Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Sabato, 19 Gennaio 2008 01:19

Può Dio soffrire? (Bruno Forte)

Vorrei aiutare la contemplazione del volto del Dio sofferente - il Padre/Madre dell’amore della tradizione biblica -, ponendomi in ascolto della Sua rivelazione in tre tappe, tese a scrutare rispettivamente il volto del Dio d’Israele, il volto del Dio di Gesù e quello del Dio della Chiesa.

Sabato, 19 Gennaio 2008 00:57

Novaziano (Lorenzo Dattrino)

NOVAZIANO

di Lorenzo Dattrino

Il suo nome non appartiene solo alla Patrologia e alla storia della chiesa. Fu il primo grande scrittore in lingua latina. Sono incerti il luogo e la data della sua nascita: è opinione ormai accettabile che egli sia nato a Roma intorno all’anno 200. La sua apparizione, però, molto tarda, s’aggira verso il 250, nella chiesa di Roma, prima come catecumeno, poi, per il sopraggiungere d’una grave malattia, in grado di ricevere il battesimo. È da questi primi eventi, pur così modesti, che ebbe inizio la sua ascesa, legata ad avvenimenti di rara gravità specialmente per la chiesa di Roma, come conseguenza della persecuzione di Decio.

Novaziano, ad altissime doti d’ingegno e di cultura, univa purtroppo non poca ambizione, anche se unita a molta austerità di vita e a poca socievolezza. Godette comunque di grande stima nella comunità romana, e venne ordinato presbitero, con probabilità, dallo stesso papa san Fabiano. Infuriava allora la persecuzione di Decio, durante la quale trovò la morte papa Fabiano. La chiesa di Roma rimase per alcun tempo senza pontefice: quell’assenza durò ben quattordici mesi. La comunità cristiana venne allora governata dal Presbyterium, un collegio, di cui faceva parte, non certo secondaria, lo stesso Novaziano. Fu in quel tempo che sorse a Roma, e anche a Cartagine, la cosiddetta questione dei lapsi (i caduti), di coloro cioè che si erano resi colpevoli d’aver prestato culto agli dei, culto imposto dall’imperatore: in seguito essi, dichiaratisi pentiti, chiedevano il pubblico perdono. TI nuovo papa, Cornelio, si mostrò incline a concederlo (251). Novaziano si oppose, fino ad accusare il pontefice di lassismo. Ne nacque presto uno scisma molto violento. Novaziano si abbandonò a una propaganda attivissima, al punto di provocare l’adesione di non poche chiese dell’Oriente. Papa Cornelio, frattanto, riuniva nell’autunno del 251 un solenne concilio romano che deliberò la scomunica di Novaziano. Sulle vicende degli ultimi anni e della morte di lui mancano notizie sicure.

E ora, al di fuori delle sue vicende biografiche e, in particolare, intorno alla questione dei lapsi, che meriterebbe una trattazione a parte, esaminiamo le opere di Novaziano. Sono certamente autentici due trattati, il De Trinitate, composto probabilmente prima del 250, e il De cibis iudaicis, scritto dopo lo scisma; altri due trattati, De Spectaculis e De bono pudicitiae, e, infine, due lettere dirette a S. Cipriano.

Ci interessa in particolare il De Trinitate. Più che un trattato dogmatico vero e proprio, l’opera espone le tre verità principali del Simbolo, la regola di verità (regula veritatis). Si articola in tre parti: la fede nel Padre (cc. 1-8); la fede nel Figlio, del quale è ugualmente affermata la divinità e l’umanità (cc. 9-28), e nello Spirito Santo, di cui rapidamente sono esposti gli attributi (c. 29). Gli ultimi due capitoli (cc. 29-30) dichiarano che la distinzione delle Persone non compromette l’unità divina. Tuttavia, mentre appare sicura la sua dottrina nei confronti del Padre, da meno vi appare quella intorno a Cristo. Pur essendo da lui dichiarato Figlio di Dio, l’autore non lo rende esente da certo quale subordinazionismo.


Per l’approfondimento

Edizioni

PL 3,911-1000; 4,810-860 (tra le opere di Cipriano); CSEL 3,3; CCL 4.

Traduzioni

Studi

V. Loi, Novaziano: La Trinità, Torino 1975

V. Loi, La latinità cristiana nel «De Trinitate» di Novaziano, in «Rivista di cultura classica e medioevale» 13 (1971), 1-42 e 136-172; M. Simonetti, Alcune osservazioni sul «De Trinitate» di Novaziano, in «Studi in onore di A. Monteverdi», Il, Modena 1959, pp. 771-783.

Il tema Maria-Chiesa va visto in questa sede con taglio nettamente liturgico: si tratta cioè di vedere come è vissuto nella liturgia.

Il quarto vangelo
e i vangeli sinottici

di Claudio Doglio – Roberto Vignolo




In quanto «vangelo»: narrazione della vicenda storica di Gesù dal battesimo alla risurrezione, rilievo dato al viaggio fondamentale a Gerusalemme, importanza a informazioni geo-topografiche, aspetto «drammatico» della vita di Gesù, discorsi d’addio in cornice storica, parole e segni come avvenimenti reali e concreti.

Le principali differenze

Anche se gli elementi comuni non mancano (alcuni racconti, logia, citazioni dell’Antico Testamento, brevi parabole, espressioni metaforiche, sentenze e proverbi), esistono pure delle grandi differenze fra Giovanni e i Sinottici. Vediamo le più rilevanti.

- Nel quadro geografico e cronologico. Il ministero di Gesù secondo Giovanni abbraccia il periodo di tre feste pasquali, quindi sembra durare circa tre anni, mentre nello schema sinottico si parla di una sola Pasqua, riducendo il racconto a un solo anno. Per i Sinottici Gesù comincia la missione in Galilea e va una volta sola a Gerusalemme. In Giovanni, invece, Gesù va continuamente avanti e indietro dalla Galilea a Gerusalemme, dove quasi tutto il racconto viene ambientato.
- Nel modo di presentare i miracoli. I gesti prodigiosi raccontati da Giovanni sono chiamati «segni» (semeia), sono in numero di sette (probabilmente simbolico) e appartengono quasi esclusivamente a questo Vangelo: 1) le nozze di Cana; 2) la guarigione del bambino dell’ufficiale; 3) la guarigione del paralitico della piscina di Betzatà); 4) la moltiplicazione dei pani; 5) il cammino sulle acque; 6) la guarigione del cieco nato; 7) la risurrezione di Lazzaro. Solamente due sono comuni con i Sinottici: la moltiplicazione dei pani ed il cammino sulle acque.
- Nel modo di presentare l’insegnamento. In Giovanni abbiamo lunghi discordi di controversie e di insegnamento, mentre i Sinottici hanno in genere antologie di brevi logia indipendenti, anche se Matteo ha raccolto il materiale in grandi discorsi, di fatto si tratta sempre di compilazioni in cui è evidente l’origine autonoma dei vari detti; invece nel quarto Vangelo si trovano molti discorsi, lunghi e organici, strutturati in modo complesso e retoricamente valido.
Vari tentativi di spiegazione

Come spiegare queste somiglianze e differenze tra Giovanni e i Sinottici? Per risolvere questo problema sono stati proposti almeno tre schemi di soluzione:

1) i Sinottici dipendono da Giovanni;

2) Giovanni dipende letterariamente dai Sinottici;

3) Giovanni deriva da una tradizione indipendente che sta alla base anche dei Sinottici.

È inimmaginabile che Giovanni abbia determinato i Sinottici proprio per questione di tempo. Rimangono quindi le altre due possibilità che prendiamo in considerazione.

Nell’antichità i Padri pensavano generalmente che Giovanni dipendesse in qualche modo dai Sinottici. Ma da tale presupposto nasce un altro problema: se Giovanni conosce i Sinottici perché ha scritto un Vangelo così diverso? Nella tradizione patristica sono già state formulate tutte le risposte possibili, riprese poi variamente anche dagli autori moderni:

- Giovanni ha scritto il suo Vangelo per completare quello che avevano detto gli altri evangelisti (ipotesi del completamento);

- Giovanni ha aggiunto molti discorsi allo scopo di evidenziare e interpretare meglio il messaggio teologico che nei Vangeli sinottici non era chiarissimo (ipotesi dell’interpretazione);

- Giovanni voleva superare l’aspetto materiale per arrivare all’annuncio spirituale (ipotesi del superamento);

- Giovanni aveva il desiderio di sostituire i Vangeli sinottici ritenendoli per qualche motivo non validi (ipotesi della sostituzione).

