cf. LG 4; UR 3).
In ultima analisi, l’ecumenismo e l’unità sono un evento spirituale. Là dove si perviene ad un consenso ecumenico, questo consenso sarà sperimentato come un dono spirituale e come una nuova Pentecoste. Di questa nuova Pentecoste ha parlato Papa Giovanni XXIII, aprendo il Concilio Vaticano II con una chiara prospettiva ecumenica. Sono convinto che, se noi preghiamo come Maria e gli apostoli nel Cenacolo (Atti 1,12-14) e se ci impegniamo per quanto ci è possibile, un giorno riceveremo questo dono.
di Giannino Piana *
La casa costituisce un bene fondamentale per il singolo e per la famiglia: un bene che offre stabilità e sicurezza e garantisce le condizioni perché possano svilupparsi rapporti umani autentici e sereni. Purtroppo esistono tuttora, anche nel nostro Paese, condizioni di oggettiva difficoltà di accesso a questo bene per un numero consistente di persone. Se è vero infatti che in Italia il numero di famiglie con casa propria è decisamente alto - 18,6 milioni di famiglie sono, secondo le più recenti rilevazioni dell’lstat, in questa condizione (e a esse si aggiunge un’altra quota che ne gode in usufrutto) - non mancano, tuttavia, e sono circa 4,2 milioni quelle che, invece, non godono di tale privilegio; tra queste circa un terzo degli affittuari è composto da famiglie giovani. Non meno consistente è, d’altronde, il numero di giovani famiglie che, volendo farsi la propria casa, sono impegnate a pagare ingenti mutui con pesanti oneri sui redditi: stando (sempre) ai dati dell’lstat si tratterebbe del 37,7% dei 2,2 milioni di famiglie che hanno contratto mutui per la casa e che versano mensilmente una cifra che si aggira attorno ai 620 euro.
E’ dunque possibile affermare che sta emergendo una nuova categoria di poveri costituita da un numero sempre più esteso di famiglie a basso reddito, che vivono in affitto, e ciò soprattutto nelle grandi città. Il costo dei prezzi delle case (in affitto e in vendita), che cresce secondo una dinamica esponenziale, causa anzitutto la tendenza all’indebitamento e provoca la drastica riduzione di altri consumi, a partire da quelli legati a beni immateriali come la cultura, i viaggi, ecc. Ma tale costo è anche una delle principali ragioni della difficoltà di intraprendere scelte di vita, come quella matrimoniale, e soprattutto dell’impossibilità a mettere al mondo figli: la depressione demografica, di cui il nostro Paese da tempo soffre - il lieve incremento di questi ultimi anni è, in larga misura, da addebitare alla presenza sempre più massiccia di extracomunitari sul nostro territorio - è dovuta anche a questo motivo.
Il diritto alla casa è un diritto fondamentale di ogni cittadino che, come tale, deve essere tutelato dall’intervento delle istituzioni pubbliche. L’impegno a mettere ciascuno nella condizione di fruire di un bene così importante va posta al centro delle politiche sociali, che devono preoccuparsi di creare consistenti agevolazioni per l’acquisto della prima casa e di predisporre interventi sul mercato volti a calmierare i prezzi degli affitti e a controllarne le modalità di contrattazione, L’assenza di “regole” determina infatti lo sviluppo di una concorrenzialità senza freni, che ha come esito il forte rialzo dei prezzi, perciò l’impossibilità per molti di accedere alla casa o, qualora l’accesso avvenga, la costrizione a subire pesanti limitazioni.
Ma l’impegno strutturale non basta Anche su questo terreno si fanno infatti sentire le gravi sperequazioni che tuttora esistono nel nostro Paese. A fronte delle difficoltà rilevate, che inaugurano - come si è detto - una nuova frontiera del disagio, costituita da un numero sempre più consistente di giovani famiglie (in particolare quelle che hanno un capofamiglia al di sotto dei 35 anni), si assiste anche da noi all’innalzarsi costante del numero di famiglie che posseggono doppie (triple, e così via) case, spesso inutilizzate (o quanto meno sottoutilizzate). E’ questo il sintomo di uno stato diffuso di ingiustizia sociale, che reclama una profonda conversione delle coscienze. Il fatto che un bene essenziale come la casa non sia ancora appannaggio di tutti testimonia la mancata attuazione di quella uguaglianza, che pure è uno degli obiettivi-cardine della nostra Costituzione.
La politica è pertanto chiamata in causa come primo attore; ad essa spetta non solo intervenire per sanare il divario sociale o, come recita la Carta costituzionale, per «rimuovere gli ostacoli» che impediscono a molti cittadini di esercitare di fatto il diritto di cittadinanza, ma anche per alimentare la consapevolezza della comune appartenenza e della necessità di concorrere insieme a perseguire responsabilmente il bene comune. Ciò è tuttavia reso possibile solo dalla presenza di una classe dirigente che anziché invitare i cittadini, come si è verificato in occasione dell’ultima campagna elettorale, a votare «secondo i propri interessi» (e non secondo quelli della Nazione), si impegni a creare condizioni di sempre maggiore perequazione sociale, eliminando situazioni scandalose, che mantengono in posizione di minorità o di esclusione sociale un numero ancora consistente di cittadini.
* docente di teologia morale
(da Jesus, dicembre 2006)
di Estelle Villeneuve *
Le rovine di Qumran sono conosciute in tutto il mondo come il “monastero” della setta ebraica essena. Tuttavia, da una quindicina d’anni, i progressi della ricerca – archeologica e testuale – spingono a riconsiderare le vestige e a sfumare, se non a contraddire, il modello stabilito.
Luogo stupefacente quello di Khirbet Qumran, sulla riva occidentale del Mar Morto, ai piedi dei monti scoscesi della Giudea. Visitate varie volte fin dalla metà del secolo XIX, senza attirare l’attenzione, queste rovine insignificanti avrebbero poi acquistato notorietà se, un bel giorno del 1947, sette rotoli di pelle eccezionali non fossero stati trovati in una cavità naturale della roccia, poche centinaia di metri più in là? Sotto il fuoco dei proiettori dapprima puntati sulle grotte e il loro tesoro di manoscritti, i ruderi di Khirbet Qumran hanno preso un’importanza formidabile. Infatti i testi facevano eco al modo di vita e alle credenze degli Esseni, descritti dagli autori antichi. Per questo gli archeologi si interessarono di nuovo alle rovine, sperando di trovarvi le tracce della setta scomparsa
In questa prospettiva furono portate avanti sei campagne di scavi, fra il 1951 e il 1958, sotto la guida del padre domenicano Roland de Vaux, archeologo e biblista famoso della Scuola biblica di Gerusalemme. Assistito da giovani ricercatori, con una cinquantina di operai arabi, liberò completamente gli edifici di Khirbet Qumran e una cinquantina di tombe del cimitero a fianco; una campagna fu consacrata anche alla dipendenza di ‘Ain Feshka, un‘oasi a due chilometri sulla riva del Mar Morto. Dovendo fronteggiare l’urgenza di un salvataggio, in un clima politico in crisi, il gruppo lavorava da pioniere dell’archeologia classica regionale, con i metodi di scavo che prevalevano in quel momento.
