Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di Ernesto Balducci
Vorrei impegnarmi a una riflessione forse presuntuosa, comunque un po' complessa, articolata, capace di assumere il tema della pace come tema totalizzante, che riconduce in sé gli aspetti diversi dei processi innovativi del nostro tempo, e capace quindi di suggerire una strategia globale, dove le varie battaglie per il rinnovamento possono ritrovare unità e coordinamento reciproco.
Vorrei sostenere la tesi che il nostro impegno per la pace non può più essere inteso come volto semplicemente a deprecare la guerra e a invocare il disarmo. Se vuole rispondere alle provocazioni oggettive della situazione pericolosa in cui siamo, non può essere che una «mutazione culturale».
Io sono convinto, con molti grandi testimoni, artefici del nostro tempo - penso qui ad Einstein, per citare il più importante - che noi stiamo vivendo all'interno di una mutazione storica che coinvolge non soltanto gli assetti dei rapporti tra i popoli, ma il modo stesso di pensare, la forma mentis dell'uomo, la cultura dell'uomo. Il famoso scienziato aggiungeva che dopo Hiroshima «o l'umanità cambia modo di pensare, o il suo destino è la catastrofe». Questo è il dilemma posto da uno scienziato che per vari versi potrebbe essere chiamato padre o nemico della bomba atomica, visto che le ricerche atomiche devono qualcosa alle sue grandi teorie della relatività ed ancora che egli stesso, nell'estremo cimento della guerra, non fu alieno dal pensare che la bomba poteva essere usata per porre fine alla guerra, soprattutto alla minaccia nazista. Ma con prontezza di coscienza, subito dopo Hiroshima, Einstein e dopo di lui B. Russell e altri grandi scienziati dichiararono, con il prestigio che avevano, che occorreva modificare radicalmente il modo di pensare, il modo di far politica, se si voleva evitare la catastrofe.
Dobbiamo riconoscere dopo trent'anni che il modo di pensare, almeno a certi livelli, là dove la storia agisce con i suoi strumenti ufficiali, non si è modificato. Il modo di pensare è ancora quello anteriore alla soglia atomica. E sta di fatto che dinanzi a noi è aperto il baratro della catastrofe.
Ma negli ultimi anni si sono succedute in Italia e in Europa manifestazioni pacifiste di tale entità da dare subito l'impressione che qualcosa di nuovo pulsasse nella coscienza collettiva, che questa mutazione che negli strati di superficie non si avverte, nel fondo della coscienza dei popoli, fosse invece avanzata, confortando quella che poteva sembrare un'utopia da conservare nel cuore, stando in agguato nella storia se per caso venisse il momento giusto. Il momento giusto probabilmente è venuto, perché la situazione dell'umanità, dopo l'escalation atomica, che non ha mai cessato di avanzare, è tale da determinare ormai una larga presa di coscienza, una reazione collettiva della base, dei corpi sociali, o la catastrofe è inevitabile.
E con questo sentimento che i popoli stanno riprendendo in mano il proprio destino. Il genere umano è all'interno di una mutazione storica, quella che Teilhard de Chardin con il suo linguaggio chiama soglia evolutiva, la soglia dove è necessario un salto di qualità, una nuova concentrazione della coscienza umana, cioè un punto di riferimento delle coscienze a partire dal quale sia possibile prendere possesso dei dinamismi della società.
La paura e l'inventiva
Ogni qualvolta - la storia dell'evoluzione ce lo dimostra - si tocca la soglia dove è necessario un salto di qualità, dove cioè non è più saggezza la continuità col passato, dove è saggezza la rottura col passato, ogni qualvolta si entra nella soglia, abbiamo una duplice reazione: quella della paura ad attraversare la soglia - perché la paura è la percezione che si deve morire al nostro passato, all'insieme dei principi culturali su cui si è basata la nostra coscienza - e quella dell'utopia. La paura, perché le istituzioni, che sono nate per realizzare gli obiettivi che ci eravamo proposti, la nostra stessa identità civica e culturale, tutto è messo in discussione. E come una morte storica; per scomodare il linguaggio biblico, dobbiamo morire a noi stessi per nascere. L'altra reazione è quella della inventività, della improvvisa presa di contatto con ciò che ieri sembrava utopia. Oggi ciò che è utopistico diventa realistico e ciò che ieri era realistico diventa utopistico in senso catastrofico. Per esempio, quello che è stato detto dalle massime autorità americane, (che sarebbe anche possibile fare una guerra atomica controllata) dimostra come il realismo ha toccato la follia. Sembra davvero poco attendibile l'idea che una eventuale contesa sia da una parte controllata senza che l'altra parte non subisca la tentazione di rispondere in maniera smisuratamente più grande, senza che si entri nel rigurgito dell'escalation delle armi atomiche. Ne consegue che il momento in cui siamo è quello in cui l'utopia può pretendere di presentarsi con tutti i titoli di realismo storico. Questo è il punto essenziale per capire gli obiettori di coscienza che noi difendemmo nel '63. Oggi siamo in grado di dire che ciò che ci nascondono gli obiettori di coscienza è in nuce, come in un germe, una alternativa di scelta. La tesi che sto svolgendo è che quello della pace è un tema capace di riannodare le fila sparse di un ideale tessuto di società diversa.
La mutazione culturale
Noi sappiamo come procedono dal punto di vista culturale le società. C'è una cultura dominante, che è quella che fa tutto, che ha i giornali, le televisioni, le Case editrici, quella che dà l'immagine della società globale, senza che questa immagine vi risponda effettivamente. Noi potevamo dire vedendo i libri di testo, gli articoli di giornalisti di grido, che tutto procedeva come prima (e del resto le carte di identità dei partiti politici risalgono, nonostante la gloriosa frattura della resistenza, ad epoche anteriori alla soglia atomica). Dalle stesse ideologie - che sono anteriori alla soglia atomica - l'idea dell'uomo come violento è accettata come un dogma, non mutabile.
Noi oggi ci troviamo in una condizione in cui deve prendere voce quella cultura (la chiamo così in senso antropologico) che non ha avuto voce, che è sempre stata emarginata o connotata in qualche modo nel tratto del ridicolo, dell'estroso. Come del resto, ora che ci ripensiamo dall'altezza drammatica della storia attuale, capitò a Francesco d'Assisi, che disse di se stesso «Io penso che Dio volesse che io fossi nel mondo un novello matto». Uno strano matto: credo che tutti gli uomini della cultura dominante pensassero così, dal papa al cardinale Ugolino; gente furba, però, che sapeva usare anche i pazzi, li sapeva inserire nelle strategie di potere. Erano uomini di grande cultura, tanto che avevano strutture così elastiche da accogliere anche il nuovo, diversamente dai nostri tempi. Oppure possiamo pensare, per andare a esempi più grandi, a Gesù Cristo, che fu rivestito come un pazzo da Erode, simbolo del potere. Ogni volta che un'idea nuova, fresca, verginale viene alla luce del sole, la cultura dominante ha subito gli schemi di lettura per bloccarla, qualificandola come pazzia. Ma ora noi siamo in una condizione storica in cui i pazzi forse avevano ragione; la voce della coscienza disarmata, che si fa forte soltanto del consenso delle coscienze, è più potente di un esercito.
Il destino dell'umanità è unico
Sono maturate le grandi verità di Hiroshima, così vorrei chiamarle, che sono tre a mio giudizio, e fondamentali. Su queste verità, via via, attraverso quel lento spostamento sismico che è avvenuto alle fondamenta del corpo sociale, si sono preparati i cambiamenti.
Ila prima verità di Hiroshima è che il destino dell'umanità è unico e indivisibile, cioè per la prima volta la storia ha capito che il suo destino di morte è un destino indivisibile, poiché è possibile la morte simultanea. È un'idea che non era potuta mai balenare nella mente umana prima, salvo che in Caligola, il quale, come si racconta nella scuola, nei suoi sogni sadici, desiderava che il genere umano avesse una testa sola per tagliarla in un sol colpo. Ma i sogni di Caligola sono diventati possibilità oggettiva. Noi sappiamo che gli armamenti atomici sono tali da poter distruggere più volte il genere umano nella sua interezza. Anzi essi possono per sempre abolire dal pianeta Terra, unico nell'universo ad avere la biosfera, la stessa pellicola di biosfera che l'avvolge.