Oggi, tuttavia, l’opinione più sostenuta supera tutte queste varie ipotesi di rapporto coi Sinottici e preferisce sostenere che Giovanni derivi da una propria tradizione indipendente, eppure chiaramente ancorata alla predicazione apostolica più antica. Tutto ciò che è diverso si può spiegare in quanto parte dell’ambiente culturale giovanneo e appartenente all’autentica tradizione dell’apostolo. Così Giovanni utilizza uno schema narrativo proprio, mentre i Sinottici riproducono tutti uno stesso antico canovaccio narrativo.

Possiamo, in conclusione, ritenere improbabile che Giovanni dipenda letterariamente in modo diretto dai Sinottici; le concordanze si possono spiegare con la tradizione orale; ma la tradizione giovannea risulta autonoma nel suo complesso. Una certa conoscenza del contenuto della tradizione sinottica esiste, ma deriva da elementi che possiamo definire «pre-sinottici». Nel quarto Vangelo, infatti, esistono indizi di un’antica tradizione su discorsi e fatti della vita di Gesù, simile nella forma e contemporanea a quella sinottica; con la sua esposizione, però Giovanni persegue un fine suo proprio, che è la chiave migliore per spiegare il sorprendente rapporto di riflessione teologica, è necessario riconoscere che la tradizione giovannea contiene non poche informazioni complementari attendibili sotto l’aspetto storico.

Modelli a confronto: i prologhi dei Vangeli sinottici

Proponiamo, come esemplificazione, un confronto a proposito del mondo di iniziare il racconto evangelico nei Sinottici e in Giovanni.

Stimato fin dall’antichità a ragione quello più recente, il quarto Vangelo doveva conoscere i tentativi già attuati dai suoi colleghi sinottici di produrre una testimonianza scritta della storia singolare di Gesù, proprio perché non si perdesse la memoria di questo evento rivelatore e vivificante, e perché i credenti, in stragrande maggioranza tagliati fuori dalla contemporaneità storica con Gesù, disponessero delle testimonianze adeguate per conoscerlo nella sua autentica identità salvifica, e non ricercarlo a vuoto. Senza pretese di trascrivere tutto su Gesù (così 21,25, con buona pace di At 1,1!), ma pure senza complessi d’inferiorità per il proprio limite, Giovanni dichiara che

Molti altri segni fece Gesù, sotto gli occhi dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il cristo, il Figlio di Dio, e perché credendo abbiate vita nel suo nome (20,31).

Giovanni non è, quindi, il primo ad aver affrontato il dilemma di come e da dove cominciare un Vangelo. Sicché, per apprezzarne le scelte con cui aggancia il lettore per offrirgli un’adeguata chiave della persona di Gesù, converrà, quindi, confrontarci con i prologhi di Marco, Matteo e Luca.

Il prologo evangelico più antico (Mc 1,1-15)

Rispetto al più antico Vangelo di Marco, che esordiva con: «Inizio (archè) del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio…» (Mc 1,1), Giovanni condivide con il suo «In principio», condivide addirittura lo stesso primo sostantivo (archè).

Ma intorno a questa preziosa somiglianza verbale si accumulano non poche differenze, sia sull’idea stessa di «inizio/principio», sia sulla maniera di organizzare il prologo. Allargandosi vistosamente con un inno di ben diciotto versetti, Giovanni infatti si discosta dal più antico Vangelo di Marco che in senso diametralmente opposto preferiva piuttosto ridurre e nascondere il proprio prologo.

Cocendo il titolo iniziale (Mc 1,1) su di una citazione di compimento a propria volta direttamente assimilata al corpo del racconto: «Come è scritto nel profeta Isaia: “Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, t’addrizzate i suoi sentieri”» (Mc 1,2-3; cf. Ml 3,1; Is 40,3), Marco presenta subito Giovanni il battezzatore (1,4-8) per arrivare speditamente al battesimo di Gesù di Nazareth viene a ricevere dalle sue mani (1,9-11), prima di soggiornare nel deserto ( in compagnia di fiere, Satana, e angeli: 1,12-13), sospinto dallo Spirito, e poi di predicare in Galilea (1,1-15) e chiamare i primi discepoli (1,16-20). Marco ha fretta di metterci a più diretto contatto possibile con Gesù già adulto, impegnato nella sua vita pubblica a rispondere alla propria missione.

Mc 1,1-15 parte davvero di scatto, con un’accelerazione in medias res, che in un attimo ci immette nel vivo della storia, avviata con la solidarietà di Gesù al battesimo predicato da Giovanni. Come gli altri penitenti immerso anche lui nel Giordano per mano del suo precursore, misteriosamente partecipe di questo richiamo (kerigma) alla conversione, egli fa di questo evento ben più di un semplice spunto iniziale, assumendolo come un «principio», una sorta di «nucleo originario» anticipatamente comprensivo del suo Vangelo, la quintessenza sia della sua stessa predicazione, come pure come di quella post-pasquale (ecclesiale) su di lui.

Di fronte al battesimo di Giovanni (1,1-8) e a Gesù che, risalendone, ottiene pieno riconoscimento dal Padre (1,9-11.13), il lettore subisce un impatto di sconcertante rivelazione e inaudita profondità salvifica. Sapendo egli già chi sia Gesù (1,1), e conoscendo pure la promessa di Giovanni circa la venuta di uno più forte, a immergere nello Spirito (1,7-8), egli si vede invece arrivare un Gesù imprevedibile sottomesso al battesimo di penitenza, in corrispondenza con il quale riceve la teofania celeste, con lo Spirito e la voce del Padre («Tu sei il mio figlio prediletto: in te mi sono compiaciuto!»: 1,9-11).

Ma proprio a questo punto, ecco le sue cognizioni e predisposizioni sottoposte a uno sconvolgente effetto sorpresa: se infatti Gesù è «più forte» del Battista, perché mai si sottopone al suo battesimo, come gli altri peccatori? Sovente spacciato per un vivace racconto di gusto popolare ( il che è parzialmente vero), e perciò ingenuo ( questo invece è solo un pregiudizio esso stesso ingenuo), quello di Marco è in realtà un imponente racconto kerigmatico, perfino difficile da recepire col suo impatto mozzafiato che intreccia gli eventi compiendo ogni preventiva attesa con le spiazzanti sorprese di misteriose rivelazioni, la cui trafila corre sull’intera narrazione, e culmina nell’annuncio di Pasqua (16,1-8).

Da dove far cominciare la storia di Gesù?

Pur nella sua potenza kerigmatica il prologo marciano, però, non ha evidentemente soddisfatto gli altri tre suoi colleghi evangelisti. Matteo, Luca e Giovanni optano infatti in senso diametralmente opposto rispetto a Marco, tanto per forma quanto per contenuto. E così, se dal punto di vista letterario, invece di un prologo «nascosto», ne elaborano uno di proporzioni vistosamente accentuate; dal punto di vista contenutistico retrocedono invece con la memoria ben oltre il battesimo di Gesù adulto al Giordano, cercando radici più antiche della sua storia, in ordine a una sua identificazione più chiara tramite l’esplicitazione della sua misteriosa origine.

Ancorché fattore irrinunciabile al Vangelo (menzionato già nelle più sintetiche formulazioni kerigmatiche di At 10,37; 11,16; 13,24-25; 19,3-4), il battesimo di Giovanni non si impose come indiscutibile punto di partenza storico-narrativo della storia di Gesù, in quanto rispetto alla sua identità quell’inizio/principio ne offriva un’immagine di difficile decifrazione e perfino equivocabile (almeno fuori dalla stretta cerchia di Marco). Confrontando il più antico incipit marciano con quelli degli altri Vangeli viene da concludere ragionevolmente che nel cristianesimo primitivo dovette prodursi un intenso ripensamento critico circa la maniera di raccontare la storia di Gesù proprio relativamente all’ identificazione del suo inizio/principio. Per render ragione della sua identità, da dove far cominciare la storia di Gesù?

A questa semplice domanda, quanto impegnativa domanda Mc 1,1-15 rispondeva con la teofania prodottasi al battesimo di Gesù, riconoscendovi la manifestazione della sua relazione filiale a Dio, relazione unica, garantita dai cieli squarciati, dalla discesa dello Spirito dalla voce celeste. Irriducibile a semplice investitura (o vocazione) profetico-messianica di Gesù, quella relazione (al momento nota solo a lui, e coincidente col cosiddetto «segreto messianico» destinato a un drammatico svelamento), rimanda ben oltre la circostanza del Giordano, e presuppone, dal punto di vista di Marco, una cristologia se si vuole grezza, ma nient’affatto «bassa.

Sta di fatto comunque, che, raccontata così, quella sua immersione al Giordano generò qualche imbarazzo per le comunità primitive, poiché si prestava a un duplice equivoco: sia quello di un Gesù palesemente inferiore al profeta suo precursore (il dialogo di Mt 3,14-15 cercherà di scioglierlo), sia quello di un Gesù che solo all’uscita dalle acque sarebbe appunto diventato Figlio di Dio, senza esserlo precedentemente, secondo la riduttiva interpretazione nota come adozionista ed ebionita, che i successivi Vangeli, ciascuno a suo modo, si premurano di controbattere.

