Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Domenica, 16 Marzo 2008 17:09

Cipriano (Lorenzo Dattrino)

CIPRIANO

di Lorenzo Dattrino



Cecilio Cipriano nacque verso il 210 a Cartagine, da famiglia non cristiana. La sua cultura conobbe molti sbocchi, secondo il costume del tempo, e abbracciò lo studio del latino, del greco e della retorica, ma del diritto, a differenza di Tertulliano, non sembra avere cognizioni approfondite. Divenne presto famoso come retore. Non fece viaggi, e rimase quasi continuamente entro gli orizzonti urbani e nelle consuetudini d’una agiata famiglia.

La conversione al cristianesimo ebbe la sua origine nell’incontro con un presbitero della città, di nome Ceciliano. Era l’anno 245. L’avvenimento sorprese tutta la città. La prima conseguenza di quella conversione fu la decisione di privarsi dei suoi beni patrimoniali: se di tutti o solo in parte, non si può dire. Nel 249, dopo la morte del vescovo Donato e a soli tre anni dalla sua conversione, fu eletto vescovo di Cartagine per acclamazione popolare. In quegli stessi anni è da porre l’inizio di una rara coscienza e di una instancabile dedizione a favore delle classi più povere. Era ormai da un trentennio che la chiesa cartaginese godeva di pace.

Nel 250 si scatenava la persecuzione di Decio. Furono imposti atti pubblici, da cui risultasse l’adesione di ogni cittadino al culto ufficiale: i renitenti erano condannati alla confisca dei beni, all’esilio oppure al lavoro nelle miniere. Sembra che la pena di morte fosse comminata soltanto ai vescovi. Molte, purtroppo, furono le apostasie, anche da parte di alcuni membri del clero. Cipriano ritenne opportuno o necessario ritirarsi nell’ombra, in luogo vicino alla città, e di là seguire e controllare gli avvenimenti. Si mantenne in vigile contatto con alcuni presbiteri,da lui scelti per il governo della sua chiesa attraverso un frequente invio di lettere.

Al cessare della persecuzione, dovuta unicamente alla morte di Decio, Cipriano poté ritornare a Cartagine nella primavera del 251. Sorse allora la questione della riammissione dei lapsi nella comunione della chiesa. I «caduti», appoggiati da parte del clero ostile a Cipriano, e sostenuti dagli stessi «confessori della fede», sopravvissuti alle torture, esigevano la riammissione. Cipriano ricorse a misure di grande prudenza, mettendosi in contatto anzitutto con altri vescovi dell’Africa e con Roma, in quel momento senza vescovo e governata, come abbiamo visto, dal Presbyterium, di cui faceva parte preminente il prete Novaziano Le decisioni prese dal concilio di Cartagine del 251 furono le seguenti: a) coloro che avevano sacrificato, denominati sacrificati dovevano fare penitenza, in previsione di esser riconciliati soltanto però in punto di morte; b) coloro che erano riusciti a ottenere un attestato dell’avvenuto sacrificio, senza però avervi partecipato, denominati perciò libellatici, erano ammessi alla penitenza e alla riconciliazione.

Intanto a Roma Novaziano, deluso per l’elezione di papa Cornelio, provocava lo scisma che da lui prese il nome, inteso a sostenere il rigorismo più esigente in rapporto ai lapsi. Cipriano e Cornelio rimasero fermi per una condotta di comprensibile riammissione.

Superato questo periodo di inquietudine interna, si abbatteva sulla città una sventura d’altro genere, la peste. La carità eroica, con cui Cipriano si prodigò per i colpiti dal contagio, induce a ricordare quella a noi più nota, in cui rifulse la carità di san Carlo e di Federico Borromeo a Milano. Passata anche questa sciagura, insorse un’altra penosa questione riguardo al battesimo conferito dagli eretici.

