Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La “terza via” degli anglicani
di
Marino Parodi

La Chiesa anglicana gioca oggi come ieri un ruolo fondamentale nel contesto della Riforma. Nata, come dice il nome, sul suolo inglese e sin dalle origini strettamente intrecciata con la storia e la cultura di questo Paese, essa è diffusa in tutto il mondo: sulla base di stime ragionevoli, sembra che i fedeli raggiungano la quota complessiva di 75 milioni (pur tenendo conto delle grandi difficoltà, tipiche d’altra parte di tutte le Chiese tradizionali, che si incontrerebbero volendo distinguere i “praticanti” dai “non praticanti”).

In Italia sono presenti quindici comunità, per lo più formate da cittadini di origine inglese, americana, australiana, o canadese, con duemila fedeli. Per comprendere come e perché è nata la Chiesa anglicana, occorre un ripasso della storia, che inevitabilmente ci porta indietro al secolo decisivo, che segnò la nascita del protestantesimo, ossia il XVI.

Alle origini dello scisma

Enrico VIII (1491-1547), re d’Inghilterra all’epoca della Riforma, si era sempre mostrato un cattolico fervente, strenuo oppositore di Lutero, tanto da guadagnarsi da papa Leone X il prestigioso titolo di defensor fidei. A scatenare lo scisma sarà invece la pretesa, da parte del sovrano inglese, di ottenere da papa Clemente VII la dichiarazione di nullità del proprio matrimonio con Caterina d’Aragona, zia dell’imperatore di Spagna Carlo V (per sposarla era stata necessaria una dispensa papale), la quale non era riuscita a dargli figli.

Se il Pontefice rimase sempre fermo nel suo rifiuto di avallare ciò che ai suoi occhi sarebbe stato un divorzio, a questa vicenda matrimoniale si intrecciano peraltro complesse questioni politiche. Nel 1531 la Camera dei Lords proclama Enrico “Capo supremo della Chiesa e del clero d’Inghilterra”.

Siamo ormai allo scisma, consacrato dalla nomina del filo-luterano Thomas Cranmer (1489-1556) ad arcivescovo di Canterbury. Egli nel 1533 annulla il matrimonio di Enrico e Caterina per consacrare le nozze che presto seguono con Anna Bolena, dalla quale nascerà la futura regina, Elisabetta I. E’ l’Atto di Supremazia del 1534, preceduto dalla scomunica di Roma, a segnare la nascita di una nuova Chiesa nazionale. La Chiesa anglicana inizialmente si discosta ben poco da quella cattolica: soltanto dopo la morte di Enrico VIII, Cranmer - che cadrà vittima dell’effimera “restaurazione” cattolica di Maria Tudor - redige nel 1549 una nuova liturgia in lingua inglese (Prayer Book), la quale vede una seconda edizione nel 1552, maggiormente distanziata dal cattolicesimo, nonché una terza, nel 1559, per volontà di Elisabetta I (1533-1603), a quest’ultimo invece più vicina.

E’ ancora la nuova sovrana a trasformare nel 1571 i Quarantadue articoli di .fede nei Trentanove articoli di fede, risalenti al 1553: la nuova versione è più orientata verso il protestantesimo, benché in termini moderati. Sin dai suoi esordi l’anglicanesimo si presenta del resto come un compromesso tra cattolicesimo e protestantesimo, benché una certa avversione per Roma e per il Papato non sia mai mancata. Non a caso, alcuni studiosi considerano la confessione anglicana staccata dal protestantesimo, vedendovi piuttosto una “terza via” tra quest’ultimo e il cattolicesimo. E’ interessante notare come tale nuova interpretazione dell’anglicanesimo, sul piano teologico come su quello storiografico, abbia trovato riscontro nel Magistero cattolico: basti pensare alla Lettera apostolica Tertio millennio adveniente di Giovanni Paolo Il, in cui si fa riferimento ai martiri recenti, ritenuti «patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti». Nel corso del tempo le due tendenze hanno dato vita a due movimenti detti “Chiesa alta” (più conservatrice e “cattolica”) e “Chiesa bassa” (più filo-protestante).

In concreto e schematizzando, l’anglicanesimo accoglie gli elementi essenziali del protestantesimo sul piano teologico e dottrinale (rifiuto del Papato, giustificazione per fede, riduzione dei sacramenti all’eucaristia e al battesimo, sola Scriptura ecc.), mentre si mantiene molto vicino al cattolicesimo per quanto riguarda la liturgia (la messa anglicana è assai simile alla cattolica) nonché la struttura stessa della Chiesa (sostanzialmente gerarchica, strutturata in diocesi, con vescovi e arcivescovi). Quest’ultimo punto si spiega agevolmente tenendo presente che l’anglicanesimo si trova comunque d’accordo col cattolicesimo per quanto riguarda un importante punto, rifiutato invece, salvo qualche eccezione, da tutta la Riforma: viene conservato il principio della successione apostolica. Va peraltro precisato che vi è un altro punto ancora più importante sul quale la Riforma inglese ha deciso di conformarsi al Magistero cattolico, ossia la natura dell’eucaristia.

Il “risveglio” e i problemi di oggi

Tra Settecento e Ottocento entrambe le ali videro la nascita di un movimento “evangelical”, legato alla grande corrente del “risveglio”, il quale venne a sconvolgere un po’ tutto il protestantesimo mondiale nel segno di una spiritualità più viva rispetto a una religione percepita come troppo rigida e formale, prima, nonché di un movimento “trattariano”, poi, (da una serie di opuscoli detti Tracts for the time, pubblicati dal 1833), meglio conosciuto come “movimento di Oxford”, più marcatamente filo-cattolico. Tra gli esponenti di rilievo di quest’ultimo spiccano John Henry Newman, il quale aderì nel 1845 alla Chiesa cattolica e divenne cardinale, nonché Edward Bouvene Pusey (1800-1882), il quale creò un movimento “anglo-cattolico” all’interno della Chiesa anglicana, destinato ad acquistare notevole peso sul piano culturale e sociale.

Se oggi i confini tra “Chiesa alta” e “Chiesa bassa” sono assai meno chiari e netti rispetto al passato, tuttavia la spaccatura che si è delineata nell’ultimo ventennio all’interno della Chiesa a causa di questioni spinose quali l’ordinazione sacerdotale femminile e la “questione omosessuale” ha, per forza di cose, portato esponenti anglicani su posizioni sempre più vicine a Roma, giungendo in alcuni casi alla piena adesione al cattolicesimo. E’ quanto si è verificato, ad esempio, con quei pastori anglicani passati in massa alla Chiesa cattolica, diventati a pieno titolo sacerdoti cattolici e accolti a braccia aperte da Giovanni Paolo ll, benché molti di loro fossero coniugati e con prole.

La Chiesa anglicana ha definitivamente e ufficialmente detto “sì” al sacerdozio femminile, attraverso una pronuncia solenne del suo Sinodo, nel novembre 1992. Da parte della Chiesa anglicana sarebbe stato peraltro, obiettivamente, ben difficile persistere nel rifiuto del sacerdozio femminile, giacché al suo vertice, e nemmeno per la prima volta nella sua storia (si pensi alla regina Vittoria e alla già citata Elisabetta I), si trova una donna, la regina Elisabetta. Le prime ordinazioni risalgono al marzo 1994 e ciò ha complicato notevolmente quel processo di riavvicinamento ecumenico - il che costituisce un passo avanti notevole rispetto al “dialogo”- tra Chiesa di Roma e Chiesa anglicana. Una tappa fondamentale di tale cammino fu la visita ufficiale della regina Elisabetta Il a Roma nel 1960: lo storico incontro tra lei e papa Giovanni XXIII si svolse in un clima di euforia generale e fu seguito con grande partecipazione dall’opinione pubblica mondiale.

D’altra parte le donne erano già state ammesse al sacerdozio in altre Chiese anglicane: in Australia e Sud Africa (1992), negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda (1976), in Canada (1975),a Hong Kong (già dal 1944). Infatti fanno capo alla Chiesa madre di Canterbury ventisette Chiese nazionali autonome, che costituiscono la Comunione anglicana e ogni dieci anni, a partire dal 1867, si riuniscono nelle Conferenze di Lambeth. Contrariamente a quanto accade in tanti altri Paesi del globo, dove gode di ottima salute ed è in continua crescita, la Chiesa anglicana soffre nel suo Paese d’origine di una certa crisi, che non si può ridurre ai pur ben noti problemi dell’ordinazione femminile e dell’omosessualità.

Di tale crisi è un sintomo evidente il passaggio alla Chiesa cattolica di vari personaggi pubblici, già profondamente legati a quella anglicana, quali il primo ministro Tony Blair e lady Frances Fermoy, madre della principessa Diana. Il problema principale consiste forse nello stretto legame tra Chiesa e potere politico che, come abbiamo visto, risale alle sue stesse origini: se la tensione tra dimensione temporale e sfera spirituale può forse considerarsi una spina nel fianco per vasti settori della cristianità, ivi comprese la Chiesa di Roma, tante confessioni nate dalla Riforma e l’Ortodossia, nel caso inglese la situazione si presenta particolarmente complessa. Infatti oltre Manica alla Chiesa è venuta a mancare quella “purificazione” dal potere che nel caso di Roma è derivata dalla fine del governo del “Papa-Re” e, in quello della Russia, dalla persecuzione e dai martiri inflitti dal comunismo.