Lo scenario essenico del padre de VauxFin dalla prima campagna, l’ipotesi del nesso fra le rovine e le grotte parve confermato dalla presenza qui e là di uno stesso modello di giare cilindriche con coperchio. Fino alla fine dello scavo il padre de Vaux confrontò continuamente le sue osservazioni con l’ipotesi di un insediamento essenico, ritenendo che nulla, nella disposizione dei luoghi e negli arredi ritrovati venisse a contraddirla formalmente. Nello scenario dell'occupazione dei luoghi che egli ricostruì, le tre dominanti del paesaggio circostante – grotte, rovine, cimitero – si trovavano riunite come il teatro coerente di un dramma essenico in tre atti.
La fase I aveva visto l’istallazione del gruppo dopo la rottura con il giudaismo ufficiale verso la metà del II secolo prima della nostra era.
Dopo un breve abbandono in seguito a un terremoto nel 31 a.C., la comunità avrebbe rioccupato i luoghi verso l'anno 4 o 1: è la fase II, interrotta brutalmente quando i Romani devastarono la regione nel 68 per dominare la prima rivolta giudaica. Infine, nella fase III, una guarnigione romana si sarebbe accampata per poco tempo nei ruderi fino alla caduta di Masada nel 73.
Questa ricostruzione della storia di Qumran, esposta in vari articoli apparsi fra il 1956 e il 1963, si è imposta rapidamente nella comunità scientifica e nel grande pubblico. Per più di trent’anni è stata accettata all’unanimità.
Le nuove ipotesi degli anni ‘90A poco a poco la pubblicazione dell’insieme dei documenti estratti dalle undici grotte rivelò una maggiore diversità di tendenze giudaiche, minimizzando il contributo essenico che era stato ipotizzato in un primo momento. Questa nuova valutazione portò con sé una nuova ricerca sulle vestigia. Se i testi infatti non erano più necessariamente esseni, i ruderi lo erano ancora? La domanda pareva tanto più pertinente in quanto i progressi dell’archeologia regionale offrivano ormai al sito un contesto geoculturale più vasto. I luoghi oggetto di scavi in Giudea (Gerusalemme, Gerico, Masada, Erodione) o sulla riva oltre il Giordano (Calliroè, Macheronte) avevano infatti apportato nuovi contributi alla storia dell’architettura e alla datazione delle ceramiche. Qumran sorpassava il quadro strettamente essenico che gli era stato attribuito. Il consenso alla tesi del padre de Vaux non poteva più reggere. Fin dal 1994 alcuni archeologi, ipotizzando una provenienza non qumranica dei manoscritti, vollero dissociare la coppia sito/grotte e sottrarsi alla lettura imposta dai testi. Furono avanzate interpretazioni alternative, per la maggior parte profane, modificando il punto di vista originale. La storia militare della regione suscitò l’idea di un fortino di resistenti contro Roma, con il suo bastione e a fianco il cimitero dei suoi prodi. Mettendo l’accento sulle risorse agricole della regione, altri scoprirono una villa rustica che viveva della coltivazione del balsamo per estrarne l’essenza. Altri vi videro un centro commerciale o, più recentemente, una fabbrica industriale di ceramiche con i suoi bacini di decantazione dell’argilla.
La via del compromesso Ma si può rivedere l’interpretazione del padre de Vaux alla luce dei dati nuovi, senza per questo escludere completamente l’Esseno? Jean-Baptiste Humbert, archeologo alla Scuola biblica e incaricato della pubblicazione finale degli scavi, difende questa terza via. Egli rafferma che Khirbet Qumran e i suoi abitanti furono certamente implicati nel deposito dei rotoli nelle grotte, quale che sia la provenienza dei manoscritti. Infatti le giare così particolari che li proteggevano non hanno equivalenti fuori del sito dove si trovano in gran quantità. D’altra parte la maggior parte dei manoscritti si trovavano in grotte artificiali scavate negli strapiombi marnosi proprio ai piedi dell'insediamento.Quanto alla fase iniziale dell’occupazione del luogo, l’esame dell’architettura lascia intravedere nella pianta dell’edificio principale, con il suo cortile centrale e i resti sparsi di una decorazione monumentale, un edificio ristrutturato caratteristico delle case nobiliari dell’Oriente ellenizzato. Contrariamente dunque allo scenario del P. de Vaux, l’occupazione è stata dapprima aristocratica e profana e, secondo le monete, non potrebbe risalire a prima del regno dell’asmoneo Alessandro Gianneo, fra il 104 e il 75 a.C.
L’insediamento non ha cambiato natura che nella seconda metà del I secolo prima della nostra era. In mancanza di iscrizioni che designino per nome gli abitanti del sito, l’archeologia non può affermare che essi fossero esattamente degli Esseni. In cambio può discernere gesti e usanze che competono all’antropologia religiosa. Vari indizi infatti vanno nel senso della pratica rituale ebraica: l’asse del recinto nord che è spostato rispetto al resto degli edifici, ma orientato verso Gerusalemme, dà la direzione del tempio dal quale sono separati, verso il quale dirigere le preghiere. Un lungo muro collega Qumran all’oasi di Ain Feshka; non può essere né recinto, né fortificazione, ma potrebbe essere un eruv, cioè la clausura simbolica che delimita lo spazio di circolazione consentito nel giorno di sabato. Ossa di animali seppellite in vasellami sotto il pavimento del recinto nord e accanto al “refettorio” sono senza dubbio i resti di pasti rituali, eventualmente consumati nell’ambito di un pellegrinaggio pasquale degli ebrei d’oltre Giordano. I vasellami del “refettorio” non potevano servire ai pasti perché il locale in cui erano stati sistemati era stato murato; bisognerà piuttosto vedervi dei vasi sacri che siano andati in disuso oppure messi al riparo da una profanazione? Tutti questi elementi precisano il carattere giudaico, assai pio, dell’occupazione del luogo nella fase che precedette la distruzione del 68.
In definitiva, Qumran fu, sì o no, essena? Certamente sì, se si ascoltano le testimonianze degli autori antichi che localizzavano le comunità essene in questo settore occidentale del Mar Morto. Ma se la storia consente di considerare il sito come esseno, l’archeologia non autorizza più a vederlo come il centro chiuso di una comunità che vivesse reclusa alla maniera dei monasteri medioevali. Questa prospettiva non contraddice le testimonianze degli autori antichi, ma priva gli esegeti di una cornice forse prefabbricata in cui l’Esseno, stereotipato, sembrava muoversi a suo agio.