Un nuovo inizio, secondo Matteo e Luca

Comprendiamo allora la tendenza di Matteo, Luca (e Giovanni) a spostare all’indietro l’origine di Gesù, retrocedendo anche cronologicamente fino a un altro evento in cui far brillare la consistenza della sua relazione a Dio con inequivoca trasparenza. Questo appunto ci inducono a pensare i cosiddetti Vangeli dell’infanzia (Mt 1-2; Lc 1-2), nonché lo stesso prologo giovanneo.

Così dall’età adulta di Gesù Matteo e Luca si spingono indietro, fino alla sua preannunciata nascita e concepimento verginale da Maria a opera di Spirito Santo, per rimarcare com’egli non aspetti certo il battesimo al Giordano per diventare Figlio di Dio, dimostrando di esserlo fin dal suo stesso concepimento.

Ecco allora il prologo matteano ( per limitarci a Mt 1,1-17) intitolato «il libro della genealogia di Gesù Cristo, figli di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1), e successivamente articolato in una genealogia discendente (1,2-17) ispirata alla tradizione sacerdotale e cronistica. Questo molto ampio prologo genealogico, esplicitamente storico-salvifico (che interfaccia un uditorio giudiaco-cristiano, ma universalistico, con tanto di pagani annessi), si connette bene all’origine e nascita singolari di Gesù ( 1,18ss), conferendo alla sua successiva storia uno sfondo di robustissimo spessore. Fissandone gli inizi da lontano (Davide, Abramo) e dall’alto (Figlio di Dio), Gesù viene situato al singolare incrocio tra promessa orizzontale e pura grazia verticale, tra la discendenza abramitica e diretta potenza pneumatica (1,19ss). Significativa chiave d’interpretazione dell’identità di Gesù è la distorsione finale dell’abituale formula genealogica dove, a differenza degli altri generati, tutti collegati in linea maschile («Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe…») compare Maria, su cui non interviene un uomo: « Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale fu generato Gesù, chiamato il Cristo»: 1,16), bensì lo Spirito («Ciò che fu generato in lei, viene da Spirito Santo»: 1,22).

Per illustrare l’origine di Gesù, anche Luca inserisce una genealogia, ma solo dopo il battesimo (Lc 3,21-22.23-38), e riagganciando Gesù indietro fino ad Adamo e a Dio stesso («Figlio di Adamo, figlio di Dio»). Inoltre, ispirato alle convenzioni degli storiografi antichi, e rivolto a un uditorio di raffinata cultura ellenistica, apre con un breve proemio storico-letterario ( Lc 1,1-4), dove si mantiene piuttosto riservato sul contenuto salvifico-cristologico della sua opera. D’altronde Luca rompe subito ogni reticenza con il suo ben arrangiamento dittico tra Giovanni Battista e Gesù, confrontati in chiave tipologica e secondo il genere delle vite parallele ( che sarà prediletto da Plutarco), a partire dall’annuncio della loro missione pubblica (Lc 3-4), per entrambi portatrice di rivelazione profetica. Il concetto di archè è invece da lui riferito all’inizio della vita pubblica di Gesù (Lc 3,23) come pure all’inizio della missione ecclesiale (At 11,15).

Il prologo giovanneo

Da parte sua Giovanni apre invece con un prologo innico, di stampo sapienzale (Gv 1,1-18). Contando sul potere maggiorato di quel linguaggio poetico, laudativo (e canoro) cui Israele affida le proprie migliori espressioni di fede nel suo Dio, Giovanni più d’ogni altro elabora le potenzialità di un prologo ben spiccandolo rispetto al corpo successivo del racconto, ma anche mantenendo narrativamente e contenutisticamente omogeneo al successivo sviluppo, senza mortificare quest’ultimo. Se infatti per Gv 1,1-18 parliamo d’un prologo innico, un vero e proprio prologo narrativo sarà riconoscibile nella prima sezione del Vangelo (1,19-2,12), comprendente la testimonianza del Battista (1,19-34), la sequela/ricerca dei primi discepoli (1,35-51), fino alle stesse nozze di Cana (2,1-12). Qui all’inizio dei segni di Gesù, coincidente con la prima manifestazione della sua gloria, determinante la prima fede dei discepoli come gruppo (2,11), fissa una bella inclusione sull’idea di inizio (1,1; 2,11), chiudendo così la prima unità letteraria maggiore, magnifica ouverture del quarto Vangelo, comprensiva d’un prologo poetico e di uno narrativo, insieme formanti un unico intenso preludio della storia di Gesù.

In tal senso prologo poetico e successivo racconto giovanneo stanno tra di loro in un rapporto così descrivibile:

Non è solo il Prologo che ha bisogno del Vangelo, ma è anche il vangelo che ha bisogno del Prologo, perché, fin dall’inizio, si veda chiaramente di chi si tratta quando è in questione Gesù. Il genere del Vangelo, in quanto racconto della storia di Gesù. Il genere del Vangelo, in quanto racconto della storia di Gesù, si caratterizza per un punto di partenza preciso e per una fine precisa. Spesso si è fatto notare che il Vangelo di Giovanni radicalizza la questione del punto di partenza rispetto agli altri Vangeli. Non comincia con la comparsa del Battista (Marco), né con il racconto della nascita di Gesù (Luca), né con una specie di genealogia (Matteo), ma situa l’inizio nell’inizio primordiale, prima ancora della creazione, cioè in Dio stesso. La questione del punto di partenza della storia di Gesù è la questione della sua origine. Ora, la questione della sua origine è nello stesso tempo la questione della sua identità. La questione dibattuta nel Vangelo - da dove questo Gesù trae origine? (cf. 7,27-28; 8,14; 9,29.30; 19,9) – è l’equivalente della questione: chi è questo Gesù? Il mistero dell’origine di Gesù, che è quello della persona stessa di Gesù, è svelato nel Prologo.

(da Parole di vita, 6)

Venerdì, 18 Gennaio 2008 23:41

In principio (Roberto Vignolo)

In principio

di Roberto Vignolo

«Principio» (archè), «indica sempre un primato di tempo, o di luogo, o di grado» (G. DELLING). Usato con massima pregnanza nominale diventata addirittura un titolo divino (Ap 3,14), magari in opposizione polare con télos: «Io sono il poncio e la fine» (Ap 21,6; 22,13). Può significare inizio o origine, ovvero quintessenza, prototipo. Magari questi due sensi sono simultanei, come in Gv 2,11, dove il vino di Cana è definito come archè ton deméion, cioè il primo ma anche il prototipo di tutti i segni poi operati da Gesù.

Nella tradizione giovannea si distinguono formule simili costruite con lo stesso sostantivo, ma con preposizioni diverse, e tuttavia differenziate nella loro costruzione, come pure di portata assai diversa. Così più frequenti ( anche nell’ambito del linguaggio ordinario) sono le formule «da principio» (con ap’ archês: 8,44; 15,27; 1Gv 1,1; 2,7.13-14.24; 3,8.11; 2Gv 5-6; e con ex archês : 6,64; 16,4). Più rara invece quella in testa al prologo del Vangelo: «In principio» (en archè: 1,1-2), che riprende Pr 8,23 (LXX), dove la Sapienza proclama: «Dall’eternità fui fondata, fin dal principio (en archè), prima dell’origine della terra» (cf. Sir 24,9; 4Esd 6,1-6).

Diversamente da «in principio», che rimanda al rapporto più originario possibile oltre la storia stessa, tra Gesù Logos/Figlio e il Padre (di cui si è già detto nel testo), «da principio» (ex archês), fa invece riferimento all’avvio dell’esperienza discepolare tra Gesù e i suoi, alla loro primitiva elezione e sequela. A sua volta, «da principio ap’ archês » fa pure riferimento a un evento intrastorico, che in 8,44 indica il principio della storia della salvezza, guastato dall’invidia del diavolo omicida e bugiardo, pregiudizialmente nemico alla verità di Gesù.

Invece 1Gv 1,1-4 indica l’esperienza della originaria manifestazione (phaneròo per ben 2x al v. 2) di Gesù Logos vivificante ai primi testimoni suoi destinatari e in seguito tradenti aisuccessivi credenti. In 1Gv 2,7-8 si riferisce al comandamento dell’amore reciproco, «antico» in quanto ricevuto dai credenti fin dal primo momento della loro esperienza di fede, e tuttavia «nuovo» in quanto verità e luce dissipante le tenebre. Insomma, il principio della fede cristiana coincide nel suo oggetto con il «principio» assoluto del cristianesimo: sia oggettivamente (nella storia), sia soggettivamente (nell’accoglienza dei cristiani), ed è riconducibile al Cristo verità dei e nei credenti (cf. DE LA POTTERIE, Studi di cristologia giovannea, 237).