Al di fuori della Gran Bretagna, la Chiesa anglicana più influente è quella degli Stati Uniti, riorganizzatasi nel 1783, dopo la Rivoluzione americana, con il nuovo nome di Chiesa protestante episcopale. Pure negli Stati Uniti le due vexatae quaestiones del sacerdozio femminile e dell’omosessualità hanno provocato negli anni vari scismi di stampo “tradizionalista”. La comunità episcopaliana occupa tuttora posizioni importanti nella cultura, nella politica e nell’economia degli Stati Uniti, al di là del numero non troppo alto dei suoi membri (circa due milioni e mezzo).

Una ricca tradizione di spiritualità

La Chiesa anglicana è da sempre vitalissima in ogni campo: come abbiamo accennato, sul piano teologico; sul fronte dell’ecumenismo (cui ha aderito con decisione sin dai suoi esordi e i rapporti con la Chiesa di Roma stanno tornando al livello eccellente di un tempo), a livello pastorale (il clero, severamente selezionato soprattutto per quanto riguarda le motivazioni, viene preparato attraverso un rigoroso iter di studi universitari nonché un impegnativo tirocinio mentre le iniziative per la formazione dei fedeli sono numerosissime), nel mondo della solidarietà e del volontariato (in particolare nei Paesi del Terzo Mondo) e sul piano propriamente spirituale. La Chiesa anglicana è infatti sempre stata assai ricca di spiritualità e si è sempre contraddistinta per la libertà che oggi come ieri lascia ai propri fedeli, privilegiando nettamente la via personale rispetto al dogma. Non a caso nel suo seno si è sviluppata sin dalle sue origini una mistica assai fiorente, agevolata sia dalla natura inglese, tendenzialmente riservata e portata alla riflessione -inglese è anche Giuliana di Norwich, una delle maggiori mistiche di tutti i tempi, vissuta molto prima della Riforma -, sia dal fatto che la Chiesa anglicana, grazie alla tradizione platonica conservata sin dal Rinascimento, possiede un terreno di accoglienza del tutto naturale, molto autentico e originale, per tutto quanto riguarda la contemplazione dei misteri cristiani.

Pensiamo soltanto al caso di Richard Hooker, considerato il teologo più rappresentativo dell’anglicanesimo: persino nella sua importante opera in cinque volumi, The Laws of Ecclesiastical Polity, teoricamente dedicata a tematiche non direttamente spirituali, è facile scoprire il soffio possente che anima tutta la teologia. avvicinandola ai confini della vita mistica. Mettendo in luce temi tanto cari alla spiritualità anglicana, approfondisce la preghiera la quale «accende nell’anima il desiderio di contemplare Dio» e apre la porta all’ascolto della parola divina. La preghiera, così collocata nel mistero della partecipazione del fedele a Cristo, diventa «offerta presentata dagli angeli davanti a Dio», nonché «affezione luminosa di gioia».

Una spiritualità così forte come quella anglicana non poteva restare indifferente alla grande riscoperta dei carismi portata nel secolo scorso in tutta la cristianità dalla corrente pentecostale, di cui le esperienze come il Rinnovamento nello Spirito Santo possono considerarsi l’espressione cattolica. Un po’ tutti i carismi - in particolare quello della guarigione -sono tenuti in grande considerazione da parte della Chiesa anglicana, nella quale si celebrano con grande frequenza messe di “guarigione e di liberazione.


CAPO DELLA CHIESA D’INGHILTERRA

Il sovrano del Regno Unito è il capo della Chiesa d’Inghilterra, non però della Comunione anglicana, sulla quale egli non ha invece alcuna autorità. Tale funzione è nel corso del tempo diventata sostanzialmente formale, tant’è vero che Elisabetta II - la quale ha compiuto ottant’anni e regna dal 1952 - non ha particolare voce in capitolo neppure sulla scelta dell’arcivescovo di Canterbury, nominato sì dalla sovrana ma scelto dal Primo ministro. L’arcivescovo di Canterbury, è primate di tutta l’Inghilterra, metropolita, leader della Comunione anglicana. nonché capo effettivo della Chiesa.

Tuttavia la forte personalità della sovrana, con l’innegabile carisma che ne consegue -prova ne siano l’affetto e l’ammirazione di cui Elisabetta Il gode, come può constatare chiunque conosca anche soltanto un poco il popolo inglese -hanno senz’altro contribuito, lungo l’intero arco del suo lunghissimo regno, a mantenere vivo nell’opinione pubblica il senso di appartenenza alla storia e alla tradizione anglicana. Anzi, è assai probabile che tale fattore abbia giocato un ruolo significativo nella tenuta della Chiesa di fronte alla crisi di cui si accenna nell’articolo.

Elisabetta non ha mai fatto mistero del proprio “filocattolicesimo”, palesato sia da rapporti di amicizia e di collaborazione significativa con esponenti di spicco della Chiesa cattolica - è il caso di Madre Teresa, la cui missione è sempre stata massicciamente sostenuta dalla famiglia reale inglese tutta, nonché di Giovanni Paolo Il, con il quale i rapporti furono sempre eccellenti - sia da gesti pubblici clamorosi, quali la storica visita ufficiale a Giovanni XXIII nel 1960, nonché l’invito, prontamente accolto, rivolto al primate cattolico Cormac Murhpy O’Connor, a predicare nel corso della funzione religiosa ufficiale tenutasi nel 2002, in occasione dei cinquant’anni di regno della sovrana.

Elisabetta Il, devotissima anche sul piano personale, ha in particolare incoraggiato l’impegno ecumenico, la formazione spirituale e la dimensione sociale da parte della Chiesa di cui è capo.

(da Vita Pastorale, Aprile 2006)

Domenica, 12 Novembre 2006 17:35

Evagrio Pontico (Franco Gioannetti)

Evagrio Pontico
di Franco Gioannetti


Scrittore ecclesiastico nato ad Ibora nel Ponto (Asia minore) circa il 356, morto nel 399. è una figura di primo piano tra i teorici della spiritualità della Chiesa antica.

Fu nominato lettore da Basilio il Grande, diacono da Gregorio di Nazianio. Esercitò il ministero della predicazione a Costantinopoli fino al 382, poi prima brevemente a Gerusalemme, poi definitivamente in Egitto si dedicò alla vita ascetica. Fu discepolo di S. Macario l’egiziano. Scrisse: l’Antirrheticus, raccolta di sentenze bibliche; il Monasthicus, raccolta di massime per anacoreti; lo Specchio per i monaci; lo Specchio per le monache; 600 Problemi gnostici, di contenuto dogmatico e morale; 67 lettere; Piccolo Trattato sulla vita monastica; Capitula XXXIII di carattere allegorico; Sentenze; De Oratione; De malignis Cogitationibus; Commentarii ai Salmi ed ai Proverbi.

È il primo monaco che abbia lasciato una notevole eredità letteraria ed è il più fecondo ed originale fra i monaci dell’Egitto. Amò esprimersi in brevi massime, talora tolte dalla Scrittura.

Nel suo pensiero e nei suoi scritti distingue la vita attiva e la vita contemplativa. La prima non è che la preparazione alla seconda, che ha il suo compimento nella contemplazione della Trinità in cui consiste la perfezione ed il più alto grado della vita spirituale. L’ascesi mira a purificare l’anima per togliere gli impedimenti alla contemplazione. La vita attiva è caratterizzata dalla pratica delle virtù disposte in quest’ordine ascendente: fede, timor di Dio, osservanza dei comandamenti, da cui derivano la continenza, la prudenza, la pazienza, la speranza; da questa viene poi l’impassibilità (apàteia) da intendersi non certo come indifferenza ma come perfetta pace e libertà dello spirito, raggiunta con la totale rinuncia e la costante mortificazione.

Frutto dell’apàteia è l’amore, che introduce alla vita contemplativa. Nel campo ascetico Evagrio dà molta importanza alla lotta contro le passioni.

Distingue nella contemplazione vari gradi il cui vertice è la pura orazione. Si tratta di una conoscenza di Dio non discorsiva, che richiede una purità maggiore che la contemplazione iniziale, così che lo spirito sia tutto “nudo”. Per essa l’uomo vede la luce della Trinità ma in una visione che è “infinita ignoranza”, perchè l’infinito non può essere compreso dall’intelletto finito.

Con l’intuizione della Trinità lo spirito intuisce se stesso, ormai purificato e splendente di bellezza. Pace e riposo accompagnano questa contemplazione che afferra l’uomo con un potere irresistibile.

Il monaco, uomo dell'Avvento
di P. D. Donato Ogliari osb

Nel descrivere il monaco come "colui che si affretta verso la patria celeste" (RB 73,8), Benedetto lo inserisce in una prospettiva escatologica. Tale prospetti-va è anche una delle caratteristiche dell'Avvento. Esso, infatti, è un tempo che, da un lato, si fonda su un “ricordo" - la venuta di Gesù nella carne e dall'altro su una "promessa futura" - la definitiva venuta del Cristo nella gloria.

Questa doppia valenza rappresenta un forte richiamo a vivere i nostri giorni tenendo lo sguardo rivolto in avanti, e ad evitare di ripiegarlo sulle nostre preoc­cupazioni quotidiane.

Nella Liturgia monastica delle Ore vi sono alcune antifone dell'Avvento che ci spronano a vivere protesi verso un futuro che si annuncia carico di salvezza. Si pensi, ad esempio, alle seguenti: "Levate capita vestra: ecce appropinquabit redemptio vestra" (Lc 21,28); "Leva Jerusalem oculos et vide potentiam regis: ecce Salvator venit solvere te a vinculo" (Levate il capo, perché la vostra libera­zione è vicina; Alza gli occhi econtempla la potenza del tuo re, o Gerusalemme: ecco, il Salvatore viene a liberarti dalle catene).