Il papa di quel tempo, Stefano I (254-257), sosteneva che non si doveva rinnovare quel battesimo. La tesi contraria era affermata da Cipriano, unitamente ai vescovi dell’Africa e dell’Asia Minore. C’era il rischio che si passasse alla provocazione di uno scisma: lo impedì la morte di papa Stefano nell’agosto del 257. Frattanto cominciava a infierire la tremenda persecuzione voluta dall’imperatore Valeriano. L’anno seguente (258), dopo un anno d’esilio, Cipriano moriva a Cartagine, martire della fede.



a) Le opere

«L’attività letteraria di Cipriano è strettamente legata agli avvenimenti della sua vita e del suo tempo. Tutti i suoi scritti sono dovuti a circostanze particolari e mirano a fini pratici. Cipriano era un uomo d’azione. Si curava più della direzione delle anime che di speculazione teologica. Non possedeva la profondità di Tertulliano, né il suo talento letterario e la sua ardente passione: era dotato di saggezza pratica». (1) Tra le sue numerose opere, sceglieremo le più singolari:

A Donato. Piùche una lettera, lo scritto si risolve in una pagina autobiografica. L’autore, da poco convertito, espone all’amico, specie nella prima parte, il mutamento prodottosi in lui per effetto della conversione alla fede cristiana. li destinatario non va confuso con Donato, vescovo di Cartagine. Si tratta di un amico, compagno della conversione. Ecco il brano più significativo di tutto lo scritto.


Lettura

La gioia della conversione

«Una volta io giacevo nelle tenebre di una notte buia; mi trovavo come sballottato sul mare del mondo che mi gettava in tulle le direzioni; incerto delle vie che mi si paravano davanti, ero in balia di me stesso e non ero consapevole della mia vita. Lontano dalla verità e dalla luce, ritenevo che fosse veramente difficile e pesante per i miei sentimenti di quel periodo ciò che la misericordia di Dio mi prometteva per portarmi alla salvezza. Ritenevo fosse difficile poter nuovamente rinascere e deporre le abitudini precedenti, anche se il battesimo nell’acqua della salvezza mi rinnovava a vita nuova. Ritenevo ugualmente difficile che un uomo potesse cambiare la mente e l’anima senza mutare nel suo fisico. Continuavo a dirmi: come sarà possibile una conversione così grande da liberarmi tutto a un tratto da ciò che fin dalla nascita si solidificò come quando si colloca del materiale e lo si ammucchia in depositi? Come sarà possibile liberarmi da quelle abitudini che ho indebitamente contratto e che da molto tempo mi dominano con arroganza, perché sono invecchiate con me? Queste abitudini sono legate a radici molto profonde [...j. Spesso mi trovavo con questi pensieri. Ero anch’io legato dai moltissimi vizi della mia vita passata e non avrei mai creduto di potermene liberare. I vizi aderivano alla mia vita e io continuavo ad assecondarli. Non pensavo più di poter raggiungere i beni migliori; per questo favorivo ciò che mi nuoceva come se fosse qualche cosa che ormai mi appartenesse e fosse cresciuto con me. Ma sopraggiunse l’aiuto dell’acqua che rigenera. La corruzione della vita precedente venne cancellata e dall’alto si diffuse una luce nel mio animo purificato e mondo. Ricevetti dal cielo lo Spirito e attraverso una seconda nascita diventai uomo nuovo. Dopo questo avvenimento ciò che era colpito dal dubbio divenne, in un modo che io non saprei descrivere, improvvisamente certezza; quello che era impenetrabile mi apparve accessibile e luminoso».

(A Donato 3,4. Tr. di G. Toso, Opere di Cipriano, Torino 1980, pp. 82-84)


• De lapsis (Gli apostati). Quest’opera, universalmente conosciuta, porta un titolo che, letteralmente, si riferisce ai «caduti» durante l’infierire della persecuzione di Decio; il titolo stesso, però, è reso più comunemente col termine di «apostati» o anche di «rinnegati». Lo scritto fu composto nella primavera del 251, quando era cessata la persecuzione e Cipriano era ritornato in sede a Cartagine dopo quattordici anni di esilio.
L’opuscolo passa in rassegna tre categorie in base al comportamento tenuto dai cristiani durante quel periodo di prova: i più fedeli, confessori della fede pur in mezzo ai tormenti; i caduti nell’apostasia; i «libellatici», che s’erano procurato astutamente il certificato di adesione. Lo scritto fu redatto in previsione del sinodo che i vescovi dell’Africa avevano deciso di organizzare nel maggio del 251 sui criteri da adottare in rapporto alla caduta dei cristiani. Cipriano ammetteva che «i caduti dovevano venire riconciliati. Egli insisteva però sulla necessità di una penitenza severa e prolungata: fin tanto che sulla conversione non avevano garanzie sufficienti, non bisognava riconciliare, salvo in punto di morte». (2)