(da Parole di Vita, 6)

Venerdì, 18 Gennaio 2008 23:28

16. L'esilio (Rinaldo Fabris)

Nonostante il trauma dello sradicamento dalla propria terra e i disagi del trasferimento attraverso il deserto, la vita in terra di esilio non è di tipo schiavistico.

Lezione Sedicesima

L’ESISTENZA CRISTIANA NEL MONDO

 



Introduzione

1. Mentre l.a figura umano-divina di Gesù si dileguava tra le nubi del cielo nell'ascensione, gli angeli ammoniscono gli apostoli a girare gli occhi verso la terra: «Perché state a guardare il cielo?». E indicano loro l'ultimo appuntamento della storia: la seconda venuta di Gesù: «Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto in cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo» (At. 1,11).

La storia che va dalla Pentecoste alla seconda venuta dev'essere coperta dall’attività della Chiesa e del cristiano per fermentare con l'evangelo: «l’andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mt. 28,16-20 e parr.). La nostra storia è il tempo del regno, il terreno in cui Dio prepara e compie la salvezza.

Il contenuto del decreto

Donazione di sé
per la vitalità della Chiesa

di Paolo Molinari

La regola del Concilio nell’affrontare il tema della vita religiosa è stata la novità nella continuità, con un rinnovamento e conseguente adattamento ai tempi. Anche per le società apostoliche il nucleo centrale resta la risposta alla chiamata che Dio fa a persone disposte a lasciare tutto: una forma di totale appartenenza a Dio per il bene altrui.

Papa Benedetto XVI, nel discorso del 22 dicembre 2005 che aveva per tema "Una giusta ermeneutica per leggere e recepire il Concilio come grande forza di rinnovamento della Chiesa" (1) affermò: «È proprio in questo [...] che consiste la natura della vera riforma. In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti [...] dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti [...].In tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo».

Tale frase pone nella sua giusta luce e permette di apprezzare l’importanza della saggia azione compiuta nei riguardi del decreto Perfectae caritatis da un considerevole numero di Padri conciliari, i quali ottennero non solo che il titolo del documento fosse radicalmente cambiato (2),ma riuscirono anche a fare sì che poi venissero in esso enunciati i principi fondamentali e duraturi di quella forma di vita che inconcusse pertinet alla vita della Chiesa (LG 44).

Il Concilio, con espressioni biblico-teologiche di grande valore, nel Proemio ha deliberatamente messo in luce e descritto la fecondità dell’azione esercitata dallo Spirito in seno alla Chiesa e dalla quale proviene la presenza in essa dei religiosi. È infatti lo Spirito che, in quanto anima del Corpo di Cristo, con la sua azione vivificatrice fa sì che molti uomini e donne si sentano spinti a offrirsi totalmente al Signore per vivere in unione a Cristo Gesù e seguire lui che, vergine e povero (cf Mt 8,20; Lc 9,57), ha redento e santificato gli uomini con la sua obbedienza spinta fino alla morte di croce (cf Fil 2,8).

Tali persone, animate dalla carità che lo Spirito infonde nei loro cuori (cf Rm 5,5), sempre più vivono per Cristo e per il suo Corpo che è la Chiesa (cf Col 1,24), e quanto più fervorosamente si uniscono a Cristo con una donazione di sé che abbraccia tutta la vita, tanto più viene arricchita la vitalità della Chiesa e il suo apostolato diviene vigorosamente fecondo (cf PC 1).

Fin dalle prime battute un considerevole gruppo di Padri ottenne che nel primo numero del Perfectae caritatis venisse esplicitamente dichiarato che «per disegno divino si sviluppò una meravigliosa varietà di comunità religiose [...] per mezzo della quale si manifesta la multiforme sapienza di Dio»(3).

Principi duraturi

Alla luce di questa breve premessa possiamo allora proficuamente porre in rilievo i punti del documento conciliare che, avvalendoci dei termini usati da Benedetto XVI, sono i principi che esprimono l’aspetto duraturo della vita religiosa.

1 Già nel Proemio, trattando della fecondità dell’azione esercitata dallo Spirito Santo nella Chiesa e della grande varietà di doni che da esso vengono elargiti, si parla esplicitamente «di coloro che, chiamati da Dio alla prassi dei consigli evangelici [...], si donano in modo speciale al Signore». È stato con ciò introdotto il concetto della "chiamata" facendo un diretto riferimento a colui che ne è l’autore: Dio.

Il decreto ha quindi posto in chiara luce la dimensione teologale della vocazione perché è Dio stesso che ne prende e detiene l’iniziativa: è un’azione che Dio compie nel più profondo dell’essere umano, un’azione plasmatrice, con cui egli conferisce un orientamento vitale, e con ciò la capacità interiore di collaborare liberamente e lasciarsi plasmare in modo da essere conformi a Cristo (cf Rm 8,29).

2 Nel trattare esplicitamente di coloro che «sono chiamati da Dio alla pratica dei consigli evangelici e ne fanno fedelmente professione» (PC 1), il documento parlando degli elementi comuni a tutte le forme di vita religiosa ha volutamente esplicitato in che cosa essa consiste e qual è la sua vera natura. Il Concilio ha fatto ricorso a una serie di espressioni neo-testamentarie: «Lasciando ogni cosa per amore di Cristo (cf Mc 10,28), lo seguano (cf Mt 19,21) come l’unica cosa necessaria (cf Lc 10,42) ascoltandone le parole (cf Lc 10,39) e pieni di sollecitudine per le cose sue (cf 1Cor 7,32)» (PC 5). Il Concilio ha così offerto una descrizione esistenziale e ben precisa della vera vita religiosa come risposta, data per amore, all’invito che Cristo offre ad alcuni di "essere con lui" (cf Mc 3,13 e 14).

3 Da questa descrizione, che evidenzia il rapporto personale e affettivo con Cristo e la donazione totale di sé alla sua persona per condividerne la vita, il modo di pensare, di agire e amare, si capisce agevolmente il perché del primato della vita spirituale e dello spirito di orazione nella vita del religioso (cf PC 6).

La preghiera non è la conseguenza dell’accettazione di una "regola", bensì l’espressione di una necessità vitale, frutto dell’amore personale per Cristo: in virtù di questo chi si dona a lui sente interiormente il bisogno di essere costantemente a contatto con lui e di approfondire l’intesa che esiste ed è la guida della condotta e del modo di vivere. Non per nulla era stata inserita l’espressione: «Animati dalla carità che lo Spirito Santo diffonde nei loro cuori (cf Rm 5,5)» (PC 1).

4 La presentazione della vita religiosa in termini di «donazione di sé a Cristo per seguirlo», e ciò in virtù di un vincolo di amore che unisce a lui, conduce ad avere una visione unificante dei tre voti religiosi.

Come già era avvenuto nella stesura del testo della Lumen gentium, nella quale il Concilio si era distanziato dall’ordine in cui si soleva presentare i consigli evangelici, così anche nel Perfectae caritatis è stata sistematicamente messa in primo piano la verginità consacrata. Questo è stato compiuto non solo perché il consiglio evangelico della verginità è quello più chiaramente attestato nel Nuovo Testamento, ma anche perché più degli altri mette in luce il valore primordiale e costitutivo della vita consacrata: una opzione fondamentale per il Signore fatta in risposta a un suo invito e quindi un legame di amore unitivo con la persona di Gesù Cristo.

Questo infatti la differenzia nel modo più chiaro da tutti gli altri stati e forme di vita esistenti nella Chiesa. Non per nulla proprio la verginità consacrata esige e postula una forma di carità particolare, cioè la totale donazione di sé a Dio con l’amore "del cuore indiviso(4).

Visione unificante dei voti

5 Proprio il fatto di aver invertito l’ordine dei consigli evangelici offre in modo profondo e vitale una visione dell’unità intrinseca che vige fra essi in virtù appunto della perfecta caritas. Coloro che tramite la verginità consacrata sono intimamente uniti a Cristo, in virtù della dinamica di questo amore, che è di per sé stesso unitivo, sono portati a condividere i suoi atteggiamenti, aspirazioni e preoccupazioni: essi condividono quindi la sua povertà e obbedienza e sono per ciò stesso associati alla sua opera salvifica.

Infatti Cristo, il Verbo di Dio incarnatosi per redimere l’umanità, per compiere la missione salvifica ha scelto per sé una vita di povertà estrema e di obbedienza assoluta e totale al Padre. Si tratta di una povertà che non riguarda solo i beni materiali ed esteriori, bensì di una disposizione interiore molto più profonda: cioè vivere sapendo di non appartenere a sé stessi perché totalmente "suoi", ossia proprietà di Dio. Ciò vuol dire vivere in completa dipendenza da lui con una disponibilità integrale a compiere tutto ciò che vuole e come vuole (PC 12; 13; 14).