* Archeologa, ricercatrice a l’UMR «Archéologie et Sciences de l’Antiquité»Nei due Libri dei Re si raccontano le vicende storiche dei due regni: quello del Nord Israele, con la capitale Samaria, e quello del Sud, regno di Giuda, con la capitale Gerusalemme.
di Claudio Doglio
L'ultima parte del libro di Isaia sembra organizzata come una antologia concentrica, che ha il proprio punto focale nei capitoli 60-62. Questi testi rappresentano il nucleo fondamentale della sezione e rispecchiano perfettamente la predicazione consolatoria e promissoria dell'anonimo profeta che i moderni hanno chiamato Terzo-Isaia: la sua struttura può essere così sinteticamente rappresentata:
60,1-22 annuncio della luce per la nuova Gerusalemme;
61,1-11 vocazione e missione del profeta;
62,1-12 promessa del nuovo splendore di Gerusalemme.
Il centro di questo poema centrale, dunque, è costituito dal capitolo 61, in cui l'autore parla di sé e della propria missione.
Un messia sacerdotale
L'orizzonte storico in cui si muove l'autore è quello della comunità giudaica, ritornata nella terra di Israele dopo l'esilio: l'interesse è centrato sulla città di Gerusalemme che si trova in uno stato pietoso, ma alla quale viene predetto un meraviglioso futuro. Il tempio sembra ancora abbattuto o in via di difficile ricostruzione; i rimpatriati sono in preda alla sfiducia e alle lotte intestine; devono per di più affrontare difficoltà morali e religiose, dal momento che alcuni Giudei si sono abbandonati all'idolatria ed i capi del popolo sono inetti ed indifferenti.
Gli ultimi capitoli del libro di Isaia non sono un'opera unitaria, ma una raccolta di materiale che proviene da epoche diverse, sono composti con stili e linguaggi differenti e riflettono il pensiero di varie correnti religiose e spirituali: è difficile, quindi, parlare di un personaggio storico ed identificarlo con l'autore di tutti questi capitoli. Eppure la relativa unità dell'insieme permette di immaginare una figura storica di profeta post-esilico che abbia, per lo meno, svolto un'opera letteraria di raccolta e di compilazione redazionale. In tal modo il Terzo-Isaia può essere immaginato come una guida spirituale dei rimpatriati, pastore di anime e poeta di rinnovamento: con la sua opera letteraria egli vuole innanzi tutto risollevare gli animi oppressi dallo scoraggiamento.
Le affinità di stile con Is 40-55 fanno pensare ad un discepolo del Secondo- Isaia, suo grande ammiratore e tutto pervaso dello spirito del nobile maestro. Ritornato in patria egli avrebbe voluto continuare l'opera del maestro e indicarne in concreto la realizzazione. I rimpatriati, infatti, erano in crisi di fede, perché le promesse del profeta esilico non si erano realizzate: la tentazione era quella di leggere la squallida situazione presente come una controprova della fedeltà di Dio e quindi di abbandonare con disprezzo l'alleanza. In questa pericolosa situazione diversi autori cercarono, nel giro di poco tempo, di dare una nuova interpretazione alle antiche promesse di salvezza, rifacendo i alle varie tradizioni del patrimonio religioso di Israele. Un redattore, che possiamo identificare con il nostro profeta, raccolse questi oracoli, sia orali si stesi per iscritto, disponendoli secondo un suo piano, con l'intento di incrementare la fiducia di Israele nella fedeltà divina e rilanciare l'impegno di adesione all'alleanza con Dio.
Al centro della raccolta, il profeta-redattore ha collocato il poema autobiografico, in cui celebra la propria vocazione e presenta la sua missione di consolatore. Dai particolari di questo testo l'autore si rivela un "messia" sacerdotale, cioè un sacerdote consacrato con 1'unzione, che ha vissuto il propri ruolo cultuale soprattutto come messaggero di pace col compito di predicar un nuovo, grande «giubileo», come anno di misericordia voluto dal Signore. Secondo Pierre Grelot, (1) troviamo in questo testo il riferimento alla prima consacrazione di un sommo sacerdote dopo l'esilio ed il rientro a Gerusalemme: con una ipotetica, ma attendibile ricostruzione storica (2) si può pensare all'unzione sacerdotale di Ioiachim, successore di Giosuè, nell' anno sabbatico 511/510.Un poema artisticamente composto
Non si tratta di un racconto di vocazione, come per Is 6,1-13, ma piuttosto di un poema autobiografico di investitura e presentazione, simile al canto del Servo che si trova in Is 49,1-6: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato ... ». Il richiamo stilistico a quel testo può essere un indizio di collegamento teologico: il profeta del post-esilio sente di vivere nella propria persona la continuazione dell' antica e unica missione profetica; nella concreta situazione del suo tempo egli sperimenta la chiamata divina e comprende il ruolo e lo scopo a cui è chiamato. Con abilità di artista compone questo poema, per tratteggiare le linee essenziali della sua missione ed i contenuti fondamentali della sua predicazione. Un'analisi attenta del testo rivela una sapiente organizzazione letteraria degli argomenti ed aver chiara la struttura dell'insieme ci aiuta non poco a comprenderne il messaggio. (3)
L'intero poema si può facilmente dividere in due parti: la prima comprende i vv. 1-3 e descrive il senso della consacrazione, mentre la seconda parte coi vv. 4-11 delinea il contenuto della predicazione.
La prima parte, introdotta dall'evocazione dello Spirito divino, presenta due azioni del Signore strettamente congiunte e rivolte all'autore stesso (mi ha unto - mi ha mandato). Tutta l'attenzione è così incentrata sulla missione del profeta che viene descritta con una successione lineare di sette infiniti, i quali nell'originale ebraico hanno la stessa forma grammaticale, tale da richiamare un insieme completo e organico:
Il settimo elemento, vertice dell'elenco, viene ampliato con un nuovo elenco dalla struttura ternaria che annuncia un profondo cambiamento, contrapponendo tre realtà negative ad altre tre realtà positive:
Questa prima parte, inoltre, è segnata dall'inclusione con la parola spirito: «Lo Spirito del Signore Dio ... - uno spirito (4) abbattuto».
L'ultima espressione del v. 3 ha un ruolo strutturale di collegamento fra le due parti: conclude la prima, riprendendone alcuni elementi linguistici evidenti in ebraico, con la proclamazione del nome nuovo che verrà dato alla comunità fedele ed introduce la seconda, anticipandone il tema della giustizia e l'immagine vegetale del germoglio rigoglioso.
La struttura della seconda parte è più complessa ed elaborata. Innanzi tutto possiamo riconoscervi tre sezioni, distinte da quella centrale che si differenzia nettamente dalle altre, perché introduce direttamente un oracolo divino:
l a sezione: vv. 4-7 (la novità della ricostruzione);
2a sezione: v. 8 (l'oracolo divino di conferma);
3 a sezione: vv. 9-11 (la gioia della ri-creazione).