• De catholicae ecclesiae unitate (L’unità della chiesa). Si tratta di una lettera pastorale, scritta in occasione dello scisma di Novaziano. Anche a Cartagine era in atto uno scisma, capeggiato dal prete Novato e dal diacono Felicissimo, tutti e due oppositori di Cipriano. Roma e Cartagine subivano dunque contemporaneamente le due deviazioni. Era l’anno 251. In seguito Cipriano riprese l’opuscolo con alcuni ritocchi, sicché, almeno per alcune parti, oggi si riconoscono due redazioni: la seconda fu scritta quando già si svolgeva la controversia sulla validità del battesimo conferito dagli eretici, come sosteneva il papa Stefano. Quest’opera può essere considerata come il primo trattato sulla chiesa. L’atteggiamento e il pensiero di Cipriano formano l’oggetto di conclusioni ancora molto discusse da parte degli studiosi. Ne vedremo il processo e il contenuto nel giudizio conclusivo.

• De dominica oratione (La preghiera del Signore). Contiene soprattutto il commento sulle singole petizioni del Pater noster. Precedono alcune premesse generiche sul modo di pregare e sulle doti che devono essere proprie di ogni preghiera. La conclusione afferma la necessità di accompagnare la preghiera con le buone opere, il che dona al breve opuscolo il pregio di un carattere sociale e comunitario.

• L’epistolario. È una raccolta di 81 lettere, delle quali ben 16 inviate allo stesso Cipriano da vari corrispondenti. Le lettere abbracciano tutte le fasi che distinguono i periodi più singolari della sua ricca esistenza. Sono divise in gruppi, secondo l’argomento, i destinatari e le occasioni che le hanno dettate. Vi è trattata la questione dei lapsi e lo scisma creato prima da Novato e poi da Novaziano. Vi è la corrispondenza con i vescovi di Roma, Cornelio e Stefano. Infine la questione sul battesimo conferito dagli eretici. L’importanza maggiore di questo epistolario affiora dalle notizie storiche, fornite da chi aveva vissuto tutte le vicende in prima persona.


b) La dottrina

Cipriano resta uno dei personaggi di maggior rilievo nella storia della chiesa cristiana antica. In rapporto ai grandi contenuti della fede, soprattutto in relazione ai misteri della Trinità e dell’incarnazione, la sua dottrina risulta irreprensibile. Ma è specialmente nei confronti della chiesa e del battesimo, dove appare particolarmente la sua sollecitudine, che hanno luogo alcune riserve. È stata infatti posta questa domanda: Cipriano riconosceva o no il diritto di Roma a intervenire negli affari di un’altra chiesa locale? Dalle risposte date dai vari studiosi, mi pare che quella di J. Daniélou sia tra le più evidenti: «Nel pensiero di Cipriano c’è certamente dell’ambiguità. O, più esattamente egli viene a trovarsi sulla confluenza di due correnti, alle quali rende ugualmente testimonianza, ma non ne vede ancora le possibilità di conciliazione. È attaccato all’unità della chiesa universale e in particolare al primato romano. Ma, d’altronde, è intimamente conscio dei diritti dell’episcopato locale. Papa Stefano dal canto suo, ha piena coscienza del suo diritto di intervenire negli affari delle altre chiese. E, d’altronde, Cipriano, in occasione precedente, sollecitandolo a intervenire, gli aveva riconosciuto questo diritto (...).

Se, al di là dei problemi particolari, cerchiamo di mettere in luce il significato della controversia, se ne vede l’importanza. Essa riguarda infatti la questione del principio e delle modalità del primato romano. Il conflitto non verte su questo primato in sé. Cipriano ne è uno dei grandi testimoni. Bensì verte sulla sua estensione. Quel che Cipriano rifiuta è un intervento in un settore che, a suo parere, è di pertinenza della chiesa locale. D’altra parte non c’è dubbio che la violenza della condanna scagliata da Stefano rivela una tendenza del vescovo di Roma a un abuso di autorità. Nella misura in cui difendeva la legittimità delle diverse tradizioni liturgiche, Cipriano protestava legittimamente contro le tendenze centralizzatrici di Roma. Ma nella misura in cui trattava una questione dogmatica, Stefano era nel giusto, affermando il diritto proprio di intervenire. L’avvenire dimostrerà che aveva ragione». (3)


Per l’approfondimento

Edizioni

PL 4; CSEL 3,1-2; CCL 3,1-2.