1. Il monaco: proteso verso il futuro

Su tale sfondo, il monaco è dunque invitato a vivere il periodo avventuale con lo sguardo vigile, premuroso di scrutare il presente per cercarvi le tracce di Colui che viene a visitarci e che si offre alle nostre esistenze come "sole che sorge" (Lc 1,78), giorno dopo giorno. Come il sole, infatti, non cessa di risplendere anche quando il cielo è coperto di nubi, così il Signore si rende presente in noi e in mezzo a noi ogni giorno in maniera inedita, indipendentemente dalla nostra capa­cità di scorgerlo e di accoglierlo.

Questo è il motivo per cui la dimensione escatologica che l'Avvento ripropone ogni anno con insistenza - dimensione che caratterizza dal di dentro la stessa vita monastica - si raccorda intimamente con la celebrazione del Natale. È quest'ulti­mo, infatti, che riempie e avvalora, alla luce dell'evento dell'Incarnazione, la diuturna ricerca di Dio da parte del monaco. Il suo essere "proteso in avanti" verso il futuro nel quale lo stesso Dio gli viene incontro e lo cerca, non può che nutrirsi di una fede "incarnata" nella storia, una fede che gli fa "affrettare" il passo per riconoscere, nel dipanarsi dei giorni, la visita del Signore che ci rag­giunge e ci invita ad accoglierlo nella fede e nell'amore, nella disponibilità inte­riore e nell'attiva generosità.

Come sappiamo, rispetto all'unicità dell'incarnazione e della Parusia, san Bernardo di Chiaravalle amava definire questa quotidiana visita del Signore come un medius adventus, un "avvento di mezzo", reiterato eppur sempre nuovo. Simil­mente Pietro di Blois descriveva questo avvento intermedio come un incontro che si compie nell'anima ogni qualvolta essa si apre a Dio. E se vissuto nella fede e nell'amore, tale incontro non solo va a incidere sulla "micro-storia" di chi si lascia da esso coinvolgere, ma finisce anche col ripercuotersi sulle nostre comuni­tà, sulla Chiesa e sul mondo intero.

2. Il monaco: vigile e gioioso

Nell'invitarci a vivere la tensione escatologica e l'attesa dinamica che ad essa fa riscontro, l'Avvento ci suggerisce anche alcuni atteggiamenti congeniali per accostarci proficuamente al mistero del Deus semper veniens. Tra di essi vi sono la vigilanza e la gioia, atteggiamenti che sono propri di coloro che non vogliono essere sorpresi nella notte dall'arrivo dello Sposo (cf Mt 25,1-13) o del Padrone (cf. Mc 13).

In questi due atteggiamenti è racchiuso il senso del nostro cammino. Un cam­mino da compiere con cuore "vigile" e nello stesso tempo con passo "lesto e gioioso" verso l'incontro che si spera di realizzare un giorno ma che, in qualche modo, ci è dato di anticipare quaggiù, dove la nostalgia di Dio motiva e illumina la nostra attesa.

C'è un'antifona gregoriana, tra quelle proposte per l'Avvento, che esprime bene questo aspetto così "monastico" dell'attesa vigilante e insieme dinamica. E l'antifona: "Jerusalem surge, et sta in excelso: et vide iucunditatem, quae veniet tibi a Deo tuo" (Communio - III settimana), formata da due emistichi tratti dal libro del profeta Baruc: "Sorgi, o Gerusalemme, e sta in piedi sull'altura (5,5a): osserva la gioia che ti viene da Dio (4, 36b)".

In questo imperativo "sta in piedi sull'altura", possiamo leggere un'esortazio­ne rivolta al monaco affinché stia ritto, ossia perseverante in quella fede che consente di guardare alle cose di quaggiù nella prospettiva che proviene dall'alto, dal Signore stesso. E ciò anche quando sopraggiungono lo scoraggiamento e le delu­sioni, o quando le difficoltà personali e comunitari e sembrano non lasciare tregua e il futuro si profila incerto. Anche allora, quando si tocca con mano la precarietà del cammino e le emergenze che in esso affiorano, il monaco "sta in piedi", e non permette che il suo animo sia raggiunto da un senso di disfatta.

In alcuni passaggi della propria storia personale o di quella comunitaria, lo "star in piedi sull'altura" potrebbe assomigliare molto allo "stare" di Maria sul Calvario, presso la Croce di Gesù. Potrebbe, cioè, essere un forte richiamo a per­severare sotto il peso dell'incertezza.

Per il monaco questo impegno si esprime soprattutto nella generosità della preghiera e nella dedizione al lavoro, vissuto in una maniera seria e responsabile che non lasci appigli all'ozio, nemico del progresso spirituale. Ma è un impegno che prende forma e si dispiega anche nelle relazioni con gli altri nell’apertura della condivisione, al dialogo fraterno e al perdono reciproco. Solo così una comunità può riconoscere le "visite" che il Signore le rende quotidianamente e attirarsi le sue grazie.

Infine, nelle medesima antifona Jerusalem surge, ci viene anche rivolto l’invito ad "osservare la gioia che viene da Dio" o come dice il versetto 5b (a completamento del v. 5°): a guardare verso oriente ("...guarda verso oriente"), ossia a tenere gli occhi fissi su Gesù che come sole sorge per illuminare le genti (cf Lc 2,32). In Lui, e nell'esperienza della sua misericordia, che abbondantemente riversa su di noi, la gioia e l'esultanza del cuore trovano il loro accordo più vero e profondo.

3. Il monaco: afferrato dalla speranza

fruire di quella "prossimità salvifica" che è frutto dell'incarnazio­ne del Figlio di Dio nella storia, non può non far vibrare il nostro animo di una speranza sempre nuova, capace di illuminare ogni volta da capo il nostro cammino.

Se la fede ci permette di aderire cori certezza alla Verità, che è Cristo - quel Cristo al quale abbiamo detto il nostro "sì" nel battesimo e che abbiamo deciso liberamente di seguire abbracciando la vita monastica -, la speranza agisce sulla nostra volontà spronandoci a riconsegnarci a Lui ogni giorno con gioia. Una ri­consegna che ha come presupposto la certezza che in Cristo si manifesta la fedeltà a Dio e la sua azione liberatrice nei nostri confronti.

La speranza non è una virtù facoltativa, da relegare in un angolino e da rispolverare quando si ha l'acqua alla gola. Come le altre virtù teologali, anch'es­sa è saldamente radicata in Dio, ed è quindi intimamente e quotidianamente con­nessa col cammino cristiano-monastico. La speranza è quel seme foriero di vita che preme nel buio della terra in attesa di germogliare; è quella molla segreta o quella "tensione escatologica" che dà impulso alla ricerca quotidiana di Dio nelle pieghe della storia,

Eucharistia, n. 20).

Che l'Avvento sia un tempo in cui forte è il richiamo alla speranza, è illustrato anche dall'antifona Ad te levavi animam meam, tratta dal Sal 24,1-3 e posta - quasi a dargli il "La" - in apertura del periodo avventuale: "A te, Signore, elevo l'anima mia, Dio mio, in te confido: non sia confuso! Non trionfino sudi me i miei nemici! Chiunque spera in te non resti deluso". È il canto della fiducia che si dipana nell'intreccio tra speranza, da una parte, e la reale possibilità di cadere preda della confusione e della delusione dall'altra. Affinché ciò non si verifichi la speranza viene fatta propria e vissuta dal credente come un'attesa fiduciosa nella potenza salvifica del Signore, antidoto sicuro di fronte al momentaneo o apparente trionfo dei nemici, ossia del male in tutte le sue forme.

4. Il monaco: lungimirante nella pazienza

il passo, egli sa anche "attendere" quello che spera, nella consa­pevolezza che l'oggetto sperato non può essere forzatamente anticipato.

Ad esempio, è fuor di dubbio che ogni monaco nutra il profondo desiderio di vivere radicalmente la bellezza della sua vocazione, di darsi completamente al Signore seguendolo senza riserve, di spendersi perché la sua comunità si edifichi sempre di più nell'amore, nel sostegno reciproco, nella condivisione fraterna ed amicale, e perché possa risplendere come segno di comunione in un mondo lace­rato e profondamente segnato dalla logica dell'individualismo e del tornaconto. Eppure, nonostante un siffatto desiderio alberghi nel cuore di ciascun monaco, questi tocca con mano il divario esistente tra l'ideate da perseguire e la realtà del suo quotidiano. Ciò significa che se da una parte egli assume l'impegno di perse­guire l'oggetto che intravede nella speranza, dall'altra egli è anche capace di at tendere con pazienza il suo avverarsi. Il monaco, cioè, perseverando nel dono di sé alla luce di quella "sapienza interiore" che anima e sorregge la sua non si arrende di fronte alle contraddizioni della vita e non cede alle contrarietà e alle tribolazioni che potrebbero frenare il suo cammino di fede e di ricerca di Dio.

La pazienza insita nella speranza non fa dunque a pugni con essa e non le tarpa le ali, poiché non è sinonimo di arrendevolezza ma piuttosto di tenacia, una tena­cia irrorata di fiducia o - come dice I 'Apostolo - una "virtù provata" che dà spes­sore alla speranza: "Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza" (Rm 5,3-4).

In ultima analisi - e il tempo di Avvento è lì a ribadircelo con forza - la speran­za cristiana è sempre in grado di aprirsi un varco luminoso verso la luce del Cristo, il "sì" fedele di quel Dio che è Padre e per il quale nemmeno le tenebre "sono oscure e la notte è chiara come il giorno" (Sal 138,12).

Come la notte di Natale, appunto, quando la Luce divina si è aperta un varco e ha fatto irruzione nell'oscurità del mondo depositando nella storia umana il segno indelebile di una Presenza che non verrà mai meno.