Alla brevità della sezione centrale si contrappongono le altre due, molto più sviluppate e strutturate in modo simmetrico. Infatti la prima e la terza sezione sono composte entrambe in modo concentrico, avendo al centro di ciascuna un elemento stilistico nettamente distinto e agli estremi degli interessanti collegamenti linguistici: nel primo caso la distinzione è determinata dal passaggio dalla terza alla seconda persona, per ritornare alla terza, con il collegamento dato dal concetto di eternità ('ôlam); nella terza sezione, invece, al centro si pone chiaramente l'oracolo in prima persona dell' autore stesso, che si differenzia dagli altri due brani collegati dal concetto di seme (zera '),
Cerchiamo di chiarire l'insieme con uno schema di struttura:
1 a sezione:
v. 4 (essi) «costruiranno rovine perenni ... »
vv. 5-6 (voi) «sarete chiamati sacerdoti del Signore ... »
v. 7 (essi) «avranno una gioia perenne»
2a sezione: v. 8 (centro: oracolo divino)
3 a sezione:
v. 9 (essi) «sarà conosciuto il loro seme ... »
v. 10 (io) «gioisco nel Signore ... »
v. 11 (essi) «come la terra fa germogliare i semi ... »
Anche se si tratta, come dicono alcuni studiosi, di una composizione redazionale in cui sono confluite diverse unità bisogna tuttavia riconoscere che il redattore ha saputo organizzare sapientemente questo materiale, dando all’insieme una forma artistica, capace di aiutare a comprendere l'insegnamento teologico.
«Il Signore mi ha unto»
Il poema inizia con un'espressione solenne e potente: «Lo Spirito del Signore Dio (è) su di me». L'autore parla di sé e non esita a presentarsi in stretta relazione con l'azione di Dio ed il suo spirito (ruach): la formula adoperata crea un collegamento tematico con i canti del Servo, ma si richiama anche la profezia pre-esilica, per risalire fino alle più arcaiche manifestazioni d profetismo nel mondo biblico. Nell'oracolo di investitura, che chiamiamo primo canto del Servo, il Signore presenta il suo eletto, dicendo: «Ho posto mio spirito su di lui» (Is 42,1); il profeta Michea si contrapponeva ai ciarlatani del suo tempo rivendicando per sé l'autentica rivelazione divina: «Mentre io sono pieno di forza con lo spirito del Signore, per annunziare a Giacobbe le sue colpe» (Mic 3,8). In linea con questi testi l'autore di Is 61 presenta stesso, proclamando solennemente di essere l'inviato di Dio e, quindi, implicitamente si distingue da altri e sostiene di essere portatore della parola divina, come aveva cantato Davide («Lo spirito del Signore parla in me, la sua parola è sulla mia lingua»: 2 Sam 23,2) e come si raccontava dell'antico Balaam («Allora lo spirito di Dio fu sopra di lui»: Nm 24,2).
Come può affermare questo con tanta sicurezza? Lo dice egli stesso: «Perché il Signore mi ha unto». L'autore, infatti, interpreta il dono dello Spirito con I categoria sacerdotale dell'unzione: egli è stato consacrato con l'olio e, quindi, risulta evidente che lo Spirito si sia posato su di lui. Se nell'antichità Israele l'unzione era caratteristica soprattutto del re, dopo la fine della monarchia divenne prerogativa esclusiva del sacerdozio e l'unzione del somm sacerdote era sentita come un evento «sacramentale» di grazia che segnava l'inizio di una funzione importantissima ed assomigliava all'intronizzazione del re (cf Es 29,7; 30,22-33). In ebraico si adopera il verbo mašach, che ha dato origine al termine messia, cioè «unto»: quello che era un titolo tipicamente regale, nel posi-esilio diviene attributo sacerdotale. «È dunque un messianismo sacerdotale quello che porta la speranza del popolo per dargli gioia, liberazione, conforto e giustizia. In quest'epoca travagliata in cui c'è tutto d rifare, l'unzione del sommo sacerdote è gravida dell'avvenire radioso promesso alla città e al popolo in funzione della loro alleanza». (5)
Secondo l'antica tradizione religiosa il compito principale del sacerdote israelita doveva essere quello di osservare la divina parola e custodire la sua alleanza per insegnare i decreti e la legge di Dio a Israele (cf Dt 33,10): fedele a tale compito, il sommo sacerdote, autore di questo poema, ha presentato stesso come investito dallo Spirito di Dio e consacrato profeta, cioè portavoce di Dio in quanto sacerdote, suo mediatore per realizzare concretamente quelle circostanze storiche il progetto divino di salvezza e di giustizia. Egli si è sentito intimamente investito di questa missione e così ha delineato il programma del suo pontificato.
«Mi ha mandato a portare una buona notizia»
Il profeta-sacerdote indice il grande giubileo. Secondo la tradizione sacerdotale, codificata in Lv 25, l'anno cinquantesimo, ancor di più dell'anno sabbatico, doveva essere caratterizzato dalla remissione dei debiti, dalla restituzione delle terre e dalla liberazione degli schiavi: probabilmente queste norme non furono mai osservate realmente nell'epoca monarchica e rimasero come un'indicazione ideale di giustizia. Dopo l'esilio, quando la terra perduta ritorna in possesso di Israele, il profeta-sacerdote riconosce come segno dei tempi l'intervento di Dio per fare davvero giustizia: a nome suo, quindi, proclama «l'anno gradito al Signore, un giorno di rivendicazione per il nostro Dio». Questo compito occupa proprio la posizione centrale dei sette infiniti che esprimono la missione dell’autore: l'anno gradito è spiegato con l'espressione giorno del Signore, divenuta nel linguaggio profetico un termine tecnico per indicare il momento escatologico, vertice della storia della salvezza, in cui Dio realizzerà finalmente le sue promesse, punendo i traditori e premiando i fedeli. In questo senso si parla di vendetta (in ebraico naqam): noi, però, potremmo usare, come termine corrispondente e più comprensibile, rivendicazione. Il profeta, cioè, annuncia che il Signore sta intervenendo per realizzare concretamente nella storia gli impegni dell'alleanza, rivendicando i propri diritti: chi si è messo contro di lui ne avrà un grave danno, mentre per chi gli è rimasto fedele si tratterà del momento buono della retribuzione.
Questa è la buona notizia che egli è incaricato di portare al popolo. Il verbo ebraico bisser, reso in greco dai LXX con euangelìzesthai, è entrato nella tradizione cristiana ad indicare il «vangelo», la buona notizia per eccellenza, cioè l'intervento salvi fico di Dio: l'antico autore, consacrato con l'unzione, ha espresso con questo verbo il suo compito di annunziare l'opera del Signore che cura, libera, consola e rallegra.
Destinatari della buona notizia sono i poveri (in ebraico: 'anawîm), i prigionieri, gli afflitti. Non si tratta dei deportati in Babilonia, ma di quelli che sono già rimpatriati; tuttavia non è chiaro se l'autore, adoperando le immagini del giubileo, intenda proclamare un concreto intervento socio-amministrativo a favore dei diseredati, oppure voglia annunciare con delle metafore che la presenza del Signore determinerà un profondo rinnovamento nella misera condizione del suo popolo. (6) Il riferimento ai contriti di cuore orienta verso questa seconda ipotesi: l'espressione, infatti, appartiene al linguaggio religioso dell'autentico pentimento e la ritroviamo, ad esempio, nel salmo Miserere: «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore contrito e umiliato, Dio, tu non disprezzi» (Sal 51,19). Il popolo degli esuli ritornati riconosce che alla radice della propria miseria c'è l'infedeltà all'alleanza ed il peccato che li tiene prigionieri; a chi ne prova un vivo dolore ed aspira all'autentica liberazione il profeta annuncia la buona notizia del cambiamento.
