L’accidia porta il monaco a disperare, a non vedere più senso nella sua vita, a non intravedere futuro, a ritenere inutile tutto ciò che fa parte del suo vivere quotidiano. A volte, riprendendo l’espressione del Salmo 91,6, i Padri chiamano l’accidia “demone di mezzogiorno”, perché constatano che essa colpisce di preferenza il monaco a certe ore del giorno, soprattutto le ore più calde (tra le 10 e le 14): l’accidia appare così in stretta relazione con il tempo e il passare delle ore. Essa ingenera noia peril presente, nostalgia per il passato, timore per il futuro. Scrive Evagrio: “Ildemone di mezzogiorno fa apparire al monaco il sole estremamente lento, se non addirittura immobile: gli sembra che il giorno abbia a durare fino a cinquanta ore... Inoltre, tale demone suscita nel monaco il ricordo dei suoi famigliari e della sua vita passata da cui si era distaccato e gli lascia intravedere una lunga durata della vita, ponendogli davanti agli occhi le fatiche dell’ascesi” (Praktikòs 12). L’accidioso sente il tempo come eterno, che non passa mai; egli rivive interiormente torti subiti nel passato e nutre rancore immaginando dialoghi con chi lo offese a suo tempo e allontanandosi dalla prospettiva del perdono e dalla possibilità di ritrovare serenità e pace. Ma l’accidia investe anche il rapporto con lo spazio divenendo insopportazione del luogo in cui si abita, in particolare, per il monaco, della cella. “Il demone di mezzogiorno induce il monaco a volgere continuamente gli occhi verso le sue piccole finestre, lo persuade a uscire fuori della sua cella, ... gli ispira l’odio per la sua dimora e per la sua stessa vita e per il suo lavoro, ... lo induce al desiderio di altri luoghi, nei quali sia possibile trovare facilmente quanto occorre al suo bisogno. Gli insinua ancora come non sia possibile che nel luogo in cui vive egli trovi il modo di piacere al Signore: dovunque, insiste a dire, si può adorare Dio” (Praktikòs 12). L’accidia produce l’instabilità il sognare che ovunque, eccetto li dove si è, si potrà vivere bene, essere finalmente riconosciuti, apprezzati e valorizzati, si potrà finalmente servire adeguatamente il Signore mentre ora si è impediti a questo da situazioni esterne. In verità, il desiderio di un altro luogo non è che il camuffamento del desiderio di fuga da se stessi: l’accidioso non aderisce alla realtà, ma sogna sempre un altro luogo, un altro corpo, un’altra comunità, un altro lavoro, in cui finalmente scompariranno gli ostacoli che, lì dov’è, sono posti al pieno dispiegamento delle sue potenzialità. In questo senso l’accidia produce frustrati, gente scontenta e insoddisfatta.
È interessante che tra i pensieri che abitano l’accidioso e con cui egli tenta di convincersi ad abbandonare il luogo in cui si trova, ci dice Evagrio, ci sia la considerazione: “Dovunque si può adorare Dio”. Questo è certamente vero, ma proprio perché dovunque si può servirlo, lo si può servire anche nel luogo dove il monaco si trova anche qui e ora.
L’accidia è l’incapacità di abitare la solitudine e il silenzio, di habitare secum, in definitiva è non sopportazione di sé, odio di sé. In questo, da antica malattia monastica, essa diviene sempre più stato d’animo, o addirittura patologia, universale e moderna: malinconia, depressione, spleen, disgusto esistenziale, non-senso, apatia. Splendida la descrizione evagriana dell’accidioso intento alla lettura spirituale: “Lo sguardo dell’accidioso si posa ossessivamente sulla finestra e, con la fantasia, egli si finge l’immagine di qualcuno che viene a visitarlo; a uno scricchiolio della porta, balza in piedi; sente una voce, e corre ad affacciarsi alla finestra e guardare; tuttavia non scende in strada, ma torna a sedersi dov’era, torpido e come allibito. Se legge, s’interrompe inquieto e, un minuto dopo, scivola nel sonno; si frega la faccia con le mani, distende le dita e, tolti gli occhi dal libro, li fissa sulla parete; di nuovo li rimette sul libro, va avanti per qualche riga, ribalbettando la fine di ogni parola che legge; e intanto si riempie la testa con calcoli oziosi, conta il numero delle pagine e i fogli dei quaderni; e gli vengono in odio le lettere e le belle miniature che ha davanti agli occhi, finché, da ultimo, richiude il libro e lo usa come cuscino per il suo capo, cadendo in un sonno breve e non profondo, da cui lo desta un senso di privazione e di fame che deve saziare” (Gli otto spiriti malvagi 14).