(da Il sacro speco di S. Benedetto, 6, 2005)

Spiritualità Marista

di Padre Franco Gioannetti

Trentanovesima parte

La comunione

Era convinzione del P. Fondatore, ne abbiamo diffusamente parlato, che la Società di Maria fosse chiamata a rivivere l’esperienza della Chiesa apostolica. Certamente a motivo della presenza della Madre di Gesù tra i discepoli, ma anche per la comunione (koinonia) e l’unione fraterna che contraddistingueva i credenti, e cioè per lo stile di “vita apostolica”. Al termine di un ritiro del 1846 il P. Colin esortava:

“Miei cari confratelli, che i legami di una intima carità ci uniscano sempre in modo che noi possiamo essere veramente un cuore solo ed una anima sola. La Società di Maria deve rappresentare i primi tempi della Chiesa”. (Parole di un fondatore, op. cit., Doc. 115, n. 4)

Si tenga presente che la citazione di Art. 4,32 ricorre con frequenza nelle esortazioni del P. Fondatore (Parole di un Fondatore , Doc. 42, n. 3; Doc. 115, n. 5; Doc. 116, n. 8; Doc. 143, n. 2). Nelle Constit. il riferimento agli Atti ricorre esplicitamente due volte nel contesto della comunione dei beni e una volta per inculcare l’unione fraterna (Constit., cap. III, n. 142, p. 50; cap. Vi, n. 283, p. 97; cap. XII, n. 437, p. 159).

Lo spirito della Società è contrassegnato dalla comunione tra fratelli. La sintesi del pensiero spirituale del P. Colin è contenuta nell’art. IV del cap. XII delle Costituzioni. I concetti che hanno un particolare rilievo sono:

  • La Società è una “famiglia”, un “corpo”.
  • La fraternità si costruisce con l’ascesi e la “sincera amicizia”.
  • Gli stessi studi, lo stesso tipo di formazione in consonanza con la Chiesa Romana, uno scambio frequente di lettere tra confratelli, l’uniformità di stile di vita, di abbigliamento , di abitazione facilitano l’unione.
  • L’obbedienza è “il vincolo che unisce i sudditi con i Superiori”.
  • Compito dei superiori è essere segno e garanzia di unità tra i fratelli.
Lunedì, 06 Novembre 2006 23:33

12. L'alleanza e il decalogo (Rinaldo Fabris)

La storia dell'esodo culmina nell'alleanza, in ebraico berîth, “impegno”, “alleanza/patto”.

Domenica, 05 Novembre 2006 21:20

Le molte icone di Dio (Marcelo Barros)

Le molte icone di Dio
di Marcelo Barros

Il pluralismo religioso che caratterizza il nostro tempo e di cui il mondo ha acquisito chiara coscienza ha un significato positivo: la molteplicità delle fedi rientra nel piano divino per l’umanità e dovrebbe aprire la strada verso la pace.

Il mondo odierno è caratterizzato da un incremento smisurato della povertà e da una sorprendente situazione di pluralità di culture e religioni che le emigrazioni e i mezzi di comunicazioni costringono a convivere.

Per secoli, in America Latina la chiesa cattolica si è mantenuta “bianca ed europea”. Fino a un passato non molto lontano, vescovi e clero si sono opposti a che la gente seguisse una religione che non fosse il cattolicesimo. Le popolazioni, però, hanno sviluppato un cristianesimo fatto di devozioni e di tradizioni orali che si sono mescolate, sintetizzando credenze diverse. Questo “meticciato cattolico” ha significato per molti un’appartenenza religiosa doppia, quando non multipla.

Le autorità coloniali ed ecclesiastiche proibirono agli africani strappati alle loro terre e portati come schiavi in Brasile, in Colombia o nei Caraibi, di praticare i propri culti tradizionali e li obbligarono a diventare cattolici. Fu uno sforzo inutile: anche battezzati, gli schiavi neri mantennero le loro religioni antiche e diedero vita a una sintesi di credenze cristiane e di culti di matrice africana. Sorsero così il candomblé a Bahia, lo xango a Recife, la Casa de Mina a São Luis nel Maranhao, la Santeria in Cuba e i cultos negros in Colombia. Ovviamente, queste sintesi spirituali - profonde e sofferte - furono condannate dalla gerarchia ecclesiastica, forse incapace di cogliere il fatto che in esse si realizzava quello che Raimundo Panikkar ha definito “dialogo intra-religioso”, cioè un pluralismo di tradizioni religiose che il credente vive nel proprio cuore.

Oggi, la situazione che si era venuta a creare in America Latina con la tratta degli schiavi (caratterizzata, cioè, dalla presenza di credi religiosi in uno stesso territorio) è diventata mondiale. Nell’Europa occidentale vivono oggi oltre cinque milioni di musulmani e parecchie centinaia di migliaia di buddisti e di seguaci di altre religioni orientali. La stessa condizione è presente nell’America del nord. Le chiese devono prendere coscienza di questo fenomeno e considerarlo non come “problema” che crea difficoltà, bensì come “grazia di Dio”, un kairos, cioè “occasione propizia”, “tempo favorevole” in cui è richiesto uno sforzo maggiore per ascoltare la Parola di Dio e vivere la propria fede con gioia e gratitudine.

Una seria teologia cristiana del pluralismo religioso accerta la molteplicità delle religioni non come un fatto inevitabile da subire, ma come positività, una “benedizione dello Spirito” per le chiese e per tutte le religioni. Il cuore vero di una religione - qualunque essa sia - è la sua proposta di esperienza d’intimità con il mistero divino che dà il senso ultimo alla vita. La “grazia” di ogni religione è l’apertura al mistero, che però è “relativa”, in quanto vissuta ed espressa in maniera “condizionata” dalla cultura. Tutte le religioni sono “mediazioni”.

Il dialogo inter-religioso. che suppone l’accettazione del pluralismo, è molto di più che una semplice questione di rispetto o di tolleranza. È un’esigenza di quella sete di assoluto di cui ogni religione è un’espressione particolare. L’assoluto non può essere “compreso” totalmente da questa o quella religione.

Nel cristianesimo, l’esperienza di intimità con il divino si ha attraverso la sequela di Cristo, che ci ha rivelato che Dio è amore. Il Dio di Gesù Cristo non si è fatto conoscere principalmente perché noi gli prestassimo un culto, ma soprattutto perché, grazie alla caritas che lui è e che egli ci dona, anche noi possiamo amarci. Lo dice magistralmente l’incipt della recente enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est «“Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4, 16). Queste parole esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana (...) e ci offrono una formula sintetica dell’esistenza cristiana: “Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto”. Abbiamo creduto all’amore di Dio - così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».

Il vero interesse di Dio è che gli uomini e le donne abbiano la vita. L’aveva già detto Sant’Ireneo di Lione: «La gloria di Dio è l’uomo vivente». Mons. Oscar Romero parafrasava queste parole così: « La gloria di Dio è l’uomo oppresso liberato».

Cinque anni fa, la commissione latino-americana dell’Associazione ecumenica dei teologi del Terzo Mondo ha varato un progetto editoriale: cinque volumi in cui raccogliere i migliori studi sulle relazioni esistenti tra la teologia della liberazione e la teologia del pluralismo religioso. Ne sono già stati pubblicati tre, ricchi di spunti per una sintesi di queste due correnti teologiche.

Nel 1970, mons. Hélder Câmara, invitato a partecipare alla Conferenza mondiale delle religioni per la pace, Kyoto (Giappone), affermò: «Le religioni e i cammini spirituali devono dialogare e camminare insieme, se vogliono essere la coscienza etica dell’umanità e il grido pacifico dei poveri»

(da Nigrizia, Maggio, 2006)

Se vogliamo che il Verbo di Dio nasca in noi dobbiamo saper scendere silenzio in questo profondo, in questa oscurità totale.

Gli Ebrei che lasciano l'Egitto entrano nel deserto,chiamato“deserto di Sur” e più a sud “deserto di Sin”. Le tappe di questo cammino nel deserto sono elencate nel libro dei Numeri.

L'esegesi patristica in dialogo
con l'ebraismo dei primi secoli
di Innocenzo Gargano *
(Camaldoli 1991)






È una delle tante testimonianze frutto dei «Dialoghi di Camaldoli». Dal reciproco ascolto ebrei e cristiani hanno cominciato non solo ad apprezzare le reciproche identità, ma soprattutto a condividere una sofferenza generata dall'antisemitismo.


Premessa

Mi sembra che la prima cosa da chiarire, fin dall'inizio, debba essere quella del rapporto assolutamente particolare che si stabiliva, nel periodo dei Padri, fra il soggetto che faceva esegesi e l'oggetto dell'esegesi stessa.

Quando l'uomo moderno si pone di fronte a un testo, evita accuratamente di interferire nel testo con gli affetti di cui è portatore inevitabilmente. È opportuno parlare di uomo moderno e non di "contemporaneo", perché in questi ultimi anni si è acuito il dubbio che si possa parlare simpliciter di un testo. Due Autori sono divenuti il simbolo personificato di un simile dubbio. Si tratta H. G. Gadamer e di P. Ricoeur(1). Scrive a tale proposito G. Vattimo:

«Nella mentalità filosofica moderna, metodo è lo strumento, con cui un soggetto, concepito in contrapposto al suo "oggetto", si assicura la possibilità di disporre di quest'ultimo (...). Inscindibili dal concetto di metodo, cosi come la tradizione europea lo è venuto costituendo, sono le nozioni di obiettività e di dimostrabilità che escludono, almeno tendenzialmente, ogni interesse e intervento del soggetto, cioè in definitiva ogni carattere "eventuale" (cioè di accadimento-evento) della verità che si tratta di raggiungere» (2).