L'intervento di Dio che capovolge la situazione viene presentato con tre immagini poetiche di radicale sostituzione. La situazione presente è caratterizzata dalla cenere, il lutto e lo spirito abbattuto: tipici elementi di una liturgia penitenziale con cui il popolo ammette con dolore il proprio peccato. All'atteggiamento di chi riconosce la propria povertà Dio risponde con doni simbolici e liturgici, che caratterizzano la consacrazione sacerdotale: la corona, l'olio di letizia e l'abito di lode. (7) L'autore ha trasfigurato il rito della propria consacrazione come un simbolo capace di esprimere il rinnovamento di tu il popolo (8) ed è di notevole importanza l'inclusione letteraria che segna la p ma parte: allo Spirito di Dio dell'inizio si contrappone lo spirito umano abbattuto del finale. Il richiamo linguistico serve a creare un contrasto di immagini per sottolineare un messaggio teologico: «La parola del profeta scaturisce dallo spirito di Dio; perciò essa sviluppa la potenza che libera lo spirito umano dall'oppressione e lo innalza alla gioia della lode divina. Nella lode lo spirito dell'uomo sperimenta il giubileo dell'amore fedele e misericordioso del Signore e quindi riscopre le grandi possibilità della sua libertà». (9)«Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore»
Ai poveri di Sion il profeta-sacerdote attribuisce un nome nuovo: «Querce di giustizia, piantagione del Signore per manifestare la sua gloria» (61,3b). Nel passato di Israele c'erano stati giardini idolatrici e culti cananei della fecondità caratterizzati da alberi sacri: ora il popolo stesso, perdonato e rinnovato, viene designato con le immagini vegetali. Il resto fedele di Israele è la stirpe, cioè il seme, che YHWH ha benedetto e sarà proprio quello il seme che il Signore farà germogliare come giustizia e lode al cospetto di tutte le nazioni. Gli Israeliti sono detti «alberi di giustizia», in quanto appartengono al Signore, che è il Giusto, e sono stati piantati da lui per rendere gloria a lui, cioè per mostrarne nel mondo la presenza potente e operante; sono il germoglio «legittimo» a cui il Signore darà fecondità con la sua benedizione. Questa serie di immagini apre la strada alla grande affermazione teologica che segna uno dei vertici della seconda parte: «Voi invece sacerdoti del Signore sarete chiamati, ministri del nostro Dio si dirà a voi» (61,6a). A chi è rivolta questa parola? Enigmatico, infatti, è il cambiamento dalla terza alla seconda persona. Grelot pensa che il sommo sacerdote restringa il discorso a Israele, rivolgendosi solo ai suoi colleghi sacerdoti; (10) ma, data l'assenza di indizi testuali che giustifichino il cambiamento di destinatari, si può ritenere che l'autore sacerdote intenda estendere al popolo intero le caratteristiche sacerdotali. Sembra infatti, descrivere un utopico cambiamento sociale: gli Israeliti lasceranno lavori agricoli e pastorali agli stranieri per svolgere solo compiti sacerdotali «Si suppone che i pagani convertiti al monoteismo riconoscano la preminenza spirituale degli Israeliti, equiparati per la loro intimità con YHWH ai sacerdoti» (11) ma probabilmente l'autore teologo vuol dire di più. Egli vede il popolo eletto come autentico mediatore fra Dio e il mondo intero; immagina che il compito di Israele sia quello di creare comunione fra gli stranieri e YHWH; annuncia che sarà il Signore stesso a far germogliare il seme di Israele perché tutti i popoli possano unirsi alla sua lode.
«Mi ha rivestito delle vesti di salvezza»
L'oracolo divino che l'autore introduce improvvisamente al v. 8 offre la garanzia di realizzazione ed avanza l'impegno che Dio si assume di stipulare un'alleanza eterna: sulla scia di Ger 31 ed Ez: 36, anche il nostro autore esprime la convinzione di un intervento futuro del Signore per stringere un nuovo e definitivo rapporto di amicizia e comunione con il suo popolo. Proprio la dimensione sacerdotale ne costituisce l'elemento portante ed il simbolo sponsale ne esprime la carica esistenziale.
L'altro vertice della seconda parte, infatti, riprende con le immagini dei paramenti sacerdotali il tema della consacrazione: il profeta irrompe nell'insieme delle promesse con un grido di giubilo personale e, nello stesso tempo, si fa voce dell'esultanza sponsale di tutto il popolo. Le «vesti di salvezza» ed il «manto di giustizia» sono simboli festivi della dignità sacerdotale e rimandano al rito solenne di investitura: ancora una volta l'autore ripropone la scena della propria consacrazione come chiave simbolica di lettura per la situazione presente. Nella sua persona, infatti, il popolo riscopre la propria condizione di «sposa per il Signore» e l'immagine liturgica dei paramenti sacri evoca le tanto desiderate nozze con YHWH, dopo i tremendi anni del tradimento e dell'abbandono.
«Il passaggio sfumato dalla proclamazione del messaggero alla descrizione della salvezza ci fa vedere come il profeta, prima di scrivere, abbia meditato sul suo compito e sul modo di descriverlo. Si tratta, per quanto ne sappiamo, dell'ultima volta che nella storia di Israele il profeta esprime con tanta libertà e sicurezza la certezza di essere inviato da Dio a portare un messaggio al suo popolo». (12)
«Oggi, questa profezia si è adempiuta!»
Questa antica teologia sacerdotale si ritrova in modo altamente significativo all'inizio del ministero pubblico di Gesù: nella sinagoga di Nazaret egli, leggendo il testo di Is 61, lo proclama realizzato nella propria persona (Lc 4,14-21). Se è vero che Isaia ha aiutato a comprendere il ruolo del Messia nella storia della salvezza, è altrettanto vero per noi cristiani che la vicenda di Gesù Cristo ha permesso di capire in pienezza le parole dell'antico profeta. La stessa presenza di Gesù, in quanto Figlio di Dio, inaugura l'anno di misericordia del Signore ed annuncia l'euangelion della salvezza. La sua missione è proprio quella di proclamare la beatitudine ai poveri, agli afflitti, ai puri di cuore: egli si presenta come colui che libera i prigionieri e perdona i peccatori, capovolgendo in modo radicale la condizione dell'uomo. In lui si realizza l'autentica mediazione sacerdotale e grazie a lui si celebrano le nozze dell'eterna comunione fra Dio e l'umanità. Nel suo sangue il Signore ha stipulato l'eterna alleanza con il suo popolo e lo ha costituito come «organismo sacerdotale», perché sia sacramento di salvezza per il mondo intero.
