Etiopia, laboratorio di tolleranza
di Giuseppe Caffulli
«Credo che l'Etiopia nella sua lunga storia sia stata e sia tuttora un esempio di pacifica coesistenza di genti e culture diverse. Il cristianesimo, l'ebraismo, l'islam ed altri hanno una lunga storia in Etiopia. L'antica tolleranza ha portato alla coesistenza pacifica dei credenti di queste religioni per secoli. Diversamente da altre parti del mondo, percorse da estenuanti scontri civili, abbiamo creato sistemi sociali e culturali che ci hanno permesso di gestire i conflitti che sorgevano da incomprensioni tra confessioni religiose. È una lezione buona, che tutti dobbiamo seguire per poter ostacolare le conseguenze pericolose del fondamentalismo. Anche se dobbiamo essere onesti: la strada della pace non è automaticamente segnata». Abuna Paulos è patriarca della Chiesa ortodossa d'Etiopia, una delle Chiese cristiane di più antica tradizione, calata in un contesto dove il dialogo tra le religioni e le Chiese è una sfida (e una necessità) costante. Ma anche il rischio del fondamentalismo religioso si fa ogni giorno più concreto. In margine alla partecipazione al meeting Uomini e religioni di Milano, ha concesso in esclusiva questa intervista a Mondo e Missione.
Santità, qual'è oggi la situazione della Chiesa ortodossa d'Etiopia?
La nostra Chiesa ha conosciuto svariati problemi nel corso dei secoli. Durante le diverse dominazioni la Chiesa ha sofferto molto, perché è diventata il bersaglio del potere di turno. Oggi viviamo un periodo di sostanziale tranquillità. Il governo attuale ha imboccato la strada della democrazia e questo atteggiamento si riflette positivamente anche nelle relazioni con la Chiesa. Il popolo, durante il regime comunista, ha sopportato - insieme a molte altre vessazioni - anche la proibizione di partecipare alla vita della Chiesa. Ora invece si assiste a un risveglio della frequenza alle celebrazioni e dell'interesse per la religione, specie nei giovani. I nostri monasteri stanno vivendo una stagione felice: sono moltissime le nuove vocazioni. Viviamo un momento di grazia, che spero possa continuare. Mi auguro solo che chi, come me, ha ruoli di responsabilità nella Chiesa, sappia cogliere e dare risposte alle esigenze spirituali dei giovani.
E lo stato delle relazioni con la Chiesa cattolica?
Le relazioni con la Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane presenti in Etiopia sono buone. Non ci sono conflitti tra le nostre Chiese. Lavoriamo insieme per rispondere alle sfide comuni, che sono quelle che un Paese come il nostro propone ogni giorno. Un impegno è quello del bene del nostro popolo.
Ci sono esempi di collaborazione con la Chiesa cattolica ormai di lunga data. Ad Arba Minch, nell'estremo sud del Paese (M.M., aprile 1998, pp. 60-61), i padri spiritani si sono messi al servizio della formazione dei diaconi ortodossi... Che giudizio ha di questo esperimento, peraltro discusso anche in casa cattolica?
Sono convinto che le forme di collaborazione bilaterale vadano approfondite e sviluppate tra la nostra Chiesa e quella cattolica. Penso al campo della scuola, dove i cattolici hanno una tradizione e una competenza riconosciuta. Sarebbe davvero una cosa ottima per tutti poter lavorare insieme. Detto questo, a differenza di Arba Minch, non sempre i rapporti corrono su questi binari. Non c'è nessuna forma di antagonismo verso i cattolici in quello che sto dicendo. Pongo la questione da un punto di vista semplicemente cristiano. La Chiesa cattolica è ricca di personalità e risorse, di saggezza e forze spirituali. La critica che faccio è questa: perché utilizzare questa ricchezza in ambito missionario? Perché adoperarla nella logica di includere? La varietà delle confessioni religiose è un patrimonio straordinario. Le differenze delle nostre Chiese di antica tradizione sono semplicemente modalità diverse per esprimere la ricchezza della medesima radice cristiana. Le differenze costituiscono una forma di bellezza, sono come note che insieme formano un accordo. Esiste una unità da ricercare sul piano teologico ed ecclesiologico. Esiste un’altra forma di unità, già visibile, che si evidenzia nell'aiuto fraterno. La competizione, invece del sostegno, non è un atteggiamento cristiano.
Le forme di collaborazione tra le nostre Chiese esistono non solo ad Arba Minch. Ma mi chiedo: perché non lavorare ancora di più insieme? Questo vale anche per le altre Chiese cristiane, che possono fornire il loro apporto di incoraggiamento e sostegno.
In Etiopia esiste una forte componente musulmana...