carattere ormai planetario. O il bene comune è planetario o non è bene comune. E ogni coscienza politica che assuma il bene comune del proprio paese, come sufficiente a fondare le virtù politiche, è una menzogna. L'unico bene comune, concreto, che si risolve nel bene comune anche del singolo paese, èil bene comune del genere umano. Questa intuizione ha acquistato una esplicazione di carattere scientifico, attraverso le analisi condotte da grandi competenti, uno dei quali è Brandt (o l'équipe che fa capo a lui) che ha steso un suo rapporto in cui si dimostra che le interdipendenze nel genere umano sonocosì strette che non è possibile ormai nessuna pianificazione economica, nessun risanamento del bilancio che non tenga conto di questa interdipendenza. Non si dovrebbe parlare di dipendenza del povero Sud dal Nord, ma del contrario, perché la grandezza del Nord, i suoi sperperi consumistici, la sua stessa posizione di privilegio del potere a livello degli armamenti, sono legate al fatto che sopravvive l'economia di rapina nei confronti del Sud. Ma il Sud, in questi ultimi anni, a partire dal 1955 ad oggi, ha compiuto una rivoluzione, simile a quella del rapporto servo-padrone. Il Sud, servo, ha preso coscienza che il padrone senza il servo non conta niente. E questa idea, come spiega Hegel, quando balenò nell'uomo, mutò la storia.Noi siamo in un momento in cui il Sud del pianeta, il così detto Terzo mondo, ha preso coscienza che il mondo sviluppato senza di lui non è più niente. La storia muta. Probabilmente per questo gli armamenti sono un argomento estremamente provocatorio, poiché se io vi dico che nell'ultima guerra abbiamo avuto 50 milioni di morti, giustamente provoco sgomento. Ma forse pochissimi di voi sanno che due anni fa, nel '79, 50 milioni di morti li ha provocati la fame, e questa non è nata dalla malvagità della natura, ma dall'assetto economico del pianeta, perché nello stesso anno furono spesi 45 miliardi di dollari in armamenti, la decima parte dei quali bastava a eliminare i morti di fame. Il genere umano ha preso coscienza di questo e ormai nessuno si salva da un'inquietudine morale. Ogni tanto si sentono uomini politici che appartengono al vecchio ceppo, che parlano con molta sicurezza, con un linguaggio illuministico, con delle riflessioni paternalistiche nei confronti del terzo mondo; ma noi sentiamo che quella è una cultura morta. Quelli sono gli uomini politici pericolosi, perché non sono passati attraverso questa cruna d'ago, prima della quale c'è la stoltezza e oltre la quale c'è la consapevolezza che la salvezza del genere umano è unica e indissolubile, anche a livello delle pianificazioni economiche. Mentre parlo sento che questo tema dovrebbe diventare centrale nelle scuole, nei pulpiti, dovunque. Questa è l'educazione delle nuove generazioni, e non il ritorno a Garibaldi e la sua celebrazione.
L'istinto coincide con la morale di pace
In secondo luogo sentiamo che è maturata, non molto a livello della consapevolezza diffusa ma moltissimo in quello delle consapevolezze anticipatrici, la certezza di un'altra verità che i nostri padri non potevano percepire adeguatamente. Noi in passato abbiamo distinto la sfera della morale dalla sfera dell'istinto: due sfere tra loro inconciliabili, destinate al conflitto. L'istinto non è solo sede del male, ma anche principio di propulsione creativa, di arricchimento della vita morale dell'uomo, però la sua condizione normale è il conflitto con la ragione morale. La pace, per esempio, è un imperativo della morale. L'istinto nell'uomo, così ci è stato sempre insegnato, è aggressivo, e quindi la morale può contenere, regolare questa aggressività, ma sempre col presupposto che tra un principio e l'altro pace non ci può essere. E invece oggi noi siamo a un punto storico nuovo in cui quell'istinto di fondo della specie umana, della specie come tale, ci porta ad aver paura di morire. La volontà di sopravvivere arriva a coincidere con l'imperativo della coscienza morale, cioè tra biologia e coscienza c'è un punto d'incontro oggi, e questo poi si apre ad altre prospettive complesse anche su tutti gli altri settori.
Non è vero che si debba fare la morale dell'uomo a prescindere da quello che è il suo contenuto istintivo. L'istinto profondo dell'uomo, la vastità, la globalità della voce della specie arriva a coincidere con la legge morale; ora fare pace non è più un dovere a cui ci chiama la coscienza, è una necessità a cui ci chiama l'istinto di sopravvivenza. Questa è una soglia antropologica nuova, quella che le ricerche di morale di vario tipo dovranno approfondire e sviluppare. Conseguentemente non si può vivere sulla paura della guerra. Ricordo un episodio capitato ad Amburgo il giugno scorso, quando i vescovi luterani vollero celebrare il «giorno della chiesa» e diedero come motto a questo giorno una parola del Vangelo intesa spiritualisticamente, «non abbiate paura, io ho vinto il mondo». Parole di Gesù Cristo; ma i giovani, che arrivarono più numerosi del previsto, inalberavano cartelli in cui dicevano «noi abbiamo paura». Paura della bomba atomica, paura del disastro ecologico, ed elencarono le ragioni della loro paura. E in questo capovolgimento dall'idealismo evangelico astratto al realismo si è visto un sintomo di ciò che maturava nelle coscienze.
Nelle coscienze matura una richiesta profonda, che se avesse a disposizione le mediazioni politico-culturali, determinerebbe il cambiamento storico del genere umano. Questa paura è degna dell'uomo. Non è una paura egoistica, gretta, di chi si rifiuta di sacrificarsi per un ideale superiore a lui, è una paura che ha la sanità della specie, è quindi una paura che porta i segni, la trasparenza della coscienza morale. Questo è un fatto nuovo ed importantissimo.
La guerra è uscita dalla sfera della ragione
La terza verità è che la guerra è uscita definitivamente dalla sfera della ragione. Non c’è mai stata, dirà qualcuno. Si, è vero. Ricordo quando imparavo il latino a scuola, in prima ginnasio, e studiavo Tibullo: «Chi fu il primo a produrre le spade?», con senso di deprecazione. Ma questa lagna, di deprecare le spade e di fabbricarle, è antica quanto l'uomo. La guerra è stata sempre considerata come un evento nefasto, ma necessario. Poi questa fatalità poteva essere connotata di provvidenzialità, di punizione di Dio per i peccati dell'uomo; ognuno aveva le sue categorie per renderla accettabile. Nelle litanie medievali si diceva «dai fulmini, dalla tempesta, dalla fame, dalla guerra liberaci o Signore», come se la guerra appartenesse alle calamità di natura. Il concetto della fatalità della guerra è stato sempre presente nel genere umano prima della soglia atomica. E la ragione si è limitata a disciplinare la guerra, a contenerla in certi limiti, quelli per esempio stabiliti dalla dottrina stoico-romana, ma diventata cattolica con S. Agostino, la dottrina della guerra giusta. Per non parlare poi di altre giustificazioni più nefaste, come quella hegeliana, in cui la guerra appariva uno strumento della ragione, dello Spirito assoluto, per celebrare nella storia le alterne investiture degli spiriti eletti.
Noi queste cose le abbiamo bevute nella nostra infanzia di bambini vestiti con la camicia nera di balilla. Il fascismo poi ci educava al senso di grandiosità della guerra, e senza contestazioni di fondo, perché non faceva altro che portare agli estremi una ideologia giacente alla base della civiltà occidentale. La guerra è sempre nefasta, ma inevitabile e anzi provvidenziale, come spiegava un mio maestro di università, Benedetto Croce, «la guerra come accadimento è nefasto, ma come avvenimento è fausto» (accadimento è il fatto singolo, l'avvenimento sono i risultati complessivi; è questa la strana eterogenesi dei fini: un accadimento nefasto produceva però avvenimenti grandiosi).
Questa teologia della guerra, anche laica (perché ognuno ha la sua teologia) si è inserita nella storia. Ma questa cultura è finita: la guerra è uscita per sempre da ogni possibile disciplina razionale. Questo è un fatto nuovo, che già papa Giovanni nella «Pacem in Terris» sottolineava. Ma direi che in qualche modo non faceva che notificare un'evidenza. Le evidenze è difficile che poi riescano a fermentare in tutte le implicazioni che contengono, o almeno, ancora non lo hanno fatto; però sono sempre più luminose agli occhi della coscienza comune, mentre sono un segno di frattura fra il passato e il nostro presente.
Sono obbligato a dire qual è la presente situazione a cui ho fatto allusione. Noi siamo vissuti in questi anni che ci separano dalla invenzione della bomba atomica, la storia di questa terribile bomba la conosciamo. Prima era nelle mani degli Stati Uniti d'America soltanto, che in qualche modo erano garanti della pace sul pianeta. Quando l'Unione Sovietica ha avuto la bomba atomica, si è creata una competizione tra le due massime potenze, si sono formati i blocchi e abbiamo avuto l'equilibrio del terrore. Perfino il Concilio brucia qualche grano d'incenso all'equilibrio del terrore. La parola equilibrio introduceva nella parola terrore, che fa paura alla ragione, uno spezzone di razionalità. La parità tra le due forze sembrava un trionfo della ragione.
resta che il disarmo perché la parità degli armamenti non è più una garanzia. Siamo in questa necessità contro la quale urtano molti altri condizionamenti.La generalizzazione del terrore
Qui le cose si fanno delicate e sono quelle più direttamente sotto la nostra osservazione quotidiana, soprattutto di chi come me non ha responsabilità politiche o di altra natura, ma vive tutti i giorni sulla frontiera delle coscienze, dove avvengono cose che probabilmente osservatori distratti da altro non riescono a percepire e a catalogare. La guerra, come abbiamo visto, veniva in qualche modo inglobata in una visione razionale dello Stato, della società, del progetto politico collettivo. Lo Stato, questa grossa creazione dell'uomo, in fondo vive all'interno di una cornice, come è una Costituzione, espressa dalla volontà popolare.
