Ecumene

Domenica, 06 Gennaio 2008 00:40

Hallaj, mistico sufi (Gaëtane de Lansalut)

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Per questo predicatore musulmano la vita non è che godimento precario delle vanità e la vera felicità si trova nella preghiera e nell’ascesi. Sufi anzi tempo, Hallaj fu condannato a morte per la sua interpretazione troppo libera del Corano e la relazione fusionale con un “Dio-Verità”.

Hallaj, mistico sufi

di Gaëtane de Lansalut




“Uccidetemi dunque!, gridò Hallaj ai suoi carnefici. Nella mia uccisione sta la mia vita! La mia morte è di vivere e la mia vita è di morire!”. Provocatore? Visionario? Pazzo? No, mistico. E musulmano: sufi. E come tutti i mistici, incompreso e disturbatore, il cardatore di cotone, originario dell'Iran, si attirò i fulmini degli ulema dell’epoca, quei farisei musulmani che intendevano seguire alla lettera il Libro sacro e soffrì la sua Passione. Aveva osato proclamare: “Io sono il Dio-Verità”! A Bagdad, nel 922, gli fu dunque riservato il peggiore dei castighi: la crocifissione e la decapitazione. Dopo nove anni di prigionia.

Fu flagellato a sangue; forse mille colpi. Inchiodato al legno della croce. Hallaj il martire – il primo dell’islam mistico – stoico e resistente Hallaj, che suo figlio Hamd (uno dei suoi quattro figli) vide camminare “pavoneggiandosi sotto le sue catene”. Hallaj che si era preparato alla morte; che l’aveva persino aspettata. Con Dio radicato nel cuore: pregava: “O Dio, che il sole sia all’aurora o al tramonto, il tuo amore aderisce al mio respiro”. E confidava: “Mi uccidano pure… io non rinuncerò al mio messaggio”. Ardente: “Io sono il Dio-Verità”.

Che sicurezza! Che audacia, addirittura, di mescolare il suo respiro all’anima dal Creatore! Ebbrezza nelle vene. Estasi mistica al momento del supplizio. Avesse almeno conservato per sé i trasporti e gli ardori della sua fede! Ma no! Aveva voluto essere predicatore: in Iran, in India, e fino ai confini della Cina, aveva soggiogato le folle, sconvolgendo in particolare, con il suo linguaggio figurato e a tutti accessibile, gli emarginati e i più sprovveduti, e irritando i potenti con le critiche ai loro costumi depravati. In una parola, aveva condiviso con il popolo la sua conoscenza, la sua interpretazione del Libro sacro. Questo lo rendeva un uomo pericoloso per la comunità. La croce, dunque; come per i miscredenti del tempo. E poi la decapitazione. Il suo corpo fu bruciato e le ceneri disperse dai suoi parenti.

La gloria nell’ascesi

Che cosa aveva voluto trasmettere Hallaj per attirarsi tanta ira? Che cosa era stata la sua vita fra gli uomini e il suo cammino interiore? Abbiamo alcune indicazioni dalle sue orazioni estatiche (Diwan) e dal suo Libro della parola o dai frammenti dogmatici dei suoi Tawasin. Vi si profila un uomo inafferrabile e singolare. Nato a al-Bayda (nel sud dell’Iran) nell’858 in ambiente modesto, entra a vent’anni in una comunità sufi di Bassora, in Irak, e si sposa. Porta l’abito di lana bianca: forse la metafora di una libertà che cercava con ardore. Uomo di grande cultura, frequenta tutti i circoli, si impregna delle influenze dell’epoca (i pitagorici, una corrente zoroastrica…), si nutre di tutti i pensieri, delle filosofie, delle esperienze. E si raccoglie nel silenzio. Incontra, dirà, “l’afasia e la conoscenza; poi la scoperta; poi la messa a nudo. Ed è l’argilla, poi il fuoco; poi la chiarità e il freddo; poi l’ombra; poi il sole. Ed è la zona rocciosa, poi la pianura; poi il deserto, e il fiume; poi la piena; poi l’asciutto (passaggio del Mar Rosso)”. E concede: “Frasi (queste) accessibili soltanto a coloro per i quali tutto questo basso mondo non vale più di un soldo”. E grida: £Che cosa è la vita di quaggiù se non il godimento precario delle vanità?”

Quest’uomo, conosciuto in Occidente nel 1922 dai lavori di Louis Massignon, è decisamente libero e la sua ebbrezza amorosa è in Dio. La sola felicità di Hallaj: vedere il suo Volto. Il sufi si separa dalla sua comunità, per pregare a modo suo. “La gloria sta nell’ascesi e nella ritiratezza”, dice. Si infligge sacrifici, lo spogliamento totale, un rigore morale. E si dà a Dio; se ne sta con Lui; si annienta in Colui che egli “desidera”, che lo “brucia”, quell’essere divino di cui teme anche “l’indifferenza”. L’audacia della sua relazione personale, fusionale, con il Creatore scandalizza al massimo grado i dottori della Legge. Da uomo libero, unificato da Dio, procede con fiducia nella vita: “C’erano nel mio cuore tanti desideri, ma tutti sono confluiti in uno dopo che il mio occhio ti ha visto”. Egli sa che Dio lo ha scelto e che la sua comunità è ben lontana dall’avere la sua conoscenza: “Se Tu avessi rivelato loro quello che Tu mi hai rivelato, non avrebbero fatto quello che hanno fatto. E se Tu mi avessi nascosto quello che hai nascosto loro, io non mi troverei nella disgrazia in cui mi trovo”. Allora predica, vuole servire gli uomini, condurli all’essere divino.

Colui che osò l’interrogazione

Più della sua morte, furono i nove anni del processo di Hallaj ad avere una risonanza fenomenale in tutto l’Oriente. Prima di tutto perché la sentenza emessa dagli sciiti e dai sunniti metteva in questione la loro stessa identità di musulmani: la sua punizione era una deroga al Corano… Ma Hallaj non li aveva forse disgustati raggiungendo, con l’ascetismo, la più alta esperienza spirituale alla quale un uomo possa aspirare? Poi perché “l’irraggiamento di questo santo” come scrive Christian Bonari in le Soufisme (Maisonneuve et Larousse, 2002), era immenso: “aveva frequentato la maggior parte dei maestri importanti e aveva percorso una gran parte del mondo islamico, fino in India, predicando il sufismo senza far attenzione alla disciplina del segreto”.

In seguito credenti e recitanti hanno ignorato, condannato o trascritto Hallaj, colui che si era preso troppa libertà con il Libro sacro: colui che aveva osato quel che alcuni chiamano l’ijtihad, l’interrogazione, l’interpretazione, la relativizzazione dei testi sacri. Hallaj o l'individuo musulmano autonomo. Hallaj che, al contrario dei fondamentalisti, ricolloca Dio nel cuore della coscienza libera dell'individuo. Hallaj, questo “Kant musulmano“, - per riprendere l'immagine del professor Lahouri Addi - che potrebbe rendere respiro all'islam moderato di oggi. Il “Dio-Verità“ che egli difende si applica a tutte le religioni, e può aprire la via all'ecumenismo. Forse si dovrebbe anche aggiungere che la bellezza luminosa dei suoi testi fa di lui un poeta immenso.

(in Le monde des religions, 20, pp. 44-45)

Letto 3088 volte Ultima modifica il Mercoledì, 02 Giugno 2010 13:50
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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