«Il primo passo da fare per mettere in chiaro l'insostenibilità di questa nozione. di metodo o almeno i suoi limiti - prosegue Vattimo - è riconoscere quelle esperienze di verità che pure si verificano di là dai confini che esso stabilisce, cioè quelle che potremmo chiamare esperienze extra metodiche della verità. Non sembra più legittimo trasferire in modo meccanico la nozione di metodo propria delle scienze della natura, con il suo ideale di dimostrabilità, al campo delle scienze dello spirito, con la conseguenza di perdere di vista la specifica verità che caratterizza questi tipi di conoscenza (...). In generale la nozione di metodo elaborata dalle scienze della natura non è in grado infatti di comprendere la verità delle scienze dello spirito» (3).

Un primo confronto

Il genere di approccio ad un testo determinato, che Vattimo qualifica come esperienza extrametodica della verità, sembra sottostare curiosamente ad una delle pagine più interessanti e più vicine all'ermeneutica propria dei Padri cristiani che è possibile leggere nelle Mishpatim 99a-99b dello ZOHAR(4) :
Quanti esseri umani vivono in una sorte di confusione mentale, non riuscendo a vedere la via della verità la cui abitazione è nella Torah, la Torah che, innamorata di loro, li invita tutti i giorni ad andare da lei, e invece non la degnano neppure di uno sguardo! È proprio vero quel che ho detto. La Torah emette una parola e viene fuori per un attimo dal suo nascondiglio e poi si cela di nuovo. Ma fa così soltanto con coloro che la capiscono e le obbediscono. Essa si comporta come una bella ragazza nascosta nella stanza più remota di un palazzo che ha un amore segreto sconosciuto a tutti. Innamorato di lei, lui passa costantemente accanto alla ricerca di lei. Lei, sapendo che lui assedia continuamente il suo palazzo, che fa? Apre una piccola porticina nel suo palazzo segreto, rivela per una attimo il suo volto all'amante e subito lo nasconde di nuovo. Nessuno se ne accorge se non lui, ma il cuore e l'anima e tutto ciò che è in lui sono attratti da lei, perché ha capito che si è mostrata un istante spinta dall'amore anche lei.

Accade la stessa cosa con la Torah che rivela i suoi segreti nascosti soltanto agli innamorati di lei. Lei sa che il sapiente nel cuore frequenta quotidianamente le grate della sua casa. Cosa fa allora? Essa mostra il suo volto dal palazzo mandandogli un segno di amore e subito ritorna di nuovo nel suo nascondimento. Nessuno si rende conto del messaggio se non lui, ma il cuore e l'anima e tutto ciò che è in lui sono attratti da lei. Così la Torah rivela il suo innamoramento agli innamorati di lei per risvegliare in loro un nuovo amore. Questa è la strada della Torah. All'inizio, quando essa comincia a rivelare se stessa ad un uomo, gli invia dei segnali. Se quell'uomo capisce tutto, va bene, ma, se non capisce, essa gli invia dei messaggeri considerandolo un "semplice" e comanda loro: «Dite a quell'ingenuo di venire qui per parlare con me», come sta scritto: «Chi è ingenuo fatelo ritornare di nuovo» (Cfr. Prov 9,4).
Quando egli arriva, essa comincia a parlargli, all'inizio dal di dietro del velo che essa gli ha sciorinato davanti con parole adeguate alla sua capacità di comprensione in modo che egli possa progredire piano piano. Questo (insegnamento) viene chiamato Derashah (nella casistica del Talmud si chiama cosi la derivazione delle leggi tradizionali e delle usanze dalla lettera della Scritture). Poi gli parla dal di dietro dell'intreccio di un velo sottile discorrendo di indovinelli e parabole secondo ciò che si chiama Aggadah. Quando infine diviene un familiare, essa gli mostra se stessa faccia a faccia e parla con lui di tutti i suoi misteri, di tutte le sue strade segrete che aveva custodite gelosamente nel cuore da tempo immemorabile. Allora un uomo simile diventa un perfetto iniziato alla Torah, un "maestro di casa", perché essa gli ha rivelato tutti i suoi misteri, non negandogli ne nascondendogli nulla. Essa gli dice: «Vedi adesso quanti misteri conteneva quel segno, quel cenno che io ti inviai al principio?». Allora egli si rende conto che niente può essere aggiunto o sottratto dalle parole della Torah, né un segno né una lettera. Perciò gli uomini dovrebbero seguire la Torah con impegno e costanza fino a diventare gli amanti o innamorati di lei.

Questo testo dello Zohar ci stimola ad estendere per un momento il discorso su alcuni criteri di lettura della Torah comuni alla intera tradizione giudaica. Il testo che abbiamo appena citato parla di una certa «confusione mentale» di coloro che non riescono a vedere «la via della verità la cui abitazione è nella Torah». Da cosa deriva questa «confusione mentale»? L'autore dello Zohar non ha dubbi: essa deriva dal fatto che tanti esseri umani «non degnano neppure di uno sguardo» colei che invece «li invita tutti i giorni ad andare da lei» innamorata com'è di tutti loro. La causa della «confusione mentale» è dunque una sola: l'insensibilità alla proposta d'amore della Torah. A questi «esseri umani», preda della «confusione mentale» perché insensibili ai messaggi d'amore, si contrappone il «sapiente nel cuore». Una ricerca ed un'attesa paziente che verranno al fine premiate dal momento che la Torah stessa, come una bella ragazza innamorata, brucia a sua volta di amore, attratta irresistibilmente verso di lui. Così, se all'inizio gli invia soltanto dei piccolissimi segni del suo desiderio di lui, quando sente crescere in se stessa l'amore, ricevendo la conferma di essere corrisposta dalla fedeltà con cui egli assedia continuamente il palazzo, non si limita più a fugacissimi accenni, ma «apre una piccola porticina» nel suo nascondiglio segreto e rivela, sia pure per un attimo «il suo stesso volto all'amante» con un gesto talmente provocatorio che sia «il cuore» che «l'anima e tutto ciò che è in lui, sono attratti da lei». «Così la Torah - commenta il testo - rivela il suo innamoramento agli amanti di lei» e con questo semplice gesto di rivelazione dell'amore provoca, nel «sapiente nel cuore» che frequenta giorno e notte la sua casa, il risveglio di un amore continuamente nuovo che sarà a sua volta motivo e spinta di un progressivo cammino nell'intimità della sposa. «Questa è la strada della Torah».

Può succedere però che quel «sapiente nel cuore» sia talmente semplice e ingenuo da non riuscire a capire il significato nascosto dei segnali fugaci e apparentemente insignificanti che l'innamorata gli lancia discretamente nascosta nel suo palazzo segreto. Non per questo essa si darà certo per vinta, ma «considerandolo un semplice - osserva acutamente il testo dello Zohar - gli invia dei messaggeri fidati (...) e comanda loro: "Dite a quell'ingenuo di venire da me, perché gli voglio parlare"... La Torah si fa allora maestra discreta di iniziazione alla sapienza e «comincia a parlargli con parole adeguate alla sua capacità di comprensione in modo che egli possa progredire pian piano». La sposa si rivela dunque pian piano facendo percorrere uno dopo l'altro i gradini che porteranno il «sapiente nel cuore» dal significato nascosto nella «lettera», al significato nascosto negli «enigmi» e nelle «parabole» per condurlo, una volta che gli divenuto intimo e familiare, all'incontro «faccia a faccia» con lei. Soltanto in questa ultima fase parla finalmente con lui «di tutti i misteri nascosti, di tutte le sue strade segrete che aveva custodito gelosamente nel cuore» fino dal principio. È questo infatti il momento in cui l'ingenuo, il «semplice»,  il «sapiente nel cuore» è divenuto il «maestro di casa», quell' "iniziato perfetto" al quale la Torah ha deciso di «rivelare tutti i suoi misteri non negandogli nulla ne nascondendogli nulla».

ORIGENE e GREGORIO DI NISSA conoscono la stessa gradualità nell'iniziazione del sapiente ai segreti della Scrittura Santa, ed è interessante notare che sia l'uno che l'altro ne parlano all'interno del loro Commento al Cantico dei Cantici. Dopo aver ricordato la gradualità dell'iniziazione alla sapienza voluta da Salomone per il semplice fatto di aver pubblicato con ordine prima il libro dei Proverbi, poi quello dell'Ecclesiaste e infine il Cantico dei Cantici, e dopo averli connessi ciascuno con altrettante fasi del progresso nell'impegno ascetico, Origene si esprime in questi termini:
Pertanto, se qualcuno avrà realizzato il primo punto, che è indicato nei Proverbi, correggendo i costumi e osservando i precetti, e dopo, disprezzata anche la vanità del mondo e osservata la fragilità delle cose caduche (Ecclesiaste), arriva al punto da rinunziare al mondo e a tutto ciò che è nel mondo, costui arriverà anche a contemplare e desiderare le realtà che non si vedono e che sono eterne (Cantico dei Cantici). Ma per arrivare ad esse, abbiamo bisogno della misericordia divina: vedremo allora se riusciamo, contemplata la bellezza del Verbo di Dio, ad infiammarci per lui di amore apportatore di salvezza, si che anche egli si degni di amare tale anima, che avrà visto posseduta dal desiderio di sé (5) .
Trattenendosi poi a parlare del titolo Cantico dei Cantici, Origene aggiunge, sempre in linea ci sembra, con la tradizione giudaica:
Ritengo che cantici siano quelli che prima venivano cantati dai profeti e dagli angeli: infatti si dice che la legge è stata amministrata per mezzo di angeli nelle mani del mediatore (cfr. Gal 3,19). Pertanto tutto ciò che è stato annunziato da costoro erano cantici cantati in precedenza dagli amici dello sposo: invece questo è il solo cantico che doveva essere cantato, quale carme nuziale, proprio dallo sposo che ormai stava per ricevere la sposa; ed essa non vuoI che le sia cantato dagli amici dello sposo, ma ormai desidera ascoltare proprio le parole dello sposo presente, dicendo: «Mi baci con i baci della sua bocca». Per tale motivo ben a ragione esso è preposto a tutti i cantici. Infatti tutti gli altri cantici, che la legge e i profeti cantarono, sembrano essere stati cantati alla sposa troppo giovane e non entrata ancora nell'età matura: invece questo cantico è stato cantato a lei ormai adulta e valida, adatta ad accogliere la capacità generatrice dell'uomo e il mistero perfetto. In questo senso, di lei si dice che una sola è la colomba perfetta: cosi quale sposa perfetta di marito perfetto accoglie parole di dottrina perfetta (6).
Al di là dello scambio "ragazza-Torah" = sposo (Verbo)/"sapiente nel cuore" = sposa-noi, il movimento intrinseco alla riflessione di Origene sembra sostanzialmente identico a quello che abbiamo potuto notare presente nel libro dello Zohar .