Da tale visione unificante dei voti religiosi risulta evidente che, per mezzo di essi, i religiosi si uniscono a Cristo e quindi, insieme con lui, offrono l’olocausto di sé stessi per la redenzione di molti (PC 14).

Come era stato espresso nel Proemio, è dunque evidente che quanto più fervorosamente essi si uniscono a Cristo con la donazione di sé che abbraccia tutta la vita, tanto più si arricchisce la vitalità della Chiesa e il suo apostolato diviene vigorosamente fecondo: sono stati così posti in chiara luce il valore ecclesiologico e la portata apostolica che la consacrazione religiosa ha di per sé stessa.

Questo è importante perché si applica anche ai membri degli istituti religiosi integralmente dediti alla contemplazione e il Concilio ha deliberatamente voluto evidenziarlo (vedasi PC 7): infatti non è l’attività esteriore che ha un valore salvifico di per sé stessa, bensì la donazione totale di sé a Dio e l’assoluta dipendenza da lui vissuta con Cristo per redimere coloro che non riconoscono che la vita è loro costantemente infusa dal Signore e, ritenendosi autosufficienti, fanno di sé stessi il centro di tutto, sfruttano gli altri sopprimendo i loro diritti.

6 Si noti però che affermando con inequivocabile chiarezza che la finalità della verginità consiste nel fatto che le persone ad essa chiamate si donino a Dio solo "con cuore indiviso" in unione a Cristo Gesù, il Concilio non ha per nulla voluto dare adito all’errata opinione che chi vive nella sacra verginità diventa estraneo o inutile alla città terrestre (cf LG 46). Al contrario, se già nella Lumen gentium il Concilio aveva precisato che la perfetta continenza per il Regno dei cieli è uno «stimolo della carità e speciale sorgente di spirituale fecondità nel mondo» (LG 42), in Perfectae caritatis ha insegnato che «la castità osservata "per il Regno dei cieli" [...] rende libero in maniera speciale il cuore dell’uomo, così da accenderlo sempre più di carità verso Dio e verso tutti gli uomini» (PC 12).

Infatti con la donazione di sé fatta a Dio per vivere in unione a Cristo Gesù, i religiosi, conformandosi a lui, non potranno non vivere dei rapporti con gli esseri umani come egli li ha vissuti. Questi poi non furono solo di compassione e pietà, ma anche di profonda e vera amicizia, perché la nota tipica di questa è proprio di escludere la possessività e volere invece il bene dell’altro.

Perciò, per spiegare l’amore del cuore indiviso, si deve prendere grande cura di specificare che la mediazione offerta dalle creature che viene esclusa dalla verginità si riferisce esclusivamente a quel tipo di mediazione che viene vissuta nell’amore coniugale, che è di natura sua rapporto unitivo fra due esseri umani, i quali si donano e ricevono l’un l’altro, appartenendosi mutuamente nell’amore.

In tale contesto è di fondamentale importanza annotare che l’amore umano non si limita ed esaurisce in quello tipico del matrimonio: basta pensare (per non riferirci che a una sola altra forma di amore) all’affetto caldo di comprensione, vicinanza e sostegno esistente tra fratelli, tra un fratello e una sorella; rifacendoci poi ai vangeli, è doveroso considerare il legame di amicizia esistente fra Cristo, la Vergine, e alcune persone che gli erano particolarmente care.

È proprio l’amore verginale che, unendo in modo particolarmente intimo a Cristo chi vive nella sacra verginità, spinge a condividere fino in fondo la sua ansia di spendersi per gli uomini, di volere loro bene, e perciò di farsi vicino ad essi con autentico calore umano, proprio come ha fatto Gesù.

Chi è che “consacra”?

7 Il processo di risposta dato dalle persone umane all’iniziativa divina, con cui il Signore le invitava a vivere secondo i consigli evangelici, e il progressivo e crescente rapporto affettivo con nostro Signore Gesù Cristo, che fa sentire il desiderio di vivere in unione con lui condividendone la missione, gradualmente conducono chi è stato chiamato da Dio a sperimentare l’interiore e ardente bisogno di fare l’offerta di sé al Signore e di appartenergli totalmente. Questo è stato nettamente espresso nel Proemio: «Qui ad praxim consiliorum evangelicorum a Deo vocantur [...], Domino se peculiariter devovent, Christum sequentes, qui virgo et pauper (cf Mt 8,20; Lc 9,58) per oboedientiam usque ad mortem Crucis (cf Fil 2,8) homines redemit et sanctificavit» (PC 1).

Di questa realtà si parla anche più avanti raccomandando a tutti i membri di ogni istituto di “ricordarsi anzitutto di aver risposto alla divina chiamata con la professione dei consigli evangelici” e con ciò di aver fatto sì che “tutta la loro vita è stata posta al servizio di Dio (PC5). La risposta data dall’essere umano all’azione di Dio è stata quindi chiaramente espressa con i due termini latini “se peculiariter devovent” (PC 1) e “totam vitam suam eius famulatui mancipaverunt” (PC 5).

Linguisticamente parlando se devovere si traduce e significa "offrire sé stesso", "dedicarsi", "fare l’oblazione di sé"; vitam mancipare vuol dire "cedere formalmente in possesso la vita", "far prendere la vita". Questi verbi esprimono dunque l’atteggiamento dell’essere umano che, chiamato da Dio, fa a lui l’oblazione di sé.

Tali termini molto significativi purtroppo sono stati spesso tradotti in modo gravemente errato, sia grammaticalmente che teologicamente, e questo nel modo seguente: se devovent in "si consacrano", vitam mancipaverunt in "hanno consacrato la loro vita", come se fosse la persona a consacrare sé stessa, mentre invece è solo Dio che può consacrare(5).

Secondo il decreto, quando il religioso/la religiosa compie l’offerta totale di sé e mette con ciò la propria esistenza a completa disposizione di Dio, allora viene da lui consacrato/a; questa presa di possesso da parte di Dio crea un nuovo legame sacro fra Dio e il religioso che approfondisce quello del battesimo.

Si tratta di un’alleanza personale ulteriore con cui l’essere umano, in risposta a un invito amorosamente rivoltogli dal Signore, per amore si dona consapevolmente a lui «summe dilecto» per vivere solo per lui («soli Deo vivant», «totam enim vitam suam eius famulatui mancipaverunt», PC 5). Conseguentemente a questa offerta totale di sé fatta dall’essere umano, Dio "lo fa suo" in modo speciale, mette su di lui/lei il suo sigillo, come lo sposo, al donarsi a lui della sposa, mette sul dito di lei l’anello, segno di un’appartenenza speciale al marito.

L’analogia è quanto mai opportuna, infatti con la professione dei tre consigli il religioso dimostra e pubblicamente dichiara di aver preferito e anteposto il Signore Dio a un altro essere umano, come avrebbe potuto fare donandosi all’altro nel matrimonio: questo è il vero e profondo significato del termine "professione", che deriva dal verbo "profiteri", ossia "dichiararsi pubblicamente per qualcuno”.

Come autorevole conferma di quanto or ora detto, facciamo presente che la Commissione dottrinale-teologica del Concilio responsabile della redazione del testo del capitolo VI della costituzione dogmatica sulla Chiesa che tratta dei religiosi, al n. 44 aveva già posto chiaramente in luce la complementarità fra l’attività dell’essere umano e quella di Dio. A proposito della prima si era detto che "obbligandosi" all’osservanza dei consigli evangelici, il religioso «si dà, si cede formalmente in possesso a Dio»; a proposito della seconda - e cioè dell’attività di Dio - è stato detto che è solo a seguito della totale donazione di sé fatta dalla persona che questa «viene consacrata più intimamente al servizio di Dio»: è allora Dio che la prende in suo possesso, la fa più profondamente sua consacrandola al suo servizio.

Proprio a tale proposito la Commissione teologica, allo scopo di eliminare ogni malinteso in materia della consacrazione religiosa, ha rilasciato una dichiarazione ufficiale dicendo che il termine consecratur deve essere inteso «sub forma passiva, subintelligendo a Deo»(6).

La comunità

8 Una volta confermati e riproposti in chiave scritturistica i principi che esprimono l’aspetto duraturo della vita religiosa, è ben agevole comprendere come le persone che sotto l’influsso della grazia di Dio hanno accolto la sua chiamata a tale forma di vita, essendosi date interamente a lui ed essendo state da lui "consacrate" in modo speciale al suo servizio, condividano dal più profondo del loro essere questo spirito di appartenenza a Dio. È proprio questo ciò che fa sì che esse siano in comunione fra loro, si intendano mutuamente, si sostentino a vicenda, collaborino fra loro e costituiscano così una comunità.

