Commissione Teologica Internazionale
Cristianesimo e religioni
a cura di A. Dall'Osto
Il documento della commissione teologica, qui ripreso nelle grandi linee, entra subito nel vivo della questione chiedendosi: le religioni sono mediazioni di salvezza per i loro seguaci?
A questa domanda c'è chi dà una risposta negativa, anzi alcuni dicono che tale impostazione non ha senso; altri danno una risposta affermativa, che a sua volta apre la via ad altre domande: sono mediazioni salvifiche autonome, o si realizza in esse la salvezza di Gesù Cristo?
Si è tentato di classificare in vari modi le diverse posizioni teologiche di fronte a questo problema. La commissione ha adottato la seguente classificazione:
- L'ecclesiocentrismo esclusivista: è frutto di un determinato sistema teologico, o di un'errata comprensione della frase extra Ecclesiam nulla salus, ma non è più difeso dai teologi cattolici, dopo le chiare affermazioni di Pio XII e del concilio Vaticano II sulla possibilità di salvezza per quelli che non appartengono visibilmente alla chiesa (cf., per esempio, LG 16; GS 22.
- Il cristocentrismo: accetta che nelle religioni possa esserci la salvezza, ma nega loro un'autonomia salvifica, a motivo dell'unicità e dell'universalità della salvezza di Gesù Cristo. Questa posizione è senza dubbio la più comune tra i teologi cattolici, pur essendoci differenze tra loro. Essa cerca di conciliare la volontà salvifica universale di Dio con il fatto che ogni uomo si realizza come tale all'interno di una tradizione culturale, che ha nella propria religione la più alta espressione e l'ultimo fondamento.
- Il teocentrismo: vuole essere un superamento del cristocentrismo, un cambiamento di prospettiva, una rivoluzione copernicana. Questa posizione deriva, tra gli altri motivi, da una certa cattiva coscienza dovuta all'intreccio dell'azione missionaria del passato con la politica coloniale, talvolta anche dimenticando l'eroismo che accompagnò l'azione evangelizzatrice. Esso vuole riconoscere le ricchezze delle religioni e la testimonianza morale dei loro seguaci e, in ultima istanza, intende facilitare l'unione di tutte le religioni in vista di un'azione comune per la pace e la giustizia nel mondo. Possiamo distinguere un teocentrismo nel quale Gesù Cristo, senza essere costitutivo, è considerato normativo della salvezza e un altro nel quale non si riconosce a Gesù Cristo neppure questo valore normativo. Nel primo caso, senza negare che anche altri possano mediare la salvezza, si riconosce in Gesù Cristo il mediatore che meglio la esprime; l'amore di Dio si rivela più chiaramente nella sua persona e nella sua opera, ed è così il paradigma per gli altri mediatori. Tuttavia senza di lui non si rimarrebbe senza salvezza, ma soltanto senza la sua manifestazione più perfetta. Nel secondo caso, Gesù Cristo non è considerato nè come costitutivo né come normativo per la salvezza dell'uomo. Dio è trascendente e incomprensibile, quindi non possiamo giudicare i suoi disegni con le nostre categorie umane; come, del resto, non possiamo valutare o mettere a confronto i diversi sistemi religiosi.
- Il soteriocentrismo radicalizza ancor più la posizione teocentrica, essendo meno interessato alla questione su Gesù Cristo (ortodossia) e più all'impegno effettivo di ogni religione nei confronti dell'umanità che soffre (ortoprassi). In tale prospettiva, il valore delle religioni sta nel promuovere il Regno, la salvezza, il benessere dell'umanità: questa posizione può così essere caratterizzata come pragmatica e immanentistica.
La questione della verità
Alla base di tutta questa discussione è il problema della verità delle religioni; ma oggi si nota una tendenza a relegarlo in secondo piano, separandolo dalla riflessione sul valore salvifico. La questione della verità comporta seri problemi di ordine teorico e pratico, tanto che in passato ebbe conseguenze negative nell'incontro tra le religioni. Di qui la tendenza a sminuire o a relativizzare tale problema, affermando che i criteri di verità valgono soltanto per la propria religione.
Alcuni introducono una nozione più esistenziale di verità, considerando soltanto la condotta morale corretta della persona, senza dare importanza al fatto che le sue convinzioni religiose possano essere condannate. Si crea così una certa confusione tra «essere nella salvezza» ed «essere nella verità»: bisognerebbe piuttosto collocarsi nella prospettiva cristiana della salvezza come verità e dell'essere nella verità come salvezza. Tralasciare il discorso sulla verità conduce a mettere superficialmente sullo stesso piano tutte le religioni, svuotandole in fondo del loro potenziale salvifico. Affermare che tutte sono vere equivale a dichiarare che tutte sono false: sacrificare la questione della verità è incompatibile con la visione cristiana.