(da Parole di Vita, n. 6, 1999)
12) C. WESTERMANN, Isaia. Capitoli 40-66, Brescia 1978, p. 438.
di Giuseppe Dell'Orto
Nel testo della vocazione di Terzo Isaia (Is 61,l-3a) si legge questa espressione letterale: «per proclamare ai detenuti l'amnistia e ai prigionieri la liberazione» (Is 61,l). Ora tale espressione trova un parallelo terminologico in Levitico 25,10: «Santificherete il cinquantesimo anno e proclamerete l'amnistia su tutto il paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo: ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia».
Inoltre, l'anno di grazia del Signore (Is 61,2) si riferisce alla grazia dell'amnistia e alla istituzione del riscatto (ghe 'ullah). Dunque, il Terzo Isaia considera il Signore come il vero Go'el, il Redentore, che opera il riscatto con la stessa modalità con la quale era stato annunciato dall' anno giubilare.
È il testo di Levitico 25,8-55 quello che presenta dettagliatamente le norme e il senso dell'anno giubilare. Diciamo, subito, che il termine «Giubileo» viene fatto derivare dall'ebraico jobel (che compare 27 volte), che sta per «il corno dell'ariete»: nel decimo giorno del mese di Tishri - ossia nel giorno della espiazione - veniva proclamato l'anno giubilare mediante il suono del «corno dell'ariete».
Il termine, però, può essere spiegato anche diversamente. Non mancano Autori che, rifacendosi al verbo jbl (= restituire, mandar via), sostengono che jobel si riferisca semplicemente alla restituzione delle persone o delle cose. Su tale base si spiega anche la scelta della LXX di rendere sempre jobel con afesis, cioè «remissione, rinvio, liberazione».
Vi è anche un terzo modo di spiegare il termine: poiché uno dei motivi teologici principali del «Codice di Santità» (Lv 17,1-26,16) è rappresentato dal riconoscimento di JHWH come unico Signore, jobel sarebbe la sintesi di una breve professione di fede che riconosce JHWH (prefisso Jo-) come il Bahal (= bel), vale a dire come il vero Signore e padrone. Non a caso la legislazione dell'anno giubilare inizia e si conclude con l'affermazione «Io sono il Signore vostro Dio» (Lv 25,17.55).
Il lungo brano di Lv 25,8-55 presenta sei microunità letterarie, così distribuite:
Al centro, dunque, della celebrazione dell'anno giubilare si trovano la persona, la famiglia e la terra con i loro diritti di sopravvivenza: appartengono al Signore e non possono diventare proprietà di nessun altro. Poiché l'anno giubilare è un anno «santo» (qadosh), attraverso la tutela delle persone e delle terre si diventa partecipi della santità di Dio, prima che mediante lo stesso culto riservato al Signore.
L'autore del libro del Levitico sembra dire che questa rappresenta la via principale per «diventare santi come Dio è santo» (Lv 19,2).
Edotta dalla disastrosa esperienza monarchica, quando fattori economici e sociali causarono gravi disordini e provocarono la catastrofe dell' esilio babilonese, la corrente sacerdotale del postesilio propose per il futuro un sistema ottimale, che si doveva realizzare in una società fraterna governata secondo il principio religioso, che Israele è unicamente servo di Dio.
Più che un testo legislativo di un'epoca passata, le prescrizioni giubilari sono un documento profetico avente una prospettiva escatologica.
I precetti dell'anno giubilare restarono in gran parte una prospettiva ideale, più una speranza che una realizzazione concreta, divenendo peraltro prophetia futuri, in quanto preannuncio della vera liberazione che sarebbe stata operata dal Messia.
Gesù, nella sinagoga di Nazaret, annuncerà l'«oggi» del compimento dell'«anno di grazia» (Lc 4,16-30).
di Benito Marconcini
Essa infatti parte dal cielo (v. 1) scende nel deserto (v. 3) testimone di eventi meravigliosi (v. 4) e di episodi di debolezza (v. 6), è udita sul monte alto (v. 9), prolunga il suo effetto in Gerusalemme, dove il Signore sta guidando, con forza (v. 10) e come un pastore (v. 11) il suo popolo. Il brano si snoda in quattro parti: fine della schiavitù babilonese (vv. 1-2), attraversamento del deserto (vv. 3-5), riflessione sulla fragilità umana (vv. 6-8) pellegrinaggio verso Gerusalemme (vv. 9-11) sostenuto da una certezza: «Il Signore Dio viene con potenza». Seguiamo le quattro parti, introdotte da Dio e da tre voci imprecisate, con uno sguardo alla ripresa della tematica nei capitoli seguenti.
Consolate il mio popolo
Questo imperativo include tutti i valori espressi nel prologo: la consolazione comporta infatti l'attraversamento del deserto, la sicurezza del permanere della Parola anche dopo la distruzione del popolo e la necessità dell'annuncio a Sion sul ritorno del Signore. La completezza del discorso richiederebbe anche l'ordine di partire, rimandato alla fine: «Fuori, uscite di là, uscite da Babilonia, purificatevi» (52,11). Tra i due ordini sta la predicazione del profeta che nel partire vede l'inizio della consolazione. La mancata identificazione degli esecutori dell'ordine (chi deve consolare? I profeti? I sacerdoti? Gli spiriti celesti?) dà risalto al messaggio stesso.
Il verbo «consolare» supera il pronunciare parole di affetto e di solidarietà e comporta la trasformazione di una situazione: la morte diventa vita, il dolore gioia, la disperazione speranza e - come qui - l'esilio si apre al ritorno in patria. Soggetto della consolazione è infatti Dio, anche quando ad agire immediatamente sono i suoi inviati. «Consolare» assume così il significato anche di «avere misericordia». «Questa concezione spiccata si trova ovunque quando YHWH stesso è il consolatore, perché nel suo volgersi alla consolazione Dio rinnova la comunione di grazia con colui dal quale si era allontanato nell'ira» (Is 12,1). L'incoraggiamento e l'aiuto divino che rendono concreta la trasformazione della situazione ritorna più volte nel Secondo Isaia. «Consolare» (nhm), in parallelo con «aver pietà» (riham: 49,13), esprime la trasformazione del deserto in Eden, della steppa in giardino, l'improvvisa comparsa in Sion di giubilo, gioia, ringraziamento, lode (51,3), (3) la liberazione del popolo dalla paura degli uomini (51,12), la sottrazione a una schiavitù presente nel parallelo «consolare il popolo/riscattare (gā' al) Gerusalemme» (52,9). Il verbo assume anche il senso debole di compatire (51,19; 54,11), non mai disgiunto dall'amore divino (54,10). «Il v. 1 è in germe per forma e contenuto la buona notizia del Deuteroisaia». (4)
Questo è confermato dalla triplice motivazione presente nel resto del versetto che dà contenuto e consistenza alla consolazione. I rapporti tra Dio e il popolo, turbati dall' esilio, sono stati ristabiliti, come chiarifica l'espressione «mio popolo/vostro Dio», evocatrice della tradizionale formula del patto «voi siete il mio popolo e io sono il vostro Dio», usata anche da Geremia per annunciare la «nuova alleanza» (Ger 31,31-34), inclusiva anche del ritorno in patria (cf Ger 31,41; Ez 36,24.28). Il ritorno comporta la fine della schiavitù, cioè quel lavoro faticoso, quel servire stressante e continuo che è stato l'esilio conseguente al debito contratto con Dio. Questo parallelismo, cioè la qualifica dell'esilio come lavoro forzato e come debito, pone il Secondo Isaia in continuità con i profeti precedenti: c'è stata una colpa del popolo (cf 50,1), le cui conseguenze finiscono quando Dio decide di condonare il debito con un perdono incondizionato. È sempre l'iniziativa di Dio a produrre cambiamenti nella storia, come afferma l'espressione «doppio castigo» per qualificare l'esilio. Pur dovuto ai peccati, il tempo del lavoro forzato appare eccessivo all'amore di Dio, impegnato in prima persona. È alla città amata che Dio parla come si fa con la sposa, l'amico, il fratello rivolgendosi a quella sede dei pensieri, della volontà, dei sentimenti, della vita morale, a quella radice delle decisioni, all'io profondo di ciascuno, che è il cuore.
