Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Commissione Teologica Internazionale
Cristianesimo e religioni
a cura di A. Dall'Osto

Il documento della commissione teologica, qui ripreso nelle grandi linee, entra subito nel vivo della questione chiedendosi: le religioni sono mediazioni di salvezza per i loro seguaci?

A questa domanda c'è chi dà una risposta negativa, anzi alcuni dicono che tale impostazione non ha senso; altri danno una risposta affermativa, che a sua volta apre la via ad altre domande: sono mediazioni salvifiche autonome, o si realizza in esse la salvezza di Gesù Cristo?

Si è tentato di classificare in vari modi le diverse posizioni teologiche di fronte a questo problema. La commissione ha adottato la seguente classificazione:

  • L'ecclesiocentrismo esclusivista: è frutto di un determinato sistema teologico, o di un'errata comprensione della frase extra Ecclesiam nulla salus, ma non è più difeso dai teologi cattolici, dopo le chiare affermazioni di Pio XII e del concilio Vaticano II sulla possibilità di salvezza per quelli che non appartengono visibilmente alla chiesa (cf., per esempio, LG 16; GS 22.
  • Il cristocentrismo: accetta che nelle religioni possa esserci la salvezza, ma nega loro un'autonomia salvifica, a motivo dell'unicità e dell'universalità della salvezza di Gesù Cristo. Questa posizione è senza dubbio la più comune tra i teologi cattolici, pur essendoci differenze tra loro. Essa cerca di conciliare la volontà salvifica universale di Dio con il fatto che ogni uomo si realizza come tale all'interno di una tradizione culturale, che ha nella propria religione la più alta espressione e l'ultimo fondamento.
  • Il teocentrismo: vuole essere un superamento del cristocentrismo, un cambiamento di prospettiva, una rivoluzione copernicana. Questa posizione deriva, tra gli altri motivi, da una certa cattiva coscienza dovuta all'intreccio dell'azione missionaria del passato con la politica coloniale, talvolta anche dimenticando l'eroismo che accompagnò l'azione evangelizzatrice. Esso vuole riconoscere le ricchezze delle religioni e la testimonianza morale dei loro seguaci e, in ultima istanza, intende facilitare l'unione di tutte le religioni in vista di un'azione comune per la pace e la giustizia nel mondo. Possiamo distinguere un teocentrismo nel quale Gesù Cristo, senza essere costitutivo, è considerato normativo della salvezza e un altro nel quale non si riconosce a Gesù Cristo neppure questo valore normativo. Nel primo caso, senza negare che anche altri possano mediare la salvezza, si riconosce in Gesù Cristo il mediatore che meglio la esprime; l'amore di Dio si rivela più chiaramente nella sua persona e nella sua opera, ed è così il paradigma per gli altri mediatori. Tuttavia senza di lui non si rimarrebbe senza salvezza, ma soltanto senza la sua manifestazione più perfetta. Nel secondo caso, Gesù Cristo non è considerato nè come costitutivo né come normativo per la salvezza dell'uomo. Dio è trascendente e incomprensibile, quindi non possiamo giudicare i suoi disegni con le nostre categorie umane; come, del resto, non possiamo valutare o mettere a confronto i diversi sistemi religiosi.
  • Il soteriocentrismo radicalizza ancor più la posizione teocentrica, essendo meno interessato alla questione su Gesù Cristo (ortodossia) e più all'impegno effettivo di ogni religione nei confronti dell'umanità che soffre (ortoprassi). In tale prospettiva, il valore delle religioni sta nel promuovere il Regno, la salvezza, il benessere dell'umanità: questa posizione può così essere caratterizzata come pragmatica e immanentistica.

La questione della verità

Alla base di tutta questa discussione è il problema della verità delle religioni; ma oggi si nota una tendenza a relegarlo in secondo piano, separandolo dalla riflessione sul valore salvifico. La questione della verità comporta seri problemi di ordine teorico e pratico, tanto che in passato ebbe conseguenze negative nell'incontro tra le religioni. Di qui la tendenza a sminuire o a relativizzare tale problema, affermando che i criteri di verità valgono soltanto per la propria religione.

Alcuni introducono una nozione più esistenziale di verità, considerando soltanto la condotta morale corretta della persona, senza dare importanza al fatto che le sue convinzioni religiose possano essere condannate. Si crea così una certa confusione tra «essere nella salvezza» ed «essere nella verità»: bisognerebbe piuttosto collocarsi nella prospettiva cristiana della salvezza come verità e dell'essere nella verità come salvezza. Tralasciare il discorso sulla verità conduce a mettere superficialmente sullo stesso piano tutte le religioni, svuotandole in fondo del loro potenziale salvifico. Affermare che tutte sono vere equivale a dichiarare che tutte sono false: sacrificare la questione della verità è incompatibile con la visione cristiana.

La questione di Dio

C'è una posizione cosiddetta pluralista che pone sullo stesso piano tutte le religioni. In pratica vuole eliminare dal cristianesimo qualunque pretesa di esclusività o di superiorità rispetto alle altre religioni. Perciò afferma che la realtà ultima delle diverse religioni è identica e, insieme, relativizza la concezione cristiana di Dio in quello che ha di dogmatico e di vincolante. Così distingue Dio in se stesso, inaccessibile all'uomo, e Dio manifestato nell'esperienza umana. Le immagini di Dio sono costituite dall'esperienza della trascendenza e dal rispettivo contesto socioculturale: non sono Dio, però tendono correttamente verso di lui; questo può dirsi anche delle rappresentazioni non personali della divinità: di conseguenza nessuna di esse può considerarsi esclusiva.

Ne segue che tutte le religioni sono relative, non in quanto tendono verso l'Assoluto, ma nelle loro espressioni e nei loro silenzi. Posto che c'è un unico Dio e uno stesso piano di salvezza per tutti gli uomini, le espressioni religiose sono ordinate le une alle altre e sono complementari tra loro. Poiché il Mistero è universalmente attivo e presente, nessuna delle sue manifestazioni può pretendere di essere l'ultima e la definitiva. In tal modo la questione di Dio si trova in intima connessione con quella della rivelazione.

Il dibattito cristologico

Dietro alla problematica teologica è stata sempre presente la questione cristologica.

La maggiore difficoltà del cristianesimo si è sempre focalizzata nell'«incarnazione di Dio», che conferisce alla persona e all'azione di Gesù Cristo le caratteristiche di unicità e di universalità in ordine alla salvezza dell'umanità. Ma come può un avvenimento particolare e storico avere una pretesa universale? Come si può avviare un dialogo interreligioso, rispettando tutte le religioni e senza considerarle in partenza come imperfette e inferiori, se riconosciamo in Gesù Cristo, e soltanto in lui, il Salvatore unico e universale dell'umanità? Non si potrebbe concepire la persona e l'azione salvifica di Dio a partire da altri mediatori oltre a Gesù Cristo?

Il problema cristologico è legato essenzialmente a quello del valore salvifico delle religioni. Si possono osservare a questo riguardo diverse posizioni.

Vi è anzitutto il cosiddetto «teocentrismo salvifico», che accetta un pluralismo di mediazioni salvifiche legittime e vere. All'interno di questa posizione, un gruppo di teologi attribuisce a Gesù Cristo un valore normativo, in quanto la sua persona e la sua vita rivelano, nel modo più chiaro e decisivo, l'amore di Dio per gli uomini. La maggiore difficoltà di tale concezione è che non offre, nè all'interno nè all'esterno del cristianesimo, un fondamento di tale normatività che si attribuisce a Gesù.

Un altro gruppo di teologi sostiene un teocentrismo salvifico con una cristologia non normativa. Svincolare Cristo da Dio priva il cristianesimo di qualsiasi pretesa universalistica della salvezza (e così diventerebbe possibile il dialogo autentico con le religioni), ma implica la necessità di confrontarsi con la fede della chiesa e in concreto con il dogma di Calcedonia. Questi teologi considerano tale dogma come un'espressione storicamente condizionata dalla filosofia greca, che dev'essere attualizzata perché impedisce il dialogo interreligioso. L'incarnazione sarebbe un'espressione non oggettiva, ma metaforica, poetica, mitologica: essa vuole soltanto significare l'amore di Dio che si incarna in uomini e donne la cui vita riflette l'azione di Dio. Le affermazioni dell'esclusività salvifica di Gesù Cristo possono essere spiegate con il contesto storico-culturale: cultura classica (una sola verità certa e immutabile), mentalità escatologico-apocalittica (profeta finale, rivelazione definitiva) e atteggiamento di una minoranza (linguaggio di sopravvivenza, un unico salvatore).

La conseguenza più importante di tale concezione è che Gesù Cristo non può essere considerato l'unico ed esclusivo mediatore. Soltanto per i cristiani egli è la forma umana di Dio, che adeguatamente rende possibile l'incontro dell'uomo con Dio, benché non in modo esclusivo. È totus Deus, poiché è l'amore attivo di Dio su questa terra, ma non è totum Dei, poiché non esaurisce in sé l'amore di Dio. Potremmo anche dire: totum Verbum, sed non totum Verbi. Il Logos, che è più grande di Gesù, può incarnarsi anche nei fondatori di altre religioni.

Questa stessa problematica ritorna quando si afferma che Gesù è il Cristo, ma il Cristo è più che Gesù. Questo facilita molto l'universalizzazione dell'azione del Logos nelle religioni: ma i testi neotestamentari non concepiscono il Logos di Dio prescindendo da Gesù. Un altro modo di argomentare in questa stessa linea consiste nell'attribuire allo Spirito Santo l'azione salvifica universale di Dio, che non condurrebbe necessariamente alla fede in Gesù Cristo.

Le diverse posizioni di fronte alle religioni determinano comprensioni differenziate riguardo all'attività missionaria della chiesa e al dialogo interreligioso. Se le religioni sono anch'esse vie alla salvezza (posizione pluralista), allora la conversione non è più l'obiettivo primario della missione, in quanto ciò che importa è che ciascuno, animato dalla testimonianza degli altri, viva profondamente la propria fede.

Una certa funzione salvifica

Il documento della commissione dedica a questo punto ampio spazio allo studio dell'iniziativa del Padre, la mediazione universale di Cristo, l'universalità del dono dello Spirito Santo e la funzione della chiesa nella salvezza di tutti.

In questa luce, si pone l'interrogativo: qual è il valore delle religioni in ordine alla salvezza?

Oggi, risponde il documento, non è in discussione la possibilità di salvezza fuori della chiesa di quelli che vivono secondo coscienza. Ribadisce tuttavia che questa salvezza non si produce indipendentemente da Cristo e dalla sua chiesa: essa si fonda sulla presenza universale dello Spirito, che non si può separare dal mistero pasquale di Gesù (GS 22: RM 10 ecc.). Alcuni testi del Vaticano II trattano specificamente delle religioni non cristiane: coloro ai quali non è stato ancora annunciato il Vangelo sono in vari modi ordinati al popolo di Dio, e l'appartenenza alle diverse religioni non sembra indifferente agli effetti di questo «ordinamento» (cf. LG 16). Si riconosce che nelle diverse religioni si trovano raggi della verità che illumina ogni uomo (NA 2), semi del Verbo (AG 11); che per disposizione di Dio si trovano in esse cose buone e vere (OT 16): che si trovano elementi di verità, di grazia e di bene non soltanto nei cuori degli uomini, ma anche nei riti e nei costumi dei popoli, anche se tutto dev'essere «sanato, elevato e completato» (AG 9: LG 17). Rimane aperto invece l'interrogativo se le religioni come tali possano avere valore in ordine alla salvezza.

L'enciclica Redemptoris missio, seguendo e sviluppando la linea del concilio Vaticano II ha sottolineato più chiaramente la presenza dello Spirito Santo non soltanto negli uomini di buona volontà presi individualmente, ma anche nella società, nella storia, nei popoli, nelle culture, nelle religioni, sempre con riferimento a Cristo (RM 28-29). Esiste un'azione universale dello Spirito, che non può essere separata né tanto meno confusa con l'azione particolare che lo Spirito svolge nel corpo di Cristo che è la chiesa (ivi).

