Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di Bruno Secondin
Entriamo ora nella presentazione di alcune elaborazioni cristologiche più recenti, e in certo senso ancora aperte a sviluppi sia di necessaria maturazione, sia di perfezionamento e di consolidamento. Quelle che stiamo per presentare non esauriscono certo la gamma delle opzioni metodologiche riscontrabili, né le variazioni in atto in particolare nelle cristologie del terzo mondo.
Notiamo soprattutto che la forma «narrativa» della cristologia, come di tutta la teologia, sta sviluppando una felice sintesi fra culto e «imitatio Christi», tra linguaggio primario della fede e risposta ad una presenza esperimentata e contestualizzata in maniera nuova e medita.
L’interazione fra pietà o vissuto spirituale popolare e riflessione accademica o teologia sapiente è complicata. Ma non v’è dubbio che oggi si tende a prendere in seria considerazione l’esperienza religiosa, anche comunitaria, per «costruire» un discorso su Cristo che non sia puramente speculativo e astratto, ma sia la tematizzazione «organica» dell’incontro con Cristo, centro e senso plenario dell’esistenza, dei singoli e delle comunità.
TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE
In questo tempo si parla molto della «teologia della liberazione», quando si vuole parlare della teologia latino-americana. Ma non si può negare che l’elaborazione teologica dell’America Latina non si riduce alla sola corrente della liberazione. Ci sono di fatto molteplici forme di discorso teologico, e quindi molteplici forme di ricerca cristologica: sia tradizionali che innovative.
1. ALCUNI PRESUPPOSTI TEOLOGICI
Per capire il perché del radicamento storico sociale di tutta l’elaborazione teologica latino-americana, si deve fare attenzione alla situazione di violenza istituzionalizzata e allo stato di oppressione/repressione che provocano nei credenti una risposta legata alla fede. Impegnarsi per l’uomo oppresso è considerato pertanto un vero initium fidei.
Inoltre bisogna fare attenzione a due connotazioni di partenza:
- Esiste un’«unica . storia», dalla creazione all’escatologia, e quindi qualsiasi impegno a favore dell’uomo si colloca - anche se inconsapevolmente - nei disegni di Dio per la salvezza del mondo;
- Verità è ciò che fa l’uomo, cioè ciò che lo realizza in pienezza. Allora il «processo di liberazione che sta fermentando tutto il continente si presenta come un locus ermeneutico1.
Questo è un modo nuovo di fare teologia. Ma notiamo bene che questo non vuol dire che la liberazione pratica si identifica col contenuto della fede. Quando si dice fede come prassi politica: si vuoI dire che la fede oggi in America Latina può essere percepita all’interno di una prassi liberante, vi si mescola, ma non vi è esaurita. E la teologia della liberazione è il momento della chiarificazione teorica e critica alla luce della Parola e delle scienze umane di quello che avviene. Quindi la finalità della teologia della liberazione è: «rilettura del messaggio evangelico partendo dalla prassi di liberazione» (G. Gutierrez).
Per questo possiamo dire che per capire la teologia della liberazione e la sua cristologia, bisogna porsi anzitutto nell’ambito di un’«esperienza spirituale» molto forte. Più che una «teoria pensata ed elaborata», essa è anzitutto una corrente di spiritualità (di vita nello Spirito), che trova nell’«elaborazione teologica rigorosa una tematizzazione solida e interpretativa. «Il nostro metodo è la nostra spiritualità» (G. Gutierrez).
Tanto è vero che G. Gutierrez dedicava già un paragrafo della sua opera più famosa alla «spiritualità della liberazione»2. Anche il suo libro recente Bere al proprio pozzo, è dedicato all’itinerario spirituale del suo popolo peruano.
L. Boff parla di «contemplativus in liberatione» e Sobrino di «santità politica», come «liberazione con spirito, in quanto si tratta di unificare spirito e pratica, spiritualità e impegno». Il suo ultimo libro sulla spiritualità è particolarmente ricco per questo nostro discorso3.
In sostanza possiamo dire che l’apporto cristologico prevale: specialmente il Gesù della storia, la sua esperienza tra gli uomini, le sue azioni e reazioni di fronte ai vari messianismi e alle varie manipolazioni del potere, specie se fatte in nome di Dio. Non escludendo il momento escatologico o trascendente dell’evento Cristo, ma piuttosto concentrandosi su quest’altro punto. Possiamo dire che si tratta dell’evidenziazione del «momento prassiologico del messaggio di Cristo» (L. Boff).
2. ALCUNE CARATTERTSTICHE COMUNI A TUTT I TEOLOGI
1. Critica sistematica e di fondo alla teologia europea (cioè la teologia accademica classica). E’ accusata di essere portatrice dell’ideologia della classe dominante, di essere evasiva e intimistica, segnata da rassegnazione e manipolazione. Inoltre la si accusa di procedere per categorie universalissime e concetti astratti, privi di rapporto organico con la realtà concreta e con la fatica storica di trovare nella prassi la luce della fede.
2. Occorre porsi nell’ottica degli oppressi, cioè dal punto di vista dell’emarginazione e della dipendenza: questa prospettiva assunta sul serio, provocherà uno specifico linguaggio e una specifica sensibilità, un senso di servizio storico e di liberazione. Quindi una cristologia neutrale viene considerata impossibile e improponibile, almeno attualmente.
3. Occorre tener. conto della grande ricchezza della «cristologia popolare», contenuta nella «religiosità popolare». Che però va stimata, apprezzata, ma anche aiutata a purificarsi e a reinterpretarsi, dando giusto rilievo alle esigenze del momento storico che viviamo e che impone con urgenza uno sforzo per la giustizia, la libertà e la speranza.
4. Secondo L. Boff bisogna tener in conto le quattro seguenti priorità ermeneutiche: primato dell’elemento antropologico su quello ecclesiale; primato dell’utopico sul puro fattuale; primato del sociale sul personale; primato dell’ortoprassi sull’ortodossia.
L. BOFF, J. SOBRINO, G. GUTIERREZ
Non possiamo presentare la molteplicità dei teologi e degli scrittori spirituali dell’America Latina. Anche se la cosa non sarebbe inutile. Ma ci limitiamo ad alcuni veloci accenni al pensiero di tre fra di essi, che ci sembrano significativi.
L. Boff: (1938- ), francescano brasiliano, autore di molte opere. Sul nostro tema dopo il Gesù Cristo liberatore, considerato in fondo «tradizionale» Boff è andato elaborando vari «frammenti», ma non ancora una «cristologia sistematica».
In sostanza egli rifiuta un’impostazione neutrale della cristologia: «Il nostro interesse si colloca nell’orizzonte della teologia della liberazione, della prigionia e della resistenza». Perciò privilegia il Gesù storico sul Gesù della fede: per il significato maggiore che quello può avere in senso «liberatorio» per l’America Latina.
Fra i titoli cristologici ereditati, che egli accetta e stima, il teologo francescano preferisce però quello di «liberatore». Infatti:
— La prassi di Gesù è una liberazione in marcia: è il regno di Dio che viene avanti e si fa esperienza di libertà;
— La conversione che Gesù richiede da coloro che lo ascoltano: è anzitutto la creazione di nuove maniere di rapportarsi reciprocamente, nuovi rapporti liberi e liberanti;
— La morte di Gesù: è il prezzo da pagare per la liberazione che fa fatica ad imporsi, ed anzi trova difficoltà e conflittualità;
— La risurrezione è irruzione anticipata della liberazione definitiva.
Da qui prende senso l’annuncio dell’insperato, della realizzazione di una parabola di riconciliazione, attraverso un processo di liberazione nel quale si paga un prezzo. La croce di Gesù e di tutti coloro che la riesperimentano è partecipazione alla grande «passio mundi». L’utopia non sta al di fuori, ma nel più profondo e oltre l’umano.
J. Sobrino (1933-) gesuita basco-salvadoregno4.Egli parte dalla rilevazione che la situazione storica in cui Gesù si è trovato, ha storicamente tante somiglianze con quella attuale dell’America Latina. E’ una situazione di peccato che si ripete. Perciò suggerisce una concentrazione cristologica: è in particolare nell’orizzonte dell’utopia del Regno che si può capire tutto il messaggio di Gesù. Il Regno fa irruzione nell’umano in e per Gesù:
«Impareremo a vedere cosa sia stato realmente il Regno per Gesù non solo da quanto si può ricavare dalla sua nozione di Regno, ma dalla stessa vita di Gesù a servizio del Regno»5
Per cui il discorso sul Regno parte da Gesù «storico» e si illumina con Cristo, specialmente con la sua risurrezione, che si rivela il vero paradigma della liberazione.