La questione di Dio
C'è una posizione cosiddetta pluralista che pone sullo stesso piano tutte le religioni. In pratica vuole eliminare dal cristianesimo qualunque pretesa di esclusività o di superiorità rispetto alle altre religioni. Perciò afferma che la realtà ultima delle diverse religioni è identica e, insieme, relativizza la concezione cristiana di Dio in quello che ha di dogmatico e di vincolante. Così distingue Dio in se stesso, inaccessibile all'uomo, e Dio manifestato nell'esperienza umana. Le immagini di Dio sono costituite dall'esperienza della trascendenza e dal rispettivo contesto socioculturale: non sono Dio, però tendono correttamente verso di lui; questo può dirsi anche delle rappresentazioni non personali della divinità: di conseguenza nessuna di esse può considerarsi esclusiva.
Ne segue che tutte le religioni sono relative, non in quanto tendono verso l'Assoluto, ma nelle loro espressioni e nei loro silenzi. Posto che c'è un unico Dio e uno stesso piano di salvezza per tutti gli uomini, le espressioni religiose sono ordinate le une alle altre e sono complementari tra loro. Poiché il Mistero è universalmente attivo e presente, nessuna delle sue manifestazioni può pretendere di essere l'ultima e la definitiva. In tal modo la questione di Dio si trova in intima connessione con quella della rivelazione.
Il dibattito cristologico
Dietro alla problematica teologica è stata sempre presente la questione cristologica.
La maggiore difficoltà del cristianesimo si è sempre focalizzata nell'«incarnazione di Dio», che conferisce alla persona e all'azione di Gesù Cristo le caratteristiche di unicità e di universalità in ordine alla salvezza dell'umanità. Ma come può un avvenimento particolare e storico avere una pretesa universale? Come si può avviare un dialogo interreligioso, rispettando tutte le religioni e senza considerarle in partenza come imperfette e inferiori, se riconosciamo in Gesù Cristo, e soltanto in lui, il Salvatore unico e universale dell'umanità? Non si potrebbe concepire la persona e l'azione salvifica di Dio a partire da altri mediatori oltre a Gesù Cristo?
Il problema cristologico è legato essenzialmente a quello del valore salvifico delle religioni. Si possono osservare a questo riguardo diverse posizioni.
Vi è anzitutto il cosiddetto «teocentrismo salvifico», che accetta un pluralismo di mediazioni salvifiche legittime e vere. All'interno di questa posizione, un gruppo di teologi attribuisce a Gesù Cristo un valore normativo, in quanto la sua persona e la sua vita rivelano, nel modo più chiaro e decisivo, l'amore di Dio per gli uomini. La maggiore difficoltà di tale concezione è che non offre, nè all'interno nè all'esterno del cristianesimo, un fondamento di tale normatività che si attribuisce a Gesù.
Un altro gruppo di teologi sostiene un teocentrismo salvifico con una cristologia non normativa. Svincolare Cristo da Dio priva il cristianesimo di qualsiasi pretesa universalistica della salvezza (e così diventerebbe possibile il dialogo autentico con le religioni), ma implica la necessità di confrontarsi con la fede della chiesa e in concreto con il dogma di Calcedonia. Questi teologi considerano tale dogma come un'espressione storicamente condizionata dalla filosofia greca, che dev'essere attualizzata perché impedisce il dialogo interreligioso. L'incarnazione sarebbe un'espressione non oggettiva, ma metaforica, poetica, mitologica: essa vuole soltanto significare l'amore di Dio che si incarna in uomini e donne la cui vita riflette l'azione di Dio. Le affermazioni dell'esclusività salvifica di Gesù Cristo possono essere spiegate con il contesto storico-culturale: cultura classica (una sola verità certa e immutabile), mentalità escatologico-apocalittica (profeta finale, rivelazione definitiva) e atteggiamento di una minoranza (linguaggio di sopravvivenza, un unico salvatore).