Di tale vincolo di amore mutuo fa parte quel tratto particolare della grazia della vocazione data da Dio in virtù del quale le singole persone, chiamate da lui a seguire Cristo per condividerne la missione, hanno sperimentato una particolare attrazione verso questo o quell’aspetto della missione e dell’attività di Cristo Nostro Signore che «passò facendo del bene» (At 10,38).

Questa ulteriore qualifica della vocazione si ricollega al carisma particolare concesso da Dio a quegli uomini e donne (fondatori e fondatrici) che «dietro l’impulso dello Spirito Santo» «condussero, ciascuno a loro modo, una vita consacrata a Dio», «cosicché per disegno divino si sviluppò una meravigliosa varietà di comunità religiose che molto ha contribuito a far sì che la Chiesa non solo sia ben attrezzata per ogni opera buona (cf 2Tim 3,17) e preparata all’opera di servizio per l’edificazione del Corpo di Cristo (cf Ef 4,12)» (PC 1).

Rinnovamento-adattamento

Tenendo presente questi punti con cui abbiamo cercato di porre in chiara luce l’esposizione che il decreto Perfectae caritatis ha voluto offrire a proposito della natura stessa della vita religiosa, si può agevolmente capire perché – come abbiamo detto all’inizio – un considerevole numero di Padri conciliari (in primo luogo fra essi i superiori generali degli ordini religiosi e, insieme a loro, molti dei vescovi religiosi) avevano insistito e anche ottenuto che invece di parlare del solo adattamento della vita religiosa alle mutate circostanze dei tempi, venisse data la dovuta priorità al rinnovamento di essa.

Quando la vita religiosa è intesa come una forma di totale appartenenza a Dio e quindi un vivere in unione a Cristo per il bene altrui, è evidente che – in virtù della sua stessa natura – per vivere con rinnovato vigore ciò che essa è, deve adattarsi alle necessità dei tempi e quindi abbandonare quelle modalità esteriori e quelle opere che non sono più attuali (PC 3 e 20).

A quarant’anni dal Perfectae caritatis ritengo che là dove ci si è attenuti a quei "principi che esprimono l’aspetto duraturo" si è favorito un autentico rinnovamento e che questo ha portato con sé quel doveroso «adattamento alle odierne condizioni fisiche e psichiche dei religiosi» richiesto dal Concilio (PC 3), infatti, come Benedetto XVI si è espresso, «le decisioni riguardanti cose contingenti dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti».

(da Vita Pastorale, aprile 2006)

Note

(1)L’Osservatore Romano, “Discorso di Sua Santità Benedetto XVI alla curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi”, 22 dicembre 2005, pp. 4-6.

(2) Quando lo schema del decreto sulla vita religiosa fu messo in discussione il 10,11 e 12 novembre 1964, si assistette a un massiccio e considerevole numero di interventi: in particolare, monsignor Pacifico Perantoni ofm,che parlò a nome di 369 Padri; monsignor James Caroll, a nome di 433 Padri; Monsignor Victor Sartre sj, a nome di 265; padre Anastasio del SS. Rosario ocd, a nome di 181.

(3) Il gruppo dei Padri conciliari aveva fortemente e congiuntamente reagito per contrapporsi all’opinione di alcuni vescovi che cercavano di far dichiarare dal Concilio che nella Chiesa esistono due stati di origine divina, e cioè la gerarchia e il laicato. In modo particolare si deve far menzione di un “esposto”, sottoscritto da ben 679 Padri, che fu condiviso dallo stesso Paolo VI e da lui trasmesso alla Commissione dottrinale-teologica del Concilio. Questo intervento era di tale peso e valore che la Commissione dovette riformulare il testo antecedentemente preparato che esprimeva l’opinione errata nel senso predetto, e sostituirlo con la seguente frase: “Lo stato dunque, che è costituito dalla professione dei consigli evangelici, pur non riguardando la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene tuttavia in modo inconcusso (irremovibile) alla sua vita e alla sua santità” (LG 44). Per una dettagliata esposizione della storia di quel periodo del Concilio vedasi: “Il Capitolo VI “De Religiosis” della Costituzione dogmatica sulla Chiesa. Genesi e contenuto dottrinale alla luce dei documenti ufficiali, a cura di Molinari P. e Gumpel P., Quaderni di Vita Consacrata 9. Editrice Ancora 1985, Milano; edizione inglese, Roma 1987.

(4) In merito rinvio al libro sopra indicato alla nota 3, in specire le pp. 152-180.

(5) Su tutta questa materia mi permetto di fare riferimento a due articoli da me pubblicati nella rivista Vita Consacrata: “Divino obsequio intimius consecratur”, maggio 1972, pp. 401-432.

(6) S. Oecum. Conc. Vaticanum II, Schema Const. Dogm. De Ecclesia. Modi a PP. Conciliaribis propositi a Commis. Doctrinali esaminati, V, caput VI De religiosis, Typ. Pol. Vatic., 1964, p. 7, ad 2

Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

EBRAISMO

Più vicini a Dio, più luce ci sarà

di Rabbino David Sciunnach


DOMANDA

Dio è unico, le religioni sono tante, cosa sono ed a cosa servono?
La diversità fa anche la qualità, esistono tante vie per arrivare a Dio quante sono le persone.
Le religioni sono aspetti della realtà umana, tradizioni che Dio ha dato. Un racconto descrive le relazioni fra gli uomini, significativo anche per le religioni: «Se tutti stanno sulla tolda della nave non c’è problema; non è così se qualcuno viene lasciato senz’acqua da bere nella stiva. Per liberarsi non si preoccuperà di forare lo scafo, facendo affondare anche chi, sul ponte, si sente sicuro e vuole proteggere i propri privilegi».

L’ebraismo ha così tanti precetti, positivi e negativi, rivolti a Dio e al prossimo, che essere ebrei non è solamente una concezione religiosa, bensì un modo di vivere molto difficile. Suo fondamento è la Torah, già in sé un paradosso. È particolare, perché vi è scritta la storia del popolo ebraico, da Abramo fino alla morte di Mosè, e contiene i precetti; ma è universale, perché riguarda tutte le creature del mondo. Se Dio avesse voluto dare la bibbia solo a Israele, l’avrebbe iniziata con la sua storia e non con la creazione! Noè non era ebreo, eppure è scritto che un uomo giusto era nella sua generazione. Non è necessario essere ebrei per essere giusti e degni di entrare in paradiso vicino a Dio benedetto, ma bisogna essere persone rette.

I comandamenti che Dio ha dato all’umanità fondano la morale del mondo in cui ci riconosciamo. La morale ebraica viene dalla Torah, perciò è divina e immutabile. Dio sa dove l’uomo sbaglia, perché l’ha fatto lui, perciò gli ha posto degli argini. Esiste però anche la morale del mondo contemporaneo che cambia con le esigenze delle generazioni e dei popoli. Se fossimo veramente religiosi, cioè capaci di percepire la santità di Dio in ogni azione e creatura vicino a noi, il nostro rapporto con Dio e col prossimo sarebbe totalmente diverso. La pace sarebbe una conseguenza scontata.

Si guardano spesso i punti in comune tra le varie religioni, ed è davvero importante. Ma bisogna anche guardare le differenze, conoscendole si abbattono i pregiudizi. Sono la paura e la non conoscenza che ci fanno fare cose non giuste; quindi bisogna ampliare la conoscenza: è fondamentale.

A Milano abbiamo appena fondato il Forum delle religioni. Un traguardo enorme, con tutti i rappresentanti delle religioni: cristiani, ebrei, musulmani, buddisti, scintoisti. Ma è solo l’inizio di una reciproca conoscenza, da estendere alla base e non limitare ai vertici.

Il popolo di Israele è chiamato a essere popolo «eletto». Traduzione imprecisa. La radice della parola ebraica vuol dire «capace»... di distinguersi dagli altri popoli per l’osservanza dei precetti divini della Torah ed essere d’esempio.

Però siamo esseri umani e sbagliamo. In Israele si dice: la vita non è un pic-nic! Sarebbe bello se lo fosse, invece è spesso sofferenza. Che fa crescere e capire certe cose. Ci rendiamo conto dell’importanza di un bene o di una persona solo quando le perdiamo.

È così anche per la pace: dovremmo apprezzarla di più quando l’abbiamo, quando viviamo in un momento di pace. La pace biblica è una pace «completa». In ebraico le parole saluto, essere completi e Gerusalemme hanno la stessa radice, quindi c’è un legame fra di esse. Quando si incontra qualcuno in Israele il saluto, shalom, è augurio di poter essere completo, di non avere nessuna mancanza.

Tra gli esseri umani, quando due persone fanno pace, uno dei due ci rimette sempre. Nella bibbia non è così: nello shalom biblico entrambe sono complete e soddisfatte. Quindi l’augurio che bisogna farsi è quello di arrivare veramente a questo.