Gran parte del discorso di Sobrino è lo sviluppo di una cristologia incentrata sul Gesù della storia, sul suo impegno al servizio del «regno di Dio», sulla sua «fede» e sull’importanza della sua «via»: cioè la sequela (seguimiento), una parola chiave per Sobrino, ed elemento insostituibile per conoscere Cristo.
«I concetti possono e debbono presentare genericamente la verità di Cristo, ma perché tale verità generica divenga verità reale è necessaria la mediazione di qualcosa che non è pura conoscenza; occorre la realtà totale della vita, che include la prassi dell’amore e della speranza, in base alle quali, dal di dentro, il generico si concretizza. Questa totalità che non si riduce alla mera conoscenza, noi la chiamiamo sequela»
Ma hanno rilievo anche la preghiera di Gesù e l’esperienza della risurrezione.
La «sequela» è criterio della confessione cristologica reale e fondamento per una comprensione di Cristo da dentro: il «sacrificium vitae» è la consumazione del «sacrificium intellectus» che è l’atto di fede.
Pertanto la cristologia della liberazione - per usare un’espressione cara a Sobrino - non pretende di essere tutta la cristologia, con le sue questioni dogmatiche e storiche. Ma senza dubbio essa rappresenta una nuova riflessione ermeneutica creativa.
G. Gutierrez (1928-), teologo peruano, conosciuto specialmente per la sua Teologia de la Liberaciòn. La cristologia è stata sviluppata meno da Gutierrez rispetto ai due teologi precedenti. Possiamo notare che nella Teologia della liberazione la cristologia appare qua e là: per es. «Cristo e la piena liberazione», «Cristo liberatore». Ne La forza storica dei poveri ci sono sviluppi maggiori, specialmente su questi punti: «Cristo verità del Padre», «Cristo povero», i «Cristi flagellati delle Indie».
Nell’opera Bere al proprio pozzo, il discorso cristologico è centrale. Per lui la spiritualità cristiana è caratterizzata da tre punti cardine:
- Un incontro con il Signore, inteso come esperienza spirituale fontale;
- Una vita secondo lo Spirito (non in senso spiritualistico), come un vivere in accordo con i grandi valori del Regno: la vita, l’amore, la pace, la giustizia;
- Un’«avventura collettiva mossa dallo Spirito»secondo il paradigma dell’Esodo biblico.
E questo perché in America Latina «la spiritualità è un’avventura comunitaria. Quasi passi di un popolo che fa il suo proprio cammino nella sequela di Gesù attraverso la solitudine e le minacce del deserto. Questa esperienza spirituale è il pozzo al quale dobbiamo bere. O, forse, oggi, in America Latina, è il nostro calice, promessa di risurrezione».
Anche nell’ultima opera — Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente, che è in sostanza una riflessione sull’avventura spirituale di Giobbe — il richiamo a Cristo è evidenziato. Colpisce nella parte conclusiva l’applicazione della riflessione europea dopo gli orrori dei lager — di fronte al trauma dell’olocausto ci si è chiesti: «come parlare di Dio dopo Auschwitz?» — alla peculiare situazione peruana.
Egli si domanda: «come fare teologia dopo Ayacucho?». Cioè come
«trovare un linguaggio su Dio in mezzo alla fame di pane di milioni di esseri umani, all’umiliazione di razze considerate inferiori, alla discriminazione della donna, in particolare quella dei settori poveri, all’ingiustizia sociale elevata a sistema, alla persistente e alta mortalità infantile, ai “desaparecidos”, ai privati di libertà, alle sofferenze di popoli che lottano per il loro diritto alla vita, agli esiliati e rifugiati, al terrorismo di vario segno, alle fosse comuni piene di cadaveri di Ayacucho....
In conclusione, secondo un’analisi complessiva che ne traccia J. Sobrino, la figura di Cristo in America Latina è stata riscoperta, non a partire dalla riflessione teologica, ma fondamentalmente dalla «rilettura» del Vangelo a partire dal «mondo dei poveri». Le note caratteristiche di questa figura sono: la vicinanza, la liberazione, la contemporaneità, l’annuncio di gioia.
Va notato che una trattazione completa della «cristologia» nella teologia della liberazione, esigerebbe molta più informazione. Sia per le varie «teologie della liberazione» che si stanno sviluppando in altre parti del mondo. Si pensi all’area caraibica, alla teologia nera degli USA, alla teologia della liberazione in Sud Africa, in Filippine, India, Asia.
Per quanto riguarda invece la «reazione» europea a questa «teologia»si può constatare che il dialogo va crescendo e non mancano riflessioni serie sui cambiamenti che in Europa dovrebbero essere fatti non solo sul piano della prassi (apparteniamo alle potenze che opprimono), ma anche nel campo della teologia. Per accogliere come partner questi interlocutori, e non trattarli con sospetto o con aria di sufficienza.
Note
1) L. B0FF, Salvezza in Gesù Cristo e processo di liberazione, in «Concilium» 10(1974), p. 99.
2) GUTIERREZ, Teologia della liberazione pp. 202-207 1981.
3) J. SOBRINO, Tracce per una nuova spiritualità, Borla, Roma 1987 (titolo originale: Liberaciòn con espìritu..., SaI Terrae, Santander 1985). E’ di fatto una raccolta di articoli.
4) Fra le sue opere, la già citata Cristologia; di valore particolare Gesù in America Latina, pp. 11-89: Jesùs de Nazareth, in C. FLORJSTAN - J. TAMAYO (ed.), Conceptos fundamentales de Pastoral, Cristiandad, Madrid 1983, pp. 480-513; Tracce per una nuova spiritualità, Borla, Roma 1987. Su di lui: J. MARTORELL, Jon Sobrino: un proyecto de cristologia, in «Teologia Espiritual» 30(1986), pp. 261-283; e uno studio più recente con bibliografia aggiornata J. A. GUERRERO, Jesucristo, salvador y liberador (La cristologia de Jon Sobrino), in «Naturaleza y Gracia», 34 (1987), pp. 27-96.
5) Cristologia, p. 350.
CRISTOLOGIA AFRICANA
Accanto alla giovane ma già suggestiva riflessione cristologica latino-americana, dobbiamo riconoscere anche un interessante sviluppo della cristologia africana. Senza dubbio si tratta di una situazione ancor meno sviluppata di quella dell’America Latina, perché possiamo riconoscere facilmente la lunghezza del suo cammino: che non va oltre i due decenni. Ma va rilevato anche che proprio la specificità singolare dell’ambiente e della cultura africana – così differenti da quelli europei o di prolungata influenza europea - rende queste ricerche di «cammini nuovi» e di «linguaggi inculturati» dell’unico Vangelo di Cristo, un settore quanto mai interessante.
Bisognerebbe ricordare che l’Africa - più precisamente l’Africa mediterranea - nei primi secoli cristiani aveva già dato alcuni fra i più grandi teologi antichi: Tertulliano e Cipriano, Agostino e Origene il grande maestro della scuola di Alessandria, il monachesimo primitivo che ha in Pacomio il padre della «koinonia», ecc. Ma poi le invasioni, sia dei popoli barbari venuti dal nord Europa che degli arabi con l’islam, sradicarono ogni cosa. Oggi nel nord Africa la religione cristiana stenta a sopravvivere, in situazioni di quasi totale islamismo di stato. Mentre nell’Africa subsahariana e giù fino al Sudafrica l’attività di conquista coloniale del secolo scorso ha portato, assieme ai vari conquistatori europei, anche le forme religiose di costoro. Moltissime nazioni africane celebrano proprio in questi anni il primo centenario dell’arrivo dei primi missionari (europei).
Negli anni sessanta è iniziata la grande epoca della decolonizzazione: che di fatto ha destrutturato l’equilibrio vitale delle società africane, instaurando un’economia di sfruttamento nel solo interesse delle multinazionali. Nel contesto internazionale l’Africa rimane un continente circuito dalle potenze straniere, che le impongono vincoli d’ogni specie, saccheggiandone le ricchezze. Oggi l’Africa è «un continente che non si appartiene».
L’elaborazione di una specifica cristologia africana si deve vedere allora in questo contesto: di enorme miseria materiale, di dipendenza culturale ancora impressionante, di patrimonio etno-culturale di grande qualità e di lunghissima data. E’ infatti in questa ricchezza di elementi religiosi tradizionali, e insieme di una «Africa strangolata», che si può capire la forma originale di parlare di Cristo e di cercare un linguaggio che parli dalla vita e nella vita.