La conseguenza più importante di tale concezione è che Gesù Cristo non può essere considerato l'unico ed esclusivo mediatore. Soltanto per i cristiani egli è la forma umana di Dio, che adeguatamente rende possibile l'incontro dell'uomo con Dio, benché non in modo esclusivo. È totus Deus, poiché è l'amore attivo di Dio su questa terra, ma non è totum Dei, poiché non esaurisce in sé l'amore di Dio. Potremmo anche dire: totum Verbum, sed non totum Verbi. Il Logos, che è più grande di Gesù, può incarnarsi anche nei fondatori di altre religioni.
Questa stessa problematica ritorna quando si afferma che Gesù è il Cristo, ma il Cristo è più che Gesù. Questo facilita molto l'universalizzazione dell'azione del Logos nelle religioni: ma i testi neotestamentari non concepiscono il Logos di Dio prescindendo da Gesù. Un altro modo di argomentare in questa stessa linea consiste nell'attribuire allo Spirito Santo l'azione salvifica universale di Dio, che non condurrebbe necessariamente alla fede in Gesù Cristo.
Le diverse posizioni di fronte alle religioni determinano comprensioni differenziate riguardo all'attività missionaria della chiesa e al dialogo interreligioso. Se le religioni sono anch'esse vie alla salvezza (posizione pluralista), allora la conversione non è più l'obiettivo primario della missione, in quanto ciò che importa è che ciascuno, animato dalla testimonianza degli altri, viva profondamente la propria fede.
Una certa funzione salvificaIl documento della commissione dedica a questo punto ampio spazio allo studio dell'iniziativa del Padre, la mediazione universale di Cristo, l'universalità del dono dello Spirito Santo e la funzione della chiesa nella salvezza di tutti.
In questa luce, si pone l'interrogativo: qual è il valore delle religioni in ordine alla salvezza?
Oggi, risponde il documento, non è in discussione la possibilità di salvezza fuori della chiesa di quelli che vivono secondo coscienza. Ribadisce tuttavia che questa salvezza non si produce indipendentemente da Cristo e dalla sua chiesa: essa si fonda sulla presenza universale dello Spirito, che non si può separare dal mistero pasquale di Gesù (GS 22: RM 10 ecc.). Alcuni testi del Vaticano II trattano specificamente delle religioni non cristiane: coloro ai quali non è stato ancora annunciato il Vangelo sono in vari modi ordinati al popolo di Dio, e l'appartenenza alle diverse religioni non sembra indifferente agli effetti di questo «ordinamento» (cf. LG 16). Si riconosce che nelle diverse religioni si trovano raggi della verità che illumina ogni uomo (NA 2), semi del Verbo (AG 11); che per disposizione di Dio si trovano in esse cose buone e vere (OT 16): che si trovano elementi di verità, di grazia e di bene non soltanto nei cuori degli uomini, ma anche nei riti e nei costumi dei popoli, anche se tutto dev'essere «sanato, elevato e completato» (AG 9: LG 17). Rimane aperto invece l'interrogativo se le religioni come tali possano avere valore in ordine alla salvezza.
L'enciclica Redemptoris missio, seguendo e sviluppando la linea del concilio Vaticano II ha sottolineato più chiaramente la presenza dello Spirito Santo non soltanto negli uomini di buona volontà presi individualmente, ma anche nella società, nella storia, nei popoli, nelle culture, nelle religioni, sempre con riferimento a Cristo (RM 28-29). Esiste un'azione universale dello Spirito, che non può essere separata né tanto meno confusa con l'azione particolare che lo Spirito svolge nel corpo di Cristo che è la chiesa (ivi).
A motivo di tale esplicito riconoscimento della presenza dello Spirito di Cristo nelle religioni, non si può escludere la possibilità che queste, come tali, esercitino una certa funzione salvifica, aiutino cioè gli uomini a raggiungere il fine ultimo nonostante la loro ambiguità. Nelle religioni agisce lo stesso Spirito che guida la chiesa: tuttavia la presenza universale dello Spirito non si può equiparare alla sua presenza particolare nella chiesa di Cristo. Anche se non si può escludere il valore salvifico delle religioni, non è detto che in esse tutto sia salvifico: non si può dimenticare la presenza dello spirito del male, l'eredità del peccato, l'imperfezione della risposta umana all'azione di Dio ecc. (cf. DA 30-31). Soltanto la chiesa è il corpo di Cristo, e soltanto in essa è data con tutta la sua intensità la presenza dello Spirito: perciò non può essere affatto indifferente l'appartenenza alla chiesa di Cristo e la piena partecipazione ai doni salvifici che si trovano soltanto in essa (RM 55). Le religioni possono esercitare la funzione di praeparatio evangelica, possono preparare i popoli e le culture ad accogliere l'evento salvifico che è già avvenuto; ma la loro funzione non si può paragonare a quella dell'Antico Testamento, che fu la preparazione allo stesso evento di Cristo.