A motivo di tale esplicito riconoscimento della presenza dello Spirito di Cristo nelle religioni, non si può escludere la possibilità che queste, come tali, esercitino una certa funzione salvifica, aiutino cioè gli uomini a raggiungere il fine ultimo nonostante la loro ambiguità. Nelle religioni agisce lo stesso Spirito che guida la chiesa: tuttavia la presenza universale dello Spirito non si può equiparare alla sua presenza particolare nella chiesa di Cristo. Anche se non si può escludere il valore salvifico delle religioni, non è detto che in esse tutto sia salvifico: non si può dimenticare la presenza dello spirito del male, l'eredità del peccato, l'imperfezione della risposta umana all'azione di Dio ecc. (cf. DA 30-31). Soltanto la chiesa è il corpo di Cristo, e soltanto in essa è data con tutta la sua intensità la presenza dello Spirito: perciò non può essere affatto indifferente l'appartenenza alla chiesa di Cristo e la piena partecipazione ai doni salvifici che si trovano soltanto in essa (RM 55). Le religioni possono esercitare la funzione di praeparatio evangelica, possono preparare i popoli e le culture ad accogliere l'evento salvifico che è già avvenuto; ma la loro funzione non si può paragonare a quella dell'Antico Testamento, che fu la preparazione allo stesso evento di Cristo.

Cristo, pienezza della rivelazione

Per quanto riguarda la rivelazione, il documento afferma che solamente in Cristo e nel suo Spirito, Dio si è dato completamente agli uomini; quindi soltanto quando questa autocomunicazione si fa conoscere, si dà la rivelazione di Dio in senso pieno. Il dono che Dio fa di se stesso e la sua rivelazione sono due aspetti inseparabili dell'evento di Gesù.

Senza dubbio, è vero che anche nelle altre religioni esistono «semi del Verbo» e «raggi della verità»; ma anche se Dio ha potuto illuminare gli uomini in vari modi, non abbiamo mai la garanzia che queste luci siano rettamente accolte e interpretate in chi le riceve; soltanto in Gesù abbiamo la garanzia della piena accoglienza della volontà del Padre. Lo Spirito ha assistito in modo speciale gli apostoli nella testimonianza di Gesù e nella trasmissione del suo messaggio; dalla predicazione apostolica è sorto il Nuovo Testamento, e anche grazie ad essa la chiesa ha ricevuto l'Antico. L'ispirazione divina, che la chiesa riconosce agli scritti dell'Antico e del Nuovo Testamento, assicura che in essi è stato raccolto tutto soltanto quello che Dio voleva fosse scritto.

Anche se non si può escludere, nei termini indicati, qualche illuminazione divina nella composizione di tali libri, questi non si possono considerare come equivalenti all'Antico Testamento, che costituisce la preparazione immediata alla venuta di Cristo nel mondo.

Dialogo interreligioso

Il dialogo interreligioso non è soltanto un desiderio che nasce dal concilio Vaticano II ed è promosso dall'attuale pontefice: è anche una necessità nella situazione attuale del mondo. Ma come intenderlo? I rappresentanti della teologia pluralista pensano che da parte dei cristiani si debba eliminare ogni pretesa di superiorità e di assolutezza, e ritenere che tutte le religioni abbiano lo stesso valore. Pensano che sia una pretesa di superiorità considerare Gesù come salvatore e mediatore unico per tutti gli uomini.

A loro parere, la rinuncia a tale pretesa è considerata essenziale perché il dialogo possa essere fruttuoso. La differenza basilare tra questa impostazione e quella del magistero sta nella posizione che adottano dinanzi al problema teologico della verità, e al tempo stesso dinanzi alla fede cristiana. L'insegnamento della chiesa sulla teologia delle religioni muove dal centro della verità della fede cristiana. Tiene conto, da una parte, dell'insegnamento paolino della conoscenza naturale di Dio, e insieme esprime la fiducia nell'azione universale dello Spirito. Vede entrambe le linee fondate sulla tradizione teologica; valorizza il vero, il buono e il bello delle religioni a partire dal fondamento della verità della propria fede, ma non attribuisce in generale una stessa validità alla pretesa di verità delle altre religioni. Questo condurrebbe all'indifferenza, cioè a non prendere sul serio la pretesa di verità tanto propria come altrui.

La teologia delle religioni che troviamo nei documenti ufficiali muove dal centro della fede. Quanto al modo di procedere delle teologie pluraliste, e a prescindere dalle diverse opinioni e dai continui cambiamenti che avvengono in esse, si può affermare che, in fondo, hanno una strategia «ecumenica» del dialogo, si preoccupano cioè di una rinnovata unità con le diverse religioni. Questa unità però si può costruire soltanto eliminando aspetti della propria autocomprensione: si vuole ottenere l'unità togliendo valore alle differenze, che sono considerate come una minaccia; si pensa almeno che devono essere eliminate come particolarità o come riduzioni proprie di una cultura specifica. Ne deriva che la teologia pluralista, come strategia di dialogo tra le religioni, non solo non si giustifica di fronte alla pretesa di verità della propria religione, ma annulla insieme la pretesa di verità dell'altra parte.

Annuncio della verità che è Cristo

Al contrario, una teologia cristiana delle religioni dev'essere in grado di esporre teologicamente gli elementi comuni e le differenze tra la propria fede e le convinzioni dei diversi gruppi religiosi. Il concilio colloca tale compito in una tensione: da una parte contempla l'unità del genere umano, fondata su un'origine comune (NA 1) e, per questo motivo, ancorata sulla teologia della creazione, «la chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni» (NA 2); d'altra parte, però, la stessa chiesa insiste sulla necessità dell'annuncio della verità che è Cristo stesso: «Essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è "via, verità e vita" (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose (cf. 2Cor 5,18-19)» (NA 2).

Secondo la commissione teologica due sono le indicazioni da tenere presenti:

1. una teologia differenziata delle religioni, che si basa sulla propria pretesa di verità, è la base di qualunque dialogo serio e il presupposto necessario per comprendere la diversità delle posizioni e i loro mezzi culturali di espressione;

2. la contestualità letteraria o socioculturale ecc. sono mezzi importanti di comprensione, a volte unici, di testi e di situazioni, costituiscono un possibile luogo di verità, ma non si identificano con la verità stessa. Con questo si indicano il significato e i limiti della contestualità culturale.

Il dialogo interreligioso tratta delle «coincidenze e convergenze» con le altre religioni con cautela e rispetto. A proposito delle «differenze», si deve tener conto che queste non devono annullare le coincidenze e gli elementi di convergenza, e inoltre che il dialogo su tali differenze deve ispirarsi alla propria dottrina e all'etica corrispondente; in altre parole, la forma del dialogo non può invalidare il contenuto della propria fede e della propria etica.

In conclusione, il cristiano di oggi deve imparare a vivere, nel rispetto per le diverse religioni, una forma di comunione che ha il suo fondamento nell'amore di Dio per gli uomini e che si fonda sul suo rispetto per la libertà dell'uomo. Ma questo rispetto verso l'«alterità» delle diverse religioni è a sua volta condizionato dalla propria pretesa di verità. L'interesse per la verità dell'altro condivide con l'amore il presupposto strutturale della stima di se stesso. La base di ogni comunicazione, anche del dialogo tra le religioni è il riconoscimento dell'esigenza di verità. La fede cristiana però ha una propria struttura di verità: le religioni parlano «del» Santo, «di» Dio, «su» di lui, «in sua vece» o «nel suo nome»; soltanto nella religione cristiana è Dio stesso che parla all'uomo con la sua Parola. Solamente questo modo di parlare dà all'uomo la possibilità di essere persona in senso proprio, insieme alla comunione con Dio e con tutti gli uomini.

Il Dio in tre persone è il cuore di questa fede: soltanto la fede cristiana vive del Dio uno e trino; dal fondo della sua cultura è sorta la differenziazione sociale che caratterizza la modernità

Questa è la base solida, secondo la commissione, su cui poter impostare seriamente il rapporto con le religioni e di intendere il dialogo che non potrà mai essere disgiunto dall'annuncio.



Cosa dicono gli altri

Riportiamo in forma molto schematica alcune idee sulla figura di Gesù presenti in altre grandi religioni: l'ebraismo, l'islam e l'induismo

Gesù per gli ebrei

Per gli ebrei di oggi, come per quelli di ieri, Gesù costituisce un segno di contraddizione. «O Gesù, figlio d'Israele, che Israele rinnega, e non può ignorare», scriveva Edmond Fleg (1874-1963). Ciò che caratterizza il giudaismo tradizionale è semplicemente la volontà d'ignorare Gesù. A. Mandel, in un articolo intitolato «Un ebreo di nome Gesù», afferma che il giudaismo «non si definisce in rapporto a Gesù, nè in convergenza, né in divergenza. Non se ne interessa affatto». A dire il vero, nel corso di questo XX secolo ci sono stati dei tentativi di recuperare Gesù. Per esempio, Martin Buber (1878-1965) ha voluto riconoscere in lui un fratello. Leggiamo nei suoi scritti: «Fin dall'infanzia ho sentito Gesù come un mio grande fratello. Sono più che mai sicuro che a lui spetta un posto importante nella storia della fede d'Israele, e che questo posto non può essere circoscritto entro nessuna categoria abituale...».

Ma questo appellativo di fratello non trova unanimità di consensi. Per alcuni, Gesù rimarrà per sempre un estraneo. «Nessun scrittore, afferma Emmanuel Levinas, parlando di Gesù, ha saputo comunicarcene il fascino. Neppure tu, caro e venerato Edmond Fleg. Non basta chiamare Gesù Yechu o Rabbi per avvicinarlo a noi. Per noi, che siamo senza odio, non ha amicizia. Resta lontano. E sulle sue labbra non riconosciamo più i nostri versetti».

Dopo la tragedia di Auschwitz in seno al mondo ebraico si sono manifestate altre tendenze, per esempio, quella che vede in lui un martire, simbolo del destino del popolo ebraico. «Gesù che soffre e muore in croce in mezzo agli schemi, si chiede Schalom Ben Corin (nato nel 1913), non è forse un simbolo per tutto il suo popolo che, flagellato fino al sangue, pende sempre sulla croce dell'odio verso il giudaismo?». Sempre secondo Ben Chorin, Gesù è anche il simbolo della condizione umana, è «l'uomo, come te, come me; l'uomo esemplare nella sua piccolezza». Un altro scrittore, Pinchas Lapide (nato nel 1922), osserva che dopo Auschwitz, «Gesù è come un uomo ideale, un compagno di umanità, un compagno nel giudaismo, un israelita». In questo senso egli è veramente «luce delle nazioni».

Ma la maggioranza degli ebrei oggi continua a contestargli questo posto. Anche coloro che si sentono più vicini a lui, non lo riconoscono come il Cristo. In una parola, un fossato divide ancor oggi ebrei e cristiani, secondo una celebre frase di Ben Chorin: «La fede di Gesù ci riunisce, la fede in Gesù ci separa».

Gesù per l'islam

Il Corano riprende diversi tratti del Vangelo per caratterizzare Gesù. Il nome più comune con cui è designato è quello di figlio di Maria o di profeta inviato da Dio a Israele. Per quanto egli sia vicino a Dio, per l'islam Gesù non è nè suo «figlio» nè il Verbo di Dio. Il Corano denuncia tutto ciò che potrebbe costituire un attentato al monoteismo più rigido e assoluto. Gesù quindi è una creatura, come Adamo, creato dalla polvere: Dio gli disse: «Sii! ed egli fu». I cristiani quindi avrebbero deformato il vangelo. Leggiamo: «O gente del libro! Non superate la misura della vostra religione; non dite di Dio che la verità. Il messia, Gesù figlio di Maria, non è che un inviato di Dio, la sua Parola lanciata a Maria, uno spirito venuto da Lui. Credete dunque in Dio e nei suoi inviati. Non dite “tre”. Dio è un Dio unico. Gloria a lui! Lungi da lui l'avere avuto un figlio!».

Parlando della morte di Gesù, il Corano, nonostante alcune difficoltà di interpretazione, sembra negare la realtà della crocifissione. Gesù cioè non sarebbe morto che in apparenza, o, per lo meno, la morte non avrebbe toccato che il suo corpo.

Per l'islam, Gesù quindi è un servo di Dio a cui è stata affidata la missione di annunciare il vangelo. Egli è semplicemente il penultimo dei profeti. L'ultimo è Maometto. L'islam costituirebbe quindi il superamento del cristianesimo, come il cristianesimo era stato il superamento del giudaismo.