Nell’Africa del sud, il tema abituale dei teologi neri, come Sebalo Ntwasa e Basil Moore, è quello della distruzione del «Cristo bianco», rappresentante della razza bianca oppressora e dei suoi missionari venuti dall’Europa. Si legge nel manifesto di Hammanskraal:
«La teologia nera è una teologia del futuro dell’uomo nero alla luce del Cristo liberatore. Conseguentemente, noi respingiamo l’interpretazione deformata del messaggio cristiano imposta al popolo nero dalle chiese dominate dai bianchi».
Nelle altre nazioni e etnie africane si seguono a preferenza altre piste, soprattutto si usano altri «nomi» per capire e vivere il mistero di Cristo. Un libro prezioso è apparso di recente, anche in italiano - Cristologia africana6 - che raccoglie i molteplici frammenti della riflessione e della letteratura, delle credenze e dei simboli, dei «nomi» e delle «immagini» che si riscontrano nell’Africa subsahariana, in particolare di lingua francese.
Uno dei punti nevralgici dell’opera è quello di come poter chiamare, ossia «dare un nome» a Cristo, in maniera che diventi «familiare», accolto nella «casa culturale» dell’africano. Infatti è di interesse peculiare per gli africani trovare un nome africano per Gesù Cristo: tale cioè che permetta una migliore e più inculturata conoscenza del mistero stesso di Cristo. Nel libro si parla ampiamente dei titoli: capo, antenato o figlio maggiore, maestro di iniziazione, guaritore, e molti altri. E viene mostrato, per ognuno, quale possibilità v’è di essere in «relazione» con i contenuti del mistero», ma anche con il linguaggio esperienziale religioso delle etnie.
imposto dal movimento stesso dell’incarnazione, la divinità professata del Verbo incarnato non deve cadere nella pura e semplice assimilazione, ma diviene esercizio di esplorazione nella fede e di fedeltà alla fecondità inesauribile del mistero. E questo si chiama oggi inculturazione . forse la categoria che è più conforme all’elaborazione teologica e culturale della tradizione greco-latina. Mentre nel secondo caso - ché è appunto più prossimo all’universo religioso delle grandi religioni asiatiche (come abbiamo visto) e alla concezione religiosa tradizionale africana - si pone l’accento sul valore «cristologico» delle tradizioni religiose. In quanto Cristo viene ad essere il vertice il ricapitolatore della lunga catena di «grandi uomini» che hanno mantenuto vivo lo «spirito» del primo, l’originario progenitore della tribù, della etnia .Non è sottovalutata neppure la dimensione «escatologica» del Cristo: come liberatore futuro e pienezza di vita nel secolo che viene. Essa è presente sia nel titolo di maestro di iniziazione, sia in quello di guaritore, sia in quello di liberatore. Ma rimane ancora da sviluppare con ulteriori apporti questa prospettiva, che è senza dubbio essenziale per una fedeltà al «mistero cristiano» nella sua completezza.
Note
6) Cristologia africana, Paoline, Cinisello Balsamo 1987. Un breve saggio anche in MOLONEY, African Christology, in «Theological Studies» 48(1987), pp. 505- 516.CRISTOLOGIE «NUOVE»
Non vogliamo qui entrare nella valutazione critica di tutte le nuove cristologie, anche se il titolo sembra affermarlo. Piuttosto vogliamo dire qualcosa di alcune «nuove cristologie» - come quelle di Schillebeeckx, Hulsbosch, Schoonenberg, Küng, Duquoc - di cui però non abbiamo parlato, per non dilungarci troppo. Proponiamo una linea di valutazione, in generale.
Esse in buona parte si assomigliano per il tentativo di una valutazione critica di Calcedonia, e quindi tentano di riformulare in categorie nuove il suo insegnamento dogmatico, senza rinnegarlo. Loro affermazione è che bisogna «andare avanti da Calcedonia»: e in fondo oggi la cosa non fa molto problema. Dipende come si va avanti. In generale si constata che nella loro proposta di formulazione nuova e più adeguata della fede ci sono dei vantaggi e dei limiti.
1. Pericoli. Anzitutto vi è quello di un’interpretazione riduttiva del mistero. In quanto l’affermazione Cristo uomo-Dio sembra riduzione del mistero al dato antropologico. Non si vede bene espressa la preesistenza della persona divina. I vocaboli/categorie culturali che vengono impiegati sembrano non riuscire ad esprimere veramente il mistero, che va espresso e rispettato.
2. Vantaggi. Questi consistono nel richiamo ai dati «economici» (pro me) e non solo ontologici (in se). VuoI dire che ci è possibile così riflettere sul mistero di Cristo in modo da poter capire le leggi fondamentali su cui si costruisce il rapporto religioso Dio-uomo e su cui si struttura la storia della salvezza.
C’è poi il vantaggio di mettere in risalto che dire «Dio si è fatto uomo» vuol dire mostrare un evento che riguarda non solo la sfera umana, ma anche quella divina, un divenire presente cioè anche in Dio: ciò comporta uno sforzo per illustrare bene i significati. Altro vantaggio è anche quello di sollecitare ad una religione che si ponga nel mondo nella linea dell’incarnazione, cioè in pratica nella linea della promozione umana, in tutte le sue forme.
Altro vantaggio sta nella possibilità di leggere l’impegno di Dio come progressivo impegno di salvezza, anche dopo la venuta di Cristo. La diffusione del messaggio evangelico è progressiva e più intensa applicazione dell’economia dell’incarnazione nei vari momenti del progresso storico (culturale, politico, sociale...).
3. Si noti bene che questa economia non va dalla comunità a Dio, ma da Dio alla comunità. La storia si realizza quando l’uomo accetta Dio nella sua storia. Il cristianesimo non è una sociologia religiosa che diviene religione, ma una religione che sa suscitare aspetti socio-politici. Né si può mancare di evidenziare che il Dio con noi si manifesta nella gratuità, nella non-imposizione. E quindi risalta la prevalenza del servizio sull’autoaffermazione.
Idee molto simili si possono trovare anche in documenti «ufficiosi» ma di grande valore teologico, come il testo Questioni riguardanti la cristologia, della Commissione teologica internazionale.
SINTESI
Ci avviamo ora ad una valutazione complessiva e conclusiva dell’attuale stagione di studi e di riflessioni cristologici. Si tratta di alcune sottolineature generali che ci sembrano emergere con evidenza, in una sintesi finale7.
1. PROSPETTIVE GENERALI
Sono quelle che in fondo costituiscono alcuni dei più accentuati orientamenti nuovi .
1. Riconoscimento della storicità. Il pensiero storico attuale porta all’affermazione della «storicità» di tutte le proposizioni di fede e dei vari volti di Cristo. Non si può isolarli dal legame con l’ambiente storico culturale di ieri e di oggi. Il processo di ellenizzazione, di cui molto ci si lamenta, in effetti non è stato fatto senza una certa creatività; tuttavia fu un processo di inculturazione e quindi anche di «limitazione». Occorre rendersi conto dei condizionamenti storici, delle categorie mentali che ieri erano più statiche e oggi sono più dinamiche e funzionali.
Lo sviluppo del pensiero storico ha perciò liberato la cristologia anzitutto dalla sua stasi e creato giustamente la necessità di un rinnovamento costante e diciamo pure di un rinnovamento coraggioso. Occorre introdurre categorie dinamiche-funzionali anche nell’esistenza concreta del Verbo fatto uomo (sul suo sviluppo e il suo divenire se stesso).
Essere e storia sono strettamente collegati, non basta ribadire i dati di Calcedonia: Calcedonia deve essere punto di partenza, non mai eliminabile (come ha detto Rahner). Ma occorre anche assumere prospettive nuove sull’essere persona e sui condizionamenti che si verificano nel diventare realmente e totalmente persona.
2. L’interesse per il Nuovo Testamento. Il ripensamento della cristologia porta a riallacciarsi all’annuncio originario del Nuovo Testamento, ma anche ai legami con l’Antico Testamento e la letteratura detta «intertestamentaria». Con la conseguenza che l’immagine emergente dal Nuovo Testamento nei testi più antichi (es. i Vangeli) non corrisponde in tutto all’immagine neotestamentaria più tardiva: il Gesù prepasquale e il Cristo postpasquale sembrano a prima vista due entità ben diverse e non conciliabili. Per questo fin dall’epoca dell’illuminismo - di fronte alle accuse della «ricerca sulla vita di Gesù» (Leben-Jesu-Forschung) - si cerca di superare l’abisso profondo fra Cristo postpasquale e Gesù storico. La stagione ampia di questa «ricerca» non ha condotto veramente a dimostrare la storicità della fede posteriore in Cristo anche prima della proclamazione del dogma cristologico. In tutto si trova la mano della comunità postpasquale e della sua fede. E di conseguenza nel passato prossimo si negava che si potesse arrivare davvero al Gesù della storia tale e quale era stato: colpa degli strati, dei miti, delle teologie.