Riuscirci dipende da noi. Dio ha creato il mondo e poi ce l’ha dato, con le qualità per fare o distruggere. Il problema è che siamo sulla terra solo di passaggio, ma spesso ce ne dimentichiamo, pensando di essere eterni. Anche per chi vive a lungo la vita vola in un batter d’occhio. Non sta a noi finire il lavoro, sta a noi iniziarlo!

Il Talmud dice che chi salva una vita salva un mondo intero. È importante il contributo individuale: se accendiamo una luce, ciascuno ne accenderà altre e più vicini a Dio saremo, più luce ci sarà!

(da MC, gennaio 2007)

* Rabbino David Sciunnach, nato a Roma, si è trasferito in Israele, dove ha frequentato la scuola rabbinica. Nel 2000 è arrivato a Milano dove opera presso l’Ufficio rabbinico. Attualmente è assistente per il Tribunale rabbinico e per l’Assemblea Rabbinica Italiana. Ha pubblicato articoli e testi di preghiere ed è assistente dell’attuale rabbino capo di Milano, Arbib.


Il sentiero di Isaia

di Don Paolo Farinella *

Negli anni ‘50, Giorgio La Pira (sindaco di Firenze tra gli anni ‘60 e ‘70) girava il mondo avvertendo che tutte le guerre erano vecchi arnesi, perché il terzo millennio sarebbe stato il millennio dei bambini, dei monaci, dei poeti, dei poveri, degli artigiani... Lo diceva a tutti i potenti dell’epoca e proponeva la profezia del «sentiero di Isaia» (Is. 2,2-5). In essa Israele, per diritto e per grazia, ha il ruolo di guida dei popoli verso il monte del Signore: perché tutti imparino la Torah e disimparino l’arte della guerra, convertendosi a relazioni di pace.

In realtà tutto sembra andare al contrario. La guerra contro il terrorismo lo alimenta e ingrassa. Le elezioni, che avrebbero dovuto condurre i palestinesi alla democrazia, portano un estremista a esserne il capo. Si vuole la pace in Medio Oriente e Hamas ha nei suoi programmi la distruzione dello stato d’Israele che, per difendersi dagli attacchi, finisce per costruire un muro. Crescono violenza, illegalità e ingiustizia. La paura domina i giorni e le notti. Ma è solo la polvere che copre la superficie. Scendendo a un livello più intimo ci accorgeremo che i «segni dei tempi», i tempi di Dio che parla e ci chiede di essere segno visibile della sua immagine e somiglianza nel mondo, sono nell’ordine della profezia. Per capire come coglierli occorre intendersi sul significato delle parole che usiamo.

Il termine oggi più abusato e malinteso è «religione». La religione nasce dalla paura del limite umano, della morte: sentimento profondamente umano, che accomuna tutte le religioni. La divinità è percepita contemporaneamente come causa del proprio limite e come meta del proprio desiderio.

Spazi (templi/chiese) e tempi (sacrifici/liturgie) sacri sono il pedaggio che l’uomo paga in cambio della protezione divina. L’uomo religioso crede in un Dio, reale o immaginario, con cui viene a patti, pur di avere protezione, assistenza, sicurezza, garanzia. La forza della religione risiede nella tradizione, per sua natura ripetitiva, immobile, immodificabile e per questo rassicurante.

Fede è il contrario di religione. Nasce da un incontro personale e fisico con qualcuno con cui si instaura un rapporto di conoscenza e di sentimenti, che diventano comunione e scambio di vita. Non espressione di paura, ma atto di amore, la fede non è legata al tempo e allo spazio; quindi non ha bisogno di liturgie o di tradizioni e può essere vissuta ovunque, perché si fonda sull’esperienza personale. L’orizzonte dell’incontro non è più il cielo da scalare, ma la terra/umanità.

In questo senso ebraismo e cristianesimo si differenziano da ogni altra religione, perché presuppongono una fede in un Dio incarnato nella storia d’Israele e nella carne del Figlio di Maria.

Infatti, sul Monte Sinai Israele riceve non la legge, ma la Torah, cioè la persona stessa di Dio, che non si esaurisce nelle norme. Israele non riceve semplicemente una rivelazione, ma dialoga con Dio e la sua unicità consiste nell’identificazione del popolo con la propria religione. Risposero gli ebrei a una sola voce: «Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo». In questo sta la grandezza di Israele: si fida ciecamente di Dio; ed è questo Dio che deve annunciare al mondo, se questo mondo deve salvare.

Nel giorno dello Yom Kippur (giorno dell’espiazione), il sommo sacerdote entrava nel santo dei santi del tempio di Gerusalemme con gli abiti sacerdotali della solennità: sulla fronte portava la vite d’oro, simbolo dell’unità del popolo d’Israele; sul petto teneva l’efod, una stoffa rigida a forma di rettangolo su cui brillavano 12 pietre preziose, simbolo delle 12 tribù d'Israele; sulle spalle un mantello nel cui orlo inferiore erano cuciti 72 campanelli, simbolo dei popoli che abitavano la terra.

La liturgia nel tempio di Gerusalemme aveva queste tre caratteristiche: richiamava l’unità (vite d’oro), esprimeva la diversità (efod) e assumeva l’universalità, includendo anche i popoli pagani (campanelli). È tempo di riprendere questi temi e viverli nel nostro oggi.

(da MC, gennaio 2007)

* Paolo Farinella, biblista, giornalista e scrittore, ha esperienza dei rapporti fra le tre grandi religioni monoteiste e della realtà socio-politica nella quale sono inserite per aver vissuto a Gerusalemme dal 1998 al 2003.




Riflessione, a più voci, sull'ecumenismo

Una riforma della Chiesa, che la adegui a ciò che il Signore le chiede oggi, esige che essa tenga conto di quelli che sono i "segni dei tempi" e cioè del fatto che, essendo essa pienamente inserita nella storia dell’uomo, i mutamenti che avvengono nella società la toccano nella viva carne e profondamente. Lo Spirito condurrà la Chiesa all’unità, ma già fin d’ora è auspicabile un dialogo serio, portato avanti con coraggio e determinazione.
1. La riforma della Chiesa:
una necessità costante

di Giovanni Cereti *

Con il concilio Vaticano II l’appello alla riforma è tornato a risuonare nella Chiesa cattolica in stretto collegamento con l’invito a impegnarsi per la riconciliazione dei cristiani.
Il Concilio stesso ha operato una grande riforma nella teologia e nella prassi ecclesiale, ma non possiamo nasconderci che ci sono ancora ambiti non rivisitati.

La coscienza della necessità di rinnovamento e di riforma nella comunità cristiana è stata viva sin dalle origini. Quando sorgevano nuove necessità, gli apostoli stessi vi sapevano provvedere (cf At 6,1).

Gli interventi dei responsabili delle comunità, così come le deliberazioni dei concili, determinarono sempre dei cambiamenti e delle riforme, che intendevano rispondere alle nuove esigenze e alle nuove situazioni. Se l’accento veniva posto per lo più sulla conversione e sul rinnovamento personale, che ha trovato la sua espressione più alta nel monachesimo, non è mai mancato nella Chiesa neppure il richiamo alle riforme e ai rinnovamenti comunitari, invocati per esempio da tanti movimenti popolari nel corso di tutto il Medioevo.

Un più esplicito appello alla riforma della Chiesa è risuonato poi più volte nella prima metà del secondo millennio, e di esso si sono fatti portavoce anche grandi uomini spirituali, più tardi venerati come santi nella Chiesa cattolica. Questo appello raggiunse anche i responsabili della Chiesa, ma naufragò nel contrasto fra i sostenitori dell’autorità del Papa ed i sostenitori di quella del Concilio, oltre che in una inadeguata concezione della riforma da realizzare, in quanto si guardava più a tornare a un passato idealizzato che a una nuova incarnazione del Vangelo nel mondo contemporaneo.

Il tempo del sospetto

Dopo gli eventi del XVI secolo e della Riforma protestante, lo stesso appello a una riforma divenne sospetto per secoli nella Chiesa cattolica. Soltanto con il concilio Vaticano II esso è tornato a risuonare, in stretto collegamento con l’invito a impegnarsi per la riconciliazione dei cristiani, a partire dalla convinzione che le divisioni esistenti sono state in larga misura la conseguenza non solo delle inadeguatezze, dei ritardi, dei difetti o dei peccati dei cristiani, e in particolare dei ministri della Chiesa, ma anche di insufficienze pastorali e culturali non imputabili a nessuno ma egualmente esiziali per l’unità.

Qualora la comunità cristiana avesse saputo operare a tempo debito i rinnovamenti richiesti dalle circostanze, molte dolorose separazioni non avrebbero avuto luogo. La riconciliazione delle Chiese esige pertanto che esse tornino a riavvicinarsi fra di loro, confrontandosi insieme con il Vangelo e con i segni dei tempi, e operando ovunque quelle riforme e quei rinnovamenti che si rivelassero necessari sulla base di questo confronto.