Cristo, pienezza della rivelazione
Per quanto riguarda la rivelazione, il documento afferma che solamente in Cristo e nel suo Spirito, Dio si è dato completamente agli uomini; quindi soltanto quando questa autocomunicazione si fa conoscere, si dà la rivelazione di Dio in senso pieno. Il dono che Dio fa di se stesso e la sua rivelazione sono due aspetti inseparabili dell'evento di Gesù.
Senza dubbio, è vero che anche nelle altre religioni esistono «semi del Verbo» e «raggi della verità»; ma anche se Dio ha potuto illuminare gli uomini in vari modi, non abbiamo mai la garanzia che queste luci siano rettamente accolte e interpretate in chi le riceve; soltanto in Gesù abbiamo la garanzia della piena accoglienza della volontà del Padre. Lo Spirito ha assistito in modo speciale gli apostoli nella testimonianza di Gesù e nella trasmissione del suo messaggio; dalla predicazione apostolica è sorto il Nuovo Testamento, e anche grazie ad essa la chiesa ha ricevuto l'Antico. L'ispirazione divina, che la chiesa riconosce agli scritti dell'Antico e del Nuovo Testamento, assicura che in essi è stato raccolto tutto soltanto quello che Dio voleva fosse scritto.
Anche se non si può escludere, nei termini indicati, qualche illuminazione divina nella composizione di tali libri, questi non si possono considerare come equivalenti all'Antico Testamento, che costituisce la preparazione immediata alla venuta di Cristo nel mondo.
Dialogo interreligioso
Il dialogo interreligioso non è soltanto un desiderio che nasce dal concilio Vaticano II ed è promosso dall'attuale pontefice: è anche una necessità nella situazione attuale del mondo. Ma come intenderlo? I rappresentanti della teologia pluralista pensano che da parte dei cristiani si debba eliminare ogni pretesa di superiorità e di assolutezza, e ritenere che tutte le religioni abbiano lo stesso valore. Pensano che sia una pretesa di superiorità considerare Gesù come salvatore e mediatore unico per tutti gli uomini.
A loro parere, la rinuncia a tale pretesa è considerata essenziale perché il dialogo possa essere fruttuoso. La differenza basilare tra questa impostazione e quella del magistero sta nella posizione che adottano dinanzi al problema teologico della verità, e al tempo stesso dinanzi alla fede cristiana. L'insegnamento della chiesa sulla teologia delle religioni muove dal centro della verità della fede cristiana. Tiene conto, da una parte, dell'insegnamento paolino della conoscenza naturale di Dio, e insieme esprime la fiducia nell'azione universale dello Spirito. Vede entrambe le linee fondate sulla tradizione teologica; valorizza il vero, il buono e il bello delle religioni a partire dal fondamento della verità della propria fede, ma non attribuisce in generale una stessa validità alla pretesa di verità delle altre religioni. Questo condurrebbe all'indifferenza, cioè a non prendere sul serio la pretesa di verità tanto propria come altrui.
La teologia delle religioni che troviamo nei documenti ufficiali muove dal centro della fede. Quanto al modo di procedere delle teologie pluraliste, e a prescindere dalle diverse opinioni e dai continui cambiamenti che avvengono in esse, si può affermare che, in fondo, hanno una strategia «ecumenica» del dialogo, si preoccupano cioè di una rinnovata unità con le diverse religioni. Questa unità però si può costruire soltanto eliminando aspetti della propria autocomprensione: si vuole ottenere l'unità togliendo valore alle differenze, che sono considerate come una minaccia; si pensa almeno che devono essere eliminate come particolarità o come riduzioni proprie di una cultura specifica. Ne deriva che la teologia pluralista, come strategia di dialogo tra le religioni, non solo non si giustifica di fronte alla pretesa di verità della propria religione, ma annulla insieme la pretesa di verità dell'altra parte.
Annuncio della verità che è Cristo
Al contrario, una teologia cristiana delle religioni dev'essere in grado di esporre teologicamente gli elementi comuni e le differenze tra la propria fede e le convinzioni dei diversi gruppi religiosi. Il concilio colloca tale compito in una tensione: da una parte contempla l'unità del genere umano, fondata su un'origine comune (NA 1) e, per questo motivo, ancorata sulla teologia della creazione, «la chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni» (NA 2); d'altra parte, però, la stessa chiesa insiste sulla necessità dell'annuncio della verità che è Cristo stesso: «Essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è "via, verità e vita" (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose (cf. 2Cor 5,18-19)» (NA 2).