La comunità musulmana è presente nel Paese da moltissimo tempo. Nel passato non ci sono stati conflitti né con i musulmani né con altre confessioni religiose. L'atteggiamento complessivo della Chiesa ortodossa nei confronti delle altre religioni è sempre stato di tolleranza. Anche i re d'Etiopia hanno sempre avuto un atteggiamento di benevolenza nei confronti dei musulmani. Oggi nel Paese, ma questo è una costante che accomuna diversi contesti, la situazione dell'islam è cambiata rispetto al passato. Ho visto una grande moschea a Roma, del costo di molti milioni di dollari. Ci sono molte moschee in Germania e in Gran Bretagna e in Francia, dove l'islam è la seconda religione. L'islam è cambiato, si sta diffondendo ovunque e sta rivendicando spazi. Bene, il mondo è di tutti. E questo fenomeno di espansione è legittimo. Ma proprio perché il mondo è di tutti dobbiamo cercare di vivere insieme.
L'Etiopia non è l'unico Paese in cui gli islamici stanno portando avanti un'azione nei confronti dei cristiani. Questo avviene anche in Europa, in America. Non dobbiamo preoccuparci del fatto che i musulmani siano in Etiopia, perché sono ormai ovunque. Ciò che preoccupa me personalmente è che gli organismi internazionali, e l'Onu in prima battuta, non perdano l'occasione di proporre delle politiche d'inclusione sociale e di lotta alla povertà capaci di togliere terreno fertile al fondamentalismo e di offrire a tutti delle opportunità di vita, in modo che insieme si possa costruire una convivenza pacifica.
Il Paese è uscito di recente da una sanguinosa guerra con l'Eritrea.
Siamo amareggiati per la guerra scoppiata con l'Eritrea, perché i nostri Paesi hanno radici comuni, siamo un solo Paese, siamo fratelli e sorelle. È stata una sciagura questa guerra. Il popolo ha pregato fortemente per la pace e la fine del conflitto, e così è avvenuto anche in Eritrea. Non credo personalmente che l'Etiopia abbia intrapreso questa guerra per ambizione o espansionismo. Certamente qualcuno ha spinto e incoraggiato. Non so chi. Ma non c'era ragione perché due popoli fratelli si combattessero, Appena poi la guerra è scoppiata, si sono fatte avanti nazioni per controllare e condizionare.
Ricordo che il governo dell'Etiopia ha sempre chiesto una soluzione pacifica del conflitto. Nessuno ha voluto ascoltare. Il costo di vite è stato enorme da entrambe le parti. L'eventualità della guerra tra i due Paesi non sembra ancora risolta. E per questo chi ha responsabilità deve parlare molto chiaramente, per spazzare il campo da ogni possibilità di scontro armato. Noi condanniamo fermamente la guerra, ma non possiamo negare la possibilità di difesa.
Per secoli la Chiesa etiope è stata legata alla sede di Alessandria. Come sono oggi i rapporti?
L'Etiopia ha ricevuto il Vangelo nel 34 d.C. Le comunità che si erano formate erano però povere di mezzi e di risorse umane. Allora il re mandò degli ambasciatori ad Alessandria, che era la Chiesa più vicina, per avere aiuto. Chiese di ottenere istruzioni circa la vita delle comunità cristiane e la consacrazione di un vescovo. Cosa che avvenne per mano dell'allora patriarca Atanasio il Grande. In seguito la Chiesa d'Alessandria non permise che ci fosse nessun vescovo che non fosse egiziano. Così è stato per secoli. Siamo stati sempre trattati come una Chiesa bambina e abbiamo sempre avuto vescovi stranieri. Solo cinquant'anni fa abbiamo potuto consacrare un patriarca etiope e vedere riconosciuta la nostra tradizione di Chiesa autocefala. E questo è stato possibile anche grazie al nostro imperatore (Haile Selassie, l'ultimo negus - ndr). Ora noi vogliamo vivere in pace, come Chiese sorelle. Sento dire spesso che in Egitto sono contrariati e non desiderano cooperare. A dire il vero non lo hanno mai fatto. Innumerevoli volte abbiamo patito la fame e la siccità in Etiopia, e da quella che si riteneva la nostra Chiesa madre non abbiamo mai avuto nessun aiuto. Ripeto: agli inizi della nostra storia cristiana, siamo stati noi a chiedere un aiuto ad Alessandria; poi abbiamo avuto la pazienza di aspettare secoli. Infine abbiamo ottenuto legalmente il diritto di proclamarci Chiesa indipendente. Non vogliono esserci amici? Mi dispiace, ed è una cosa triste da un punto di vista cristiano. Credo che comunque sia una diatriba che riguarda le alte gerarchie della Chiesa. Sono stato al Cairo e a Gerusalemme. Il popolo mi ha sempre accolto con deferenza e simpatia.