Agli inizi del XX secolo la Chiesa cattolica venne fecondata da molti movimenti di rinnovamento, i quali contribuirono fortemente al riavvicinamento fra i cristiani, come ricorda il secondo paragrafo di Unitatis redintegratio 6, dove si parla dei movimenti biblico, patristico, liturgico, teologico, che avevano posto le basi di un nuovo approccio alla fede cristiana, consentendo un ritorno alla Bibbia e alla tradizione più antica, un approfondimento delle vicende storiche e quindi una migliore conoscenza degli avvenimenti che hanno portato alle separazioni, oltre che dei condizionamenti culturali e storici che hanno accompagnato le formulazioni teologiche confessionali.

Oltre a questi movimenti, che operarono soprattutto sul piano della ricerca e dello studio, possono essere ricordati i rinnovamenti attuati sul piano pastorale, con un maggiore impegno del laicato, che lo portò progressivamente a prendere coscienza della dignità del suo battesimo e del suo essere Chiesa, determinando così una nuova valorizzazione del sacerdozio universale del popolo di Dio; l’elaborazione di una dottrina sociale della Chiesa, che non è stata senza paralleli con l’analogo cammino dei movimenti del "cristianesimo sociale" e di "Vita e Azione"; e l’impegno missionario risvegliato soprattutto con i pontificati di Benedetto XV e di Pio XI, che puntarono sulla creazione di un clero e di un episcopato "indigeni" e che consentirono alle giovani Chiese di Africa e di Asia di acquistare in pieno la propria dignità.

Fedeltà al Vangelo

È proprio in questa prospettiva di rinnovamento e di riforma che deve essere letta la decisione di far entrare la Chiesa cattolica nel movimento tendente alla realizzazione della piena comunione fra i cristiani. Il movimento verso l’unità e il movimento per la riforma e il rinnovamento ecclesiale vanno di pari passo, in quanto entrambi consistono nella ricerca di una maggiore fedeltà al Vangelo e alla propria vocazione, che sono comuni a tutti i battezzati e a tutte le Chiese, al di là delle attuali separazioni. Il Concilio lo ha affermato esplicitamente: «Siccome ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente nell’accresciuta fedeltà alla sua vocazione, esso è senza dubbio la ragione del movimento verso l’unità. La Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» (UR 6).

Non è superfluo sottolineare il fatto che in questo passo il Concilio afferma, riprendendo quasi alla lettera un’affermazione di Lutero («Ecclesia indiget reformatione»), che di rinnovamento la Chiesa ha sempre bisogno («perpetuo indiget»), e che l’impegno per la riforma è un dovere («ut oportet»), a cui è chiamata da Cristo.

Questa necessità può derivare da una situazione di peccato che si è determinata nella comunità cristiana, il che impone un atteggiamento di penitenza, ma forse la ragione di fondo che rende la riforma indispensabile dobbiamo trovarla proprio nella condizione peregrinante della Chiesa, nella sua stessa condizione ontologica, per la quale l’elemento divino in essa può diventare visibile e concreto solo in forme umane, storicamente e culturalmente determinate, incarnate nelle diverse epoche storiche. La resistenza al cambiamento negli elementi umani della Chiesa è il frutto di una mentalità "monofisita", che anche in essa sa scorgere solo la dimensione divina e considera quindi tutto irreformabile.

Si può anche ricordare che il Concilio utilizza nel passo appena citato l’aggettivo perennis e l’avverbio perpetuo, per rimarcare a due riprese che la necessità della riforma non viene mai meno, facendo in qualche modo proprio anche il principio delle Chiese riformate: «Ecclesia reformata semper reformanda». Per quante riforme siano già state realizzate nel corso della storia e anche nelle epoche più recenti, la Chiesa non solo ha bisogno di riforma, ma questa è talmente collegata alla sua condizione peregrinante, che non può mai considerarsi conclusa.

Una riforma della Chiesa, che la adegui a quello che il Signore chiede a lei oggi, esige che essa tenga conto di quelli che abbiamo definiti i "segni dei tempi", e cioè del fatto che, essendo la Chiesa pienamente inserita nella storia dell’uomo, i cambiamenti che avvengono in essa toccano profondamente la Chiesa. Ci si può domandare se ciò non costituisca un invito ad abbandonare il linguaggio che ha ereditato da una cultura medioevale, statica, rurale, prescientifica, il linguaggio di una società paternalista e fortemente gerarchizzata, il linguaggio di una cultura europea, per cercare di comprendere e parlare il linguaggio degli uomini ai quali essa è inviata.

Una nuova inculturazione del cristianesimo esige che esso sappia incarnarsi in tutte le culture del mondo; e in tutte le culture intese non solo in senso geografico, ma anche quelle culture contemporanee che tengono conto dei dati delle scienze naturali, delle scienze storiche, delle stesse scienze umane. E tutto questo, non per un superficiale adattamento al mondo e alle sue mode, ma per discernere e accogliere lo Spirito Santo che opera nel mondo.

I rinnovamenti decisi dal Concilio cominciarono a essere tradotti in atto in una serie di disposizioni, provenienti per lo più dalla Santa Sede, nel corso degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, che svilupparono anche nuove istanze sinodali ai diversi livelli della vita della Chiesa, e ciò nonostante le difficoltà e le resistenze che un tale rinnovamento incontrava al suo interno.

La strada è ancora lunga

Altri rinnovamenti tuttavia attendono di essere realizzati nella vita quotidiana delle Chiese attraverso la disponibilità alla riforma, l’apertura al cambiamento, l’impegno nel rinnovamento della vita concreta delle comunità locali, l’ascolto delle richieste che ci possono provenire da altri cristiani che ci aiutano a comprendere quante cose si rivelano discutibili alla luce del Vangelo.

Il pensiero corre a tante devozioni popolari, all’uso di titoli onorifici, a ricchezze non necessarie; ma anche a quei rinnovamenti nella celebrazione dell’eucaristia e nel culto dell’eucaristia al di fuori della celebrazione, richiesti dal Vaticano II e dalle riforme postconciliari, o a tutto quello che riguarda i rapporti fra l’episcopato e il primato del vescovo di Roma, o infine alla situazione della donna nella Chiesa. Tutto quello che viene fatto per il rinnovamento teologico e pastorale è al servizio non soltanto di una vita ecclesiale sempre più piena e più fedele al Vangelo, ma anche del riavvicinamento fra le Chiese. Il cristiano sa che il suo impegno porterà a tempo debito i suoi frutti, perché ha fiducia nello Spirito, che guida la Chiesa nella storia e che ha suscitato in essa il desiderio dell’unione (cf UR 1).

L’incessante rinnovamento, al quale la Chiesa è chiamata da Cristo (cf UR 6) per poter restare degna sposa del suo Signore (cf LG 9), si può realizzare grazie all’opera dello Spirito Santo, che incessantemente fa nuove tutte le cose. È lo Spirito che con i suoi doni rende atti i fedeli ad assumere opere e compiti per il rinnovamento e la crescita della Chiesa (cf LG 12), e che «con la forza del Vangelo fa ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo» (LG 4), in una fedeltà al passato, al depositum fidei, e nello stesso tempo anche al futuro, dal quale il Signore ci chiama, in una perenne attenzione al Vangelo e ai segni dei tempi.

È lo stesso Spirito che condurrà la Chiesa all’unità (cf UR 24), suscitando forse un incontenibile movimento nel popolo cristiano, analogo a quello che è riuscito a travolgere situazioni che apparivano sclerotizzate e immodificabili.

«Tra le tentazioni e le tribolazioni del cammino la Chiesa è sostenuta dalla forza della grazia di Dio [...], affinché per l’umana debolezza non venga meno alla perfetta fedeltà, ma permanga degna sposa del suo Signore, e non cessi, sotto l’azione dello Spirito Santo, di rinnovare sé stessa, finché attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto» (LG 9).


* docente presso l’Istituto di studi ecumenici, Venezia, e la Pontificia facoltà teologica Marianum, Roma

(da Vita Pastorale, dicembre 2005)

Bibliografia

Cereti G., Riforma della Chiesa e Unità dei cristiani nell’insegnamento del concilio Vaticano II, Il Segno 1985, Verona; Cereti G., Molte chiese cristiane, un’unica Chiesa di Cristo, Queriniana 1992, Brescia; Congar Y. M., Vraie et fausse réforme dans l’Eglise, Cerf 1952, Paris (tr. it., Vera e falsa riforma nella chiesa, Jaca Book 1968, Milano); Dizionario del Movimento Ecumenico, Dehoniane 1994 (1992), Bologna; Von Allmen J.J., Prophétisme sacramentel. Neuf études pour le renouveau et l’unité de l’église, Delachaux et Niestlé 1964, Neuchatel.

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