GREGORIO DI NISSA è testimone anch'egli di questa vicinanza fra la riflessione dei padri e la tradizione giudaica espressa nel testo dello Zohar, quando scrive:
La didaskalia dei Proverbi parla all'età infantile con argomenti adatti a quell'età (...), il logos offre in seguito la "filosofia" dell'Ecclesiaste a colui che è stato introdotto a sufficienza nel desiderio delle virtù (...) e infine, dopo aver purificato il cuore dal legame con le cose apparenti, introduce (mystagoghei) la intelligenza nei penetrali divini del Cantico dei Cantici (7).
Un brano di Origene, che espone la terza interpretazione - quella cosiddetta mistica di Ct 1,2 ( «Mi baci con i baci della sua bocca,.) - è talmente vicino, sia nell'ispirazione generale che nel contenuto, al testo che abbiamo letto nello Zohar, da far nascere il dubbio di un influsso reciproco odi una interdipendenza cosciente fra le due tradizioni ebraica e cristiana a proposito dell'interpretazione della Torah in generale e del Cantico dei Cantici in particolare. Scrive in questo brano Origene:
Come terza interpretazione, introduciamo l'anima che desidera soltanto congiungersi ed unirsi col verbo ed entrare nei misteri della sua sapienza e della sua scienza come nel talamo dello sposo celeste. Anche quest'anima ha i doni che da lui le sono stati dati a titolo di dote .
(...) Avendo tali doni per dote, la sua prima istruzione è venuta dai precettori e dai maestri. Ma poi che con questi non è pieno e perfetto l'appagamento del suo amore e del suo desiderio, essa prega che la sua mente pura e verginale sia illuminata dalla presenza e dalla luce dello stesso Verbo di Dio. Allorché infatti nessun servizio di uomo o angelo riempie la sua mente di sentimenti e pensieri divini, allora essa crede di aver ricevuto proprio i baci del Verbo di Dio.
 (...) Infatti finché l'anima fu incapace di accogliere la pura e solida dottrina comunicata proprio dal Verbo di Dio, necessariamente essa accolse baci, cioè concetti, dalla bocca dei maestri. Ma quando da sé ha cominciato a scorgere ciò ch'era oscuro, a snodare ciò che era intricato, a risolvere ciò che era involuto, a spiegare con convincente interpretazione le parabole, gli enigmi e le sentenze dei sapienti, allora ormai sia convinta di aver ricevuto i baci proprio del suo sposo, cioè del verbo di Dio. E si parla al plurale di baci proprio perché noi comprendiamo che la illuminazione di ogni concetto oscuro è un bacio che il Verbo di Dio dà all'anima perfetta.
(...) Invece per bocca dello sposo intendiamo la facoltà con la quale egli illumina la mente e quasi avendole rivolto parole di amore, se essa merita di accogliere la presenza di facoltà così grande, le rivela ogni cosa sconosciuta e oscura: questo è il più vero proprio e santo bacio che lo sposo, il Verbo di Dio, rivolge alla sposa, l'anima pura e perfetta (...). Perciò ogni volta che nel nostro cuore scopriamo, senza bisogno di maestro, qualcosa che ricerchiamo, sulle dottrine e gli argomenti divini, altrettanti baci crediamo che ci siano stati dati dallo sposo, il Verbo di Dio (...). Infatti il Padre conosce la capacità di ogni anima e sa a quale anima quali baci del Verbo a suo tempo egli debba porgere (8).

Origene e le conoscenze rabbiniche del suo tempo

Abbiamo affacciato l'ipotesi o il dubbio di un influsso reciproco o di interdipendenza cosciente. Certo, se ci ricordiamo che il libro dello Zohar è del XIII secolo e il brano di Origene lo precede addirittura di un millennio, dovremmo piuttosto parlare simpliciter di derivazione della pagina dello Zohar dal brano di Origene o comunque dall'insieme dell'humus culturale e spirituale che ha preceduto eseguito la grande riflessione origeniana. Sappiamo però anche che, a proposito dei testi della tradizione ebraica, conviene essere sempre estremamente prudenti quando si tratta non tanto di stabilire una data precisa della redazione finale, quanto di indicare con la meno approssimazione possibile le fonti originarie di una determinata corrente di pensiero o di orientamento esegetico e spirituale(9) .

Per quanto riguarda più precisamente il rapporto fra Origene e il mondo ebraico a lui contemporaneo, non è del resto fuori posto, mi sembra, ricordare anche ciò che il grande esegeta alessandrino scriveva nella sua famosa lettera ad Africanus:
Noi ci sforziamo di non ignorare le (scritture) che sono presso di loro (o custodite da loro: tas parà èkeinois) in modo che, quando dialoghiamo con loro, non succeda che gli presentiamo dei testi assenti nei loro manoscritti, ma anche perché possiamo utilizzare i loro testi qualora questi fossero assenti nei nostri esemplari. Mantenendo questo comportamento nelle discussioni che abbiamo con loro, evitiamo che essi ci disprezzino o, come succede abitualmente, ridano dei credenti di origine pagana sostenendo che ignoriamo la lezione autentica contenuta nei loro manoscritti (10).

Queste affermazioni contenute nella lettera ad Africanus riguarda ovviamente il testo, diciamo così, "canonico" delle Scritture ebraiche che Origene si sforzava di avere sempre davanti. Esse però sono anche una precisa testimonianza della presenza di un contatto che difficilmente si sarebbe potuto fermare al semplice confronto con il testo acritico", senza coinvolgimento con l'interpretazione che al medesimo testo era collegata. Sempre N.R.M. de Lange ricorda per esempio che Origene viveva in Palestina immediatamente dopo la pubblicazione della Mishnah e che, oltre a nutrire un grande interesse per gli usi e le tradizioni ebraiche, conosceva personalmente i maestri ebrei del suo tempo(11) .

Si potrebbe aggiungere che proprio Cesarea - la città di elezione dell'esegeta alessandrino dopo il suo esilio definitivo da Alessandria (anno 232) - era al tempo di Origene una città da cui, a causa del suo porto che ne faceva il punto di contatto principale della Palestina con l'estero, passavano necessariamente moltissimi maestri in arrivo o in partenza per via mare. Inoltre, proprio a Cesarea sarebbe fiorita, alla fine del III secolo e lungo tutto il IV, «a brillant and originaI school of rabbis» (de Lange), i cui inizi si potrebbero far risalire indietro almeno fino agli anni della permanenza di Origene in città, cioè fino circa agli anni 252-53(12).

Di fatto Origene stesso non solo ricorda di tanto in tanto nelle sue opere di aver consultato dei maestri ebrei, ma spesso fa riferimenti espliciti a tradizioni ebraiche che non avrebbe potuto conoscere se non per qualche contatto diretto con la comunità ebraica stessa(13). G. Bardy ha raccolto circa una settantina di testi origeniani in cui sembra che l'esegeta alessandrino abbia attinto alla tradizione giudaica:
Egli (Origene) approva qualche volta le interpretazioni degli ebrei, ma più spesso le condanna, soprattutto le condanna perché a suo parere esse non si elevano mai al di là del senso letterale: allora parla delle inutili favole giudaiche (Jn Leviticum Hom. III,3; PG XII,427C); commisera quei poveretti di Ebrei che non conoscono l'esistenza di un giudeo visibile e un giudeo invisibile (Jn Leviticum, Hom V,l; PG XII,447B); che si figurano un bio antropomorfico cioè con membra umane (Jn Genesim, Hom. III,1; PG XII, 175AB) (...). Origene è cosciente comunque di trovarsi di fronte ad una tradizione esegetica importantissima (...). «Altri prima di noi - scrive per esempio in un'Omelia - hanno già spiegato queste cose; e poiché noi non disprezziamo le loro spiegazioni, li citiamo volentieri, non come se fossero una nostra scoperta personale, ma proprio come farebbero dei discepoli che avessero ricevuto un buon insegnamento» (In Jeremiam, Hom XI, 3; PG XIII,369C, ed. Klostermann, p. 80) (14).
Origene non precisa quasi mai o, solo qualche volta in modo generico, chi fossero questi altri, ma non c'è dubbio che molto spesso si tratti semplicemente di maestri ebrei. In realtà - osserva il de Lange - "ad accezione di Girolamo nessun altro padre della Chiesa conobbe così bene gli Ebrei come Origene (...). Molto di ciò che dice Origene non può essere capito senza una conoscenza adeguata dei Rabbi e alcune tesi di studiosi moderni si ridurrebbero a nulla se potessero essere confrontate con l'evidenza di alcuni scritti rabbinici. Questi scritti sono stati tramandati in ebraico e in aramaico e, siccome non sono tutti disponibili in traduzione, e neppure in edizione moderna, essi sono stati completamente ignorati. Un esempio molto chiaro lo possiamo avere dall'interpretazione origeniana dei nomi ebraici presenti nella Bibbia. Origene sostiene di aver appreso molte di queste interpretazioni dagli Ebrei, e i rabbi costituiscono spesso il punto di appoggio per alcune annotazioni omiletiche sull'interpretazione dei nomi, alcune delle quali molto fantasiose. I tentativi di dimostrare - come nel caso di Filone alessandrino - che Origene non conosceva l'ebraico si sono basati sul fatto che egli non sembrava essere in grado di tradurre in modo corretto quei nomi; stranamente alla stessa conclusione si dovrebbe arrivare a proposito dei Rabbi i quali pure avrebbero conosciuto molto male l'ebraico, il che è certamente un assurdo»(15).