Secondo la commissione teologica due sono le indicazioni da tenere presenti:
1. una teologia differenziata delle religioni, che si basa sulla propria pretesa di verità, è la base di qualunque dialogo serio e il presupposto necessario per comprendere la diversità delle posizioni e i loro mezzi culturali di espressione;
2. la contestualità letteraria o socioculturale ecc. sono mezzi importanti di comprensione, a volte unici, di testi e di situazioni, costituiscono un possibile luogo di verità, ma non si identificano con la verità stessa. Con questo si indicano il significato e i limiti della contestualità culturale.
Il dialogo interreligioso tratta delle «coincidenze e convergenze» con le altre religioni con cautela e rispetto. A proposito delle «differenze», si deve tener conto che queste non devono annullare le coincidenze e gli elementi di convergenza, e inoltre che il dialogo su tali differenze deve ispirarsi alla propria dottrina e all'etica corrispondente; in altre parole, la forma del dialogo non può invalidare il contenuto della propria fede e della propria etica.
In conclusione, il cristiano di oggi deve imparare a vivere, nel rispetto per le diverse religioni, una forma di comunione che ha il suo fondamento nell'amore di Dio per gli uomini e che si fonda sul suo rispetto per la libertà dell'uomo. Ma questo rispetto verso l'«alterità» delle diverse religioni è a sua volta condizionato dalla propria pretesa di verità. L'interesse per la verità dell'altro condivide con l'amore il presupposto strutturale della stima di se stesso. La base di ogni comunicazione, anche del dialogo tra le religioni è il riconoscimento dell'esigenza di verità. La fede cristiana però ha una propria struttura di verità: le religioni parlano «del» Santo, «di» Dio, «su» di lui, «in sua vece» o «nel suo nome»; soltanto nella religione cristiana è Dio stesso che parla all'uomo con la sua Parola. Solamente questo modo di parlare dà all'uomo la possibilità di essere persona in senso proprio, insieme alla comunione con Dio e con tutti gli uomini.
Il Dio in tre persone è il cuore di questa fede: soltanto la fede cristiana vive del Dio uno e trino; dal fondo della sua cultura è sorta la differenziazione sociale che caratterizza la modernità
Questa è la base solida, secondo la commissione, su cui poter impostare seriamente il rapporto con le religioni e di intendere il dialogo che non potrà mai essere disgiunto dall'annuncio.
Cosa dicono gli altri
Riportiamo in forma molto schematica alcune idee sulla figura di Gesù presenti in altre grandi religioni: l'ebraismo, l'islam e l'induismo
Gesù per gli ebrei
Per gli ebrei di oggi, come per quelli di ieri, Gesù costituisce un segno di contraddizione. «O Gesù, figlio d'Israele, che Israele rinnega, e non può ignorare», scriveva Edmond Fleg (1874-1963). Ciò che caratterizza il giudaismo tradizionale è semplicemente la volontà d'ignorare Gesù. A. Mandel, in un articolo intitolato «Un ebreo di nome Gesù», afferma che il giudaismo «non si definisce in rapporto a Gesù, nè in convergenza, né in divergenza. Non se ne interessa affatto». A dire il vero, nel corso di questo XX secolo ci sono stati dei tentativi di recuperare Gesù. Per esempio, Martin Buber (1878-1965) ha voluto riconoscere in lui un fratello. Leggiamo nei suoi scritti: «Fin dall'infanzia ho sentito Gesù come un mio grande fratello. Sono più che mai sicuro che a lui spetta un posto importante nella storia della fede d'Israele, e che questo posto non può essere circoscritto entro nessuna categoria abituale...».
Ma questo appellativo di fratello non trova unanimità di consensi. Per alcuni, Gesù rimarrà per sempre un estraneo. «Nessun scrittore, afferma Emmanuel Levinas, parlando di Gesù, ha saputo comunicarcene il fascino. Neppure tu, caro e venerato Edmond Fleg. Non basta chiamare Gesù Yechu o Rabbi per avvicinarlo a noi. Per noi, che siamo senza odio, non ha amicizia. Resta lontano. E sulle sue labbra non riconosciamo più i nostri versetti».