Attraverso il deserto alla libertà
L'uscita da Babilonia e l'ingresso in Gerusalemme sono separati dal deserto, il cui attraversamento costituisce l'inizio della consolazione. Il mediatore di questa è lasciato volutamente imprecisato per far risaltare l'efficacia della Parola che non ritorna a Dio senza aver compiuto il suo desiderio (cf 55,11): «Nel deserto preparate la via del Signore / tracciate nella steppa una strada al nostro Dio».
Il tema della via è ripreso dall'esperienza di Babilonia, dove splendidi itinerari univano i palazzi reali con il tempio ed erano luogo di esaltazione della divinità. Qui la strada del Signore (meglio che al Signore) è preparata nel deserto che assume un duplice senso, geografico e teologico. Esso indica gran parte del vasto territorio tra le due capitali da affrontare con decisione e senza paura, poiché il popolo avrà come guida Dio stesso, capace di infondere più sicurezza di quella sperimentata dai padri nell'attraversare il Mar Rosso.
Questa tematica del secondo esodo sarà ripresa più volte nella profezia, sia paragonando la via del mare con quella del deserto (43,16.19), sia insistendo sul deserto rinnovato e fiorente (41,19-20; 48,21; 49,10-11). Il deserto è pertanto l'ostacolo perenne che si frappone ogni volta che si tratta di uscire da una schiavitù per entrare nella libertà, come nell'abbandonare l'Egitto per raggiungere la terra, Babilonia per entrare in Gerusalemme, o - come avviene nel terzo esodo - nell'uscire da se stessi per entrare nelle vie di Dio. (5)
L'attraversamento del deserto non è solo un segno della potenza divina, ma anche una tappa della storia salvifica. Come già la liberazione dalla schiavitù meridionale, dall'Egitto, anche la sottrazione alla tirannide settentrionale, a Babilonia, rivela il Dio di un popolo apparentemente sconfitto come il Signore della storia, i cui fatti egli predice perché capace di realizzarli. «I primi fatti, ecco sono avvenuti e i nuovi io preannuncio, prima che spuntino io li faccio sentire» (42,9; cf 41,4-4). Chiunque potrà vedere lo splendore divino racchiuso in quella presenza raggiante detta gloria (40,6) e constatare la conduzione amorosa del popolo verso la città.
Parola di Dio e realtà umana a confronto
L'insistenza sull'efficacia della Parola («la bocca del Signore ha parlato») apre un confronto con la fragilità umana, con la sfiducia e la depressione della gente incapace ad aprirsi all'annuncio della novità. «Veramente il popolo è come l'erba» riconosce la voce che invita all'entusiasmo e rivela il profeta solidale con il popolo. Sembra infatti proprio Dio la causa di questa situazione, come il vento caldo del deserto («il soffio del Signore») fa appassire il fiore. Il vocabolo hesed (bellezza/splendore, v. 6) esprime lo scoraggiante ripiegamento dell'uomo, così come kabôd (gloria/magnificenza, v. 5) aveva tradotto il raggiante apparire di Dio. È possibile - si chiede il profeta - unire le due realtà, la potenza divina e il fallimento umano? La possibilità risiede nell'efficacia della Parola che dinanzi al ripiegarsi di ogni realtà umana perdura, o meglio sta in piedi, si erge, producendo nella storia quel miracolo constatato nella natura che fa passare il fiore dalla morte dell'inverno allo splendore della primavera. «La Parola è la forza efficace che crea un momento imprevedibilmente nuovo nella storia, che dona vita dove regnava la morte, che consola chi è nella disperazione, che reca la presenza e la potenza di Dio, che chiude il passato di colpe e di castigo aprendo un futuro nuovo». (6) È la Parola la sola realtà che «tiene» davanti allo sgretolarsi dei poteri umani, anche degli attuali dominatori: dinanzi ad essa svanisce la differenza tra chi ha il potere e chi ne è privo, per cui gli esuli sono invitati ad aggrapparsi alla sola forza capace di ricondurli in patria. È una tematica che il Secondo Isaia richiama costantemente in sfumature diverse (44,24-28; 45,23-24; 50,4; 51,16) specialmente con la frequente espressione «così dice il Signore» (43,1; 44,6; 49,8; 50,1).
Il vangelo di Gerusalemme
Dopo la voce, è direttamente Sion/Gerusalemme, nella figura di una donna, a trasmettere alle altre città di Giuda la lieta notizia, dopo averla ricevuta per prima. Il termine usato è della più grande importanza: biśśar (evangelizzare).
L'annuncio che Dio sta venendo alla testa del popolo, considerato un trofeo di guerra, è la buona notizia, è «vangelo», (7) è certezza del ritorno a Gerusalemme. Il popolo quasi scompare dietro all'avvento del Signore, ritenuto tanto sicuro da essere considerato come già realizzato. «L'inno di lode al quale viene invitata Sion nei vv. 9-11 corrisponde alla forma letteraria, di importanza determinante nella predicazione del Deuteroisaia, dell'oracolo di salvezza, nel quale la liberazione promessa viene annunziata al passato, così che si viene a dire che la svolta causata da Dio è già avvenuta (40,1-2). Per questo l'oracolo di salvezza risuona anche alla lettera nell'invito a non avere paura, alla fine del v. 9». (8)
Il volto di Dio presenta in questi ultimi versetti due aspetti diversi e complementari. Esprime fortezza e decisione: «Il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio» (v. 10). D'altra parte l'immagine del pastore presenta un volto pieno di tenerezza, attento alle necessità della singola persona con vocaboli toccanti: pascolare, radunare, agnellini, seno, piano piano, pecore madri. È un Dio che si fa vicino, per il quale il tutto esiste nel singolo, che si sente considerato nei propri bisogni, sostenuto e reso capace di camminare.
Conclusione
Is 40,1-11 è un prologo nel senso di introduzione e sintesi del Libro della consolazione sotto un quadruplice aspetto.