È il penoso ritratto di un monaco che, andato nel deserto per cercare Dio, ha perduto il mondo e non ha trovato Dio. Particolarmente riuscita è l’immagine dell’uomo che guarda ansiosamente fuori dalla finestra in attesa di qualche distrazione, di qualcosa che dal di fuori di lui venga a dargli vita, o una parvenza di vita, visto che egli non sa darsene da se stesso e non trova in sé motivi di vita. L’accidia, malattia interiore come nessun’altra, si manifesta come ozio, pigrizia, amarezza, mancanza di concentrazione, indolenza, continua ricerca di distrazioni, mancanza di motivazioni. Essa spinge a rifugiarsi nel sonno (figura della morte) e nel cibo (che stordisce e ottunde) cercando di fuggire la fatica del quotidiano nell’incoscienza del sonno e di riempire il vuoto del cuore rimpinzando lo stomaco. Cassiano propone (sulla scia degli insegnamenti dell’Apostolo Paolo) come rimedio all’accidia, il lavoro manuale. Impegnare il corpo, faticare, aiuta a fuggire la tentazione dell’accidia. Infatti l’inerzia del cuore diviene spesso paralisi del corpo, ozio. Dietro l’accidia vi è anche il rifiuto della sofferenza della vita interiore, della fatica della vita spirituale, dello sforzo della preghiera e del combattimento spirituale.
Se in Evagrio e Cassiano l’accidia si accompagna al vizio della tristezza, Gregorio Magno (Moralia, LXXI,88) la elimina dalla lista dei vizi capitali lasciando solo alcune sue filiazioni come frutto della tristezza (vagatio mentis circa illicita, cioè il fantasticare con la mente cose proibite, il vagabondare della mente dietro a cose non permesse, e il torpor circa praecepta, cioè l’inerzia nell’assolvere i precetti religiosi) che, peraltro, appare in molti autori assai vicina o perfino sinonima dell’accidia. Pier Lombardo, nelle sue Sentenze, parla di “accidia vel tristizia”.
L’accidia è un nemico particolarmente temibile perché “ha l’abitudine di avvolgere l’anima intera e di intontire l’intelletto” (Evagrio, Praktikòs 36): è vizio che tutto avvolge, una malattia del cuore, uno stato d’animo che priva di senso la vita e può condurre ad atteggiamenti autodistruttivi, perfino al suicidio. Rimedio a questa che è “la più grave di tutte le passioni” (Massimo Confessore, Centurie sulla carità 1,67), è anzitutto lo sforzo della perseveranza, l’esercizio alla stabilità. “Nel deserto, non disertare”, questa la legge del monaco che si ritira nel deserto per incontrare Dio. Poiché nell’accidia si è impossibilitati a vedere i benefici di Dio e la presenza buona dei fratelli, si è anche incapaci di ringraziamento, di eucharistìa, ed allora i Padri consigliano di esercitarsi quotidianamente al ringraziamento per risvegliare la fede e la carità. Occorre poi vedere in faccia la tentazione e nominarla, riconoscerla. Per questo occorre una presa di distanza dai propri pensieri per non annegarvi dentro, ma saperli vedere lucidamente: “Non vi è passione peggiore dell’accidia, ma se l’uomo riconosce che è accidia, trova quiete” (abba Poemen 149). Occorre poi aderire all’oggi, vivere ogni giorno come la grande occasione donata dalla grazia di Dio di vivere la carità, di conoscere la salvezza di Dio. Occorre combattere la tristezza e l’accidia esercitandosi alla gioia, in obbedienza alle parole della Scrittura che fanno della gioia un comando. Poiché poi l’accidia porta anche a disprezzare gli altri, a giudicare come grossolani, inferiori, rozzi, gli altri uomini, soprattutto i confratelli del monastero, ecco che rimedio radicale per l’accidia è l’esercizio alla carità. Nel senso di credere all’amore, di rinnovare la fede nell’amore con cui Dio ci ha amati, e nel senso di rinnovare l’amore, aprirsi nuovamente all’amore, vincere la tentazione del ripiegamento su di sé e aprirsi alla “fatica della carità” (1Ts 1,3).