Ora la cornice della nostra vita non è più la razionalità, ma l'irrazionalità, ed il terrore è la parola che meglio la definisce. Esso non ha più la possibilità di essere integrato in una visione razionale del futuro, il terrore è negazione delle ragioni razionali della vita, vi si oppone nettamente. Il fatto che il terrore presieda alla convivenza tra i popoli, ha sollecitato, per così dire, il terrore in tutto il corpo sociale. Quella fiducia nella democrazia, nella Costituzione, dell'uomo nell'uomo, senza di che la democrazia non vive, scompare sempre di più. Il terrorismo dal basso non è altro che l'immagine speculare del terrorismo dall'alto. L'assenza di ragione ai vertici dei rapporti tra i popoli trova una sua simmetria drammatica nell'assenza di ragione di chi ritiene che con il crimine si possa veramente cambiare la società. La mancanza di razionalità ai vertici della convivenza nazionale e internazionale, è anche alla base della nostra convivenza, contamina il corpo sociale.
Come i rapporti tra individuo e individuo sono segnati sempre più dalla sfiducia e dalla competizione, così la violenza è un tratto comune della nostra società. Quindi la riforma morale richiesta, alludendo a questo o quello scandalo (deprecabili certo) che si vuoI compiere, è senza esiti. L'irrazionalità ci attraversa. Le nostre difese culturali sono velleitarie, e il senso di impotenza, che avverto spesso negli insegnanti, nei genitori... mi conferma nell'idea che il nostro male è collettivo, che ci tocca come genere umano.
Inesorabile decadimento della democrazia
D'altronde la democrazia non sta decadendo solo per ragioni etiche, ma perché è colpita nel suo cuore anche dal punto di vista formale, istituzionale. E sempre stato riconosciuto da tutti che i diritti del soggetto sovrano nella democrazia del popolo trovano il loro momento culmine nella decisione se fare qualcosa è bene o male. Questo è il diritto supremo di un popolo. Però ora i popoli non hanno più questo diritto. All'interno dei patti militari è previsto che un singolo popolo non possa decidere niente. Anzi questo svuota-mento della sovranità è stato anche formalizzato per quanto riguarda la Nato. Nel '62, ad Atene, i vari paesi hanno riconosciuto al presidente degli Usa il diritto di toccare il bottone a suo arbitrio, perché, evidentemente per ragioni tecniche, una guerra atomica non può avere l'ultimatum. Solo chi anticipa l'avversario può vincere. Quindi il nostro destino è in mani lontane, uno stato non ha più capacità di decidere. Nel caso della guerra atomica le mosse non sono più partecipate democraticamente, perché l'elemento decisivo della vittoria è il segreto, e quindi la sorpresa. Se l'asse essenziale dei diritti democratici è colpito, non ci restano che spazi piuttosto ludici. E nella logica del sistema che la decisione ultima non sia nelle mani della base, ma in mani irraggiungibili. La democrazia deperisce perché i suoi elementi formali diventano sempre meno credibili.
Noi, per poter vivere la nostra vita secondo ragione, dovremmo prendere le decisioni sulla base della conoscenza delle cose. L'informazione è diventato un elemento decisivo come mai lo era stato. Attualmente siamo informati coattivamente da centrali di informazione che sfuggono al nostro controllo. E allora il male peggiore, a mio giudizio, contro cui siamo chiamati a combattere è l'occultamento ideologico della verità delle cose. Viviamo all'interno di un gioco di occultamento, non solo istituzionalizzato per quanto riguarda la dichiarazione della guerra e i segreti atomici, ma concernente l'occultamento sullo stato delle cose. E questo è ciò che suscita in me più indignazione. Se provate a fare il bilancio delle informazioni televisive, noterete disparità incredibili. Pensate a quante ore sono state dedicate dalla nostra televisione al caso polacco, e poi confrontatele con quelle dedicate al caso Nicaragua, Salvador ecc.; vedete subito la disparità. Ma questo è nulla. In realtà noi siamo tenuti all'oscuro della condizione di pericolo in cui versiamo. Perciò dobbiamo veramente mobilitarci per smascherare questo meccanismo che è così potente ora con i mass media - dove le informazioni private, o controinformazioni sono cose visibili - che veramente si è portati a disperare. Il potere che decide le guerre è anche il potere che decide come informarci.
Esiste un'alternativa?
Potrei continuare nella mia analisi, ma questi tre aspetti mi sembrano sufficienti per farvi comprendere che non è più possibile continuare. Qual è l'alternativa? Noi dobbiamo passare a una cultura della pace.
Nel dire queste parole sento che rischio di divenire utopista. In fondo, chi come me è vissuto sempre predicando il Vangelo, contrae a livello umano un vizio inguaribile, quello di prendere per veri gli ideali; questo è il lato savonaroliano della mia anima e non me ne vergogno. Con i tempi che corrono, fra l'altro, avere questi spazi di respiro sul piano personale è una garanzia di salute. Ma non sono così ingenuo da credere che il discorso evangelico sia destinato a restare un discorso sulle ultime cose. Sono convinto che sia venuto il tempo, il Kairòs, il tempo opportuno, per scoprire un'antropologia profetica del Vangelo. E una risposta straordinaria alla congiuntura in cui siamo; ma il Vangelo lo pongo al termine della mia riflessione per rimanere in uno sviluppo laico dell'argomento, cioè affidato alla ragione. Parlo della ragione critica, che tende verso le ultime cose, che cerca le radici dell'esistenza, il suo significato ultimo, già di per sé profondamente evangelico. Siamo giunti al tempo in cui è possibile riscoprire questa simmetria tra l'uomo inerme e l'unico uomo possibile nel futuro.
Intanto per questa cultura della pace dobbiamo vincere uno dei dogmi che ci siamo portati dietro e che ritorna continuamente nella cultura che si amministra nei giornali, nelle scuole ecc., e cioè l'idea che l'uomo sia per sua natura aggressivo, un lupo per l'uomo. Questa idea ha fatto sempre il gioco dei fautori della guerra, che l'hanno definita inevitabile. Oggi non si può più parlare dell'uomo e della sua natura secondo una visione medioevale, che lo vedeva astrattamente, l'uomo è dentro la cultura in cui vive.
Ogni dogma sulla immutabilità dell'uomo va eliminato come residuo della cultura preistorica che ancora ci opprime. Ci sono virtualità che la storia vissuta fino ad oggi non ha espresso: la stessa concezione dello stato come un monopolio pubblico della violenza privata (quando si sostiene che lo stato può essere legittimamente violento quando vuole). Questa concezione è finita storicamente; noi entriamo in una età in cui dobbiamo sviluppare l'altro aspetto dell'uomo, profondamente radicato nella sua virtualità, cioè quello dell'uomo amico dell'uomo. Non è vero che san Francesco fosse una eccezione meravigliosa. Francesco d'Assisi viveva con la convinzione di essere una alternativa praticabile, e infatti lo era. Il Francesco che è in noi è l'altra faccia dell'uomo, è l'altra possibilità in cui siamo invitati a credere. Noi invece, finora, di gente seria in gente seria, siamo arrivati a estinguere in noi ciò che attendeva il sole della fiducia per fiorire. Noi vogliamo questa dignità evangelica e umana dell'uomo, che non fa suo vanto la «serietà» che comporta la sfiducia nel prossimo, ma fa suo principio la fiducia nell'uomo; questo è fondamentale. Io qui ricordo due maestri, Teilhard de Chardin e Jaspers, un credente e un laico, e ambedue han detto: non c'è possibilità per il futuro se non nasce una grande fiducia nell'uomo, la fiducia sia come individuo, sia come collettività o umanità in genere. L'umanità ha risorse straordinarie, è in grado di dare risposte impensate a congiunture impreviste. La storia del passato ce lo dimostra anche.
La fiducia di partenza
Noi sappiamo che nell'umanità esistono risorse, inventive eccezionali che possono far fronte alla nuova congiuntura. Questa è la fiducia di partenza. Naturalmente essa non può essere documentata. Nella fiducia c'è sempre un di più, che sovrasta i quozienti dei dati accettati e fa credito alla inventività interna dell'uomo non ancora manifestatasi. C'è un elemento in questa fiducia che è provocatore di valori.
Lo so che il discorso non piacerebbe alla Nato o al Patto di Varsavia, dove hanno la sicurezza assoluta di sapere cosa è l'uomo e se si guardano allo specchio ritrovano la riprova, ché in realtà questa sfiducia, questa paura della democrazia, si ritrova in tutti e due i settori, la democrazia non esiste né nell'Est né nell'Ovest, se noi guardiamo il mondo con l'occhio dei generali. Ma noi dobbiamo veramente mutare il cuore nostro e del prossimo attraverso questo contare sulla fiducia nell'uomo.
I luoghi della mutazione
Alcune indicazioni.
La mutazione non va pensata soltanto in rapporto al tema specifico della guerra che ci minaccia, va pensata - se è vera la mia analisi - in rapporto a tutti i luoghi della società dove si rompe il vecchio schema di violenza; la pace è uno stile di vita, è una cultura. Si dice cultura della pace come si dice cultura neolitica, cultura dell'età del ferro. Si allude cioè a un insieme di valori che si unificano e si esprimono nel rifiuto della violenza come strumento adatto a regolare i rapporti tra gli uomini.