Gesù per l'induismo

Gesù è accolto anche nell'induismo, ma è ben lontano dall'essere il Gesù del cristianesimo. Ghandi, per esempio, era affascinato dal Cristo delle beatitudini: «Lo spirito del discorso della montagna, scrive, esercita su di me quasi lo stesso fascino della Bhagavadgita. È questo discorso che sta alla base del mio attaccamento a Gesù». È stato scritto che Gandhi era «cristiano in maniera naturale, più che per ortodossia». Cristo per lui era un modello di non-violenza. Un autore del secolo scorso, Keshu, si chiedeva: «Gesù non è forse asiatico? Sì, e anche i suoi discepoli lo erano. Questo ricordo centuplica il mio amore a Gesù: lo sento con le mie simpatie nazionali». Keshu invita i suoi compatrioti ad accogliere Cristo secondo lo spirito dei libri sacri della loro tradizione. Ma si tratta di un Cristo panteista. Secondo un altro autore, Parekh, Gesù introduce a un rapporto nuovo con Dio. Essere cristiano, a suo avviso, consiste nel condividere con Gesù la sua relazione con Dio: «Per me, scrive, essere indù vuol dire essere vero discepolo di Cristo, ed essere vero discepolo di Cristo vuol dire essere più indù». In una parola, qualunque sia l'immagine di Gesù, nell'induismo, egli non è altro che una via fra le tante per giungere all'Ultimo. È un Cristo «senza legame», ossia senza chiesa, secondo l'espressione del teologo indiano cristiano S.J. Samartha. L'induismo esalta una mistica dell'interiorità a-storica. E ciò costituisce una vera sfida per il cristianesimo, mistero di un Dio impegnato personalmente nella storia.


(da Testimoni, febbraio 1997, n. 3, pp. 23-28)

L'uso che l'Occidente ha fatto, in questi ultimi anni, del tema dei diritti, giustificando pesanti interventi verso Stati deboli e rinunciando a intervenire nei confronti di quelli potenti, è assai pericoloso...

“Se vuoi la pace, prepara la pace”
di Jean Mouttapa *


Un barlume di speranza sembra cominciare a spuntare all'orizzonte del Vicino oriente. Non si osa credervi, tanto gli ultimi due decenni si sono dimostrati disperati… Disperati specialmente a causa dello scarto delirante, mortifero, fra le dichiarazione e gli atti, fra le parole e i fatti. La parola “pace” che era sulla bocca di tutti o quasi è stata macchiata del sangue degli innocenti più che in qualunque altro conflitto. Gli anni che sono succeduti alla stretta di mano di Oslo hanno consacrato questa perversione del linguaggio: dalle due parti si è continuato a porre atti di vera guerra pur invocando un “processo di pace” del tutto privo di senso. La parola, la cui funzione primaria è di disinnescare la violenza degli uomini, non era più altro che la menzogna edulcorata che rivestiva l'orrore. In certi momenti, di fronte all'incuria dei politici, si aveva l'impressione di udire il grido del profeta Geremia che risuonò un tempo su questa stessa terra: “Curano alla leggera la ferita del mio popolo dicendo: 'Pace! Pace!', mentre non c'è pace.

Le grandi dichiarazioni sulla coesistenza pacifica, l'abbiamo visto, non servono a niente. E persino il diritto, se non è sostenuto da una vera educazione alla pace, darà presto la prova della sua impotenza. Tutte le “iniziative di pace” saranno votate al fallimento, tutti i trattati si riveleranno dei gusci vuoti se la cultura non procede: l'insegnamento dell'odio anti-ebraico nelle scuole palestinesi e in una certa stampa araba, il disprezzo nascosto o ostentato in molti discorsi israeliani devono lasciare il posto a una preparazione volontaristica delle popolazioni civili a prospettive di pace. Utopia? Nel caso, sarebbe piuttosto l'idea di poter comporre il conflitto soltanto con i mezzi politico-giuridici a essere irrealistica. Quando la guerra ha preso a tal punto possesso degli spiriti, dei cuori e del linguaggio, la sola politica responsabile è quella di ritornare alla sapienza di Erasmo: “Se vuoi la pace, prepara la pace”. Speriamo che coloro che hanno in mano le decisioni, al di là dei loro discorsi, si ricordino di quell'umanesimo, che è il solo realismo.

(in Le monde des religions, n. 10, p.19)

* Jean Mouttapa, cristiano impegnato nel dialogo interreligioso, è scrittore e editore. L'ultima opera pubblicata: Un Arabe face à Auschwitz. La mémoire partagée, (Albin Michel, 2004)

Etiopia, laboratorio di tolleranza

di Giuseppe Caffulli

«Credo che l'Etiopia nella sua lunga storia sia stata e sia tuttora un esempio di pacifica coesistenza di genti e culture diverse. Il cristianesimo, l'ebraismo, l'islam ed altri hanno una lunga storia in Etiopia. L'antica tolleranza ha portato alla coesistenza pacifica dei credenti di queste religioni per secoli. Diversamente da altre parti del mondo, percorse da estenuanti scontri civili, abbiamo creato sistemi sociali e culturali che ci hanno permesso di gestire i conflitti che sorgevano da incomprensioni tra confessioni religiose. È una lezione buona, che tutti dobbiamo seguire per poter ostacolare le conseguenze pericolose del fondamentalismo. Anche se dobbiamo essere onesti: la strada della pace non è automaticamente segnata». Abuna Paulos è patriarca della Chiesa ortodossa d'Etiopia, una delle Chiese cristiane di più antica tradizione, calata in un contesto dove il dialogo tra le religioni e le Chiese è una sfida (e una necessità) costante. Ma anche il rischio del fondamentalismo religioso si fa ogni giorno più concreto. In margine alla partecipazione al meeting Uomini e religioni di Milano, ha concesso in esclusiva questa intervista a Mondo e Missione.

Santità, qual'è oggi la situazione della Chiesa ortodossa d'Etiopia?

La nostra Chiesa ha conosciuto svariati problemi nel corso dei secoli. Durante le diverse dominazioni la Chiesa ha sofferto molto, perché è diventata il bersaglio del potere di turno. Oggi viviamo un periodo di sostanziale tranquillità. Il governo attuale ha imboccato la strada della democrazia e questo atteggiamento si riflette positivamente anche nelle relazioni con la Chiesa. Il popolo, durante il regime comunista, ha sopportato - insieme a molte altre vessazioni - anche la proibizione di partecipare alla vita della Chiesa. Ora invece si assiste a un risveglio della frequenza alle celebrazioni e dell'interesse per la religione, specie nei giovani. I nostri monasteri stanno vivendo una stagione felice: sono moltissime le nuove vocazioni. Viviamo un momento di grazia, che spero possa continuare. Mi auguro solo che chi, come me, ha ruoli di responsabilità nella Chiesa, sappia cogliere e dare risposte alle esigenze spirituali dei giovani.

E lo stato delle relazioni con la Chiesa cattolica?

Le relazioni con la Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane presenti in Etiopia sono buone. Non ci sono conflitti tra le nostre Chiese. Lavoriamo insieme per rispondere alle sfide comuni, che sono quelle che un Paese come il nostro propone ogni giorno. Un impegno è quello del bene del nostro popolo.

Ci sono esempi di collaborazione con la Chiesa cattolica ormai di lunga data. Ad Arba Minch, nell'estremo sud del Paese (M.M., aprile 1998, pp. 60-61), i padri spiritani si sono messi al servizio della formazione dei diaconi ortodossi... Che giudizio ha di questo esperimento, peraltro discusso anche in casa cattolica?

Sono convinto che le forme di collaborazione bilaterale vadano approfondite e sviluppate tra la nostra Chiesa e quella cattolica. Penso al campo della scuola, dove i cattolici hanno una tradizione e una competenza riconosciuta. Sarebbe davvero una cosa ottima per tutti poter lavorare insieme. Detto questo, a differenza di Arba Minch, non sempre i rapporti corrono su questi binari. Non c'è nessuna forma di antagonismo verso i cattolici in quello che sto dicendo. Pongo la questione da un punto di vista semplicemente cristiano. La Chiesa cattolica è ricca di personalità e risorse, di saggezza e forze spirituali. La critica che faccio è questa: perché utilizzare questa ricchezza in ambito missionario? Perché adoperarla nella logica di includere? La varietà delle confessioni religiose è un patrimonio straordinario. Le differenze delle nostre Chiese di antica tradizione sono semplicemente modalità diverse per esprimere la ricchezza della medesima radice cristiana. Le differenze costituiscono una forma di bellezza, sono come note che insieme formano un accordo. Esiste una unità da ricercare sul piano teologico ed ecclesiologico. Esiste un’altra forma di unità, già visibile, che si evidenzia nell'aiuto fraterno. La competizione, invece del sostegno, non è un atteggiamento cristiano.

Le forme di collaborazione tra le nostre Chiese esistono non solo ad Arba Minch. Ma mi chiedo: perché non lavorare ancora di più insieme? Questo vale anche per le altre Chiese cristiane, che possono fornire il loro apporto di incoraggiamento e sostegno.

In Etiopia esiste una forte componente musulmana...

La comunità musulmana è presente nel Paese da moltissimo tempo. Nel passato non ci sono stati conflitti né con i musulmani né con altre confessioni religiose. L'atteggiamento complessivo della Chiesa ortodossa nei confronti delle altre religioni è sempre stato di tolleranza. Anche i re d'Etiopia hanno sempre avuto un atteggiamento di benevolenza nei confronti dei musulmani. Oggi nel Paese, ma questo è una costante che accomuna diversi contesti, la situazione dell'islam è cambiata rispetto al passato. Ho visto una grande moschea a Roma, del costo di molti milioni di dollari. Ci sono molte moschee in Germania e in Gran Bretagna e in Francia, dove l'islam è la seconda religione. L'islam è cambiato, si sta diffondendo ovunque e sta rivendicando spazi. Bene, il mondo è di tutti. E questo fenomeno di espansione è legittimo. Ma proprio perché il mondo è di tutti dobbiamo cercare di vivere insieme.

L'Etiopia non è l'unico Paese in cui gli islamici stanno portando avanti un'azione nei confronti dei cristiani. Questo avviene anche in Europa, in America. Non dobbiamo preoccuparci del fatto che i musulmani siano in Etiopia, perché sono ormai ovunque. Ciò che preoccupa me personalmente è che gli organismi internazionali, e l'Onu in prima battuta, non perdano l'occasione di proporre delle politiche d'inclusione sociale e di lotta alla povertà capaci di togliere terreno fertile al fondamentalismo e di offrire a tutti delle opportunità di vita, in modo che insieme si possa costruire una convivenza pacifica.


Il Paese è uscito di recente da una sanguinosa guerra con l'Eritrea.

Siamo amareggiati per la guerra scoppiata con l'Eritrea, perché i nostri Paesi hanno radici comuni, siamo un solo Paese, siamo fratelli e sorelle. È stata una sciagura questa guerra. Il popolo ha pregato fortemente per la pace e la fine del conflitto, e così è avvenuto anche in Eritrea. Non credo personalmente che l'Etiopia abbia intrapreso questa guerra per ambizione o espansionismo. Certamente qualcuno ha spinto e incoraggiato. Non so chi. Ma non c'era ragione perché due popoli fratelli si combattessero, Appena poi la guerra è scoppiata, si sono fatte avanti nazioni per controllare e condizionare.

Ricordo che il governo dell'Etiopia ha sempre chiesto una soluzione pacifica del conflitto. Nessuno ha voluto ascoltare. Il costo di vite è stato enorme da entrambe le parti. L'eventualità della guerra tra i due Paesi non sembra ancora risolta. E per questo chi ha responsabilità deve parlare molto chiaramente, per spazzare il campo da ogni possibilità di scontro armato. Noi condanniamo fermamente la guerra, ma non possiamo negare la possibilità di difesa.

Per secoli la Chiesa etiope è stata legata alla sede di Alessandria. Come sono oggi i rapporti?