Letterariamente anticipa gran parte del vocabolario ripreso e sviluppato in tutti i capitoli, specialmente il linguaggio relativo alla Parola e fa largo uso dell'esortazione presente in modo particolare nei numerosi imperativi.
Teologicamente richiama un fatto, la presenza efficace del Signore nella storia, capace di superare ogni ostacolo, anche l'esilio definito con due categorie complementari, come duro servizio e conseguenza di un peccato: l'effetto prodotto dall'agire divino mediante la Parola è considerato «consolare» ed «evangelizzare». Il volto di Dio caratterizzato nei sedici capitoli con 23 titoli e 63 verbi riceve già qui una prima delineazione: è il Dio del patto, giusto e misericordioso, pieno di gloria e potenza, pastore forte e tenero, che ha scelto il suo popolo.
Da un punto di vista storico-salvifico questo prologo unisce, rileggendole, precedenti tradizioni come quelle relative all'alleanza, al deserto, alla Parola, alla teofania, a Sion/Gerusalemme, a Dio pastore (cf Ger 23; Ez 34) e prepara testi come le riflessioni sulla gloria divina, l'immagine di Dio pastore (cf Gv 10), la tematica della consolazione (cf il libro di Zaccaria), la concezione dell' evangelizzare.
Antropologicamente il prologo, con l'insistenza sull'efficacia della Parola, si rivolge ad ogni uomo che patisce una qualsiasi forma di esilio: oppressione politico-religiosa, esperienza della propria incapacità, difficoltà per un coerente cammino spirituale. L'uomo in ascolto della Parola è condotto a scegliere tra le apparenze ingigantite dalla propaganda e l'umile offerta di una Parola che nasconde la sua potenza nella povertà della fede e sfugge a evidenti verifiche umane, anche se quelle che offre sono sempre significative.
Per ritrovare qualcosa che assomigli a Is 40,1-11 bisognerà attendere il prologo giovanneo (Gv 1,1-18), introduzione e sintesi del quarto Vangelo.
(da Parole di Vita, 4, 1999)
Note
1) B. MARCONCINI, «La salvezza contemplata dal Secondo Isaia», in La Parola diventa preghiera. Parola, Spirito e Vita 25, EDB, pp. 53-57.Ogni anno, la conclusione del ciclo liturgico invita a innalzare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo della storia: il compimento del tempo e il giudizio finale che attende tutti gli uomini, la pedagogia della Chiesa prepara in tal modo, quasi senza soluzione di continuità, la liturgia dell’Avvento:
Se per il Buddha Shakyamuni, il nirvana è al di là di ogni concetto, dunque di ogni formulazione, le dispute interne hanno sempre animato gli ambienti religiosi. Allora, liberazione spirituale, totale, più ampia, più globale, o più ristretta?
Abbiamo richiamato alcuni punti costanti di riferimento che hanno determinato la cultura d'oltralpe. Già Gasparo Contarini aveva sostenuto, in anteprima ma senza successo, la necessità del dialogo con i luterani. I tempi erano molto difficili e immaturi.
Lutero, Calvino e Zwingli avevano parlato di un "uso civile della legge", di una "religione pubblica" e di una "religione civile" validi per tutti, credenti e non credenti.
Sotto sotto si nascondeva il "socialismo ginevrino", quello della "città delle api" (a detta di Voltaire), che travasato e tradotto nel mondo laico si riassumeva, secondo Ugo Grozio fondatore del diritto internazionale, nella formula Etsi Deus non daretur. Bisognava cercare il più ampio consenso possibile e poi stare ai patti.
Kant aveva un occhio attento alla rivoluzione francese ed è considerato il filosofo del protestantesimo. Stabilì rigidamente i limiti della ragione che non ammettono travalicazioni verso il "soprannaturale" (diverso dal soprasensibile) e verso ogni sorta di metafisica di tipo aristotelico.
S. Kierkegaard non lesinava le sue critiche alla religiosità contemporanea perché senza il "paradosso" e il "salto" della fede si distruggono le basi stesse del cristianesimo.
Intanto nell'emisfero nord proliferano gli orientamenti socialisti che si sviluppano rapidamente e richiamano anche l'attenzione del modernismo cattolico. La teologia di K. Barth e di P. Tillich, che si pone come superamento della crisi della società borghese, ha una sua forte componente attenta al socialismo e alle esigenze del proletariato. Infine la prima metà del XX secolo si chiude con la testimonianza del martire D. Bonhoeffer in favore di un "cristianesimo adulto".
E Karl Barth? È certamente il teologo più conosciuto del nostro tempo. È difficile ignorarlo perché si presenta continuamente all'attenzione dei pensatori più avvertiti di tutte le confessioni cristiane. In realtà Barth è il filo rosso che costituisce il contributo offerto con queste pagine a chi si avvicina all'università. Come riassumerlo in poche righe?
1 - Dogmatica. "La cristologia deve occupare tutto lo spazio della teologia... è tutto o è nulla" (1954). Al cogito ergo sum (penso e quindi sono) di Cartesio, Barth contrappone il cogitor ergo sum (sono pensato quindi sono) della rivelazione biblica.
2 - Ecumenismo. Barth auspicava, tra cattolici e protestanti (1957), il delinearsi di nuove prospettive "nella separazione all'interno della stessa fede fra coloro che credono in modo diverso, ma non in un altro". La divisione della chiesa è una impossibilità ontologica.
3 - Politica. Iscritto al partito socialista tedesco di Bohn (1933), Barth si considerava in sintonia con la Seconda Internazionale e mezzo per muoversi a sinistra dei socialdemocratici, ma senza piegarsi alla guida moscovita. (Helmut Gollwitzer, Regno di Dio e socialismo. La critica di K. Barth, Claudiana, Torino 1975, p. 84).
RENZO BERTALOT, pastore valdese, licenziato in Teologia presso la Facoltà Valdese di Roma, Maestro in Teologia e Dottore in Filosofia presso la McGill University di Montreal-Canada, fondatore e per molti anni direttore della Società biblica in Italia, uno dei pionieri dell'ecumenismo in Italia, è autore di numerose pubblicazioni, fra le quali ricordiamo: Necessità del dialogo ecumenico, Morcelliana, Brescia 1964; Il mandato protestante, Claudiana, Torino 1967; Ecumenismo protestante, Gribaudi, Torino 1968; Paul Tillich, AVE, Roma 1971; Verso una morale della responsabilità, Dehoniane, Bologna 1972; Oltre l'appartenenza. Meditazioni bibliche, Libreria Sacre Scritture, Roma 1989; Per dialogare con la Riforma, LIEF Vicenza 1989; P. Tillich: Esistenza e Cultura, Claudiana, Torino 1991; Dalla teocrazia al laicismo, Università di Sassari, Sassari 1993; Religione e Diritto, Pazzini, Verucchio (FO) 1996; Per una Chiesa aperta. L'eco di Kant nel mondo moderno, Ed. Fedeltà, Firenze 1999. Ecco la Serva del Signore. Una voce protestante, Ed. Marianum, Roma 2002.