Quali sono i luoghi di rottura della vecchia cultura della violenza? Non mi dispiace ripetere un principio già detto all'inizio: il fatto della crescita della dimensione planetaria. I giovani pensano sempre di più a dimensioni planetarie. L'internazionalismo, che nella storia della classe operaia è stata una grande pagina, ma che oggi la classe operaia non riesce più a portare avanti perché anch'essa erede della cultura borghese, è assunta dalle nuove generazioni in maniera più spontanea, e con l'idea che l'umanità sia un individuo solo, al quale manchi, per esserlo sul serio, soltanto una specie di unificazione della sua coscienza. Perché la coscienza del genere umano tende ormai alla unificazione, ma è come una coscienza ancora viziata da schizofrenia, da frantumazioni interne.
Noi dobbiamo abbandonare l'Eurocentrismo, la più grossa minaccia a questa unificazione del genere umano (noi siamo parte e vogliamo esser tutto). Noi abbiamo inibito le altre culture, le quali oggi si ribellano; noi siamo in una fase di colluttazione di universi culturali, i quali alludono alla loro unificazione, che rispetti la diversità, ma che allo stesso tempo gestisca in maniera concorde il destino non più divisibile. Questo è un processo importante a tutti i livelli.
La scuola, la guerra e la cultura della pace
Noi notiamo come la nostra scuola, così come è (senza far torto ai fermenti di novità, anzi è proprio a quelli che alludo come alternativa), è una cultura che ha trasmesso la mentalità di guerra.
La memoria storica che si è data alla nostra generazione è una memoria in cui la storia dell'umanità è fatta di paci e di guerre, dove però le paci erano soltanto intermezzi labili tra paci combattute. Dove l'immagine che l'uomo ha di se stesso è rimasta per sempre quella dell'uomo con la dava, le frecce, poi coi cannone, poi con la bomba atomica. Dove la storia del passato è quella che i vincitori hanno raccontato, schiacciando i vinti, dove la nostra memoria è già contaminata dalla ideologia della potenza. La scuola ha immesso questa cultura. Non solo, ma ha trasmesso una cultura che è stata sempre quella delle classi dominanti, con il disprezzo dei dialetti dell'uomo, (uso la parola dialetto come simbolo) dell'uomo che vive nella sua immediatezza, che crea la sua coscienza dall'universo della sua esperienza immediata. Questa cultura l'abbiamo schiacciata, per creare classi dirigenti, non per creare comunità umane.
Noi sentiamo oggi una profonda reazione a questa cultura della scuola. Essa non può cambiare per assestamenti di strutture e di gestione. Deve cambiare perché un nuovo contenuto deve pregnarla. E io oso dire che questo contenuto deve essere la cultura della pace, perché si fa pace quando si comincia a riconciliare il ragazzo col proprio mondo, a renderlo cosciente del proprio mondo. Per farvi un esempio, personale ma eloquentissimo, io, che ero figlio di minatori, sono stato in una scuola in cui tutti erano figli di minatori. Tutti i nostri genitori erano silicotici, tossivano in continuazione e non facevano altro che bere per attutire la silicosi. Bestemmiavano naturalmente, perché la bestemmia è liturgia della bettola, con la maledizione del prete che diceva che era peccato mortale ubriacarsi. Poveri uomini, i nostri padri, che ci hanno abituato a disprezzare perché erano ubriachi, bestemmiavano ed erano silicotici! Le miniere erano a duecento metri, i nostri padri si rovinavano, e a scuola le maestrine ci parlavano di Attilio Regolo e di Cartagine e di Roma, e non delle miniere. Era cultura di guerra quella, perché separava la coscienza dal reale, perché non diventava presa di coscienza dell'esperienza vissuta, ma estraneazione.
La cultura della pace è una cultura in cui la coscienza deve crescere a partire dall'esperienza. Una dimensione planetaria, si è detto, ma calata nel particolare. Questo cambiamento è fondamentale per una cultura di pace. Ed allora il discorso della cultura dominante e della cultura oppressa scompare, perché certamente la cultura borghese, che è anch'essa cultura dominante, ha valori immensi che non vanno sperperati, vanno anzi ereditati. Sempre però col presupposto che la cultura di potere deve essere orientata ad una crescita comune dell'uomo nella pluralità delle sue esperienze.
Nuovi rapporti conoscitivi
Terzo elemento: noi ci siamo accorti appena, a livello generale, che il nostro ambiente di esperienza collettiva è stato rovinato dalla cultura della violenza. Lo spazio fisico della natura è stato considerato come uno spazio di illimitate conquiste, come se la nostra figura del progresso avesse a sua disposizione, senza discussione, riserve di energia inesauribili. Questa cultura della violenza, che ha colpito oltre agli uomini le piante, i fiumi ecc., si rivolta contro di noi: abbiamo una natura che ci deperisce attorno. La catastrofe ecologica non è che un capitolo della cultura della guerra. Il rapporto conoscitivo prepara solo il momento dello sfruttamento. Il rapporto conoscitivo deve invece essere simbiosi, partecipazione. Questa passione ecologica su cui è facile sorridere, perché spesso prende forme ludiche, favorisce la necessità di un nuovo rapporto con la natura, di un nuovo postulato che è quello di pace, perché un capitolo fondamentale della società del futuro sarà quello di vedere se siamo maturi.
Ecco un altro capitolo importante di questa silloge della cultura della pace che è già cominciata, che attende solo di collegare le sue strategie, di trovare un momento unitario per combattere il pericolo della guerra atomica: è quella che ha condotto le nuove generazioni a percepire che il vero luogo della violenza a livello antropologico è il rapporto maschio femmina, la sessualità come luogo di violenza in cui sono stabiliti i rapporti di dipendenza (anzi voluti dalla natura, si diceva): è così che la natura ha fatto la donna, il maschio è per natura superiore alla femmina. Sono luoghi comuni, che appartengono alla cultura laica e a quella cattolica. Oggi si riscopre che nella sessualità, e nella famiglia in cui questi modelli si sono codificati, si ha la perpetuazione del virus della violenza. Il femminismo, inteso come lotta di emancipazione della donna, per il quale non abbiamo documenti nel passato, per il perseguimento di un soggetto storico che sia insieme un uomo e una donna, che stabilisca una soggettività creativa in cui l'elemento femminile e l'elemento maschile giochino in parità è tutto da inventare. La donna non deve essere la crocerossina del maschio guerriero, non deve entrare nell'esercito per arricchirlo di una nuova fisionomia.
I partiti
Noi dobbiamo godere di una nuova politica in cui i partiti si trasformino sino a diventare una espressione costantemente collegata a ciò che ferve nella base, a questa nuova volontà, che non è la cultura che sto descrivendo. Se alla fine non fanno questo, si isolano dal corpo sociale, non sono un vantaggio collettivo, ma il marasma, il caos. Si parla di una contestazione delle istituzioni, che non sia un giudizio globale della loro inefficienza, ma una rimessa in campo del loro rapporto organico tra ciò che ferve creativamente nel corpo sociale e le funzioni di potere che esse rappresentano: questa è una battaglia che si combatte sul terreno della pace.
Le chiese
L'ultimo punto riguarda le chiese. Anche a questo proposito devo dire con gioia che le chiese hanno subito un cambiamento che era follia sperare ai tempi della obiezione di coscienza. Era follia sperano, perché la «Pacem in Terris» di Papa Giovanni fu come qualcosa di inatteso, e capisco perché Papa Giovanni, secondo cronisti attendibilissimi perché vicini fisicamente a lui, quando la firmò senza averla fatta passare per il Santo Uffizio, uscendo dalla regola, disse: «Finalmente è fatta». E aveva senza dubbio compiuto un gesto rivoluzionario nella nostra storia cattolica, perché ha introdotto un discorso profondamente nuovo, la cui fecondità è ancora al di là da venire.
Il Concilio ha portato avanti parzialmente quel discorso. Ma poi è avvenuto un cambiamento profondo, non soltanto nelle strutture della chiesa cattolica, direi più ancora nelle chiese evangeliche. Le chiese evangeliche tedesche, per esempio (mi riferisco a quelle perché il loro governo è più significativo) durante il nazismo erano state succubi del Führer molto più della Chiesa Cattolica, salvo eccezioni come Bonhoeffer e altri. Ebbene, in questo ultimo periodo le chiese evangeliche si sono coinvolte nell'impegno per la pace, nella animazione delle manifestazioni pacifiste, mostrando una vivacità e una creatività inaspettate. Ma non solo. Tutte le chiese evangeliche che hanno fatto capo al Consiglio Ecumenico delle chiese, a partire dagli anni 60, hanno compiuto un processo di revisione della propria realtà storica, non si chiedono più se l'uomo si salva solo con la fede o anche con le opere, se la sola scrittura è la sorgente della fede. Questi problemi, pur importanti, sono ai margini. I problemi centrali sono quelli relativi al futuro dell'uomo, alla pace dell'uomo. Da Upsala, a Nairobi, agli ultimi incontri delle Chiese evangeliche, che, queste ultime si sono schierate sul tema della pace come tema qualificante della loro presenza nel mondo. Ed è ormai certo, a mio giudizio, che il modo in cui le Chiese potranno confessare il Cristo in maniera credibile è obbligo, e il tema della pace è la lotta per la pace.