L'Etiopia ha ricevuto il Vangelo nel 34 d.C. Le comunità che si erano formate erano però povere di mezzi e di risorse umane. Allora il re mandò degli ambasciatori ad Alessandria, che era la Chiesa più vicina, per avere aiuto. Chiese di ottenere istruzioni circa la vita delle comunità cristiane e la consacrazione di un vescovo. Cosa che avvenne per mano dell'allora patriarca Atanasio il Grande. In seguito la Chiesa d'Alessandria non permise che ci fosse nessun vescovo che non fosse egiziano. Così è stato per secoli. Siamo stati sempre trattati come una Chiesa bambina e abbiamo sempre avuto vescovi stranieri. Solo cinquant'anni fa abbiamo potuto consacrare un patriarca etiope e vedere riconosciuta la nostra tradizione di Chiesa autocefala. E questo è stato possibile anche grazie al nostro imperatore (Haile Selassie, l'ultimo negus - ndr). Ora noi vogliamo vivere in pace, come Chiese sorelle. Sento dire spesso che in Egitto sono contrariati e non desiderano cooperare. A dire il vero non lo hanno mai fatto. Innumerevoli volte abbiamo patito la fame e la siccità in Etiopia, e da quella che si riteneva la nostra Chiesa madre non abbiamo mai avuto nessun aiuto. Ripeto: agli inizi della nostra storia cristiana, siamo stati noi a chiedere un aiuto ad Alessandria; poi abbiamo avuto la pazienza di aspettare secoli. Infine abbiamo ottenuto legalmente il diritto di proclamarci Chiesa indipendente. Non vogliono esserci amici? Mi dispiace, ed è una cosa triste da un punto di vista cristiano. Credo che comunque sia una diatriba che riguarda le alte gerarchie della Chiesa. Sono stato al Cairo e a Gerusalemme. Il popolo mi ha sempre accolto con deferenza e simpatia.

Esiste oggi una forte diaspora dei cristiani etiopi all'estero. Come assicurare loro assistenza pastorale?

Fin dall'occupazione italiana nel Paese è iniziata una forte diaspora. Ora ci sono circa 40 milioni di cristiani ortodossi etiopi nel Paese, cinque milioni all'estero, in tutti i Paesi del mondo. In Italia esiste una numerosa comunità. Ma mentre anni fa la diaspora era iniziata sull'onda di questioni politiche, oggi le motivazioni sono essenzialmente di ordine economico. La ricerca di condizioni di vita migliori porta a scegliere l'emigrazione. Molti comunque decidono poi di ritornare e costituiscono oggi una risorsa per la ricostruzione del Paese. Uno dei nostri maggiori problemi oggi è quello dell'assistenza pastorale ai nostri fedeli fuori dal Paese. Abbiamo parrocchie e diocesi in diversi Paesi del mondo, in Europa, America del Nord e del Sud. Ovunque ci siano fedeli cerchiamo di inviare un sacerdote. Abbiamo Chiese anche in diversi Paesi musulmani, dove andiamo in pace per assistere i nostri fedeli. Si tratta di zone dove non siamo mai stati presenti, anche se l'attività pastorale è limitata alla sfera dell'amministrazione dei sacramenti e alle celebrazioni. È un grande impegno, perché siamo una Chiesa povera e non abbiamo grandi possibilità finanziarie.

Santità, più volte ha denunciato la pratica del proselitismo, specie da parte dei gruppi protestanti...

Specialmente negli anni segnati da profonde difficoltà economiche e dai periodi di siccità e carestia, questo aspetto si è reso evidente. In quei frangenti la generosità dei cristiani all'estero si è manifestata con la raccolta e l'invio di aiuti. Per distribuirli sono stati inviati in Etiopia dei rappresentanti che li hanno usati in modo diverso, cioè per attrarre i fedeli nelle proprie comunità. Questa non è l'attitudine dei cristiani. È stato fatto spavaldamente, sfacciatamente. Sappiamo che gli aiuti non provengono dalla persona che li distribuisce direttamente, ma dalla generosa solidarietà di comunità di varie parti del mondo. Ma quei loro rappresentanti si sono comportati in modo egoistico, come gente che vuol essere vincente, la più forte, maggioranza. Credo che solo il cuore semplice e onesto, l'atteggiamento cristiano, è l'unico che risolverà un certo tipo di problemi. Purtroppo questo atteggiamento aggressivo continuerà, non c'è più timidezza (pudore), non c'è più paura. Penso che la gente sia libera di scegliere in cosa credere, ma questo comportamento non è ammissibile... Non è possibile fare leva sulla povertà per condizionare le scelte di fede.

Durante l'occupazione italiana in Etiopia, nel 1937, ci fu la pagina nera di Debre Libanos. Qui il generale Graziani fece sparare su centinaia di monaci e diaconi indifesi. Crede che l'Italia debba chiedere perdono per quell'eccidio?

La richiesta di perdono è un passo importante, una soluzione. Chi si pente merita il perdono. Chiedere scusa è un gesto di comprensione, di coraggio, di forza, non di umiliazione; il segnale di una volontà di costruire permanenti relazioni di pace. L'Italia oggi è in grado di aiutare l'Etiopia nella sua fase di ricostruzione e rinascita. Credo che i fatti di Debre Libanos debbano certamente essere inquadrati nella loro fase storica, quella della colonizzazione dell'Africa. Ma riconoscere il proprio errore potrebbe essere un segno di grandezza di cui andare fieri.

La Chiesa ortodossa etiope è tra i membri fondatori del Consiglio mondiale delle Chiese. Lei è ottimista o pessimista circa il cammino verso l'unità dei cristiani?

La meta dell'unità visibile non è ancora raggiunta. Dobbiamo chiederci tutti insieme perché non siamo riusciti a raggiungere l'obiettivo originale dell'ecumenismo. Da parte mia, credo che abbiamo fallito perché il nostro legame con Dio è stato troppo debole. Indebolendosi questo legame con Dio, si è ridotto anche il nostro amore gli uni per gli altri. La parola stessa di nostro Signore - «ama il prossimo tuo come te stesso» - è disattesa ed è stata sostituita dall'amore per sé. Quando ciascuno pensa a sé, come si può raggiungere l'unità? Questa è la ragione per cui assistiamo ad una tendenza a tradirsi tra Chiese Cristiane, ad un atteggiamento di superiorità, alla tendenza del proselitismo. Sono questi inciampi che ci impediscono di camminare verso la cooperazione fraterna e l'unità delle Chiese.

(Tratto da Mondo e Missione, gennaio 2005, pp. 28-32)

Il sacramento dell'Eucaristia racchiude in sé la totalità del dono che il Padre ha fatto di sé agli uomini, nella persona del suo Figlio Gesù Cristo: tutto il piano delta salvezza si concentra come in una sintesi vitale nel Pane spezzato e nel Sangue sparso, in cui si ratifica la nuova ed eterna alleanza.

Martedì, 29 Agosto 2006 23:55

I poveri nella Bibbia (Jean-Paul Guetny)

I poveri occupano un posto importante nella Bibbia, dal profeta Amos a Matteo: Dio ha per essi uno sguardo particolare. Egli ha con loro una relazione privilegiata. E, secondo san Paolo, bisogna scoprire in essi l’immagine di Cristo che si è fatto povero.

Martedì, 08 Agosto 2006 01:20

Alla luce della Parola (Matta el Meskin)

Alla luce della Parola
(come leggere la Bibbia)
di Matta el Meskin *




La Bibbia di fronte al lettore

La Bibbia è un libro diverso da tutti gli altri: gli altri libri sono scritti dall'uomo, la Bibbia invece non solo contiene le parole e i comandamenti di Dio, ma è anche stata interamente scritta sotto ispirazione divina. Perciò possiamo dire che è il libro di Dio, quello che egli ha dato all'uomo per guidarlo fino alla vita eterna.

Nell'Antico e nel Nuovo Testamento, sebbene il discorso, gli eventi, la storia e tutti i racconti si concentrino sull'uomo, in realtà chi è nascosto in essi è Dio. La Bibbia infatti ci descrive Dio e ce lo rivela attraverso gli eventi. Ma una descrizione completa di Dio non ci è data nello spazio di una generazione né di un libro e nemmeno di un intero periodo storico. È con grande difficoltà che la Bibbia si sforza di darci un'immagine mentale semplificata di Dio, narrando il suo rapporto diretto con l'uomo lungo un arco di cinquemila anni. Questo perché nessuno, in nessuna epoca, sia privato della possibilità di percepire riguardo a Dio qualcosa che appaghi la sua sete, a tal punto che ciascuno può sperimentare un tal fiume di gioia da credere di essere arrivato a conoscere Dio e di averlo compreso in pienezza. Chiunque invece ha l'audacia intellettuale di tentare di mettere da parte i propri limiti umani cercando dentro di sé di percepire un'immagine perfetta di Dio, è destinato a fallire e perde la capacità di raggiungere anche i più piccoli risultati compatibili con la sua statura umana.

È immensamente difficile per l'uomo comprendere Colui i cui giorni non hanno inizio né fine, perché Dio è perfetto e, pur essendo vero che noi possiamo percepirlo, la sua perfezione, come pure tutte le sue opere, restano insondabili.

La Bibbia cerca in molti modi di preparare intimamente l’uomo a ricevere Dio, sia rivelandocelo che facendocelo conoscere. Anche se apparentemente può sembrare che sia l’uomo ad andare incontro a Dio, la gioiosa e meravigliosa verità è che è Dio che viene verso l'uomo, come un amante e un padre pieno d'amore. “Se uno mi ama osservi le mie parole e il Padre mio lo amerà e noi verremo e prenderemo dimora in lui” (Gv 14,23). Questo è il motivo per cui il Signore ci ha comandato di preparare il nostro cuore per la sua venuta benedetta: “Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto” (Sal 57,7).

Così vediamo che la Bibbia nella sua interezza misteriosamente rivela Dio e ci prepara a riceverlo nei nostri cuori, perché possiamo d'ora in poi vivere con lui, preparandoci a ciò che sarà alla fine dei tempi, quando Dio sarà rivelato apertamente e noi lo incontreremo faccia a faccia per vivere con lui per sempre.

Il lettore di fronte alla Bibbia

Esistono due modi di lettura: il primo si ha quando uno legge e pone se stesso e la propria mente come padroni del testo e cerca di sottometterne il significato alla propria comprensione, che confronta poi con quella di altri; il secondo si ha quando uno legge ponendo il testo al di sopra di sé e cercando di rendere sottomessa la propria mente al suo significato, o anche ponendo il testo come giudice su di sé, considerandolo come il criterio più alto.

Il primo metodo è adatto per qualunque libro al mondo, sia che si tratti di un’opera di scienza che di letteratura; il secondo è indispensabile nel leggere la Bibbia. Il primo metodo porta alla signoria dell'uomo sul mondo, che è il suo ruolo naturale; il secondo porta alla signoria di Dio come Creatore onnisciente e onnipotente.

Ma se l'uomo confonde i ruoli di questi due metodi, viene a perdere le potenzialità di entrambi: se infatti legge le opere di scienza e di letteratura come dovrebbe leggere l'Evangelo, rimpicciolisce la sua statura, la sua abilità accademica diminuisce e scema la sua dignità in mezzo al resto della creazione; se d'altro canto legge la Bibbia come dovrebbe leggere le opere di scienza, comprende e sente Dio come qualcosa di piccolo, l'essere divino appare limitato e il timore di Dio si spegne. L'uomo acquista una falsa sensazione di superiorità sulle cose divine: è esattamente l'azione proibita commessa da Adamo agli inizi.

Comprensione spirituale e memorizzazione intellettuale

Leggendo la Bibbia miriamo dunque alla comprensione e non alla ricerca, all'indagine o allo studio, perché la Bibbia deve essere capita, non investigata. È allora opportuno a questo punto far rilevare la differenza tra comprensione spirituale e memorizzazione intellettuale.

La comprensione spirituale è centrata sull'accettazione di una verità divina che cresce costantemente, sorgendo all'orizzonte della mente fino a invaderla completamente. Se la mente e le sue reazioni sono ricondotte a una volontaria obbedienza a questa verità, la verità divina continua a permeare la mente sempre di più e la mente si dilata con essa senza fine “per conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,19).

È chiaro da questo versetto che la conoscenza e l'amore di Dio, e delle cose divine in generale, sono immensamente superiori al livello della conoscenza umana. È perciò futile e sciocco per l'uomo cercare di "investigare" le cose di Dio, in un tentativo di afferrarle e sottometterle al suo potere intellettuale.