Solo in un secondo momento si troverà la via per arrivare al Gesù storico con sicurezza. Un geniale artefice del superamento delle difficoltà è stato E. Käsemann con le sue ricerche sul Gesù storico seguendo i cosiddetti metodi della differenza, dell’autorità, della disuguaglianza/somiglianza, ecc. Come dice Schilson: la cristologia posteriore può quindi intendersi come legittima spiegazione di un’esigenza contenuta nel Gesù terreno, esigenza che oltrepassa i limiti ordinari. Inoltre il «Gesù storico» resta necessariamente povero rispetto al «Gesù terreno». In altre parole la vita reale di Gesù era sicuramente più varia e più ricca di contenuto di quanto si può dimostrare storicamente accertato e accertabile.
3. Responsabilità pubblica della fede. L’annuncio di Cristo deve provocare l’uomo ad una risposta, attirano ad una nuova possibilità di vita e di esistenza (Bultmann). Ma deve anche avere un significato a livello comunitario: un peso sociale di critica e di incoraggiamento. Questo fa nascere la così detta «ermeneutica politica», che si sviluppa particolarmente in cristologia: mostrando la portata sociale del messaggio cristiano per l’epoca attuale.
Ciò porta a parlare: di soteriologia in chiave comunitaria e non solo individuale, della chiesa come istituzione critica fondata sulla «memoria passionis», dell’annuncio come di una memoria pericolosa per l’epoca attuale. In sostanza si ha l’accoglienza delle istanze migliori della teologia politica, della speranza, della liberazione.
Però tutte le cristologie che rivalutano la prassi messianica del Gesù storico corrono anche il rischio di fare di esso un nuovo mito e di sorvolare quelle implicanze della fede biblica in Cristo che raggiungono una maggiore profondità, e non sono esplicabili del tutto «prassiologicamente».
2. COMPITI
Si tratta di impegni evidenti per un rinnovamento della cristologia, secondo le attese contemporanee8.
1. Cristologia come storia (o anche «cristologia narrativa»). Questo vuole dire: mettere in risalto che la cristologia non può essere deducibile dai bisogni dell’uomo o della comunità, ma piuttosto essa si richiama, come narrazione, ad una storia realmente accaduta, in cui persona e causa sono intimamente legate e si identificano. Per cui nel Cristo terreno e glorificato abbiamo un’unica storia, un’unica vicenda, un unico itinerario. Cristologia dal basso e cristologia dall’alto sono superate.
La risurrezione e la gloria sono completamento e superamento della vita e dell’opera di Gesù terrestre. E la professione di fede postpasquale rende esplicito ciò che nascostamente già affiorava nella vita terrena: cioè la venuta del regno di amore di Dio. La conseguenza che Kasper suggerisce è di considerare l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo non come evento momentaneo, ma come avvenimento che si è compiuto una volta per sempre, e che tuttavia riserva ancora in sé una storia, che trova la sua pienezza nella morte/risurrezione di Gesù. Ciò esige essere meno rigidi della scolastica e parlare di un itinerario di Gesù, di uno sviluppo nella conoscenza della volontà del Padre, di un cammino nella sua fede: lui è «autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2).
2. Orizzonte universale. Ci vuole una cristologia in relazione coi problemi fondamentali, tali non solo dell’anima singola, ma di tutta l’umanità. Quindi non una dottrina adatta «per me» e basta; ma una dottrina sensibile alla dimensione storico-dinamica dell’ordine della realtà globale che riempia l’esistenza dell’uomo che ormai è attaccato non solo alla memoria ma anche alla speranza e al progetto (ha imparato il futuro).
La dimensione escatologica così forte nel kerigma di Cristo e nella comunità primitiva è andata presto perduta nella cristologia cresciuta in ambito ellenistico, che si preoccupava del senso e dell’unità del cosmo e non dei «due gradi» (secondo la carne e secondo lo Spirito: cf. Rm 1,3s). Con un’immagine di Dio immutabile e metafisicamente spiegato, incompatibile con la sofferenza, la tensione escatologica sparisce. L’unica aspirazione finirà per essere l’immortalità e l’impassibilità. Doti che si sottolineano maggiormente in Dio.
Dice Kasper:
«Come allora vi fu una legittima ellenizzazione della fede, così oggi che ci troviamo alla fine di una storia cristiana in cui è prevalso l’elemento occidentale-europeo e all’inizio di una storia mondiale, può aver luogo una legittima disellenizzazione del cristianesimo».9
Si deve passare da una visione prevalentemente statica ad una visione più storico-dinamica dell’ordine della realtà globale, ad una crescente coscienza della solidarietà, dell’interdipendenza, dell’«uomo» nel senso di uomini al plurale. Insomma una cristologia che sappia dire qualcosa al processo di solidarietà universale, di planetarizzazione dell’esistenza, di «mondialità» dell’etica.
La storia di Gesù deve diventare una ripresa del tema speranza, una concezione aperta dell’essere, essere-in-relazione, della persona come «divenire» progettuale. L’essere in sé, proprio della metafisica fa fatica a dare spiegazioni in una cultura dove si enfatizza l’essere-per-l’altro, e al Dio «motore immobile» si preferisce il dinamismo del «Dio-con-noi».
3. Dimensione pneumatologica. È la cosa forse più difficile da sviluppare bene. Secondo la Scrittura, Gesù è il Cristo in quanto è l’«unto» di Spirito santo. Per cui una cristologia corretta è quella che valorizza questo rapporto in maniera non debole. Gesù è colui che porta in sé la potenza di Dio che è lo Spirito, all’opera nell’antica alleanza e ancor più evidente e vivo nella nuova. Per cui diviene egli stesso «Spirito vivificante» (1Cor 15,45). Questo non consente tuttavia di cadere nell’eccesso opposto, vale a dire di fare della cristologia una funzione della pneumatologia (sarebbe adozionismo).
Possiamo anche dire che Gesù è la meta escatologica cui tende l’opera dello Spirito nel mondo. In lui Dio è già «tutto in ogni cosa» (1Cor 15,28). Ma il ruolo dello Spirito rimane ancora uno «spazio aperto»: egli è colui che tiene aperte le possibilità a nuovi sviluppi, è la continua novità, è promessa, caparra, «guida» (Gv 16,13) verso «verità inedite».
Una fedeltà allo Spirito «improvvisatore» favorirebbe un approfondimento non puramente statico della verità e un confronto più accogliente verso i problemi del tempo: espressi nei «segni dei tempi», ma anche nell’emergere dell’attenzione per i «semina Verbi» presenti nelle tradizioni religiose dei popoli.
Note
7) Per quanto riguarda questo paragrafo ci serviamo del saggio scritto da A. Schilson in A. SCHILSON--W.KASPER, Cristologie, oggi, Paideia, Brescia 1979, pp. 13-30.8) Teniamo presente qui il contributo di Kasper, in SCHILSON-KASPER, Cristologie, pp. 143-162.
9) SCHILSON-KASPER, Cristologie, p. 152.
3. CONCLUSIONE
Abbiamo presentato evidentemente solo una parte di quello che è il panorama della teologia attuale, nel campo della cristologia. Ci sarebbe da aggiungere molto di più, in campi «teologici» affini. Per es. il notevole ritorno al «cristocentrismo» nella teologia morale, che di conseguenza influenza notevolmente la spiritualità, essendo questa molto spesso collegata alla struttura di quella.
Ci sarebbe poi ancora da dire qualcosa sulla concentrazione cristologica acculturata e biblicamente molto più seria che ha oggi la vita consacrata. Anche questo influisce direttamente sul recupero «cristocentrico» della spiritualità.
Due sono le accentuazioni «cristologiche» che maggiormente sì evidenziano negli ultimi tempi per la vita consacrata. Vivere come Cristo: la vita consacrata è continuazione/attuazione della vita di Cristo. Vivere come discepoli, alla sequela di Cristo, secondo le esigenze evangeliche. In entrambi i casi la meta finale è la «conformazione» a Cristo, espressa anche con la terminologia della «consacrazione» (che è eminentemente cristologica).