Le chiese hanno a loro disposizione quel patrimonio profetico che per le condizioni storiche non è ancora potuto fiorire. Noi che studiamo il futuro dell'uomo su una specie di schema normativo, che è la storia della salvezza, sappiamo che le parole di Dio non subito fruttificano, è necessario che venga il Kairòs, la stagione storica in cui le condizioni di struttura necessaria danno alla parola seminata secoli prima la possibilità di fruttificare. Questa è una simmetria asimmetrica tra storia e Parola. Ora trovo nel Vangelo una antropologia di pace. Quando Gesù parlava, nel discorso della Montagna, non faceva della poesia, bella, da celebrare come una impossibilità, che tuttavia onora l'uomo l'averla sognata. No, Gesù ha proposto una alternativa all'uomo, che è sempre lì alle porte come un imperativo da realizzare. Allora l'uomo evangelico è l'uomo inerme, l'uomo che non risponde con la violenza alla violenza, è l'uomo che vince con la sua mitezza, che disarma l'avversario non tenendosi al suo livello, ma eludendolo e svegliando nell'avversario il volto che in lui stesso è stato mascherato e oscurato. Questa dinamica di nonviolenza è la possibilità che ci resta. Francesco e il lupo, questa leggenda aurea, è l'emblema di ciò che sto dicendo. L'alternativa della storia è l'uomo mite, che non significa uomo inerme, ma uomo che pone alla base della convivenza la collaborazione e non la competizione.
Le chiese hanno, per così dire, una cultura che ha due strati diversi: lo strato profondo, è quello del filo aureo dell'Evangelo, che le chiese evidentemente non hanno mai disdetto, anche se spesso lo hanno soffocato e perfino proibito. Oggi ormai la parola di Dio è consegnata al popolo, e questo fermento profetico comincia a fermentare nelle comunità cristiane. Hanno poi un'altra cultura, quella delle teologie codificate, ben pensate, che si preoccupano di dire oggi ciò che hanno detto ieri, e di non dire cose in contrasto con ciò che un papa ha potuto dire un secolo fa. Questa preoccupazione della continuità archivistica, della cultura che allarga il proprio codice senza smentire quello precedente, è una ripetizione all'infinito del già detto, mentre è necessaria una invenzione creativa. Le chiese sono a un bivio: o vogliono rispondere alla congiuntura nuova con la cultura codificata dai loro teologi, di ieri, ed esse non fanno che balbettare e restano nella comune confusione, o esse attingono alla parola profetica che hanno nella loro memoria, nella pratica pastorale, facendo credito totale a quella Parola, ed esse saranno la guida della mutazione antropologica di cui si è parlato.
La volontà profetica della chiesa di farsi carico della pace nel mondo, della «Pacem in Terris», la registriamo con istituzionale gioia poiché anche la chiesa istituzionale ha un grande debito contratto nel passato di fronte alla pace del futuro. Infatti troppe cose sono state permesse e benedette, ma quando vediamo i mutamenti ci rallegriamo, perché non desideriamo che Dio punisca i peccatori, visto che noi saremmo - ahimè! - nel rogo insieme agli altri. Noi vogliamo che Dio converta i cuori e renda le sue chiese capaci di assolvere il ruolo a cui la storia le ha destinate senza alternative.
E allora i segni ci sono e sono omogenei a quelli della metamorfosi culturale che rapidamente ho descritto. Non spero che i generali della Nato o i nostri ministri degli esteri diventino profeti, chiedo solo che agiscano con la saggezza di cui farebbe obbligo la loro causa, una prudenza di cui abbiamo già qualche segno. Ma la profezia non è sul tavolo di Ginevra. La profezia passa attraverso la volontà dei popoli. Allora sono convinto che stiamo vivendo questa mutazione. Tutti i nostri discorsi, non solo quelli di questo convegno, sono delle verità epocali, che acquistano il diritto di essere onnipresenti, perché sono quelle in cui si decide il destino dell'uomo. E molto importante non dimenticare che a dare la spinta alla mutazione è anche la certezza che essa non ha alternativa; o la nostra cultura diventa una cultura per la pace, o la terra diventa un cimitero per sempre. L'appello alla nostra volontà è ormai decisivo, estremo.
di Andrea Pacini
Su temi etici centrali è emersa la distanza rispetto a una posizione comune delle Chiese.
Soltanto sul finire del mese di settembre è stato reso pubblico il messaggio finale dell’Assemblea ecumenica europea di Sibiu. La pubblicazione è avvenuta dopo una lunga attesa, tenuto conto che l’Assemblea si è conclusa sabato 8 settembre, e che il documento era stato approvato la sera dell’ultimo giorno. Le ragioni di questo procrastinare e i suoi esiti meritano di essere conosciuti e sollevano alcune riflessioni. In primo luogo occorre osservare che, mentre lo sviluppo dell’insieme dei lavori dell’Assemblea di Sibiu ha offerto spazi minimi al coinvolgimento assembleare, non altrettanto è avvenuto per l’itinerario di estensione del documento finale. In questo caso si è in effetti partiti da uno schema molto sobrio, che è stato presentato all’Assemblea per riceverne pareri e integrazioni. Questa fase di ascolto assembleare è stata decisamente ampia e bisogna dare atto alla commissione di redazione di aver accolto ed elaborato in modo articolato le istanze presentate.
Questo processo ha portato alla redazione di una bozza di documento finale, che è stato ulteriormente discusso in Assemblea, per poi arrivare a una versione definitiva che è stata pubblicamente letta e approvata. È in quest’ultima fase delicata e conclusiva che si è verificato un reale inconveniente: al momento della lettura del testo proposto all’approvazione, l’Assemblea è stata esortata a porre attenzione al testo proclamato oralmente, che in un paio di punti non corrispondeva al testo scritto distribuito. La discrepanza tra testo scritto e testo orale è stata giustificata dai tempi ristretti di lavoro, che avevano richiesto la stampa del testo scritto, prima che la discussione sul testo stesso si fosse definitivamente conclusa in tutti i suoi dettagli. In effetti l’Assemblea ha approvato il documento proclamato oralmente, anche perché gli incisi "nuovi" – solo un paio – sono stati bene evidenziati dal lettore e non sono passati inosservati. A questo punto è interessante chiedersi quali fossero le "novità" intercorse nell’ultima stesura proclamata oralmente. In effetti la vera "novità" consisteva nell’accoglimento di una proposta presentata nella fase assembleare di consultazione, che suggeriva di inserire un inciso in cui si affermava l’urgenza di tutelare la dignità della vita umana dal concepimento alla sua fine naturale. Questo inciso, effettivamente letto nel documento finale e non pubblicamente rigettato da nessuna voce al momento finale dell’Assemblea, è comparso in alcune versioni scritte con alcune varianti. Evidentemente tale inciso è stato poi impugnato da alcuni delegati per vie esterne ai lavori assembleari. Questo "ricorso" ha provocato la ripresa del documento finale da parte della commissione di redazione e la sua pubblicazione solo dopo parecchi giorni. Nel documento finale, formalmente posto in circolazione, l’inciso in questione è scomparso. Al suo posto è stata inserita una nota in calce nel paragrafo relativo al rispetto della vita umana in cui si spiegano le difficoltà incontrate nella stesura del messaggio.
Il paragrafo suona così: «Riteniamo che ogni essere umano sia stato creato a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,27) e meriti lo stesso grado di rispetto e amore nonostante le differenze di credenza, cultura, età, sesso, origine etnica». Nella nota in calce si aggiunge: «A questo punto, durante la lettura del messaggio all’Assemblea è stata presentata oralmente la frase "dal concepimento alla morte naturale" che è stata successivamente tradotta in – "dalla nascita alla morte naturale" – "dall’inizio della vita fino alla morte naturale". Nessuna di queste formulazioni è parte del testo ufficiale del messaggio». Che cosa dire di tutto questo? Certamente l’idea di far approvare un documento la cui versione orale – che si era invitati a considerare quella definitiva – differiva da quella scritta e distribuita non è stata una scelta felice. Ma ci si può chiedere se sia stata una scelta felice approvare in Assemblea un documento – senza che alcuna voce sollevasse eccezioni – per poi ritornare sulla sua redazione riguardo a un punto di valore non certo secondario.
È chiaro che l’inciso proposto mirava a promuovere una comune convergenza di tutte le Chiese su temi quali la lotta contro l’aborto, la tutela dell’embrione, fino alla condanna dell’eutanasia; tutti problemi aperti nell’Europa contemporanea. Ma proprio su questi temi è emersa la distanza rispetto a una posizione comune, con una sostanziale opposizione tra dottrina cattolica e ortodossa da un lato e visione di alcuni ambiti protestanti dall’altro. Senza volere assolutamente proporre istanze di rigorosa omogeneità in tutti gli ambiti, ci si può però ragionevolmente chiedere non solo se queste diversità profonde su nodi etici centrali non scavino nuovi solchi di divisione tra le Chiese, ma anche se questa incapacità di proporre una visione teologica comune dell’uomo con le sue conseguenze fondamentali di ordine morale non riduca alla radice la possibilità per le Chiese nel loro insieme «di immettere energie spirituali nel dialogo» con le istituzioni europee, secondo gli auspici del documento.