Al contrario, è l'uomo che deve essere sottomesso all'amore di Dio, così che la sua mente possa aprirsi alla verità divina. Allora sarà in grado di ricevere la conoscenza che sorpassa ogni altra. “E così, radicati e fondati nell'amore, abbiate il potere di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità” (Ef 3.17-18).

La memorizzazione intellettuale richiede che una persona passi da uno stato di sottomissione alla verità (attraverso la comprensione) a uno stato di dominio e di possesso su di essa. Richiede che la mente avanzi passo passo attraverso l'investigazione fino a trovarsi allo stesso livello della verità, e poi si innalzi a poco a poco al di sopra di essa fino a poterla padroneggiare, richiamandola e ripetendola a suo piacimento, come se la verità fosse un possesso e la mente il suo padrone.

Perciò la memorizzazione consiste nel determinare la verità, nel riassumerla e definirla nel modo più aderente possibile, così che la mente possa assorbirla e immagazzinarla. Cioè, la memorizzazione intellettuale è il contrario della comprensione spirituale, perché la comprensione spirituale si espande con la verità e la verità con essa fino “a tutta la pienezza di Dio”, cioè all'infinito. La memorizzazione intellettuale invece indebolisce la verità divina e la priva del suo vigore e del suo respiro: non è quindi una via adatta per avvicinarsi alla Bibbia, e porta a risultati minimi.

La memorizzazione spirituale

C'è un altro modo per memorizzare la parola di Dio, per mezzo del quale si può richiamare e riesaminare il testo, sebbene questo non lo si possa fare quando e come uno lo desideri, ma piuttosto quando e come lo desidera Dio. Questa è la memorizzazione spirituale, non intellettuale, e Dio la accorda attraverso lo Spirito santo a quanti comprendono le sue parole: “il Consolatore, lo Spirito santo, che il Padre vi invierà nel mio Nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che ho detto” (Gv 14,26).

Proprio come Dio concede la comprensione spirituale a quelli che con sincerità e onestà chiedono di conoscerlo, “a coloro le cui menti sono aperte a comprendere il testo”, così anche la memorizzazione spirituale è un'opera spirituale che Dio accorda a coloro ai quali è stato concesso di essere suoi testimoni. Quando lo Spirito santo richiama alla nostra mente determinate parole, lo fa con profondità e larghezza di spirito, non semplicemente facendoci ricordare il testo o il versetto, ma dandoci insieme una sapienza irresistibile e il potere spirituale di far emergere la gloria di quel versetto e la potenza di Dio in esso. Inoltre con le parole è inviato uno spirito di rimprovero, allo scopo di compungere il cuore.

Perciò vi è una straordinaria differenza tra la meccanica memorizzazione intellettuale e la memoria attraverso lo Spirito santo.

Nondimeno l'uomo deve prepararsi a questa memoria, rendendo il suo cuore consapevole della parola di Dio, meditandola frequentemente e immagazzinandola nel suo cuore con amore e diletto: "quando le tue parole mi vennero incontro, io le divorai” (Ger 15,16) ed esse erano “più dolci del miele alla mia bocca” (Sal 119,103). L'uomo così disposto le ripete costantemente a se stesso: “sulla tua legge ho meditato giorno e notte” (Sal 1,2), e ogni volta che incontra una parola che possa essergli utile la imprime nel suo cuore: “Ho conservato le tue parole nel mio cuore per non peccare contro di te” (Sal 119,11), proprio come ammonisce Dio chiedendo di parlare di esse “quando siedi in casa tua e quando cammini per strada, quando ti corichi e quando ti alzi. E tu le legherai come segnale alla tua mano e saranno come pendaglio tra i tuoi occhi” (Dt 6,8-9).

Ora, c'è una grande differenza tra un uomo che medita la parola di Dio perché è dolce e vantaggiosa alla sua anima, rallegra il suo cuore e consola il suo spirito, e uno che medita su di essa per ripeterla ad altre persone, per potersi distinguere come maestro e abile servitore dell' Evangelo. Per il primo la Parola rimane salda, perché fonda una consapevolezza del cuore o una relazione con Dio; per il secondo la Parola passa semplicemente nella memoria intellettuale, dove egli può usarla per tessere relazioni con gli altri.

Così, se uno cerca di leggere la Bibbia e imparare a memoria i versetti per usarli nell'insegna- mento alla gente e per una testimonianza fatta di parole - senza prima aver sottomesso se stesso alla verità divina, in modo da agire conformemente ad essa e da aprire la mente per ricevere comprensioni spirituali - egli ne ricava soltanto delle conoscenze e non dà una testimonianza utile, per quanti versetti o dimostrazioni chiare possa presentare con grande abilità intellettuale; lo Spirito infatti lo avrà abbandonato. Il peggior uso che possiamo fare della Bibbia è utilizzarla solo come fonte di versetti dimostrativi.

La comprensione spirituale delle parole, dei comandamenti e degli insegnamenti di Dio è il nostro penetrare nel mistero dell'Evangelo: “A voi è stato dato di conoscere i misteri del regno di Dio” (Mt 13,11). Il segno poi della comprensione spirituale è la sensazione di un'inesauribile sorgente interiore di intuizioni spirituali riguardanti la parola di Dio e la percezione che ogni verità è collegata a tutto il resto. Allora l'uomo diventa capace di collegare nel proprio cuore ogni verset to che legge con un altro versetto e ogni intuizione si dilata in armonia con un'altra, cosicché l'Evangelo diventa facilmente un tutto unitario.

Questa condizione non è raggiunta solo da chi ha speso molti anni nella lettura della Bibbia. È possibile che a qualcuno con un'esperienza di pochi mesi sia concesso di percepire questa sensazione, così da essere capace, usando i pochi versetti che gli sono familiari, di parlare di Dio con uno zelo, una sincerità e una forza tali da attirare a Dio il cuore degli altri. A costui basta leggere un versetto una volta sola perché gli resti poi indelebilmente impresso nel cuore per sempre, perché la parola di Dio è spirituale; in un certo senso è addirittura spirito, come dice il Signore: “Le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Gv 6,63).

Introduzione pratica alla comprensione dell' Evangelo

Non esiste alcun mezzo intellettuale per entrare nell'Evangelo, perché l'Evangelo è spirituale. Deve essere obbedito e vissuto attraverso lo Spirito, prima di poter essere compreso. Se qualcuno, che vive fuori dell'Evangelo cerca di capirlo, inciamperà e cadrà, e se osa cercare di insegnarlo sarà una pietra d'inciampo per quelli che lo seguono. Ma se qualcuno ha uno zelo autentico, un amore ardente e un'obbedienza totale a Dio ed esegue fedelmente anche un solo comandamento dell'Evangelo, questi penetra nel mistero dell'Evangelo senza esserne consapevole.

La prima cosa che scopre è la fedeltà di Dio nel compiere, nella sua anima, le promesse. Ciò rende la sua mente desiderosa di ricevere la scintilla della fede viva che accende nel cuore un grande fuoco di amore e di timore di Dio e ve lo fa ardere. L'esperienza spirituale di una persona e il grado della sua comprensione dell'Evangelo si approfondiscono proporzionalmente al grado di obbedienza fedele e puntuale ai comandamenti dell'Evangelo stesso.

Una sincera e umile accettazione dell'obbedienza a Dio, che scaturisce da un cuore non macchiato da falsità, ipocrisia, amore del mettersi in mostra o esibizionismo, e che non cerca qualche particolare risultato, può essere considerato l'inizio della vera via alla conoscenza di Dio. Infatti, quando l'uomo cerca di osservare i comandamenti, la sua intenzione è messa alla prova da tentazioni. Egli è aiutato a seconda del grado della sua fede e della sua perseveranza e, nella misura in cui riceve aiuto, la sua fiducia aumenta e la sua conoscenza di Dio e delle sue vie cresce più sicura.

Questo per dire che la comprensione spirituale dell'Evangelo e di Dio è il risultato del nascere di una relazione con Dio attraverso l'obbedienza ai suoi comandamenti. Non si tratti semplicemente di una comprensione di testi e versetti, bensì di una comprensione del potere della Parola e di una conoscenza della vita che scaturisce dal versetto, basate sull'esperienza, la fiducia, la testimonianza e su un'incrollabile fede in Dio.

Un eccellente esempio di lettura e comprensione dell'Evangelo

Il più grande comandamento attraverso cui l'uomo può sperimentare la provvidenza di Dio e ottenere il potere spirituale che svela i misteri e i segreti della Bibbia e illumina il cammino, è che l'uomo lasci ogni cosa e segua Cristo. Questo comandamento riassume infatti l'intero Evangelo. Questo è il versetto che sant'Antonio ascoltò: ne fu profondamente colpito e lo osservò con precisa determinazione. Così facendo raggiunse una vita in accordo con l'Evangelo e una comprensione, una conoscenza e una memoria della Bibbia che stupiva gli studiosi e i teologi, come sappiamo da sant'Atanasio il Grande. E tutto ciò, nonostante che Antonio non sapesse né leggere, né scrivere.

Molti Padri seguirono lo stesso modello e si verificarono in loro le stesse meraviglie, perché raggiunsero le vette della conoscenza della Bibbia, di Dio e della direzione spirituale, pur essendo analfabeti. Tra questi c'erano i grandi monaci Pambo e Pafnuzio, discepolo di Macario il Grande, di cui Palladio dice che aveva la grazia della conoscenza dei libri sacri e dell'arte di trasmetterli, sebbene non sapesse leggere né scrivere.

Molti altri nel mondo, uomini o donne, colti o ignoranti, sono entrati nel mistero dell'Evangelo attraverso uno fra i molti comandamenti, come la povertà volontaria e la semplicità di vita, rifiutando di mettere da parte del denaro per le eventuali necessità e mettendo la loro fede in Dio al di sopra di tutte le altre considerazioni. Attraverso ciò hanno sperimentato le meraviglie di Dio, le loro menti sono state aperte, hanno percepito il mistero del piano divino e capito le parole di Dio essendo persone che le sperimentavano nella vita quotidiana e le realizzavano. In questo modo erano capaci di evangelizzare con grande fede e coraggio.

Altri hanno abbracciato il rinnegamento dei piaceri mondani e dei divertimenti privi di vita; hanno sperimentato il potere della parola di Dio e trovato in essa grande consolazione e delizia; hanno capito che l'uomo vive della Parola più che del cibo e della scienza medica; hanno conosciuto Dio e lo hanno gustato e le loro menti sono state illuminate dalle sue parole.

Altri invece sono entrati nel mistero dell'Evangelo attraverso atti segreti di sacrificio, offrendo il loro denaro, le loro energie, il loro tempo per servire i poveri, gli indigenti, gli afflitti e i curvati dalle più svariate tribolazioni. Essi hanno agito con muto coraggio, dando tutto quanto avevano e sopportando ogni cosa al limite delle proprie possibilità. Tutti costoro hanno acquistato conoscenza, intuizione e comprensione dell'Evangelo e dei comandamenti del Signore, ma non la comprensione che deriva dal meditare sulla bellezza delle parole e della spiegazione del loro significato. La loro comprensione è invece quella che sgorga dall'esperienza ed è trasformata in vita eterna, perché costituisce una relazione vivente tra l'uomo e Cristo.

La meditazione accademica e la meditazione pratica

Vi è una comprensione accademica della meditazione della bibbia e ve n'è una pratica.

La meditazione accademica è il prodotto di idee derivanti dallo studio e dalla ricerca, dalla riflessione sul significato dei versetti e sui loro reciproci legami, è l'insieme di ragionamenti che arrivano a cogliere i fatti attraverso un processo di deduzione logica.

La meditazione pratica consiste nell’ispirazione che l'anima percepisce come risultato della propria esperienza, delle prove e delle lotte con la verità sostenute nel corso della sequela dei comandamenti evangelici. A questo si aggiungono anche la luce e i dettami dello Spirito, che l'uomo riceve nel giusto momento, senza aver in precedenza acquisito la conoscenza delle cose rivelategli.

La meditazione accademica della Bibbia stimola la mente, ma non mette in moto lo spirito; rende l'ascoltatore desideroso della verità senza mostrargli come accedervi; fornisce un'immagine di Dio, ma non può portare al faccia a faccia con Dio.