In America Latina nella «chiamata alla sequela radicale di Cristo» (Puebla 742-757) appaiono come imprescindibili queste dimensioni: la lotta per la giustizia, l’opzione evangelica preferenziale per i poveri, la collaborazione con le aspirazioni di liberazione del popolo oppresso. Esse sono le linee guida delle molteplici esperienze di «vita religiosa inserita».
Ci rimane ora ancora da esplorare che cosa la pastorale popolare, l’insegnamento conciliare e i frequenti discorsi e pronunciamenti pontifici hanno messo in evidenza nel campo della cristologia. Nel capitolo che seguirà intendiamo dedicarci a questa esplorazione, che completa la nostra panoramica e ci mostra da altri punti di osservazione la ricchezza dell’attuale stagione ecclesiale
di Raimon Panikkar
Idea chiave del buddismo è che tutti gli esseri viventi sono imprigionati in un ciclo infinito di reincarnazioni; il continuo nascere-e-morire è sperimentato come sofferenza; da qui lo scopo di questa religione: liberare l'uomo da tale ciclo di rinascite, culminante nell'“illuminazione”.
Inizialmente era un contratto, nel quale la donna veniva trasferita dalla potestà del padre a quella del marito, ma entrambi i coniugi avevano quello che oggi si chiamerebbe «il diritto di recesso». In seguito, la donna ha acquisito una maggiore libertà (anche nella scelta del marito) e, col tempo, sempre più diritti e garanzie. Ma qualche problema resta anche oggi.
di Massimiliano Fortuna
Non ci si stancherà mai di ripetere che Capitini merita d’essere più letto, più diffuso. Contribuirvi costituisce un piccolo dovere filosofico, un comandamento laico che sono invitati a seguire quanti non vogliano arrestarsi alle contrapposte retoriche militariste e pacifiste, ma prender sul serio l’idea-azione di pace in tutte le sue scabrose complessità. Merito dunque a chi ci consegna oggi un nuovo strumento. Esce infatti per le edizioni Ets un’antologia di suoi scritti sulla nonviolenza, curata da Mario Martini, che nel corso di circa un decennio ha dedicato a Capitini numerosi interventi e dato alla luce non poche pagine divenute un riferimento critico imprescindibile.
Un’antologia che si va ad aggiungere a Il messaggio di Aldo Capitini (a cura di Giovanni Cacioppo, Lacaita, 1977), un tomo di grossa mole che tentava di accostare tutte le traiettorie seguite dal suo pensiero, ed a Opposizione e liberazione (a cura di Piergiorgio Giacché, Linea d’ombra, 1991, poi L’ancora del mediterraneo, 2003), imperniata sui risvolti autobiografici. Questo delle edizioni Ets è un volume agile, indubbiamente adatto a chi di Capitini intenda farsi una prima idea, che si propone di presentare le principali nervature della riflessione capitiniana sulla nonviolenza, la quale rimanda del resto all’interezza della sua biografia intellettuale, anzi proprio non può esserne scissa senza gravi fraintendimenti. E Martini cerca nell’introduzione (che appropriatamente si apre designando Capitini come il «massimo teorizzatore ed attuatore della nonviolenza in Italia, ma forse anche in ambito europeo») di richiamare sinteticamente tutti i cardini sui quali questa riflessione poggia, schizzando un panorama in cui le «premesse teoriche», già ben riconoscibili nel primo scritto del 1937, Elementi di un’esperienza religiosa, si saldano all’«impegno nonviolento», il cui vertice simbolico può ritenersi la Marcia della pace Perugia-Assisi, inauguratasi il 24 settembre 1961. Sarebbe però stato forse più opportuno fornire un apparato bibliografico delle opere (nelle indicazioni testuali all’inizio delle suddivisioni tematiche viene addirittura omesso il nome dell’editore), a maggior ragione considerando che, come anche il retro di copertina ci ricorda, i libri di Capitini sono oggi quasi introvabili. Ed, a questo proposito, verrebbe da chiedersi quanto occorrerà ancora aspettare prima di vedere una grossa casa editrice farsi carico della pubblicazione di almeno uno fra i suoi testi maggiori.
Che aggiungere su Capitini? Lo si legga, nient’altro. Si colga, se possibile, l’occasione di transitare dai brani selezionati in questa antologia all’interezza dei suoi libri (in una buona biblioteca qualcosa si trova, ma si contatti anche il Movimento Nonviolento di Verona), senza oltrepassarne con impazienza le insistite meditazioni filosofiche e religiose – quasi si riducessero ad un’appendice di scarsa rilevanza pratica, una vernice intellettuale di poca sostanza –, e il premio sarà l’accesso ad un universo denso di pensiero e di salutari “scosse” etico-politiche, l’incontro con parole capaci di ritagliarsi una luce purissima in mezzo agli automatismi bellici ed all’eccesso di pacifismo da centro sociale che attraversano i nostri giorni. Fra le tante queste: «La nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto. La nonviolenza è guerra anch’essa, o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata. La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa. La nonviolenza fa bene a non promettere nulla del mondo, tranne la croce».
• Aldo Capitini, Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, a cura di Mario Martini, Ets, Pisa 2004, pp. 195, € 16 (www.edizioniets.com).
di M. Anna Maria Cànopi, Osb *
Il quadro della situazione mondiale si presenta di giorno in giorno in tinte sempre più fosche: quando sembra che si profili qualche schiarita, subito sopraggiunge un nuovo ciclone a sconvolgere l’atmosfera dell’esistenza umana su tutto il pianeta.
Il pessimismo, di conseguenza, dilaga e sotto varie forme crea in molte persone fragili stati depressivi e angosciosi. Per non soccombere, c’è chi si indurisce e vive egoisticamente la propria vita cercando di immunizzarsi dal dolore altrui e di godere all’istante e a qualsiasi costo tutto quello che può avere senza riuscire ad essere felice. Ci sono però anche quelli che, pur feriti e lasciandosi ferire dalle vicende dolorose della propria e dell’altrui esistenza, non ne rimangono sopraffatti, perché hanno scoperto il valore redentivo della sofferenza accettata con fede e offerta con amore in unione a Colui che è venuto a farsi carico di tutto il dramma dell’uomo di ogni tempo, per aprirgli davanti un radioso orizzonte di speranza: «La vostra tristezza sarà cambiata in gioia...» (cf. Gv16,20).
Non rifiutando e sfuggendo la croce, ma proprio abbracciandola nella sequela di Cristo, si fa l’esperienza della verità di questa Parola e si diventa testimoni della Risurrezione. Per giungere alla mèta della «beata speranza», si deve quindi perseguire la via della santità, la via della sequela di Cristo, della conformazione a lui crocifisso e risorto. È la scelta radicale della vita monastica: una risposta integrale alle esigenze del Vangelo, all’amore di Cristo, nulla anteponendo a Lui. Dove si dà veramente il primato alle realtà che non passano - mentre passa la scena di questo mondo - si ha una visione dell’uomo e della storia più vera, secondo il disegno di Dio. Una visione perciò anche più ottimista che lascia sempre intravedere vie nuove di ricupero e di salvezza. Non è forse questo il motivo per cui oggi tante persone frequentano assiduamente i monasteri, ossia i luoghi in cui più facilmente si possono trovare uomini o donne di speranza? «Diteci qual è il vostro segreto, il segreto della vostra serenità, della vostra pace, della vostra gioia». È una domanda che molti ci rivolgono. E, più che dalle nostre parole, lo scoprono, questo segreto, immergendosi nella nostra atmosfera di silenzio, di ascolto della Parola di Dio, di contemplazione.
Partecipando alle celebrazioni liturgiche, sperimentano la forza salvifica e rinnovatrice del mistero di Cristo. Ristorati alla sorgente della grazia, possono ritornare ai loro consueti impegni nella famiglia, nella scuola, nella società con più fiducia e spirito di servizio fino al sacrificio.
All’inizio della nostra fondazione monastica sull’isola San Giulio, pensavamo che saremmo rimaste “isolate”, quasi come in eremitaggio. Al contrario, l’Isola è diventata un centro di forte attrazione spirituale proprio perché su di essa splende come faro la preghiera, la Luce che è il Cristo stesso, viva speranza per tutti i naviganti sulle onde tempestose della storia.