In altre parole si apre l’interrogativo su quali siano i contenuti prioritari rispetto ai quali si gioca l’apporto spirituale che le Chiese intendono dare all’Europa, perché quest’ultima non sia solo uno spazio politico ed economico, ma anche di valori condivisi cristianamente ispirati, anzi «direttamente ricavati dal Vangelo», come si dice nella nona raccomandazione del documento; quest’ultima fa a sua volta eco a un paragrafo iniziale in cui si afferma di essere convinti che «la famiglia cristiana debba anche cercare un consenso più ampio riguardo ai valori morali derivati dal Vangelo e uno stile di vita credibile che testimoni nella gioia la luce di Cristo nel nostro esigente mondo laico moderno, nella sfera privata così come in quella pubblica».
L’opposizione messa in atto contro l’inciso sulla tutela della dignità della vita umana nella sua integralità – al di là della modalità confusa con cui era stato introdotto – ci porta inevitabilmente a prendere atto che le considerazioni di ordine generale sul consenso riguardo ai valori evangelici da proporre in Europa stentano a trovare formulazioni specifiche su punti centrali del dibattito etico odierno.
Non può non essere fonte di tristezza notare che per le Chiese è stato più facile arrivare a posizioni comuni sulla salvaguardia del creato o sulla lotta a varie forme di ingiustizia – tutte cose assai buone – che dire una parola autorevole e illuminata su un punto essenziale che riguarda il significato trascendente della persona umana e della sua vita, nodo essenziale della fede cristiana e della visione di uomo a essa inerente. Di fronte a questo esito non certo entusiasmante, alcuni rappresentanti protestanti hanno invocato ancora una volta la ragione del pluralismo: le Chiese parlano all’Europa in modo plurale. Ci si può però chiedere quali siano i limiti di un legittimo pluralismo nell’ambito della fede comune; e se il pluralismo in ambito cristiano sia un valore fondato in se stesso, o se debba comunque esprimere l’obbedienza al Vangelo. Un’assoluta affermazione del pluralismo non può infatti che consolidare le divisioni confessionali. Si ripropone allora la grande sfida per tutte le Chiese, che è al centro dell’impegno ecumenico: solo una vera e profonda conversione a Cristo e al Vangelo, al cui giudizio sottoporre anche i soggettivismi individualistici e le logiche consolidate, può generare una comunione ecumenica profonda, chiamata a esprimersi sul piano della fede creduta e vissuta in una sinfonica obbedienza al Vangelo
(da Vita Pastorale, dicembre 2007)
di Rinaldo Falsini
Alcuni passi della recente esortazione apostolica di Benedetto XVI meritano chiarimenti teologici e liturgici.
Nella presentazione generale del documento ho accennato all’opportunità di alcune precisazioni e chiarimenti soprattutto per il lettore meno esperto nel linguaggio teologico-liturgico. Questa esigenza maturò fin dalla lettura dei Lineamenta per il Sinodo, a cominciare dal termine "eucaristia", del quale non viene data una spiegazione circa la varietà del suo significato lungo la storia fino ad oggi (cf Jesus 12/2005, pp. 10-12; Vita Pastorale 1/2006, pp. 54-55).
di Giovanni Nicolini
La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. (Giovanni 20,19-23)
di Giordano Muraro
Quando si parla di problemi relativi all’uomo tutti hanno il diritto di intervenire, perché tutti sono coinvolti in prima persona. Ma l’intervento avrà un valore diverso a seconda della capacità di riflessione e il grado di studio di ognuno. La vita non può essere appesa all’esile filo dell’«a me sembra che…». L’ uomo ha bisogno di certezze quando è in gioco la sua vita e il suo futuro.
«A me sembra che...». È la frase con la quale in una discussione privata o in dibattito pubblico una persona si contrappone all’interlocutore o all’oratore. Naturalmente non avviene quando, si tratta di argomenti scientifici. Nessuno azzarderebbe dire a un astrofisico che espone la sua teoria sull’inizio del l’universo o a un antropologo che disserta sulla datazione dell’uomo di Cro-Magnon che l’ipotesi presentata è falsa. Gli verrebbero subito richieste le prove che fondano il suo disaccordo Nel mondo della chimica della fisica, della matematica, della medicina, della botanica, della paleontologia, ecc. si ascolta l’esperto e si accettano le sue conclusioni. E anche se interiormente si dissente non si ardisce obiettare perchè si e consapevoli di non avere la preparazione sufficiente per competere con l’esperto.
Tuttalpiù si fanno domande per avere chiarimenti, con l’atteggiamento del discepolo che si rinvolge al maestro. Solo chi ha una competenza pari a quella dell’oratore può permettersi di dissentire e di opporre una sua tesi che poi ha il dovere di dimostrare. Ma tutti gli altri assisteranno muti a questa discussione cercando di capire il frutto degli studi e delle ricerche degli esperti. Sarebbe curioso che una persona qualunque che non ha a cuna competenza medica e chirurgica si opponesse all’esperto in trapianti con un «a me sembra che… ». E’ come se uno che e andato sempre e solo in bicicletta volesse insegnare a Schumacher le tecniche di guida di una Ferrari. Verrebbe considerato un disturbatore ingenuo e presuntuoso che non ha il senso dei suoi limiti o un esibizionista che non si accorge di creare solo fastidio e riprovazione.
Tutti competenti ed esperti?
Invece in campo morale tutti si sentono esperti, e ritengono di avere pari diritto di esprimere il proprio punto di vista e anche il proprio dissenso con la convinzione che tutte le ipotesi hanno lo stesso valore, e la propria opinione vale quanto quella del professionista che ha studiato il problema per anni. Si dice che gli italiani si sentono tutti competenti anzi esperti in sport, in amore, in politica. Ma soprattutto in morale.
Nel passato si aveva di più il senso dei propri limiti e si dava più autorevolezza a quelli che per scienza ed esperienza esponevano un problema e presentavano le conclusioni operative. Oggi tutti vengono azzerati allo stesso livello. Si parla di procreazione medicalmente assistita, o di aborto o di cellule staminali, di eutanasia e di accanimento terapeutico di pena di morte, di droga, e si presume che tutti sappiano tutto e tutti abbiano la stessa preparazione competenza.
Eppure bisogna chiedersi: perché non si propone un referendum sul tempo e sulla causa della scomparsa dei dinosauri, o sul problema della relatività mentre si propone un referendum sui problemi morali quali la procreazione medicalmente assistita, l’aborto, il testamento biologico ecc. ? E’ vero che si vive anche senza sapere quando e perché i dinosauri sono scomparsi, mentre i problemi che abbiamo ricordato interessano tutti. Ma tutti hanno la stessa competenza per esprimere un giudizio fondato e dimostrato su questi problemi? La verità è frutto di numeri o di dimostrazioni?
Il diritto di esprimere il proprio pensiero sui problemi umani
Eppure c’è un motivo che in qualche modo e in una certa misura giustifica la validità dell’intervento fondato sull’«a me sembra che...», anche se dobbiamo insistere sul fatto che molto spesso questo intervento è come l’entrare a gamba tesa sul pallone. Presentiamo prima la ragione essenziale, e poi cerchiamo di esplicitarla. Ogni uomo può dire in una discussione «a me sembra che...» perché, nei problemi che riguardano l’uomo, egli è al contempo soggetto indagante e oggetto indagato; ha una esperienza di sé stésso per cui, quando si parla dell’uomo, sente che non si sta parlando di qualcosa di totalmente sconosciuto, ma si sta trattando della sua vita che sperimenta ogni giorno. Quando invece si parla delle realtà esterne, sa che vengono trattati argomenti che riguardano cose che sono «altre da sé», di cui conosce solo gli aspetti esteriori, e che riesce a raggiungere nella loro realtà solo con uno studio e una ricerca pazienti.
L’uomo ha la possibilità e il diritto di esprimere il suo pensiero quando si parla dell’uomo, mentre del mondo esterno può dire solo quello che ha visto e studiato. Per cui quando si parla del mondo esteriore non ha alcun titolo per discutere sulla sua natura e sui suoi dinamismi se prima non ne ha fatto oggetto di studio e di ricerca, mentre quando si parla dell’uomo, egli ha un qualche titolo per parlarne, perché la sua persona è oggetto di esperienza quotidiana, e quanto più è attento a quello che si svolge nella sua vita, tanto maggiormente può intervenire per dare un suo reale apporto alla discussione. Ma fino ad un certo punto. Perché?
I limiti di questo diritto
Il fatto che la persona sia nello stesso tempo soggetto indagante e oggetto indagato espone l’uomo ad alcuni rilevanti pericoli. Il primo è quello di trasformare le proprie esperienze personali in principi assoluti con i quali pensa poi di potere giudicare gli altri. Se io per esempio sto bene e non ho mai conosciuto stati di depressione, posso pensare che la depressione non esista e che il depresso sia solo un pigro e un accidioso che non reagisce di fronte alle difficoltà della vita. Per cui ritengo superfluo studiare la depressione e non mi impegno a intervenire in modo efficace sulla vita del depresso per aiutarlo a superare il suo stato. Sbrigherò il problema con un semplice:. «Si muova, si dia da fare, smetta di compiangersi», e altre simili espressioni. La stessa cosa vale per l’anoressia, o i cicli biologici, e tanti altri problemi che affliggono la vita dell’uomo.
