La stretta interdipendenza, che lega i diversi popoli della terra a seguito del processo di globalizzazione, ha ricadute consistenti anche sul terreno dei diritti umani. In Occidente, e in particolare in America (grazie alla politica di Bush), si fanno strada nuove e aberranti rivendicazioni, come l'affermazione del diritto di una nazione a un'azione preventiva contro ciò che si suppone minacci la sicurezza nazionale - in questo contesto nasce il concetto di guerra preventiva - o la presunzione del diritto a intervenire sul territorio di un'altra nazione - è il caso dell'Iraq - per liberarla da una pesante forma di dittatura. Tutto ciò senza minimamente dubitare dell'esistenza di altri diritti - questi sì veri e da tempo, almeno teoricamente, riconosciuti - quali il diritto delle nazioni povere a ricevere l'aiuto necessario per il proprio sviluppo da parte delle nazioni ricche - diritto fondato su un dovere di restituzione di ciò che si è indebitamente sottratto - o il diritto dei popoli alla propria autodeterminazione e degli Stati a non vedere violata la propria sovranità. Questo scontro tra i diritti fondato sulla pretesa di legittimare, da una parte, l'attuale ordine (disordine) mondiale, accusando di banditismo - la storia si ripete - tutti coloro che tentano di reagire, e di rivendicare, dall'altra, la possibilità di fruire dei beni necessari per la propria sopravvivenza o di salvaguardare la propria autonomia è la ragione di fondo dello stato di grave conflittualità che caratterizza l'attuale scenario mondiale.
L'uso che l'Occidente ha fatto, in questi ultimi anni, del tema dei diritti, giustificando pesanti interventi verso Stati deboli e rinunciando a intervenire nei confronti di quelli potenti, è assai pericoloso e costituisce una delle maggiori cause del loro ridimensionamento. Il grave stravolgimento che di essi si è operato, trasformandoli nella tutela del potere dei forti e in strumento funzionale alla conservazione di uno stato di grande sperequazione, che consacra la soggezione dei poveri, ha gettato in un profondo discredito la categoria dei diritti dell'uomo. A questo forte motivo di sospetto si aggiunge poi (e con esso interagisce, costituendo un ulteriore nodo critico) la considerazione che le stesse attuali definizioni dei diritti umani - quelle contenute nelle Carte emanate dalle Costituzioni e dai trattati internazionali (si veda quella delle Nazioni Unite del 1948) promulgati dopo la Seconda guerra mondiale - in quanto nate in Occidente riflettono il clima culturale proprio di quell'area del mondo e risultano perciò difficilmente esportabili in contesti culturali diversi. Non ha allora ragione M. Ignatieff (cfr. Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano 2002) di postulare una fondazione "leggera" e "minimalista" dei diritti, che rinunci a conferire a essi una dignità metapolitica ed etica, tale da giustificare la loro imposizione a tutte le culture, per concepirli come espressione di una semplice operazione politica e pratica, soggetta perciò a costanti trasformazioni?
Il rischio di tale posizione è la caduta in un radicale relativismo, che finirebbe per negare l'esistenza di comportamenti - si veda ad esempio la tortura - la cui condanna deve essere radicale e senza condizioni. Sembra tuttavia possibile evitare tale caduta, distinguendo l'istanza soggiacente ai diritti umani che ha carattere di universalità dai contenuti storico concreti, in larga misura dipendenti dai contesti socioculturali nei quali vengono elaborati. Il riconoscimento di questa distinzione obbliga a mettere in atto, nel contesto di un mondo globalizzato come il nostro, un confronto interculturale allargato, nel quale non si tratta tanto di ricercare convergenze teoriche impossibili da raggiungere quanto - come giustamente osservava a suo tempo J. Maritain - di affrontare, sul terreno della prassi, i nodi critici che esigono di essere con urgenza risolti. Ma la possibilità che questo avvenga in un clima di serenità è legata, oltre che a una sincera volontà di dialogo da tutte le parti, alla rinuncia dell'Occidente a far valere ragioni assolutamente pretestuose come quelle invocate di recente a sostegno di operazioni di stampo imperialistico e alla disponibilità a ridiscutere l'attuale ordine (disordine) internazionale riconoscendo lo stato di ingiustizia esistente e cercando nuove forme di equilibrio nella distribuzione dei beni tra i popoli della terra.
Giannino Piana
(da Jesus, agosto 2004)