«In realtà - continua il de Lange - l'attitudine di Origene nei confronti del giudaismo fu in qualche modo un'attitudine strana perché, mentre appoggiava l'opinione patristica comune sul giudaismo, che era sostanzialmente sfavorevole, riconobbe nello stesso tempo l'importanza della tradizione ebraica per la ricerca cristiana e in modo particolare riconobbe l'importanza del lavoro degli studiosi ebrei riguardo alla interpretazione della Scrittura. Si preoccupò di scoprire tutto quello che poté dell'esegesi biblica giudaica incorporando nel suo lavoro numerose tradizioni giudaiche sull'interpretazione da dare a singoli passaggi della Bibbia, ma tenne presenti anche alcune leggende ebraiche extrabibliche (aggadoth) per alcune delle quali è rimasto il nostro testimone unico. Il debito di Origene alla ricerca biblica ebraica, è forse l'aspetto più importante del suo contatto col mondo giudaico, e tuttavia esso non è divenuto ancora oggetto di studi approfonditi da parte dei ricercatori»(16) .

Ovviamente lo studio del de Lange è già un tentativo di colmare per quanto possibile la lacuna denunciata. Frutto di questo sforzo è il capitolo 9 che egli dedica a "The interpretation of Scripture". Si tratta di una ventina di pagine molto preziose per la nostra ricerca e di estremo interesse, perché ci permettono di conoscere in modo più approfondito le radici ebraiche del metodo interpretativo origeniano e dei padri cristiani in generale. Il de Lange esordisce attirando l'attenzione su di un dato di fatto: giudei e cristiani hanno proseguito a utilizzare, anche dopo la rottura, le stesse Scritture ebraiche. Dal punto di vista dell'esegesi, questo ha comportato che «sia nelle discussioni polemiche, sia anche nell'esposizione quotidiana della Bibbia, l'interpretazione venisse fatta nei due ambienti (ebraico e cristiano) con l'orecchio attento a ciò che si diceva nel campo avversario. Nello stesso tempo, dato che i testi antichi non erano affatto facili da capire e da esporre, gli esegeti più rinomati dei due campi estendevano molto le rispettive reti di ricerca nell'intento di trovare anche altrove, cioè in altre interpretazioni, un materiale esegetico accettabile (...). Non ci si può certo aspettare che ne i Padri della Chiesa ne i Rabbi riconoscessero apertamente di essere debitori della rispettiva scuola avversaria. Tuttavia c'era certamente un flusso continuo di idee fra le due parti(17).

«Non bisogna meravigliarsi - scrive a questo proposito il Bardy - se il più delle volte le tradizioni (interpretative) raccolte da Origene sono anonime; e anche se in gran numero di casi è quasi impossibile stabilire se quelle interpretazioni provengano da esegeti ebrei o da commentatori cristiani. Ma di chi si potrebbe trattare quando Origene scrive per esempio: "sed ad haec nos quae a prudentibus viris et hebraicarum traditionum non ignaris, atque a veteribus magistris didicimus, ad auditorum notitiam deferemus" (In Genesim, Hom II,2; PG XII,166 ed. Baerhens t. I, p. 29»18. È interessante constatare che anche Filone si rifà ai paleòn andrón e alla patrion philosophiam per giustificare il suo allegorismo nell'esposizione delle Scritture(19) .


Verso un duplice livello del testo, comune ad ebrei e cristiani

Seguendo in parte le osservazioni del de Lange, cerchiamo di puntualizzare.

1. A dispetto dei luoghi comuni polemici nei confronti del "letteralismo" giudaico, l'esegeta cristiano apprezzava sinceramente la ricchezza e la varietà dell'esegesi ebraica. Il senso "letterale" era dunque - nonostante tutto - tutt'altro che disprezzato. Ma di quale senso "letterale" si trattava? Il de Lange sintetizza così questo problema: «Oggi il modo abituale con cui si compie una esegesi seria della Bibbia si riassume nella domanda: "che cosa intendeva dire il testo quando fu scritto dall'autore o redatto nella prima stesura". È poco probabile che degli studiosi moderni seri rispondano a qualcosa di diverso da questo.

Tutti gli antichi studiosi della Bibbia, sia ebrei che cristiani, consideravano invece la Bibbia come un deposito in cui era presente ogni idea creduta e annunziata dalla Chiesa o dall'Assemblea di Israele. L'esegeta non si sentiva dunque legato da nessuna considerazione riguardante sia l'intentio auctoris sia i dati relativi alla formazione delle diverse parti della Bibbia; egli non liberava inoltre mai se stesso né dal legame con l'antica tradizione comune che sosteneva l'unità essenziale delle Scritture, né dalla fede nel valore permanente delle affermazioni bibliche»(20) .

2. L'esegeta cristiano concordava anche in questo con l'esegeta ebraico: rifiuto di riconoscere come valide le distinzioni cronologiche all'interno della Bibbia. La Bibbia era vista non soltanto come un'unità inscindibile, ma anche come un libro in un certo senso "a-temporale". Perciò, quando si doveva affrontare un problema di difficile soluzione in cui il "dato biblico" sembrava irrazionale o immorale, non si ricorreva ovviamente alla critica storica, ma si preferiva risolvere il problema con mezzi di altro tipo. I Rabbi, e dunque anche i Padri, non conoscevano il concetto dell'esposizione "letterale" della Bibbia nel senso moderno dell'espressione con cui si intende un'attenzione al background storico del testo e all'intentio auctoris. Essi consideravano la Torah come un dono divino che aveva una propria coerenza interna e consideravano i profeti e gli altri scritti come essenzialmente tutt'uno con la Torah.

3. L'intera Bibbia era per definizione in accordo con l'intera somma delle tradizioni e della fede in Israele. Qualsiasi incoerenza eventualmente presente doveva essere dunque solo apparente e poteva essere spiegata sempre all'interno del testo (preso nella sua globalità). Nessun passaggio biblico avrebbe mai potuto contraddire un punto di fede accettato dai Rabbi e l'intera halakah avrebbe potuto sempre essere rintracciata nella Bibbia.

Le scuole si differenziavano soltanto nel modo con cui esse andavano alla ricerca delle tracce dell'halakah presente nella Bibbia. Si sa, per esempio, che Rabbi Aqiba riteneva che «ogni lettera della Torah, ogni particella, ogni vocabolo strano e ogni peculiare costruzione grammaticale possiedono un significato più profondo, un mistero che Dio non rivela se non a coloro che sottomettono il testo ad un'analisi più attenta in obbedienza a norme ben precise di tecnica esegetica. Rabbi Ishmael invece preferiva attenersi al principio che «la Torah parla con linguaggio umano e perciò si limitava alla ricerca del significato del testo preso nel suo insieme piuttosto che perdersi a cercare i significati di ogni singola lettera.

4. Queste convinzioni portarono ben presto i Rabbi, e insieme con loro i Padri della Chiesa, a ritenere che si dovesse ammettere nella Bibbia la presenza di un doppio livello di significati: il livello del significato semplice, peshat, e il livello del significato ulteriore identificato in genere col campo riservato al midrash (21). Oggi noi possiamo anche parlare a questo proposito di sensus litteralis e di sensus spiritualis, purché ci ricordiamo che le nostre accezioni moderne degli aggettivi "letterale" e "spirituale" non corrispondono esattamente a ciò che intendevano i Padri. Spesso anzi proprio ciò che noi chiameremmo oggi "senso letterale" del testo non è altro che il "senso spirituale" dei Padri. Ma più importante ancora, mi sembra, è la convinzione di fondo, comune sia ai Rabbi che ai Padri cristiani, che la Bibbia sia sostanzialmente uno scrigno pieno di misteri la cui conoscenza è possibile solo a chi ne possiede le chiavi.

Origene registra a questo proposito una significativa tradizione ebraica:
Mentre iniziamo l'interpretazione dei Salmi, premettiamo (il racconto di) una graziosa tradizione (leggenda) trasmessami dall'Ebreo sull'intera sacra Scrittura (presa) nel suo insieme.
Diceva infatti quel tale che tutta la Scrittura ispirata si rassomiglia, a causa dell'oscurità che è in essa, a molte stanze chiuse di una medesima casa; per ognuna di queste stanze è a disposizione una chiave, ma non quella giusta; e così le chiavi sono sparse per (tutte) le stanze ma non sono corrispondenti (alle rispettive stanze) per le quali sono disponibili; (occorre) dunque una grande fatica per trovare le chiavi corrispondenti alle singole stanze e poterle aprire. Capire le scritture quando sono oscure non è possibile se non prendendo i punti di partenza della comprensione (cioè le chiavi) l'uno dopo l'altro, dal momento che il principio interpretativo (to exéghétikon) è disseminato in loro. Sono convinto del resto che anche l'apostolo suggeriva un simile approccio per la comprensione delle parole ispirate quando diceva: «queste cose le diciamo non con discorsi appresi dalla sapienza umana, ma per l'insegnamento ricevuto dallo Spirito, confrontando le cose spirituali con le spirituali» (22).