Un altro pericolo è rappresentato dal fatto che il pensiero dell’uomo è condizionato dalle sue passioni, dai suoi stati d’animo, dai suoi interessi, dalla sua educazione, dalla sua cultura. Un musulmano troverà assurdo che una donna si presenti in pubblico senza velo, e non sentirà il bisogno di dimostrare la sua posizione perché ritiene che sia un fatto ovvio, frutto di buon senso, e non gli passa neppure lontanamente per la testa che sia il frutto di un pregiudizio o di una tradizione assunta acriticamente. Così il deputato di un partito darà il suo voto secondo le indicazioni date dal partito stesso, anche se non ha mai studiato il problema e non se ne è fatta una idea personale: così una persona sosterrà una tesi in base alla propria ideologia che non ha mai messo in discussione, o in base a un presunto buon senso sostenuto dall’interesse personale. Perché non permettere la procreazione assistita se promuove la vita? Perché non permettere il divorzio se due persone non si amano più? Perché non permettere l’eutanasia se una persona ritiene di non continuare a vivere una vita sofferente, tenuta in vita artificialmente? Perché non permettere l’aborto se crea difficoltà serie alla madre e alla coppia? Perché non eliminare le persone che sono socialmente dannose? La risposta immediata sembra scontata: permettiamo tutto quello che libera dal male e non obblighiamo per legge le persone a vivere nella sofferenza. Ma è la soluzione giusta?
Tanti ritengono di risolvere i problemi in base alla propria esperienza, al proprio buon senso, alla propria capacità di ragionare. Abbiamo tutti lo stesso strumento per affrontare e risolvere i problemi della vita: la ragione, e la ragione è la stessa in tutte le persone.
I quattro cavalieri dell’apocalisse
Si dimentica che se tutti hanno la stessa ragione, non tutti sono capaci di utilizzarla in modo ragionevole. Tutti ragioniamo, ma non tutti ragioniamo bene. Si può avere la ragione e ragionare male. Uno psicologo americano, John Gottman, parlando della coppia dice che in essa possono entrare i quattro cavalieri dell’apocalisse che distruggono tutto. Questo vale anche per la ragione. Possiamo parlare di quattro cavalieri che fanno terra bruciata nella ragione e le impediscono di bene ragionare. Il primo riguarda lo strumento stesso, la ragione; il secondo riguarda invece l’oggetto, il problema da risolvere; il terzo riguarda l’atteggiamento della persona; e il quarto i condizionamenti esterni.
undefined1. La mancanza di manutenzione. Anche la ragione ha bisogno ogni tanto di essere oggetto di revisione. Come per ogni altro strumento, è necessario ogni tanto fare il tagliando. Infatti abbiamo una iniziale e radicale capacità di ragionare, ma questa iniziale capacità non è sempre sufficiente. Ha bisogno di essere formata, sviluppata, addestrata. C’è addirittura una scienza che educa la ragione a ragionare e a evitate i trabocchetti e gli errori che può incontrare nella sua attività, ed è là scienza logica. undefined
La ragione possiede questa arte in modo iniziale; come l’artista possiede in modo iniziale il talento artistico. Ma come chi è dotato del talento artistico deve poi perfezionarsi se non vuole restare per tutta la vita un dilettante, così chi ha la ragione deve esercitarla e addestrarla a bene ragionare. Tutti ogni tanto devono esaminare il proprio modo di ragionare per verificare se stanno utilizzando bene questo dono straordinario. Sappiamo che è una idea che non trova molti consensi, ma è indispensabile per non trovarsi in mano uno strumento usurato e inceppato che serve a poco o nulla.
undefined2. La superficialità. Si sviluppa in tutti coloro che ritengono di non avere bisogno di applicarsi allo studio e all’esame dei molti problemi che l’uomo incontra nella sua vita e che richiedono un cammino di studio e di ricerca. Si affidano ad una specie di “fiuto” o di “istinto” che suggerirebbe immediatamente la soluzione di qualunque problema. E propongono la propria soluzione con l’arroganza dell’ignorante che è certo delle sue idee per l’unico motivo che non ne ha altre. La sua certezza è frutto non di acutezza d’ingegno, ma di incapacità di vedere oltre l’immediato. undefined
Una novella orientale racconta di quattro ciechi che vogliono farsi un’idea sull’elefante. Uno tocca l’enorme zampa e dice che l’elefante è simile a una colonna; il secondo tocca la punta della zanna e di ceche è simile a una lancia appuntita; il terzo tocca il ventre e dice che è simile a una botte, il quarto tocca le ampie orecchie e dice che è simile a un flabello. Mentre bisticciano tra di loro passa un uomo che ci vede. Gli chiedono chi ha ragione; e chi vede cerca di far capire che ognuno di essi si è fatto una idea parziale, ma l’elefante vero è qualcosa di diverso. E allora i ciechi ritenendosi beffati da chi vede, si rivoltano contro di lui e lo uccidono.
E’ quello che spesso avviene nello studio dell’uomo. Si dà un giudizio globale partendo da un aspetto particolare e rimanendo nel particolare. Sono ciechi che trascinano nel fosso chi si fida di loro.
undefined3. L’autosufficienza, cioè non sentire il bisogno di confrontarsi con altri per vedere se le proprie posizioni reggono alla discussione, alla critica e al ragionamento dio altre persone che si stanno applicando allo studio dello stesso problema.undefined
La verità spesso e difficile da raggiungere. È come una montagna che si riesce a scalare solamente mettendosi in cordata, e verificando con altri se si sta percorrendo un sentiero che conduce alla cima, oppure si sta perdendo tempo percorrendo sentieri che non conducono da nessuna parte o che portano a un precipizio.
Affine a questo atteggiamento è quello di chi nel confronto con gli altri vede vacillare le proprie convinzioni, ma si chiude a riccio e ostinatamente continua a difendere la sua posizione e rifiuta di mettersi in discussione per paura di veder cadere tutto il castello ideologico sul quale fino a quel momento ha costruito la sua vita L’onestà intellettuale è una merce rara, ed è troppo severa per essere accolta quando disturba troppo.
4. I molti condizionamenti che provengono dall’esterno e che possono condizionare il funzionamento della ragione: le passioni, gli interessi personali, l’influsso della cultura nella quale la persona è nata e cresciuta. Spesso diamo per scontate certe convinzioni che abbiamo ereditato dall’ambiente sociale, familiare e non ci preoccupiamo di metterli in discussione. San Tommaso d’Aquino porta questo chiaro esempio. La ragione dell’uomo è come un specchio: se è nitido e terso rifletterà la realtà com’è; ma se è offuscato o deformato nella sua curvatura, rappresenterà la realtà in modo deformato. Gesù diceva in modo molto semplice che se il tuo occhio è limpido tutto è chiaro; ma se il tuo occhio è torbido, tutto diventa oscuro (cf Mt 6,22-23).
La ragione è il grande strumento che Dio ha donato all’uomo per guidarsi nella vita; ma è uno strumento che mentre rivela la dignità dell’uomo, manifesta anche la sua fragilità. La ragione non vede tutto immediatamente e facilmente, ma raggiunge la verità impegnandosi nello studio e nella ricerca, e in questa ricerca può cadere nell’errore: Di fronte ai grandi problemi della vita l’uomo non può affidarsi all’esile filo del «mi sembra che..»; ma ha bisogno di sicurezze per garantire a sé stesso e agli altri che sta camminando verso il bene che lo realizza La superficialità dell’improvvisazione non è accettabile, perché è in gioco la stessa vita, nostra e degli altri.
Come cristiani abbiamo la sicurezza che viene dalla parola di Dio che è «lampada ai miei passi»; ma Dio chiede all’uomo un contributo, quello di dimostrare con la ragione la ragionevolezza di quello che gli ha donato con la rivelazione. Dio non si sostituisce mai all’uomo nelle cose che sono in potere dell’uomo; e anche quando si affianca alla sua creatura per guidarlo nel cammino della verità non vuole sospendere e liberarlo dalla fatica della ricerca, ma vuole semplicemente agevolarlo e stimolare la sua capacità di ragionare. E’ come il maestro di guida che sta accanto al principiante non per sostituirsi a lui, ma per fargli evitare errori.
(da Vita Pastorale, 6, 2007)
di Mariano Magrassi
PICCOLA ANTOLOGIA PATRISTICA
1.
FIGLI DI MARIA IN CRISTO
Orìgene (185-253)
Orìgene fu uno dei pensatori più profondi e uno dei più grandi uomini spirituali dell’antichità. Personalmente non volle mai essere altro che un autentico uomo di Chiesa. Perciò la condanna del Concilio di Costantinopoli (553) che colpì, tre secoli dopo la sua morte, alcune sue tesi oggettivamente eterodosse, non può diminuire il valore della testimonianza di colui che consacrò tutta la vita all’annunzio della Parola di Dio.