Traduzioni

G. Toso, Opere di san Cipriano, Torino 1980 (contiene: A Donato; La condotta delle vergini; Gli apostati; L’unità della chiesa cattolica; La preghiera del Signore; A Demetriano; La pestilenza; Le buone opere e l’elemosina; La virtù della pazienza; La gelosia e l’invidia; A Fortunato; Atti proconsolari; Lettere).

Studi

P. Brezzi, La riconciliazione ecclesiastica nella disciplina penitenziale secondo Tertulliano, Origene e Cipriano, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», Nuova Serie, vol. IV, 1952, pp. 105-127; L. Dattrino, L’ecclesiologia di san Cipriano, in «Lateranum» 50 (1984), 127- 150; G. Mongelli,La chiesa di Cartagine contro Roma durante l’episcopato di san Cipriano, in «Miscellanea francescana» 59 (1959), 104-201; E Trisoglio, San Cipriano: un governatore di anime, in «Latomus» XX (1961), 342-243; 549-567.


Note


1) J. Quasten, Patrologia, I, p. 578.

2) J. Daniélou, Nuova storia della chiesa, p. 244.

3) J. Daniélou, Nuova storia della chiesa, p. 247-248.

Il XX secolo è stato definito il secolo della Chiesa e, certamente, stiamo assistendo a movimenti di pensiero, nel campo ecclesiastico, che sconvolgono le vie tradizionali. Non siamo, tuttavia, dispensati dall'interrogare il nostro passato confessionale. Il problema dell'unita' della Chiesa non è una prerogativa del nostro secolo, anche se oggi assume delle proporzioni di primaria importanza.

Salvezza in Cristo e vita cristiana

di Pietro Rossano


L’EVENTO CRISTIANO




Gesù Cristo

1. Il cristianesimo prende origine da Gesù Cristo, personaggio storico, nato, vissuto e morto nella antica Palestina situata all’incontro di tre continenti e civiltà, l’Asia, l’Africa e l’Europa. Dall’anno della sua nascita prende origine il calendario moderno.

2. Gesù Cristo nacque a Betlemme da una vergine di nome Maria, della stirpe d’Israele, che lo aveva concepito per un intervento straordinario dello Spirito di Dio, e trascorse la più lunga parte della sua esistenza nel silenzio e nel lavoro quotidiano, nel piccolo villaggio di Nazaret.

3. Aveva circa 30 anni quando iniziò con autorità tra i suoi conterranei una predicazione pubblica, portando a tutti ed a ciascuno questo annuncio decisivo: « Dio vi chiama a convertirvi, a credere in lui e ad entrare nel suo Regno ». un invito pressante al rinnovamento spirituale, ma anche un annuncio di liberazione e di gioia: in Gesù, Dio si rivolge agli uomini per invitarli ad entrare in comunione con lui, e ricevere da lui la felicità alla quale aspirano.

4. Proclamò beati gli umili, i miti, i giusti, i misericordiosi, gli amanti della pace, i semplici e i sinceri; richiese il coraggio della rottura con ogni forma di peccato, anche a costo dei massimi sacrifici, dischiudendo gli orizzonti della vita futura: « Che giova all’uomo, disse, guadagnare anche tutto il mondo se poi reca danno all’anima sua? ». Insegnò a ciascuno a sentirsi piccolo davanti a Dio, a considerare gli altri come fratelli e ad essere pronto a perdonare, così come Dio realmente perdona a ogni uomo- In tal modo diede a tutti una speranza, e la possibilità di rivolgersi con fiducia a Dio.

5. Benedisse il lavoro e la famiglia, condivise il dolore e le esperienze della vita, considerò di pari dignità l’uomo e la donna, predilesse i bambini, apprezzò i valori dell’amicizia e della nazione. Prima di morire diede ai suoi discepoli questo distintivo: « Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati: da questo gli uomini conosceranno che siete miei discepoli: se vi amerete a vicenda ».

6. Per condiscendenza verso le sofferenze degli uomini e per significare che la salvezza di Dio era presente in lui, operò molti prodigi, guarendo ciechi dalla nascita, facendo camminare storpi e paralitici, risuscitando morti; dimostrava così con i fatti di essere veramente l’inviato di Dio sulla terra.