Dopo la tragedia di Auschwitz in seno al mondo ebraico si sono manifestate altre tendenze, per esempio, quella che vede in lui un martire, simbolo del destino del popolo ebraico. «Gesù che soffre e muore in croce in mezzo agli schemi, si chiede Schalom Ben Corin (nato nel 1913), non è forse un simbolo per tutto il suo popolo che, flagellato fino al sangue, pende sempre sulla croce dell'odio verso il giudaismo?». Sempre secondo Ben Chorin, Gesù è anche il simbolo della condizione umana, è «l'uomo, come te, come me; l'uomo esemplare nella sua piccolezza». Un altro scrittore, Pinchas Lapide (nato nel 1922), osserva che dopo Auschwitz, «Gesù è come un uomo ideale, un compagno di umanità, un compagno nel giudaismo, un israelita». In questo senso egli è veramente «luce delle nazioni».
Ma la maggioranza degli ebrei oggi continua a contestargli questo posto. Anche coloro che si sentono più vicini a lui, non lo riconoscono come il Cristo. In una parola, un fossato divide ancor oggi ebrei e cristiani, secondo una celebre frase di Ben Chorin: «La fede di Gesù ci riunisce, la fede in Gesù ci separa».
Gesù per l'islam
Il Corano riprende diversi tratti del Vangelo per caratterizzare Gesù. Il nome più comune con cui è designato è quello di figlio di Maria o di profeta inviato da Dio a Israele. Per quanto egli sia vicino a Dio, per l'islam Gesù non è nè suo «figlio» nè il Verbo di Dio. Il Corano denuncia tutto ciò che potrebbe costituire un attentato al monoteismo più rigido e assoluto. Gesù quindi è una creatura, come Adamo, creato dalla polvere: Dio gli disse: «Sii! ed egli fu». I cristiani quindi avrebbero deformato il vangelo. Leggiamo: «O gente del libro! Non superate la misura della vostra religione; non dite di Dio che la verità. Il messia, Gesù figlio di Maria, non è che un inviato di Dio, la sua Parola lanciata a Maria, uno spirito venuto da Lui. Credete dunque in Dio e nei suoi inviati. Non dite “tre”. Dio è un Dio unico. Gloria a lui! Lungi da lui l'avere avuto un figlio!».
Parlando della morte di Gesù, il Corano, nonostante alcune difficoltà di interpretazione, sembra negare la realtà della crocifissione. Gesù cioè non sarebbe morto che in apparenza, o, per lo meno, la morte non avrebbe toccato che il suo corpo.
Per l'islam, Gesù quindi è un servo di Dio a cui è stata affidata la missione di annunciare il vangelo. Egli è semplicemente il penultimo dei profeti. L'ultimo è Maometto. L'islam costituirebbe quindi il superamento del cristianesimo, come il cristianesimo era stato il superamento del giudaismo.
Gesù per l'induismo
Gesù è accolto anche nell'induismo, ma è ben lontano dall'essere il Gesù del cristianesimo. Ghandi, per esempio, era affascinato dal Cristo delle beatitudini: «Lo spirito del discorso della montagna, scrive, esercita su di me quasi lo stesso fascino della Bhagavadgita. È questo discorso che sta alla base del mio attaccamento a Gesù». È stato scritto che Gandhi era «cristiano in maniera naturale, più che per ortodossia». Cristo per lui era un modello di non-violenza. Un autore del secolo scorso, Keshu, si chiedeva: «Gesù non è forse asiatico? Sì, e anche i suoi discepoli lo erano. Questo ricordo centuplica il mio amore a Gesù: lo sento con le mie simpatie nazionali». Keshu invita i suoi compatrioti ad accogliere Cristo secondo lo spirito dei libri sacri della loro tradizione. Ma si tratta di un Cristo panteista. Secondo un altro autore, Parekh, Gesù introduce a un rapporto nuovo con Dio. Essere cristiano, a suo avviso, consiste nel condividere con Gesù la sua relazione con Dio: «Per me, scrive, essere indù vuol dire essere vero discepolo di Cristo, ed essere vero discepolo di Cristo vuol dire essere più indù». In una parola, qualunque sia l'immagine di Gesù, nell'induismo, egli non è altro che una via fra le tante per giungere all'Ultimo. È un Cristo «senza legame», ossia senza chiesa, secondo l'espressione del teologo indiano cristiano S.J. Samartha. L'induismo esalta una mistica dell'interiorità a-storica. E ciò costituisce una vera sfida per il cristianesimo, mistero di un Dio impegnato personalmente nella storia.
(da Testimoni, febbraio 1997, n. 3, pp. 23-28)