Questa discordanza della meditazione accademica rispetto all'esperienza spirituale e al segreto adempimento dei comandamenti porta a un culto puramente formale e a una falsa devozione intellettuale all'Evangelo. “Questo popolo mi onora con le labbra, ma i loro cuori sono lontani da me” (Mt 15,8).

Per quanto deplorevole, è questo il tipo di lettura, di comprensione, di esperienza e di insegnamento della Bibbia oggi più diffuso nella nostra Chiesa e, a dire il vero, in tutto il mondo. L'Evangelo è stato ridotto a una fonte da cui si possono citare dei versetti o in base alla quale dimostrare dei principi, e le idee che contiene sono diventate punti accademici per avvalorare sermoni e articoli. Così l'Evangelo è diventato una strada sicura per acquistar fama, titoli accademici e ammirazione mondana, anche se i fondamenti dell'Evangelo e la verità che contiene sono all'opposto della fama e della falsa sapienza del mondo, sono i nemici dell'ammirazione degli uomini. La chiesa subisce dunque una grave perdita quando abbandona l'insegnamento pratico della Bibbia e si occupa di quello accademico.

Quanto alla meditazione pratica della Bibbia, essa si raggiunge accogliendo la verità divina attraverso la segreta obbedienza ai comandamenti e come risultato della fedele adesione del cuore a Dio, con dovuto timore e autentica umiltà. Questo è il fondamento di una relazione pratica e sicura con Dio.

Ciò significa che la meditazione pratica edifica una vita interiore con Dio la quale infonde nelle parole, nei pensieri e negli insegnamenti dell'uomo la potenza divina. Così l'uomo può, con una sola parola, comunicare la verità all'ascoltatore, proprio come facevano i Padri, i quali vivevano l'Evangelo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze. Le loro parole non erano eloquenti o ripiene di ampollose meditazioni, ma trasmettevano il mistero, perché avevano il potere di conferire una vita nuova all'ascoltatore.

Nei detti dei padri monastici del IV secolo, e di quelli successivi, questo era lo schema tipico in cui veniva data l'istruzione: un novizio andava da un anziano e diceva: “Dimmi una parola, che io possa vivere”. L'anziano gli diceva poco o niente, ma a causa della potenza della sua esperienza e della grazia contenuta in essa, questo poco bastava al novizio per vivere e superare tutte le difficoltà che incontrava. Questa è l'immagine più vera di come l'Evangelo deve essere compreso e predicato. Quanto appropriate sono per noi, oggi, le parole dell'Evangelo secondo Giovanni: “Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13,17).

La potenza di una vita di effettiva semplicità

Se guardiamo indietro agli albori della chiesa, siamo sorpre si della sua forza, soprattutto di quella delle chiese appena fondate. Nonostante si trattasse di persone semplici, che non conoscevano la Bibbia – perché solo raramente un singolo cristiano possedeva dei manoscritti – e nonostante la loro fede in Cristo fosse recente e i precedenti costumi pagani avessero una profonda influenza, la loro vita spirituale e la manifestazione di fede, amore e zelo erano chiaro esempio di una vita robusta vissuta in accordo con i precetti dell'Evangelo, modello per una comprensione concreta del significato della vita eterna del regno di Dio, del vivere per fede, del morire al mondo, della fedeltà a Cristo, dell'attesa della sua seconda venuta e di una fede viva nella risurrezione. Ancor oggi facciamo ricorso alla loro fede e alla loro tradizione e solo a fatica comprendiamo le lettere inviate loro, quelle lettere che essi comprendevano facilmente e mettevano in pratica. Il segreto di tutto questo è che vivevano di quello che ascoltavano: ogni comandamento cadeva in cuori fedeli, disposti ad agire sinceramente di conseguenza; tutte le parole di Cristo penetravano profondamente nel tessuto della vita quotidiana, l'Evangelo era tradotto in azione e vita.

Queste persone semplici capivano l'Evangelo, capivano che era vita da essere vissuta, non principi da discutere, e rifiutavano di comprenderlo a livello puramente accademico. Fino a oggi quanti sono alla fedele sequela di Cristo traggono ancora vita per se stessi dalla sorgente viva della comprensione dei primi cristiani.

Queste prime comunità, ardenti di amore per Cristo, non avevano alcun credo, né patrologia, né interpretazione della Scrittura, ma le poche parole di Cristo che raggiungevano le loro orecchie diventavano immediatamente il loro credo, senza bisogno alcuno di spiegazione o insegnamento o interpretazione, ma bisognose solo, come essi compresero, di essere sperimentate e vissute. Attraverso l'esperienza scoprivano costantemente la potenza delle parole e portavano alla luce i misteri in esse contenuti. E così il loro zelo, il loro amore e la loro fede in Cristo e nell'Evangelo crescevano costantemente.

Quando ascoltavano: “Beati i poveri nello spirito” vendevano tutto e deponevano il denaro ai piedi degli apostoli.

Quando ascoltavano: “Beati quelli che ora sono afflitti” non badavano alle sofferenze e alle fatiche nel servizio del Signore.

Quando ascoltavano: “Beati i perseguitati a causa della giustizia” sopportavano le più crudeli umiliazioni, gli insulti e le aggressioni.

Quando ascoltavano: “Vegliate e pregate” si riunivano nelle catacombe per vegliare e pregare tutta la notte.

Poiché ascoltavano: “Amate i vostri nemici”, la storia non registra alcuna resistenza opposta dai cristiani, né attiva, né passiva, contro i loro persecutori. E piegarono il loro collo alla spada in umiltà e obbedienza per onorare le parole di Cristo.

Questo significava per loro leggere l'Evangelo e comprenderlo. In loro era nata la fame e la sete per la giustizia di Dio ed è per questo che lo Spirito santo aveva piena libertà di operare con loro: da quel momento avrebbe conferito potenza alla parola, rinsaldato i loro cuori, li avrebbe sostenuti nelle debolezze, guidati nell'oscurità, nell'angoscia e accompagnati nel cammino fino a quando, con grande gloria, avrebbero consegnato lo spirito nelle mani del loro creatore.

Lettura senza applicazione pratica e lettura realizzata

La lettura resta priva di utilità, la comprensione priva di forza, la memorizzazione una pura ripetizione di parole vuote se uno non si sottomette all'obbedienza del comandamento che legge e se la Parola non diventa una norma di vita, qualunque sia il sacrificio, il costo, la fatica o il disprezzo che ciò può generare. Il Signore Gesù dice anche molto di più, afferma che chiunque legge le sue parole e le capisce, ma non vi obbedisce, subirà distruzione e grande danno, come un uomo che fonda la sua casa sulla sabbia. “Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti, e la sua rovina fu grande” (Mt 7,26-27).

Forse potete convenire con me che sarebbe stato meglio se non avesse costruito nulla, o ascoltato o conosciuto o imparato alcunché.

La vita dei farisei, dei sadducei era di questo tipo: obbedienza minuziosa alla legge, spiegazione ed esposizione qualificata dei comandamenti, pareri legali così dettagliati da oltrepassare la verità e la semplicità dello Spirito, il tutto riunito a opere morte e a una vita spiritualmente in rovina. “Ed ecco, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene: fa' questo e vivrai»” (Lc 10,25-28).

Invece il Signore paragona chi ascolta le parole e vi obbedisce a un uomo che costruì la sua casa sulla roccia. Questo è segno che la potenza della Parola è interamente dipendente dall'esperienza pratica che uno ha di essa, poiché l'aiuto lo si può ricevere e lo si può conoscere solo nelle difficoltà e nel pericolo, e il misterioso soccorso dello Spirito santo solo attraverso l'obbedienza sincera ai precetti dell'Evangelo. Una parola posta sulle labbra di un uomo, se questi veramente vive di essa, è simile a una casa fondata sulla roccia; è salda e non deve temere alcun disastro: “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia; cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sulla roccia” (Mt 7,24-25). A questo punto direte con me: “Oh, se solo la mia casa fosse fondata sulla roccia, e la mia lettura, la mia comprensione e la mia conoscenza dell'Evangelo fossero usate per vivere, e non come argomento su cui parlare e predicare, come soggetto di conversazione e di meditazione!”.

Un triste esempio di grande conoscenza senza realizzazione

Balaam era un veggente, capace di vedere nel futuro e dotato di poteri profetici: era quindi in grado di ascoltare e parlare delle meraviglie di Dio. Ma fu rigettato e divenne un avvertimento terribile e un esempio di quelli che annunciano la parola di Dio, sono capaci di svelare misteri, di fare profezie autentiche, di pronunciare benedizioni e offrire sacrifici, come Balaam, mentre i loro cuori sono impuri perché vivono segretamente lontano da Dio. Ascoltate cosa dice di se stesso: “Oracolo di Balaam, figlio di Beor, oracolo dell'uomo dall'occhio penetrante, oracolo di chi ode le parole di Dio e conosce la scienza dell'Altissimo, che vede la visione dell'Onnipotente, e cade ed è tolto il velo dai suoi occhi” (Nm 24,15-16). Ma tutti questi doni non furono sufficienti per stornare il cuore di Balaam da una condotta malvagia. Balaam cadde in un grave errore, come dicono i santi apostoli: Giuda nella sua lettera (Gd 11), Pietro nella sua seconda lettera (2Pt 2,15) e Giovanni nel libro dell'Apocalisse (Ap 2,14). Anche se esternamente benediceva il popolo di Dio, segretamente stava agendo contro di esso con un consiglio malvagio e si compiaceva di ricevere una ricompensaper quel peccato.

Balaam raggiunse il massimo grado di conoscenza, di comprensione, di visione e profezia accessibile all'uomo spirituale, ma il suo comportamento non era migliore di quello del più malvagio e disonesto tra gli uomini. La sua storia mostra chiaramente che la comprensione e l'insegnamento delle cose spirituali, anche a livello della profezia, se non sono sorretti da una vita e una condotta sante, nell'integrità e nel timore di Dio, non ci possono salvare dalla maledizione e dalla morte che sigillarono la vita di Balaam.

“Fate attenzione dunque a come ascoltate”

Prima di leggere la Bibbia o ascoltare la parola di Dio, guardate in voi stessi per vedere dove la parola di Dio andrà a posarsi. Torniamo a questo punto alla tanto amata parabola del seminatore.

“I semi caduti lungo la strada sono coloro che hanno ascoltato; ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché non credano e così siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo e nell’ora della tentazione vengono meno. Il seme caduto in mezzo alle spine, sono coloro che dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione. Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza” (Lc 8,12-15). “Fate attenzione dunque a come ascoltate” (Lc 8,18).

Di fronte all'annuncio dell'Evangelo ci sono quattro tipi di ascoltatori: non c'è bisogno di spiegazioni o chiarimenti, perché il Signore Gesù l'ha fatto lui stesso. Perciò guardate e vedete come il Signore dice che dovete ascoltare: con un cuore che trascorre la giornata al margine della strada? oppure con un cuore che non ha profondità, perché ha paura di sedersi in disparte a esaminare la propria vita? o con un cuore propenso a mettere da parte denaro come assicurazione per il futuro? o con un cuore sempre appesantito da preoccupazioni immaginarie?

Fate attenzione a come dovete ascoltare l'Evangelo. Sembra che il Signore voglia dire che uno ascolta con il cuore più che con le orecchie, e che la sua vita interiore influisce sulla parola di Dio: o uccidendola oppure facendola vivere e crescere rigogliosa. Così chiunque vuol ascoltare bene la Parola, comprenderla e custodirla in un cuore integro e buono, deve preparare interiormente il suo cuore, in modo che la Parola possa mettervi radici senza correre rischi, trovando in esso fedeltà a Dio e veracità nelle parole e nelle promesse. È assolutamente impossibile che uno possa capire quel che ascolta della parola di Dio, se non è assolutamente onesto di fronte a Dio e non ha deciso di rinunciare alla propria vita, agli incarichi, agli interessi, al denaro, al futuro e all'amor proprio per deporli ai piedi di Dio.

Infatti come può un uomo timoroso per il futuro comprendere questa parola del Signore: “Non affannatevi per il domani” (Mt 6,34) e “Non datevi pensiero per la vostra vita” (Lc 12,22)? E come può capire la croce chi si interessa del proprio onore? Come può comprendere la risurrezione chi ha paura della malattia e della morte?