7. Di sé e della sua missione rivelò personalmente ai discepoli quello che potevano capire, promettendo dopo la sua morte l’invio, da parte di Dio, dello Spirito, che li avrebbe introdotti nella pienezza della comprensione e della verità. Chiamò sempre Dio suo Padre, e parlò di sé come del Figlio, inviato dal Padre, con poteri eguali ai suoi, ma sottomesso in tutto alla sua volontà, della quale disse di nutrirsi come di cibo.

8. Lo scopo della sua esistenza era il compimento di una missione che egli spontaneamente adempiva in spirito di obbedienza e di amore. Disse di essere venuto « non per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per gli uomini ». Raffigurò se stesso nell’immagine del pastore buono che dona la vita per le sue pecorelle, e paragonò la sua morte al grano di frumento che si dissolve nella terra al fine di risorgere e portare molti frutti.

9. Le sue parole e il suo comportamento urtarono la suscettibilità dei capi religiosi del popolo, i quali decisero di sopprimerlo; ma egli, pur consapevole dei pericoli che si addensavano sulla sua via, non fece nulla per evitarli, fino al giorno in cui, catturato, fu consegnato prigioniero al governatore romano Ponzio Pilato. Questi, per debolezza e per calcolo, lo condannò al supplizio infamante della croce, sulla quale morì affidando la propria vita al Padre e perdonando ai crocefissori. L’ufficiale romano che aveva guidato il picchetto di esecuzione dopo averlo visto spirare esclamò: « Veramente quest’uomo era il figlio di Dio ».

10. Fu seppellito da alcuni discepoli, e sulla tomba i nemici presero misure di sicurezza; ma ciò nonostante al terzo giorno il sepolcro fu trovato vuoto e Gesù apparve risorto, come aveva promesso, e si manifestò più volte e con evidenza ai discepoli, i quali in seguito diedero testimonianza di averlo veduto risorto con i propri occhi, e toccato con le proprie mani. Poi un giorno, alla loro presenza, si levò verso il cielo e scomparve, ponendo termine alla sua missione visibile sopra la terra. Annunciò che sarebbe tornato solennemente alla fine dei tempi, per raccogliere i frutti del seme da lui gettato, e dare a ciascuno secondo le sue opere.

11. Le parole e i gesti principali di Gesù sono stati raccolti dai discepoli nei quattro libretti dei Vangeli; essi costituiscono per i cristiani la parte più preziosa del Nuovo Testamento, (1) e contengono l’annuncio e la testimonianza che gli Apostoli diedero di lui. Dai Vangeli la sua figura continua a emergere nella storia, ponendo a tutti gli uomini il problema capitale della sua persona e della sua missione: « E voi chi dite che io sia? ».


Nota

1) Sulla Sacra Scrittura dei cristiani, la Bibbia, e sulle due parti dell’Antico e Nuovo Testamento di cui si compone, vedasi il n. 3 del c. « La sapienza cristiana » e il n. 31 del c. « La vita cristiana ».

A proposito dell’Antico Testamento è normale che ci si chieda se, nella varietà del suo formarsi per una lunga serie di secoli e attraverso situazioni storiche, politiche e sociali quanto mai diverse, esso conservi – e come – una sua unità.

Mercoledì, 12 Marzo 2008 00:21

Il mio nome è Nessuno (Marco Galloni)

È possibile, fatte le dovute distinzioni, trovare non poche somiglianze tra l’Odissea e la Bibbia, se non nel genere letterario certamente in alcune delle tematiche affrontate.

Domenica, 09 Marzo 2008 01:40

Religione e spiritualità (Frei Betto)

di Frei Betto

Molti, oggi, hanno una spiritualità che prescinde dal credere in qualcosa e dall’appartenere a un gruppo o movimento religioso. Una spiritualità che non s’identifica con la religione per sé, ma è avvertita come connessione attiva e vitale a una forza o a una percezione di un più profondo “sé”. Non di meno, può significare una chiara apertura alla trascendenza.

di Luciano Manicardi

Il mistero pasquale della morte e risurrezione d Gesù raggiunge nel profondo il cuore della persona umana. Lo raggiunge come liberazione dalla paura della morte e dono di una vita intensa e capace di bene. Il dono pasquale risana la creatura umana e la sottrae da quell’itinerario distruttivo che dalla non accettazione del limite conduce alla paura della morte, fino alla visione del mondo come oggetto di consumo.

La “violenza” della mitezza,
nuova sapienza dell'umanità

di Giovanni Nicolini



Il mondo è invaso da odio e inimicizia. Ma Dio lo ama così com’è. E tramite Gesù ci insegna “tecniche di pace” che anche oggi indicano una diversa prospettiva della storia, non sottomessa alla prepotenza della morte.