I monasteri che danno ospitalità diventano sempre più luoghi di ricarica spirituale e di consolazione. Luoghi di ricarica per la fede che spesso è insidiata da tanti “venti di dottrine” di falsi profeti; luoghi di ricarica per la speranza, resa spesso umanamente impossibile dalle tragiche situazioni di violenza e di miseria morale e materiale; luoghi di ricarica per la che nel mondo tanto facilmente si propone come mascherato egoismo.
«Il sapere che voi ci siete è per noi fonte di consolazione e di speranza: siete una forza che ci sostiene nelle nostre fatiche e nelle nostre lotte per resistere al male». Queste frequenti testimonianze ci fanno sentire quanto sia necessaria la nostra presenza nella Chiesa e quanto sia grande la nostra responsabilità. Infatti, chi viene a cercare Dio presso di noi non deve restare deluso. Veniamo perciò stimolate a un sempre più serio impegno nella santità, a un sempre più umile e generoso servizio a Dio e al prossimo. E tutta l’umanità ci è “prossimo”, poiché nessuna distanza è insormontabile per chi - giorno e notte, senza tregua - stende le braccia nella preghiera.
Ci rendiamo conto, inoltre, che nel segno della comunità monastica si manifesta chiaramente che la castità, ritenuta assurda nella nostra società satura di sesso, è invece possibile, anzi bella e totalizzante per la persona. Così pure si rende visibile che sono realizzabili la comunione di vita, l’unità e la pace tra persone diverse per indole, età, cultura e nazionalità.
I nostri fratelli che vivono nel mondo possono, insomma, costatare che la santità è sempre possibile e che è un cammino di bellezza e di consolazione aperto davanti a tutti, non un privilegio di alcuni.
* del Monastero Mater Ecclesiae di Orta San Giulio
“Accidia” è parola che deriva dal greco akedia, che in origine significava “disinteresse”, “negligenza”, “indifferenza”. Nella letteratura monastica antica essa diviene il “vizio” che colpisce soprattutto i monaci, in particolare gli anacoreti, ovvero quelli che vivono in regime di marcata solitudine. Accidia è allora disgusto per lo sforzo spirituale, atonia dell’anima, insofferenza di sé e della vita che si sta vivendo, incapacità di concentrarsi e di abitare la cella.
di Guido Lazzarini
Libertà e relazione sono elementi costitutivi della persona e si coniugano tra loro tramite l’assunzione di responsabilità sia nei confronti degli uomini tutti sia nei confronti della natura.
Affermare l’esigenza di un equilibrio ecologico pone in discussione, da un lato, il rapporto di dominio dell’uomo sulla natura, conseguenza del delirio di onnipotenza dell’uomo, dall’altro, il rapporto uomo/uomo.
Nasce l’esigenza di cercare una prospettiva in cui razionalità e senso dell’agire, individualità e collettività, benessere delle generazioni presenti e future non rappresentino istanze separate e contrapposte, ma esigenze unite dalla consapevolezza della relazione che lega ogni uomo indipendentemente dalla sua appartenenza spazio/temporale. Si tratta di produrre valori culturali capaci di generare un’etica condivisa ed interiorizzata che orienti verso un agire responsabile in ogni ambito della vita sociale sia rispetto all’ambiente sia nei confronti di tutti gli uomini anche lontani nel tempo o nello spazio: la dimensione etica trova così il suo fondamento nei principi di libertà, responsabilità e condivisione.
Le smisurate potenzialità tecnico-scientifiche della civiltà industriale, finalizzate al dominio sulla natura, non hanno portato né ad un equilibrio stabile con l’ecosistema, né al modello di giustizia universale che promettevano di assicurare. Il pericolo di tale programma deriva dal suo stesso successo perché se ne è perso il controllo. Il dominio sulla natura si è reso gradualmente autonomo e si è trasformato in minaccia e distruzione: mentre è cresciuto il potere scientifico-tecnologico è parallelamente aumentata l’incapacità dell’uomo di prevederne e valutarne le conseguenze per cui, oggi, è necessario proteggere l’uomo da se stesso e la natura dall’uomo: è necessaria un’etica che regoli e limiti l’agire.
Etica della responsabilità verso la natura
L’etica tradizionale era l’etica della prossimità, in quanto le norme si riferivano ad un agire umano di portata circoscritta: nelle società tradizionali i fini e le ripercussioni delle azioni erano caratterizzati dalla prossimità sia spaziale che temporale. Finora l’etica si era interessata dell’azione presente e delle sue conseguenze contingenti: il rispetto dei suoi diritti si riferiva a coloro che condividevano la realtà presente: essa acquisiva rilevanza perché garantiva la libertà nelle relazioni.
L’etica moderna dovrebbe innanzitutto riferirsi al rapporto tra uomo e natura. La natura, come ambito di responsabilità, rappresenta un elemento del tutto nuovo su cui collocare un’etica capace di orientare l’agire condiviso.
In passato era l’uomo ad essere minacciato dalla natura, ora è l’uomo ad essere pericoloso per la natura, più di quanto la natura lo sia mai stata. Il primo dovere di ogni libertà dovrebbe essere quello di porsi limiti volontari, specialmente in presenza di condizioni di irreversibilità ed incertezza delle conseguenze. La prevenzione, allora, diventa il compito principale della responsabilità verso la natura.
Il nuovo imperativo etico riguarda gli effetti di ogni azione sulla vita futura degli uomini, quindi include l’integrità delle generazioni future ed esige consapevolezza e saggezza nuove.
L’uomo non è il centro dell’universo, ciò che sta al centro è il rapporto, il legame di dipendenza reciproca tra uomo e natura: l’appartenenza vitale alla natura gli offre una diversa percezione di sì ed implica la consapevolezza dei collegamenti esistenti tra cause presenti ed effetti futuri. La consapevolezza della relazione di appartenenza e interdipendenza che li lega consente di superare la falsa alternativa tra dominio sulla natura e sottomissione ad essa e di sostituirvi l’obiettivo della custodia e della convivenza.
Etica della responsabilità verso l’umanitàRiconoscere il nesso di complementarietà tra le diverse generazioni promuove un agire responsabile.
La complementarietà, come riconoscimento dell’interdipendenza reciproca, consente una visione nuova dei rapporti interpersonali, rivaluta la tradizione - legame imprescindibile con il passato e presupposto di un agire responsabile nei confronti delle generazioni future - rende gli individui consapevoli di appartenere ad un tessuto sociale fatto di relazioni interpersonali e intergenerazionali. In tale rete le persone tendono a riunirsi spontaneamente in piccoli gruppi informali o in movimenti associativi, guidati dall’intento di realizzare iniziative di pubblico interesse.
La consapevolezza della complementarietà e dell’interdipendenza fa emergere una nuova razionalità e il senso di una nuova etica della responsabilità che non si limita ai contemporanei o al proprio gruppo, ma si estende alle persone appartenenti a generazioni diverse: le risorse si ricevono in eredità dalle generazioni passate e devono essere trasmesse a quelle future tramite una gestione oculata e ciò rappresenta la condizione di sopravvivenza comune a tutte le generazioni.
Il soggetto di questa nuova etica della responsabilità non è più l’uomo singolo, ma l’umanità tutta: la dimensione di riferimento non è quella individuale, bensì quella collettiva.
L’etica della responsabilità, appellandosi alla libertà personale, deve essere condivisa, riconosciuta, accettata ed interiorizzata “dal basso”, non può essere garantita dall’imposizione normativa.
Per un approfondimento, vedasi: G. Lazzarini, Etica e scenari di responsabilità sociale, Angeli, Milano, 2006
Per questo predicatore musulmano la vita non è che godimento precario delle vanità e la vera felicità si trova nella preghiera e nell’ascesi. Sufi anzi tempo, Hallaj fu condannato a morte per la sua interpretazione troppo libera del Corano e la relazione fusionale con un “Dio-Verità”.
di Marcelo Barros
“Lo spirito del Signore è su di me
e mi ha consacrato per dare
la buona notizia a ipoveri (...),
per promulgare l’anno di misericordia
(amnistia o Giubileo) del Signore.»
(Is 61, 2 e Lc. 4, 18-19)
Quando le persone parlano di Giubileo certamente si ricordano delle feste che si celebrano comunemente quando nelle famiglie si festeggiano i 50 anni di matrimonio di una coppia o di un gruppo che si è formato 25 o 50 anni prima. Ma, per approfondire il nostro argomento, è importante studiare quello che dice la Bibbia in proposito.