Il passaggio da questa convinzione al tentativo di sistematizzare in qualche modo la ricerca del tesoro nascosto nella stanze delle Scritture ispirate, è divenuto ben presto una necessità. Lo Zohar è, ancora una volta, il testimone tardivo di una tradizione antichissima quando scrive:
Le parole della Torah sono simili ad una mandorla. Cosa significa questo? Come una mandorla ha un guscio esterno e un cuore interno, cosi ogni parola della Torah contiene un fatto (ma asch), un midrash, un haggadah e un mistero (sod), ciascuno dei quali ha un significato più profondo di quello precedente (23).

Il pendant patristico di questa convinzione sarà sintetizzato nel famoso distico della tradizione medievale cristiana (dovuto ad AGOSTINO DI DACIA, morto nel 1282):
Littera gesta docet quid credas allegoria
moralis quid agas quo tendas anagogia (24).
 
 
(*) Monaco camaldolese. Docente al Pontificio Istituto Orientale e al Pontificio Istituto Biblico Roma.


NOTE
1. H. G. GADAMER, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983. P. RICOEUR, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia 1977.
2. G. VATTIMO, Introduzione a H. G. GADAMER, op. cit., p. V.
3. Ibidem.
4. Zohar, vol.III Ed. Soncino (Cr), pp. 301-302.
5. ORIGENE, Commento al Cantico dei Cantici, tr., introd. e note di M. SIMONETTI, Città Nuova, Roma 1976, p. 59.
6. Id., o. c., pp. 59.
7. GREGORIO DI NISSA, VI, Omelia I, pp. 17-22.
8. ORIGENE, a., pp. 75-77.
9. Cfr. LE DEAUT R., Introduction à la litterature targumique I, Roma 1966, manoscritto; SCHOLEM G., On the Kabbalah and Its Simbolism, New York 1965.
10. ORIGENE, La lettre à Africanus sur l'Histoire de Suzanne, introd., texte, trad. et notes par NICHOLAS DE LANGE, SC 302, Paris 1983, p. 534.
11. N.R.M. DE LANGE, Origen and the Jews. Studies in Jewish-Christian Relations in Third Century Palestine, Cambridge 1976, p. 1.
12. Cfr. DE LANGE, o. c., pp. 1-2.
13. Cfr. ibidem, p. 2; cfr. anche G. BARDY, Les traditions juives dans l'oeuvre d'Origene, in Revue Biblique 34 (1925), 217-252.
14. G. BARDY, o. c., pp. 217-18.
15. Ibidem. p. 7.
16. N. DELANGE, o.c., p.13.
17. Ibidem, p. 103.
18. G. BARDY, o. c., p. 218.
19. Cfr. FILONE, De Vita contemplativa, n. 28. ed. Dumas-Miquel. p.96s
20. N. DE LANGE, o. c., pp. 105-107.
21. Cfr. l'Introduzione al Talmud di Gerusalemme nella traduzione francese: MOISE SCHWAB (par), Le Talmud de Jerusalem, traduit pour la première fois en français, Paris 1977 (rist. anastatica), vol I, pp. XIII-XLIX.
22. ORIGENE, Philocalie, sc 302, p. 244.
23. Cit. in G. SCHOLEM, o. c., p. 54.
24. Cfr. P. C. BORI, L'interpretazione infinita. L'ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Il Mulino, Bologna 1987, p. 54.
 


NOTA BIBLIOGRAFICA

All'interno del crescente interesse per la letteratura cristiana antica si è moltiplicato, soprattutto in questi ultimi anni, l'interesse per l'esegesi biblica compiuta dai Padri della Chiesa. HERMANN JOSEF SIEBEN In Exegesis Patrum. Saggio bibliografico sull'esegesi biblica dei Padri della Chiesa, Sussidi Patristici 2, Istituto Patristico Augustinianum, Roma 1983, ha raccolto duemila titoli di libri e articoli relativi all'esegesi di versetti o brani dei libri della Bibbia ordinati secondo i singoli libri dell' Antico e del Nuovo Testamento. Si tratta di uno strumento di lavoro preziosissimo soprattutto per gli esegeti che intendano dare uno sguardo non superficiale alla storia dell'esegesi dei Padri.
In questo campo la raccolta più completa, che però è soltanto in via di compilazione, è quella di Biblia Patristica che attualmente copre i primi due secoli, fino a Origene compreso; con l'aggiunta di un Supplementum relativo alle opere di Filone Alessandrino. La Clavis Patrum apostolicorum possiede le medesime caratteristiche e quindi è da ricordare anch'essa fra gli strumenti utili per un esegeta biblico che voglia porre un'attenzione particolare alla storia dell'esegesi cristiana.
Il Prof. PIER CESARE BORI dell'Università di Bologna è coordinatore in Italia di un gruppo di circa trenta studiosi di sei Università italiane che ha avviato nel 1981-82 un progetto di ricerca relativa agli Studi sulla storia dell'esegesi giudaica e cristiana antica. Una storia dell'esegesi intesa come vicenda complessa che inizia con la formazione stessa del testo biblico, continua nel giudaismo e nel cristianesimo nascente e procede poi nell'epoca dei primi secoli cristiani.
PIER CESARE BORI MAURO PESCE, Presentazione, in Annali di storia dell'esegesi 1 (1984). Atti del I Seminario di ricerca su "Storia dell'esegesi giudaica e cristiana antica", Ed. Dehoniane, Bologna 1984, p. 5.

    Frutto del lavoro di questi studiosi sono gli Annali di storia dell'esegesi, (...) (1991). Nonostante il titolo, gli Annali di cui sopra non sono stati però intesi come documentazione esaustiva di tutto ciò che si pubblica sull'esegesi biblica di ebrei e cristiani nell'antichità, ma piuttosto come forum in cui vengono posti a disposizione di tutti i risultati che, anno dopo anno, vengono conseguiti in Italia da vari studiosi del settore, risultati proposti e discussi precedentemente in un seminario nazionale convocato appositamente. L'utile indice delle citazioni bibliche che chiude ogni volume permette una consultazione rapida da parte degli esegeti biblici interessati.

    Accanto a questi strumenti che permettono una documentazione veloce sulla contestualizzazione storica e filologica dell'esegesi dell'uno o l'altro Padre della Chiesa, occorre richiamare anche opere di più ampio respiro sia sul metodo esegetico dei Padri in generale, sia sulle caratteristiche dell'esegesi biblica propria a ciascuno di loro e ai più grandi in particolare.
Sull'esegesi dei Padri in generale il titolo più importante da ricordare è ancora l'opera di HENRY DE LUBAC, Exégèse medievale. Les quatre sens de l'Ecriture, I-IV, ed. Aubier-Montaigne, Paris 1959.
Si può aggiungere La Bible et les Pères par ANDRE BENOIT et PIERRE PRIGENT, Colloque de Strasbourg (1-3 octobre 1969), PUF, Paris 1971; Le monde grec ancien et la Bible sous la direction de CLAUDE MONDÉSERT, Bible de tous les temps, ed. Beauchesne, Paris 1984; Le moyen age et la Bible sous la direction de PIERRE RICHE - GUY LOBRICHON, Bible de tous les temps, ed. Reauchesne, Paris 1984; BERTRAND DE MARGERIE, Introduction a l'histoire de l'exégèse. I Les Pères grecs et orientaux. preface de IGNACE DE LA POTTERIE, Du Cerf, Paris 1980. In lingua italiana va segnalato infine MANLIO SIMONETTI, Profilo storico dell'esegesi patristica, Sussidi Patristici 1, Istituto Patristico Augustinianum, Roma 1981; ma soprattutto : IDEM, Lettera e / o Allegoria.
Un contributo alla storia dell'esegesi patristica, Studia Ephemeridis Augustinianum 23, Roma 1985.
Per ciò che riguarda il metodo esegetico dei singoli Padri è necessario scorrere le ampie bibliografie di cui sono corredate le opere appena segnalate.
Ormai sono tantissimi i Padri la cui esegesi biblica è stata studiata in monografie più o meno ampie. Ricordo perciò soltanto tre titoli, perché riguardano autori considerati fra i massimi esponenti dell'esegesi di tutti i tempi e perché il loro influsso è stato fra i più determinanti della storia del pensiero cristiano: HENRY DE LUBAC, Histoire et Esprit. L'intelligence de l'Ecriture d'après Origène, Aubier-Montaigne, Paris 1950 (traduzione italiana, EP, Roma 1971); ANGELO PENNA, Principi e caratteri dell'esegesi di S. Girolamo, Roma 1950; CLAUDIO RASEVI, San Agustin. La interpretacion del Nuevo Testamento. Criterios exegeticos propuestos por S. Agustin en el «Ve Doctrina Christiana», en el «Contra Faustum» y en el «De Consensu Evangelistarum», Ediciones Universidad de Navarra, S. A., Pamplona 1977.
 A questi titoli aggiungo per la conoscenza della cosiddetta Scuola antiochena: CH. SCHAUBLIN, Untersuchungen zu Methode und Herkunft der antiochenischen Exegese, Koln-Ronn 1974 e ROBERT DEVRESSE, Essai sur Théodore de Mopsueste , Studi e Testi, Città del Vaticano, 1948.          
Sabato, 04 Novembre 2006 20:17

La vita e la morte (Romano Guardini)

La nostra vita – che strana cosa! È il presupposto d’ogni altra realtà: la prima che, se in pericolo, desta quella incondizionata reazione che chiamiamo “legittima difesa” e che ha il suo proprio diritto.

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