Ma a voi che ascoltate, io dico: (.. .)
A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra.
(Luca 6,27-38)

Il cristianesimo non è né ideologia né utopia né idealismo. È la grande avventura della Parola di Dio nella storia dell’umanità. È il precipitare di Dio nella nostra ferita, sino al farsi Carne del Verbo e sino alla Croce di nostro fratello, il Figlio di Dio. Non una vicenda asettica, ma l’immersione del Signore nella nostra povertà. Per la salvezza dell’umanità, che Dio ama così com’è. Un povero mondo malato, e prigioniero del Male e della Morte, un mondo che Egli salva e riempie della sua potenza di bene, potenza d’Amore più ;forte della morte stessa.

Ed ecco l’audacia delle parole del Salvatore: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano”. Perché questo è il mondo: invaso dall’inimicizia, dall’odio, dalla violenza dei pensieri e delle opere. Ma ecco la potenza divina liberata nella storia e donata agli uomini e alle donne di tutto il mondo: l’amore, la misericordia, la preghiera. Ecco le “terribili” armi di Dio! Ad esse niente e nessuno può resistere. Da qui il comando perentorio, rivolto al cristiani e alle chiese, di ripudiare ogni mondanità e ogni giustificazione del vecchio do ut des e di una legge del taglione che, essendo puramente vendicativa, moltiplica il male e non crea il bene.

Gesù ci regala anche qualche esempio, qualche “linea di comportamento”, qualche “tecnica di pace”: “A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra”. Ricordo sempre con gratitudine la grande lezione di Luciano Eusebi, valente studioso e cristiano limpido e geniale. Il “porgere l’altra guancia” ce lo indicava come il gesto forte, ben più forte del restituire la violenza subita. È il costringere l’altro ad assumersi la responsabilità della sua violenza, fino a indurlo a pensare se ripeterla. Il “pacifista assoluto” non reagirebbe, ma il cristiano reagisce con la “violenza” della sua mitezza. E lo fa perché la salvezza e il bene di chi lo ha colpito gli importano tanto quanto la propria verità e la propria pace.

Scoprire la perla preziosa

Tutto chiaro? SÌ! Però qui dentro c’è un problema enorme, che è impossibile ignorare. Veniamo da secoli in cui questi atteggiamenti, queste “risposte al male”, sono stati confinati nella sfera del comportamento individuale, della testimonianza profetica di individui superiori, di episodi isolati e, proprio per questo, non esemplari. Oggi però la vicenda storia delle chiese e dei popoli, dalle relazioni più intime e immediate ai grandi e sanguinari conflitti, ci appare troppo stringente e tumultuosa, sino al pericolo di una universale autodistruzione.

Proprio oggi è allora necessario intraprendere coraggiosamente un cammino di riflessione e preghiera, un contatto più continuo e serrato con il Testo Sacro, un impegno storico delle comunità cristiane più responsabile, per trarre dalle parole di Gesù una sapienza nuova, una prospettiva nuova della storia che faccia di queste perle evangeliche una provocazione a tutte le legislazioni, le istituzioni, i patti. Invece la storia sembra malinconicamente subire la prepotenza del Signore della morte, e si fa timida e restia fino a concedere l’etica veramente evangelica solo all’obiezione di coscienza del singolo. E, anche questo, non sempre! Aiutiamoci, dunque, a scoprire insieme la “perla preziosa” di una nuova sapienza dell’umanità, che faccia veramente del Vangelo la testimonianza concreta e collettiva delle comunità cristiane, come bene per il mondo intero.


(da Italia Caritas, febbraio 2007)


Cristianesimo e buddismo offrono due vie universali di salvezza caratterizzate da un potente altruismo. Fino a dove arrivano le loro affinità e quali sono le loro incompatibilità?

La sequela di Cristo casto, povero, obbediente


 


Segno del primato di Dio,
non soltanto servizio

di Sante Bisignano


 



Il decreto Perfectae caritatis va situato nella vita della Chiesa sia nel suo rapporto con il mondo sia nella sua tensione escatologica. Per questo la vita consacrata viene definita, prima che dal concetto di servizio, dal suo essere segno, testimonianza «della trasfigurante presenza di Dio», come ha affermato papa Benedetto XVI.