Nell'Antico Testamento ci sono pochi riferimenti concreti che mostrino il popolo che pratica la legge del Giubileo. Se accettate di aprire con me la Bibbia, possiamo dare un'occhiata ad alcuni testi suggestivi che ci metteranno in contatto con questa storia. Un primo testo da leggere si trova in un libro che utilizziamo poco nell'uso quotidiano: il Libro dei Numeri. Il racconto, scritto secoli più tardi, si riferisce al cammino del popolo nel deserto. È probabile che il brano 36-11 dei Numeri si riferisca al compimento dell'anno del Giubileo al tempo della conquista della terra. Forse, nel tempo in cui le tribù degli ebrei conquistavano la terra di Canaan, non esisteva ancora questa legge. Ma è possibile che alcune di esse avessero usanze che hanno dato origine al Giubileo. Quando, dopo l'esilio di Babilonia, questa legge fu scritta alle comunità di Israele piacque veder proiettata quest’istituzione al tempo del deserto. Anche il redattore deuteronomista crede che nel regno del Nord, sia stato celebrato un anno di Giubileo quando Ieu distrusse la dinastia degli Ameridi e fece un'alleanza con Jonadab, il Recabita (2 Re 10,15). Ai tempi dell'Antico Testamento, c'era un popolo che conviveva con gli israeliti e manteneva uno stile di vita nomade nel deserto. Erano i Recabiti. Essi credevano che la grande causa dell'infedeltà del popolo di Israele verso Dio fossero le sue usanze, che a poco a poco non si differenziarono da quelle dei popoli vicini.
È probabile che, nel Regno del Nord, nell'anno 540 a. C, il re Ieu abbia proclamato un anno di liberazione della terra e degli schiavi. Poiché l'anno di Giubileo era contato di sette anni in sette anni sabbatici, questo sarebbe stato un anno giubilare. (1)
Più tardi, nel Regno del Sud, secondo Geremia, Dio dice: “Io vi ho comandato di liberare gli schiavi il settimo anno (e nell'anno del Giubileo) e voi non mi avete obbedito. Per questo ora andrete in schiavitù (Gr 34,12 5). In questo contesto il profeta allude alla vita e alla fedeltà dei recabiti che, in questo senso, rispetterebbero l'anno sabbatico e l'anno del Giubileo (cfr. Gr 35).
Certamente anche Ezechiele 46,17, Isaia 55 e Neemia 5,1-19, testi provenienti dal periodo immediatamente postesilico, contengono allusioni ad anni di Giubileo. Ma il testo più famoso e sempre ricordato è una proclamazione di un nuovo Giubileo dopo la dominazione babilonese: Isaia 61,1-2. Questo fu il testo che Gesù scelse, nella sinagoga di Nazaret, per presentare il suo programma di azione. Dice il vangelo di Luca, che i suoi ascoltatori rimasero meravigliati delle “parole di grazia che uscivano dalla sua bocca" (Lc 4, 22). Secondo la nuova Bibbia spagnola, lo stupore fu dovuto al fatto che Gesù non parlò della minaccia che la profezia conteneva. Enunciò solo la parte della grazia. Il testo di Isaia citato da Gesù contiene le stesse espressioni letterarie sull’"anno di grazia" che vediamo in Levitico 25, il testo più esplicito e dettagliato sulla legge del Giubileo. Per questo ora lo studieremo meglio.
a - Lettura del Levitico 25
1 - Il Signore disse ancora a Mosè sul monte Sinai:
2 - Parla agli Israeliti e riferisci loro: Quando entrerete nel paese che io vi dò, la terra dovrà avere il suo sabato consacrato al Signore.3 - Per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti;
4 - Ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore; non seminerai il tuo campo enon poterai la tua vigna.9 - Al decimo giorno del settimo mese farai squillare la tromba dell'acclamazione; nel giorno dell'espiazione farete squillare la tromba per tutto il paese.
10 - Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un Giubileo ognuno di vuoi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia.
11 - Il cinquantesimo anno sarà per voi un Giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate.
12 - Poiché è il Giubileo; esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi.
17 - Nessuno di voi danneggi il fratello, ma temete il vostro Dio, poiché io sono il Signore vostro Dio.
23 - Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini.
24 - Perciò,in tutto il paese che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per quanto riguarda il suolo.
25 - Se il tuo fratello, divenuto povero, vende una parte della sua proprietà, colui che ha il diritto di riscatto, cioè il suo parente più stretto, verrà e riscatterà ciò che il fratello ha venduto.
b - Il contesto letterario e storico
I Giudei, che intitolavano ciascun libro biblico con le prime parole con le quali il libro incominciava, davano al Levitico il titolo di "Egli chiamò" (wayykra). (2)A poco a poco, a causa del suo contenuto, i rabbini cominciarono a chiamarlo "il libro dei sacerdoti", dal momento che conteneva le leggi per il culto. Dal secolo scorso, gli esegeti chiamano la parte del Levitico nel quale è inserito il capitolo 25 "codice della santità" (Lv 17-26). (3)
Non si tratta, quindi, solo dileggi, ma di una vocazione una chiamata che Gesù riprese nei Vangeli con altre parole: "Siate santi, perché Io sono santo" (Lv 19,2; cfr. Mt 5,48 e Lc 6,36).
Molti esegeti ritengono sia stata una situazione che non riuscì mai ad essere praticata in Israele. Alcuni credono non fosse nemmeno stata scritta per essere realmente messa in pratica. Doveva essere solo un orizzonte utopico, redatto nel contesto del ritorno all'esilio. (5)Sentendo affermazioni come queste, ho il dubbio che questi studiosi stiano tentando di dirci: "Non vale la pena prendere sul serio questa legge. E solo una teoria folle e senza una reale validità. La società non può seguire queste regole".Diverse persone insegnano che il Giubileo è una legge senza nessun parallelo nella legislazione dell'Antico Oriente. Altre, invece hanno scoperto indizi dileggi, come questa del Giubileo, nei tempi preesilici e nella letteratura della Mesopotamia. La cosa più probabile è che il nucleo centrale di questa legge risalga all'occupazione di Canaan, quando si realizzarono le condizioni economiche e culturali per una legislazione di questo tipo. (6) Il Giubileo è una legge troppo ottimista per essere stata frutto di una situazione come quella dell'esilio o del periodo immediatamente successivo. (7) Probabilmente, all'inizio, la legge del Giubileo non fu pensata per essere ripetuta. Sarebbe stata applicata un'unica volta, cinquant'anni dopo la conquista, per correggere possibili errori nella distribuzione della terra e rimediare all'impoverimento dei contadini del Nord. Avrebbe dovuto essere una misura collettiva. Così come in Brasile la Costituzione del 1988 prevedeva un referendum per il 1993, nella Bibbia la legge delle tribù insediate in Canaan prevedeva una riforma 50 anni dopo. Con il passare del tempo, quindi, ciò che era stato necessario una volta divenne un punto di riferimento da ripetere ogni 50 anni.
Il contesto di questa legge fu un progetto di riforma agraria per il popolo che oggi possiamo chiamare dei senza terra. Includeva la cancellazione dei debiti, la liberazione degli schiavi e h restituzione del possesso della terra agli ex proprietari che l'avevano persa. Senza dubbio questa proposta di riforma sociale, contenuta nella legge del Giubileo, è totalmente differente da qualsiasi altra legge dell'Oriente e della società vigente in Israele. Essa è estremamente audace e coraggiosa. È una profezia. Quello che ha in comune con legislazioni e costumi orientali non è il suo contenuto o proposta. Quello che ha in comune con altre usanze è il fatto di basarsi su usi culturali agricoli vigenti in tutto l'Oriente (per esempio il riposo della terra, il sorteggio della proprietà e così via). Come realizzazione, per quanto riguarda Israele, il Giubileo non fa che radicalizzare una legge antica e già conosciuta in Israele come parola di Dio: la Legge del Sabato.
Quando, sul finire del periodo della dominazione di Babilonia, fu scritto il Levitico, la legge dava agli antichi proprietari della terra la speranza di recuperare la loro proprietà. Sia nel Levitico che nelle altre citazioni bibliche relative al Giubileo, i profeti e i sacerdoti insistono soprattutto sulla giustizia tra le persone e sul rapporto tra le persone e la terra.
c - Alcuni elementi ermeneutici del testo
- Il termine "Giubileo"
Giubileo viene dalla parola ebraica Jobel, montone, o più specificatamente corno, strumento suonato per annunciare il giudizio o la chiamata di Dio.