Chi chiede di leggere l'Evangelo sta di fatto cercando la vita eterna e chi cerca la vita eterna deve assumere una posizione chiara nei confronti della sua vita presente!

La smemoratezza della Parola è un inganno psicologico

Non c'è illustrazione migliore di quella dataci dall'apostolo Giacomo quando descrive l'uomo che ascolta la parola dell'Evangelo e la dimentica come uno che vede la propria faccia in uno specchio, ma non appena lascia lo specchio dimentica qual è il suo aspetto. Infatti, chiunque disprezza la Parola che ascolta, perde immediatamente la percezione di sé.

Vi sono alcuni che porgono l'orecchio all'Evangelo, accolgono la Parola e la ripongono nel tesoro del proprio cuore. Sono sempre consapevoli dell'istruzione ricevuta e la pongono davanti a sé come uno specchio, servendosene continuamente per correggere le proprie azioni.

Vi sono altri invece che porgono l'orecchio all'Evangelo, ma non una sola parola di quel che ascoltano resta nel loro cuore, perché sono smemorati, non sanno valutare il peso delle cose e sono preoccupati da questioni per loro più importanti dell'Evangelo e della vita eterna, quali possono essere il lavoro, le preoccupazioni, i piaceri, tutte cose che essi possono considerare come facenti parte del servizio di Dio. Oppure nel loro cuore può non esserci assolutamente nulla, e anche questo è un disastro, perché mentre leggono l'Evangelo possono essere così commossi da gemere e persino piangere, ma in seguito restano invischiati nei propri affari e dimenticano sospiri e lacrime. Persone di questo tipo possono pensare che la loro smemoratezza sorpassa le capacità di controllo che possiedono, ma questo è un inganno psicologico. La verità è che l'anima vuol dimenticare l'Evangelo, perché l'Evangelo non le piace.

Uno può leggere l'Evangelo con regolarità ogni giorno, ma percepire una distanza incolmabile tra quello che ogni giorno legge e quello che ogni giorno fa. Questa distanza incolmabile è scavata dalla smemoratezza. Con il passare dei giorni la lettura dell'Evangelo è privata della sua potenza e efficacia, e non avviene alcun cambiamento di vita né alcun progresso nel cammino.

Questa smemoratezza è quel che l'apostolo Giacomo chiama autoillusione: ”Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché, se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena si è osservato, se ne va, e subito dimentica com'era” (Gc 1,21-24).

L'orecchio incirconciso

Questa espressione, così ricca di significato spirituale, fu pronunciata dal santo martire Stefano davanti al sinedrio riunito per giudicarlo, quando percepì che i membri di quell'assise stavano resistendo allo Spirito santo per assecondare i loro disegni.

“O gente testarda, incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito santo” (At 7,51).

Lo Spirito santo parla a noi attraverso l'Evangelo, ma solo l'orecchio circonciso può sentire la sua voce, cioè l'orecchio dal quale è stato rimosso il prepuzio. Con prepuzio Stefano intende la mancanza di sottomissione a Dio e l'avere un cuore troppo lontano da Dio per ascoltarne la voce. Quelli che hanno le orecchie o i cuori incirconcisi sono stranieri in mezzo al popolo di Dio: non comprendono i suoi comandamenti o non vi si adeguano, perché guardano a se stessi come a persone che non devono obbedire ad alcun impegno.

Colui il cui orecchio è incirconciso non ascolta lo Spirito, né viene da esso influenzato, né gli obbedisce. Di sua propria volontà, infatti, ha rifiutato di sottomettersi allo Spirito santo, senza provarne timore. Teme che lo Spirito possa chiedergli di rinunciare a cose, o posizioni, o principi, o relazioni che trova benefiche, o piacevoli e importanti per lui personalmente. Rinunciarvi sarebbe una perdita che egli non vuole accettare, così ha paura che lo Spirito santo possa chiedergli di agire contro se stesso e contro il mondo, perché il suo io gli è caro e il mondo è la sua delizia. L'uomo che ha l'orecchio incirconciso è colui che non ha reciso il prepuzio del suo io e non vuole recidere il prepuzio del mondo né dal suo cuore né dal suo orecchio. Non è mai disposto a sacrificare qualcosa o, per lo meno, non è disposto a sacrificare tutto per Dio. Ascolta lo Spirito santo ma non gli presta alcuna attenzione, cercando ogni volta di soffocare la voce della coscienza. Fin dall'inizio si è esonerato dalla responsabilità di ascoltare la voce di Dio.

Questa situazione era già stata descritta dal profeta Isaia e il Signore stesso ne ha fatto un significativo commento: “Vedendo non vedono e ascoltando non ascoltano e non comprendono (...). Perché il cuore di questo popolo si è indurito, sono diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi, e non intendere con il cuore, e convertirsi, e io li risani” (Mt 13,13-15; Is 6,9).

Qui il Signore denuncia l'intenzione dei suoi ascoltatori: facevano mostra di leggere e ascoltare i comandamenti di Dio, ma in realtà erano ben decisi a non lasciarsi influenzare. Così chiudevano i loro occhi e le loro orecchie in modo da non vedere e non sentire. Per questo il Signore denunciò le loro motivazioni: in realtà avevano paura che la voce di Dio risuonasse talmente chiara e che il biasimo dello Spirito santo diventasse così persuasivo da essere forzati a rinunciare alle loro posizioni errate e agli indebiti possessi, ai piani che avevano fatto per il futuro e alle peccaminose relazioni per le quali avevano venduto l'anima, e non solo l'anima, ma anche la vita eterna e persino Dio stesso. Essi, come molti di noi, non rifiutavano di leggere o ascoltare l'Evangelo, ma quando giungevano a certi passi, a certe frasi o a certi comandamenti, rimanevano confusi e li tralasciavano velocemente e chiudevano gli occhi, fuggendo ansiosamente lontano dalla voce dello Spirito santo. In questa situazione l'orecchio incirconciso rivela se stesso, poiché è disturbato dalla voce di Dio e la evita, proprio come il serpente chiude le orecchie per non ascoltare la voce dell'incantatore, per non obbedire né sottomettersi a lui: “O stolti Galati! Chi vi ha incantato affinché non aveste a obbedire alla verità?” (Gal 3,1; 5,7).

Fermiamoci un momento e torniamo ai passi e ai versetti e ai comandamenti che abbiamo evitato deliberatamente con vile determinazione. I nostri cuori protestavano per la nostra caparbietà, tremavano e battevano in fretta e con dolore, poiché eravamo consapevoli di opporre resistenza allo Spirito santo, rischiando la morte e l'allontanamento da Dio con questo andare per vie traverse. Correggiamo in fretta il nostro atteggiamento nei confronti della voce di Dio! Forse è questa l'ora per impadronirci pienamente del nostro io, per spezzarne l'ostinazione e l'orgoglio, per troncarne i piaceri e le paure e volgerci a seguire la voce di Dio. “Ricorda da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto” (Ap 2,5).

Può darsi che vi dispiaccia essere messi di fronte al vostro desiderio di grandezza e di comando, o alla vostra impurità e inimicizia, alla malizia e all'odio verso quelli che minacciano i vostri interessi, alla vostra slealtà o crudeltà, all'ingiustizia o ai vostri loschi giudizi, oppure alla vostra disonestà, al furto, all'illecito acquisto di beni, alla vostra mancanza di fiducia in Dio e al confidare nel denaro e nell’assicurazione per il futuro; oppure si può trattare di qualcosa di più di tutto questo, poiché state scappando con tutto il vostro essere lontano dal volto di Dio. Non avete alcun appoggio su terreno sicuro e state cercando ora di nascondere la vostra faccia da Colui che siede sul trono ”chiudendo i vostri occhi per non vedere!" (cf. Lc 8,10). In questa situazione, leggere l'Evangelo non è di alcuna utilità e ascoltarlo è solo causa di giudizio.

All'orecchio circonciso, invece, il prepuzio è stato tolto e non c'è più alcuna barriera che gli impedisca di ascoltare la voce di Dio, come per l'orecchio del giovane Samuele, che viveva in purezza e umiltà nel santuario: “Parla o Signore, perché il tuo servo ascolta” (1Sam 3,10). L'orecchio è aperto all'autorità dell'Evangelo e gioiosamente sottomesso alla voce di Dio, vigile alla sua chiamata, pronto a rispondere, qualunque cosa venga chiesta. Infatti chi ha l'orecchio circonciso è pieno di coraggio e capace di sostenere azioni contro se stesso in obbedienza alla voce dell'Altissimo. Il cuore che è pronto ad accettare le grandi richieste di Dio è capace di percepire ogni inflessione nella voce di Dio e non si lascia sfuggire nemmeno una parola.

Se a questo punto qualcuno mi chiedesse: “Come posso acquistare un orecchio che ascolta la voce di Dio?”, risponderei: “Prepara innanzitutto te stesso ad accogliere le sue domande, le sue richieste e indicazioni, e sii pronto nel tuo cuore a portarle a compimento, qualunque ne sia il prezzo. Immediatamente avrai un orecchio che ascolta la voce dell'Altissimo!”. “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio, e io non ho opposto resistenza” (Is 50,4-5).

Onorare la lettura e l’ascolto dell' Evangelo

L'uomo che è consapevole di Dio non permette che la parola dell'Evangelo gli sfugga o sia dimenticata. Egli invece con rispetto, venerazione e timore ne fa una corona per la sua testa e la pone al di sopra di tutta la sua vita.

L'ardore degli uomini di fede è estremamente evidente quando ascoltano l'Evangelo: sembrano entrati alla presenza di Dio, o in piedi presso l’altare, in procinto di ricevere il corpo e il sangue di Cristo. Non è che abbiano semplicemente preso l’abitudine di onorare l'Evangelo, o che fingano di comportarsi così, come gli ipocriti: la realtà è che dall'ascolto dell'Evangelo ricevono potere su potere, come se stessero ascoltando la voce di Dio stesso.

Tutto ciò era molto chiaro nella chiesa primitiva e la chiesa conserva ancora lo stesso zelo, rispetto e venerazione verso la lettura e l'ascolto dell'Evangelo. La tradizione della chiesa ha conservato alcuni gesti significativi, ed è per questo che il prete non potrà mai leggere l'Evangelo in chiesa senza aver prima innalzato una preghiera particolare perché lui e l'assemblea possano esser resi degni di ascoltare il santo Evangelo. Prima di incominciare a leggere, il diacono chiede a tutta l'assemblea di alzarsi in piedi nel timore di Dio per ascoltare l'Evangelo e tutta l'assemblea risponde alla sua richiesta e glorifica Dio. Inoltre il prete si toglie le scarpe per leggere l'Evangelo, perché sta alla presenza di Dio. Poi, dopo la lettura, l’intera assemblea passa in fila a baciare con gioia e lacrime l'Evangelo che il prete tiene aperto in mano. Nella chiesa primitiva la gente faceva questo spinta dallo zelo, dal timore e dall'amore per l'Evangelo ed esso è rimasto come un rito nella chiesa.

Coloro che hanno sperimentato la potenza dell'Evangelo nella loro vita non considerano ciò eccessivo, ma vanno anche oltre nel mostrare la loro venerazione: ci sono alcuni che digiunano sempre prima di leggere l'Evangelo; altri, quando leggono l'Evangelo da soli, si inginocchiano; altri ancora lo leggono sempre con pianto e lacrime.

Gli ammaestramenti di Dio all'uomo sono per lo più dati attraverso la lettura e l'ascolto dell'Evangelo, quando uno si trova in condizione di umiltà e preghiera, con un cuore aperto.

La voce del Figlio di Dio

“Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Il Signore non solo bussa alla porta del cuore, ma anche chiama le sue pecore per nome, così che possiamo udire e aprire per lasciarlo entrare nelle nostre vite, affinché condivida con noi le lacrime che sono nostro cibo e condivida poi con noi il suo banchetto nuziale.

Non abbiamo bisogno di andare alla ricerca di Dio, come se fosse nascosto lontano; in questo modo non faremmo altro che consumarci nella ricerca riflettendo, meditando e andando a investigare nei libri. In ogni momento egli sta davanti a noi, alla porta del nostro cuore e non se ne allontana mai. Colpi della sua mano alla porta sono le sue parole ed egli non cessa mai di bussare, ogni giorno della nostra vita, così che lo spirito può destarsi dal sonno e distinguere la voce dell'Amante.