Esiste oggi una forte diaspora dei cristiani etiopi all'estero. Come assicurare loro assistenza pastorale?
Fin dall'occupazione italiana nel Paese è iniziata una forte diaspora. Ora ci sono circa 40 milioni di cristiani ortodossi etiopi nel Paese, cinque milioni all'estero, in tutti i Paesi del mondo. In Italia esiste una numerosa comunità. Ma mentre anni fa la diaspora era iniziata sull'onda di questioni politiche, oggi le motivazioni sono essenzialmente di ordine economico. La ricerca di condizioni di vita migliori porta a scegliere l'emigrazione. Molti comunque decidono poi di ritornare e costituiscono oggi una risorsa per la ricostruzione del Paese. Uno dei nostri maggiori problemi oggi è quello dell'assistenza pastorale ai nostri fedeli fuori dal Paese. Abbiamo parrocchie e diocesi in diversi Paesi del mondo, in Europa, America del Nord e del Sud. Ovunque ci siano fedeli cerchiamo di inviare un sacerdote. Abbiamo Chiese anche in diversi Paesi musulmani, dove andiamo in pace per assistere i nostri fedeli. Si tratta di zone dove non siamo mai stati presenti, anche se l'attività pastorale è limitata alla sfera dell'amministrazione dei sacramenti e alle celebrazioni. È un grande impegno, perché siamo una Chiesa povera e non abbiamo grandi possibilità finanziarie.
Santità, più volte ha denunciato la pratica del proselitismo, specie da parte dei gruppi protestanti...
Specialmente negli anni segnati da profonde difficoltà economiche e dai periodi di siccità e carestia, questo aspetto si è reso evidente. In quei frangenti la generosità dei cristiani all'estero si è manifestata con la raccolta e l'invio di aiuti. Per distribuirli sono stati inviati in Etiopia dei rappresentanti che li hanno usati in modo diverso, cioè per attrarre i fedeli nelle proprie comunità. Questa non è l'attitudine dei cristiani. È stato fatto spavaldamente, sfacciatamente. Sappiamo che gli aiuti non provengono dalla persona che li distribuisce direttamente, ma dalla generosa solidarietà di comunità di varie parti del mondo. Ma quei loro rappresentanti si sono comportati in modo egoistico, come gente che vuol essere vincente, la più forte, maggioranza. Credo che solo il cuore semplice e onesto, l'atteggiamento cristiano, è l'unico che risolverà un certo tipo di problemi. Purtroppo questo atteggiamento aggressivo continuerà, non c'è più timidezza (pudore), non c'è più paura. Penso che la gente sia libera di scegliere in cosa credere, ma questo comportamento non è ammissibile... Non è possibile fare leva sulla povertà per condizionare le scelte di fede.
Durante l'occupazione italiana in Etiopia, nel 1937, ci fu la pagina nera di Debre Libanos. Qui il generale Graziani fece sparare su centinaia di monaci e diaconi indifesi. Crede che l'Italia debba chiedere perdono per quell'eccidio?
La richiesta di perdono è un passo importante, una soluzione. Chi si pente merita il perdono. Chiedere scusa è un gesto di comprensione, di coraggio, di forza, non di umiliazione; il segnale di una volontà di costruire permanenti relazioni di pace. L'Italia oggi è in grado di aiutare l'Etiopia nella sua fase di ricostruzione e rinascita. Credo che i fatti di Debre Libanos debbano certamente essere inquadrati nella loro fase storica, quella della colonizzazione dell'Africa. Ma riconoscere il proprio errore potrebbe essere un segno di grandezza di cui andare fieri.
La Chiesa ortodossa etiope è tra i membri fondatori del Consiglio mondiale delle Chiese. Lei è ottimista o pessimista circa il cammino verso l'unità dei cristiani?
La meta dell'unità visibile non è ancora raggiunta. Dobbiamo chiederci tutti insieme perché non siamo riusciti a raggiungere l'obiettivo originale dell'ecumenismo. Da parte mia, credo che abbiamo fallito perché il nostro legame con Dio è stato troppo debole. Indebolendosi questo legame con Dio, si è ridotto anche il nostro amore gli uni per gli altri. La parola stessa di nostro Signore - «ama il prossimo tuo come te stesso» - è disattesa ed è stata sostituita dall'amore per sé. Quando ciascuno pensa a sé, come si può raggiungere l'unità? Questa è la ragione per cui assistiamo ad una tendenza a tradirsi tra Chiese Cristiane, ad un atteggiamento di superiorità, alla tendenza del proselitismo. Sono questi inciampi che ci impediscono di camminare verso la cooperazione fraterna e l'unità delle Chiese.
(Tratto da Mondo e Missione, gennaio 2005, pp. 28-32)