Secondo la tradizione, sul Monte Sinai, il Signore ordinò al popolo di tenersi a distanza. Ma disse: "Quando suonerà il corno (jobel), alcuni potranno salire sul monte" (Es 19,13). Il Jobel èlo strumentoche avvisa dell'inizio di un giudizio. Per questo l'anno del perdono e del riscatto, o della liberazione della terra, inizia con il suono del corno. Si chiama "anno di jobel” perché è il tempo nel quale Dio torna per giudicare il popolo e restaurare la sua giustizia. C'è una certa differenza tra il perdono e il riscatto. Il perdono biblico suppone già la giustizia. Per essere completo, deve essere accompagnato da una necessaria soddisfazione e riparazione della giustizia. Non basta chiedere il perdono teoricamente, senza impegnarsi a difendere la vita che è stata violentata, o trovare nuovi strumenti per rifare ciò che è stato infranto o danneggiato (e per il quale la persona chiede perdono). Invece il riscatto biblico è qualcosa di più e, più che perdonare, è liberare e ripristinare la giustizia, come se si tornasse indietro nel tempo e si rifacesse la storia. Nell'antico Israele c'era qualcuno che doveva ricoprire la funzione di goel, o vendicatore di sangue. Egli riscattava il parente prossimo caduto in schiavitù o il sangue di un parente assassinato. In alcune epoche, il riscatto assunse una nozione di "acquisizione". Chi riscattava uno schiavo, lo liberava per la sua casa o per il suo servizio. La persona che riscattava ripristinava un processo che riprendeva il passato e "vendicava l'ingiustizia fatta", non per una mera vendetta di odio, ma per ricostruire la giustizia. Per esempio, condonare un debito voleva dire che, da allora in poi, non doveva più essere pagato. Il riscatto è molto più coinvolgente. Mostrare che il debito è stato pagato e quindi chi è in debito non è colui che è considerato debitore, ma chi si ritiene creditore.
Tutto questo è vissuto nel contesto di un rapporto di alleanza e di comunione di vita. Nei tempi antichi, la persona riscattata assumeva un rapporto di alleanza con chi l'aveva redenta o riscattata. Così il riscatto di un popolo schiavizzato faceva di esso un popolo libero, un partner dell'alleanza con il suo liberatore. Per questo la Bibbia dice che il Signore è il nostro riscattatore e Gesù stesso assume la figura di redentore.- Una spiritualità sabbatica
Poiché nell’anno del Giubileo vi è la radicalizzazione della legge del sabato, per comprendere lo spirito del Giubileo biblico dobbiamo approfondire il significato del sabato.
Secondo uno dei racconti della creazione (cf. Gen 1), tutta l'opera di Dio ha la sua meta e il suo culmine nella celebrazione del sabato: "Allora Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò" (Gn 2,2-3). Dio stesso è il primo che celebra il sabato come tempo di riposo e di libertà.
Altri diranno “riscattatori" perché il povero non possiede nemmeno il tempo. È del suo signore o padrone. Quando Israele dice che il tempo è di Dio, rende possibile il fatto che esso sia per tetti gli esseri umani il tempo dell'amore e della libertà. In questo senso, il rabbino A. Heschel scrive: e d povero, tra il successo e la sconfitta. Celebrare il sabato è sperimentare la suprema indipendenza. (...) Il sabato è una personificazione della credenza che rotti gli esseri umani sono uguali e che l'uguaglianza tra le persone dimostra la loro nobiltà. Il peccato maggiore di un essere umano è dimenticare che è un principe. (9) importante osservare che cosa questa parola di Dio dica alla nostra vita oggi. Per Israele, non c'è vita senza sabato. Come non c'è vita senza amore e libertà. Occorre recuperare questa mistica sabbatica, sia nella nostra vita personale che nella pratica comunitaria, ecclesiale oltre che politica. Questo implica che la gente opti per recuperare il senso di un tempo più umanizzato. Rispetti di più il ritmo della vita, non accetti di vivere in modo disumano un giorno dopo l'altro senza concedersi riposo né tempo libero. Il riposo con Dio è il sabato. Gesù ha sempre difeso questa dimensione liberatrice del sabato. Liberatrice nel senso sociale e anche personale: "Il sabato è stato fatto per l'uomo". Fa parte di questa dimensione liberatrice trovare il tempo per rinnovare la consacrazione e vivere l'i gratuità della preghiera e dell'ascolto di Dio. Non c'è vita d'amore senza momenti di intimità, di ricreazione e animazione con cui si ama. Il Giubileo è un tempo nel quale, come dicevano gli antichi monaci, la persona è chiamata a vacare Deum, "fare ricreazione con Dio".d - Il riscatto della terra
di Dio, scoprì che anche la terra appartiene a Dio. La proprietà del tempo, come della terra, è ricevuta gratuitamente e condivisa. C'è una relazione profonda tra il sabato e la proprietà della terra. Se il sabato è il tempo del riposo della persona, di conseguenza è anche il riposo della terra. Evidentemente, in una società agricola, se la terra non riposasse, nemmeno i contadini riposerebbero. Ma il fondamento teologico per questa prescrizione è come abbiamo già visto, che la terra appartenga al Signore e debba riposare come Dio riposò nel settimo giorno.La terra di Israele, che rappresenta e simboleggia tutta la terra abitata, è in questo senso una terra santa che non deve essere profanata. L'Esodo insegna che, di sabato, il proprietario non deve raccogliere i prodotti della terra perché “ne mangiano gli indigenti del tuo popolo e ciò che resterà sia divorato dalle bestie della campagna" (Es 23,11). Nel Levitico è scritto: “Nel settimo anno (...) non mieterai quello che nascerà spontaneamente dal campo. Non vendemmierai l'uva della tua vigna che non avrai potato, sarà un anno di riposo completo per la terra" (Lv 25,5).
La motivazione non è solo quella di soccorrere gli esseri umani. È fondamentale che i poveri possano mangiare. Ma il testo sottolinea che la terra coltivata debba anche riposare. La dimensione sociale non è assente. Al contrario, si insiste continuamente: “Non opprimete il prossimo" (v. 17). L'ultima parte del capitolo contiene tutte le norme sulla liberazione degli schiavi e su come il popolo potrà avere cibo se dovrà passare un anno senza seminare e raccogliere. Lì si parla di “riscatto" della terra. E importante osservare come lo stesso linguaggio usato per il riscatto degli schiavi, o la punizione dei crimini sia usato in relazione alla terra. Si riscatta la terra come se si trattasse di un vivente che sta soffrendo. In questo contesto il Levitico dice che la terra non può essere venduta sempre. Viene riscattata nell'anno sabbatico come venivano liberati gli schiavi. Oggi la sensibilità ecologica e olistica ci aiuta a capire meglio che la terra ha, in se stessa, dei diritti e merita di essere riscattata, liberata.
Potreste interrompermi con un argomento che metterebbe in discussione tutta questa conclusione: Nel capitolo 25 del Levitico, la parola "terra" (Eretz) si riferisce al suolo coltivato e alla terra dove si abita, ma nel senso esclusivo del paese, cioè Israele. Non ha niente a che vedere con la terra nel senso di pianeta odi universo, e nemmeno di qualsiasi altra terra.
Di fatto, in una lettura letterale del testo si tratta solo della terra di Israele. Sembra che solo questa sia di Dio e non possa essere venduta. Ma altri testi quasi immediatamente posteriori ampliarono questa concezione: "Al Signore appartiene la terra e tutto quello che essa contiene, il mondo e quelli che lo abitano" (Sal 24,1). “I cieli sono i cieli del Signore, ma la terra, Lui l'ha donata ai figli degli uomini" (Sal 115,16).
In queste citazioni potete osservare l'ampliamento del concetto. La terra diventa tutta la terra. Personalmente, mi piace osservare che questa apertura appare di più nei testi dei Salmi. Attualmente, imparo ogni giorno di più facendo maggior attenzione al carattere universale della preghiera. I Salmi ci insegnano a pregare partendo dall'impegno per la giustizia e dalla comunione amorosa con la terra e l'universo. "Ho lodato il Signore per il cielo, (...) per la terra e per il popolo che gli è caro" (cfr Sal 148, 1.8.14). Ci ricordano che siamo proprietari della terra di Dio, siamo più vicini a Lui: "Dio salvi l'universo, dove abita Dio".
"Per amore di Sion, non tacerò
per amore di Gerusalemme non mi darò pace
finché non sorga come stella la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada (…)
Nessuno ti chiamerà più abbandonata,
né la tua terra sarà più detta devastata.sarai chiamata mio compiacimento;poiché il Signore si compiacerà di tee la tua terra avrà uno sposo".
(Isaia 62,1.4)