Non abbiamo bisogno di ricorrere ad ardenti suppliche, a lacrime e implorazioni commoventi, perché il Signore venga a noi: egli infatti è sempre presente e sta bussando anche in questo momento. E non smetterà, perché vuol entrare nelle nostre vite: è con noi infatti che egli trova riposo; condividere con noi la nostra croce e il buio della nostra notte è la sua gioia più grande, poiché egli ama ancora la croce.

Siamo noi invece che non diamo il giusto peso alla sua voce, attribuendole erroneamente poca importanza e disprezzandola.

Maria Maddalena subì la stessa tentazione quando sedette piangendo presso la tomba e credette che il Signore, che stava in piedi davanti a lei, fosse il giardiniere. Allora cominciò a implorarlo di darle il corpo di Gesù per poterlo avvolgere in un lenzuolo. Ma il Signore, non sopportando più a lungo il suo lamento, la chiamò per nome ed ella lo riconobbe immediatamente. Quante volte ce ne stiamo piangenti, guardando lontano verso il cielo, dove pensiamo che il Signore Gesù viva! Egli è presente e sta in piedi davanti a noi e tutto quello che ci impedisce di incontrarlo è la mancanza di percezione del nostro cuore! Quante volte ce ne siamo stati in preghiera davanti a lui, implorandolo di parlarci, sperando che potesse sentirci, ma era tutto inutile! Egli non smette mai di chiamarci per nome, e nulla ci impedisce di ascoltare la sua voce, se non la preoccupazione dei nostri problemi quotidiani.

L'errore che facciamo è quello di volerlo vedere nel tempo, nel mezzo degli eventi quotidiani che riempiono il nostro vuoto mentale ed emotivo. Ma in realtà il Signore è presente ora al di là di tutte queste cose, al di là del tempo e degli eventi, che egli governa secondo il suo piano sapiente. L'anima vigilante e semplice si accorge del tocco della mano del Signore, che scrive la storia della salvezza di ciascuno attraverso gli anni e la successione degli eventi. I nostri successi e i nostri fallimenti, guidati dall'Altissimo, cooperano positivamente alla nostra salvezza. Le sconfitte materiali non sono sconfitte spirituali; l’afflizione, la tristezza, la pena e la malattia sono il linguaggio della divina provvidenza, il suo codice segreto, che una volta decifrato nello Spirito, si traduce in risurrezione, gioia e gloria eterna.

L'altro errore che commettiamo è che vogliamo ascoltare la voce del Figlio di Dio con il nostro orecchio fisico e sentirla parlare un linguaggio umano con la voce di un uomo: ma la voce del Figlio di Dio non può avere questi limiti! Essa è una potenza che trasporta l'anima, la fa risorgere e la ristora; è una profonda, incommensurabile pace, è quiete e consolazione; è la vita stessa nel suo sconfinato respiro e nella sua altezza. Dove trovare allora le parole per esprimere il suo linguaggio e la sua voce?

Dio parla e ogni uomo sulla faccia della terra può ascoltare la sua voce, comprendere e rispondere, come se fosse chiamato personalmente per nome. La sua voce è la voce di tutte le età, non si affievolisce né muore allo spirare della brezza, né si smorza, né ritorna a lui vuota. E verrà l'ora in cui egli chiamerà e l'intera creazione risusciterà da morte.

“Se uno ascolta la mia voce...”. Ma nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio se non chi si è innalzato nello spirito al livello in cui Dio può guidarlo e chiamarlo, il livello del regno e della vita con Dio, il livello cioè al di sopra degli eventi quotidiani. Qui può ricevere da Dio l'istruzione per la sua vita e un piano per la sua salvezza e questo proprio attraverso gli eventi quotidiani, addirittura servendosene. Nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio, se non chi apre il proprio cuore e la propria mente per comprendere il suo linguaggio. E le parole e i toni di questo linguaggio sono fatti di amore, tenerezza, pace, mitezza e continua attenzione paterna, per quanto dure possano apparire la vita e le sue condizioni.

Se il vostro orecchio è così addestrato spiritualmente da comprendere i simboli del messaggio divino come si manifestano negli eventi temporali, quando leggerete le parole sentirete la mano di Dio che bussa alla porta. Egli a volte busserà alla porta con delicatezza, a volte forte, e voi ascolterete la sua voce nel clamore e nelle tempeste così come nella brezza leggera. Egli vi chiama perché gli apriate la porta, perché riceviate da lui il mistero del suo banchetto nuziale, dopo aver condiviso il pane delle vostre lacrime.

Il Signore è vicino. Egli è umile e la sua voce sommessa, più sommessa di quella dell'uomo, ma profonda, più profonda dell'eternità stessa.


* Matta el Meskin, monaco copto egiziano, è il rinnovatore della vita monastica nel deserto di Wadi el Natrun in Egitto, è il padre spirituale molto conosciuto e stimato dall'intera chiesa copta e da tutti i cristiani presenti in Egitto. Dopo anni di vita eremitica ha inizio il suo irradiamento, giungono molti discepoli e ora attorno a lui, al monastero di S. Macario a Scete, cristiani di ogni estrazione accorrono per ascoltare il suo insegnamento spirituale.


Il presente testo è tratto dall’antologia di scritti di Matta el Meskin dal titolo Comunione nell'Amore, Edizioni Qiqajon, 1986, Magnago VC, a cui si rimanda. (I sottotitoli sono redazionali).



Il dramma della religione
di Vladimir Zelinskij


Il Padre Alexander Schmemann, (1921-1983) (1) che con i suoi libri scritti in russo ed in inglese ha fatto crescere un’intera generazione di teologi in Russia (fra cui anche il Patriarca Alessio II, secondo le sue stesse parole), dopo la sua morte ha lasciato un “Diario”, pubblicato per la prima volta l’anno scorso. Questo libro è diventato una vera e propria scoperta non solo per le sue qualità spirituali e letterarie, ma prima di tutto per il suo “messaggio”, per il pensiero che ha tormentato l’autore durante tutta la vita: l’ambiguità della religione. Grande conoscitore della storia e della tradizione della sua Chiesa, innamorato dell’Ortodossia fin dalla prima infanzia, convintissimo della sua verità, egli usa nel suo “Diario” due “O”: una è maiuscola - quando si tratta della bellezza delle celebrazioni, della fedeltà alle radici apostoliche - e l’altra “o” è minuscola - quando parla dell’ambiente umano, della realtà parrocchiale, degli alterchi giurisdizionali, ecc. P. Schmemann ha vissuto la sua vita con questo contrasto nel cuore che egli rivelava, piuttosto con cautela, nei suoi scritti pubblicati. Una sorta di tensione fra fede e religione, percepita da ortodosso nella vita quotidiana della Chiesa come sacramento del Regno di Dio sulla terra, ma anche come confessione che vuole essere umanamente più pura, migliore delle altre.

Dall’inizio di quest’anno quasi tutta la Russia credente e pensante è diventata lettrice appassionata di questo libro. Perché? Perché tanti ortodossi, spesso senza accorgersene, vivono lo stesso conflitto interiore, per cui ciò che è di Dio e ciò che è dalla carne e dal sangue, nascostamente si contestano reciprocamente. Perché nella nostra esistenza religiosa l’eredità degli Apostoli e dei Padri può essere mescolata con l’orgoglio confessionale, la grazia della vita secondo lo Spirito con la pesantezza storica ed etnica (che chiede anche i suoi “diritti mistici”), il senso della verità col gusto del potere - almeno sulle anime. E perché in un modo o nell’altro tutti sentono o percepiscono: “la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio” (1 Cor 15,50).


(1) Teologo e liturgista ortodosso, primo decano al St. Vladimir Seminary di New-York.

Le parole del rabbino di Colonia
Netanel Teitelbaum



All’inizio della visita alla sinagoga di Colonia, Benedetto XVI ha ricevuto i saluti di Abraham Lehrer (Consiglio di presidenza della comunità ebraica) e del rabbino Netanel Teitelbaum. Pubblicato in L’Osservatore romano (21.8.2005, 7).

Abbiamo appena letto e ascoltato qui nella sinagoga il salmo 23, che ha un grande significato per la fede di ognuno. Questo salmo dona forza all’uomo in difficoltà. Ha donato a noi, popolo ebraico, dalla cacciata dall’Egitto fino alla Shoah e anche in seguito, la forza di sopravvivere. Questa forza che è la fede del popolo ebraico, la fede in un unico Dio, la fede nell’Eterno...

Il popolo di Israele, quale popolo, quale gruppo e anche ogni suo singolo membro, ha attraversato periodi terribili. Proprio cinque giorni fa abbiamo celebrato il giorno del lutto, un giorno che ci ricorda la sventura della storia ebraica. È il giorno della distruzione del primo e anche del secondo tempio a Gerusalemme e il giorno della repressione della sollevazione nel ghetto di Varsavia. Il popolo ebraico non ha mai smesso di credere, neanche quando è stato lasciato solo. Da questa fede traiamo forza in ogni tempo, anche in tempi nei quali il popolo ebraico è perseguitato.

La sua visita oggi, papa Benedetto, è segno di speranza di pace in tutto il mondo e un passo sulla via di un’edificazione spirituale del terzo tempio di Gerusalemme, che si può costruire soltanto se esiste la pace fra tutti i popoli. La sua visita oggi è un passo avanti verso la pace fra i popoli del mondo. È anche un segno concreto contro il precedente antisemitismo cristiano. La sua visita possiede una grande forza simbolica.

Mi permetta ora di passare dal generale al particolare, alle singole persone. La sua visita ha un grandissimo significato per la madre di Abraham Lehrer che l’ha appena salutata. Oggi ella è qui con noi nella sinagoga. Sul suo braccio possiamo leggere il numero che le fu inciso nel campo di concentramento. Nel 1944, ad Auschwitz, non aveva né la forza né alcuna idea del fatto che un giorno del 2005 suo figlio avrebbe accolto ufficialmente il papa nella sinagoga. Oltre a lei sono presenti anche altre persone che sono sopravvissuti a quel periodo. Da dove traiamo questa forza, la forza di credere, la forza di sopravvivere? La possiamo trovare nei testi che abbiamo letto qui insieme oggi, ossia nel c. I del Primo libro di Mosè: e Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò. L’uomo ha in sé una parte di Dio e questa parte di Dio che l’uomo ha in sé è l’anima. L’anima distingue gli uomini dagli altri esseri viventi. L’anima dà all’uomo la possibilità di pensare prima di agire. È l’uomo a decidere di fare il bene e di non distruggere. L’Eterno ha dato all’uomo un’anima. L’uomo è stato creato per fare il bene e dall’anima l’uomo trae la forza e il dovere di unire gli uomini e non di dividerli, ossia in pratica l’uomo deve avere e creare la pace.

Nell’ebraismo il fondamento della pace è costituito da cinque pilastri. Il primo è la fede in un Dio unico e onnipotente. Il ricordo del passato e l’edificazione del futuro costituiscono il secondo pilastro. Una volta Napoleone chiese per quale motivo gli ebrei piangevano. Risposero: «Piangiamo per la distruzione del tempio di Gerusalemme». Allora egli chiese: «Quando è successo?», e gli risposero: «È accaduto 2000 anni fa». Napoleone disse: «È successo 2000 anni fa e piangete ancora oggi? Se è cosi, quando un popolo piange ancora al ricordo del suo passato, allora è un popolo che ha anche un futuro». (...) Il terzo pilastro è quello delle buone azioni. La preghiera è il quarto pilastro. Oggi, alla fine di questo evento ascolteremo la preghiera che si chiama «Dona la pace». Il suono dello Schofar è il quinto pilastro. Il suo suono indica la pace. Per questo motivo oggi l’abbiamo fatto risuonare, poiché la sua visita è un segno, un simbolo del fatto che nel mondo deve regnare la pace, una pace senza terrore.

Se uniamo questi cinque pilastri, formiamo una mano che, sebbene abbia cinque dita, è sempre una sola, la mano del popolo ebraico e questa mano gliela porgiamo quale simbolo di pace del popolo ebraico per tutti i popoli del mondo.

Pensatore, mistico e papa dal carisma eccezionale, Karol Wojtyla lascia però al suo successore una eredità contrastata. Giovanni Paolo II ha abbattuto molti muri, ma ne ha eretto altri.

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