Osiamo dire che i Vangeli sono le primizie di tutte le Scritture e primizia dei Vangeli è quello secondo Giovanni. Il suo senso lo può cogliere solo chi ha poggiato il capo sul petto di Gesù e da lui ha ricevuto Maria, che è diventata anche sua madre. Così chi è chiamato ad essere un altro Giovanni, deve essere grande come lui, deve come Giovanni ricevere da Gesù la testimonianza di essere lui stesso Gesù. Infatti, se Maria non ebbe - secondo quanti pensano rettamente di lei - altro figlio all’infuori di Gesù, e Gesù dice alla madre: «Ecco tuo figlio », e non: «Ecco, anche questi è tuo figlio», è come se Gesù avesse detto così: « Ecco, questi è Gesù che hai generato ». In verità chi è perfetto non è più lui che vive, ma in lui vive Cristo (cfr Gal 2,20). Perciò di lui è detto a Maria: «Ecco tuo figlio, il Cristo ».
(Commento a Giovanni, I, 6; PG 14, 31-32)
2.
MATERNA SOLLECITUDINE DI MARIA
S. Cirillo di Gerusalemme (313-380)
Nato a Gerusalemme o nei dintorni, S. Cirillo acquistò, durante la sua giovinezza, una profonda conoscenza della sacra Scrittura. Divenne sacerdote e poi, verso il 350, vescovo di Gerusalemme. L’arcivescovo ariano di Cesarea lo fece però cacciare dalla sua sede episcopale. Dopo 11 anni di esilio, ritornò a Gerusalemme, dove ritenne suo dovere rimediare i danni morali e pacificare le agitazioni causate dallo scisma. Questo coraggioso pastore curò molto la predicazione. Di lui ci sono giunte le « catechesi », tenute nel 348. Sono un modello dell’insegnamento religioso del IV secolo, assieme al simbolo della fede che, a questa epoca, era quello della Chiesa di Gerusalemme.
L’unigenito Figlio di Dio, nell’ora della crocifissione, vedendo Maria, la madre sua secondo la carne, e Giovanni, il discepolo più caro, a lui dice: « Ecco tua madre », e a lei: « Ecco tuo figlio » (Gv 19, 27. 26), sottolineando così il dovere materno dell’una di amare l’altro come figlio. Indirettamente fece luce anche su quella frase di Luca: « ii padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui » (Lc 2,33). A questo testo si aggrappano gli eretici per affermare che egli nacque da un uomo e da una donna. Ma, come Maria è detta madre di Giovanni per la sua amorevole sollecitudine e non per averlo generato, così anche Giuseppe è chiamato padre di Cristo non per averlo generato - infatti, secondo il vangelo, ella partorì suo figlio senza che Giuseppe la conoscesse (cfr Mt 1,25) - ma per la cura disimpegnata nel nutrirlo ed educarlo.
(Catechesi, VII, 9; PG 33, 616)
3.
LA CHIESA, COME MARIA, E’ VERGINE MADRE
S. Agostino (354-430)
S. Agostino, nato a Tagaste nell’Africa settentrionale, dopo una giovinezza disordinata, si convertì al cristianesimo, grazie anche alle preghiere della sua santa madre Monica e alla predicazione del vescovo di Milano sant’Ambrogio. Ordinato presbitero e poi vescovo d’’Ippona, fu uno straordinario uomo di pensiero e di azione. Romano per cultura, pensatore di genio, ci ha lasciato un’opera monumentale d’inestimabile valore. Filosofo, teologo, pastore d’anime e grande spirituale, il Dottore della grazia e, più ancora, della carità.
Forse mi dirai: Se la Chiesa è vergine, come fa a generare figli? Che se non genera figli, come mai abbiamo chiesto di nascere dal suo seno [col battesimo]? Rispondo: essa è vergine, eppure genera. Imita Maria, che generò il Signore. Forse che la santa vergine Maria non generò rimanendo vergine? Così pure la Chiesa genera ed è vergine. E se rifletti bene, genera Cristo, perché sono membra di Lui quanti sono battezzati. « Voi siete il corpo di Cristo e le sue membra», dice l’Apostolo (1 Cor 12, 27). Se dunque genera le membra di Cristo, la Chiesa è somigliantissima a Maria.
(Commento al simbolo, 8; PLS 2, 541)
4.
MARIA, MADRE DEI CREDENTI
S. Nilo abate (+ ca. 430)
Detto l’«Asceta», fu a capo di una comunità di monaci ad Ancira di Galazia tra il sec. IV e il sec. V. In lettere di contenuto religioso, in scritti ascetici, in raccolte di sentenze per i monaci trattò di preferenza i temi del «filosofare secondo Cristo» e specialmente della «povertà media», che vive al servizio di Dio, ma si occupa anche moderatamente delle cose terrene. (Non è da confondere con l’omonimo fondatore di Grottaferrata in Italia).
La prima Eva fu chiamata figuratamente vita (ctr Gen 2,19) per significare l’altra Eva, cioè santa Maria che generò la vita degli uomini, Cristo, il Signore della gloria. Questa infatti si rivela vera Madre di tutti quelli che vivono in consonanza col Vangelo e spiritualmente non muoiono a motivo della loro incredulità.
La prima donna ebbe l’arte di tessere vesti esteriori, affinché con esse coprissimo l’esterna nudità dei nostri corpi. L’altra invece, ossia la Madre di Dio, mostrò una sì grande perfezione e abilità di ricamo da rivestire tutti i credenti con le vesti dell’incorruttibilità, tessute con la lana dell’Agnello da lei generato, e da renderli interiormente liberi dalla nudità. Infatti i veri cristiani sono tutti adunati alla destra del Re del cielo, con vesti variopinte intessute d’oro (cfr Sal 44, 10), perché ricchi di ogni genere di virtù.(Epistolario, I, 266, 267; PG 79, 179)
5.
MARIA, MADRE DEI VIVENTI
S. Pier Crisologo (380?-450)
Nato ad Imola, fu dal 424 al 440 vescovo di Ravenna che durante il suo episcopato divenne metropoli ecclesiastica. Contemporaneo e amico di Leone Magno, san Pietro fu predicatore famoso e autore di 176 sermoni pieni di pietà, tanto da meritarsi il nome di «Crisologo» uomo dalla parola d’oro). Da Benedetto XIII gli fu tributato il titolo di dottore della Chiesa.
a)
Una donna (= Maria) ricevette da Dio il lievito della fede, poiché una donna (= Eva) aveva ricevuto dal diavolo il fermento dell’incredulità, e lo intrise in tre staia di farina, che sono le tre epoche che vanno da Adamo a Noè, da Noè a Mosè, da Mosè a Cristo. E come una donna in Adamo aveva corrotto tutta la massa del genere umano con il fermento della morte, così una donna in Cristo riportò all’originale integrità l’intera natura umana con il lievito della risurrezione. Similmente una donna aveva preparato pane di gemiti e di dolore, e una donna cosse il pane della vita e della salvezza. Così per mezzo dì Cristo diventò vera madre di tutti i viventi colei che era stata madre di tutti i mortali. E’ per questo che Cristo volle nascere da una donna, affinché, come per tutti venne la morte a causa di Eva, così a tutti fosse ridata la vita per mezzo di Maria. Perciò in Maria la tipologia del lievito si compie, la parabola si realizza, la figura diventa realtà. Ella infatti dall’alto accoglie nel suo seno verginale il Verbo che assume in lei la nostra carne, e diventa lievito, perché proprio nel suo grembo l’intera pasta umana è lievitata di cielo.
(Sermone 99; PL 52, 478-479)b)
Fece bene Gabriele quando aggiunse: «Benedetta sei tu fra le donne» (Lc 1, 28). Eva infatti è maledetta fra le donne perché causa di dolori nel parto; Maria invece con la sua maternità gioisce, è onorata e tra le donne è esaltata come benedetta. Così la donna che secondo natura è stata madre dei mortali, secondo la grazia è diventata in Maria madre dei viventi. (...) Assai ignora quanto sia grande Dio colui che non resta attonito dinanzi ai nobili sentimenti di questa vergine, e non ne ammira lo spirito. I cieli tremano, gli angeli paventano, la creatura soccombe, la natura è impotente, mentre questa fanciulla - e soltanto lei - accoglie e contiene nella dimora del suo seno Dio stesso e lo porta con tale tenerezza da esigere come compenso per tale ospitalità la pace per la terra, la gloria per i cieli, per i condannati la salvezza, per i morti la vita, una parentela tra la terra e il cielo, uno scambio tra Dio e la nostra condizione mortale. Si compie così il detto del profeta: «Ecco, dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo » (Sal 126,3).
(Sermone 140; PL 52, 576-577)
c)
Sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe » (Mt 1,18): sposa nella verginità, madre per la fecondità; madre che non conosce uomo, eppure conosce il parto. Come non sarebbe madre prima del concepimento colei che dopo il parto rimase vergine benché madre? Come non sarebbe madre colei che ha generato il creatore del mondo e ha dato l’inizio a tutte le cose? (...).
Mentre la vergine di natura sua è sempre madre, la genitrice naturale, perché corrotta, è sempre matrigna. Dunque è prerogativa propria della verginità che una vergine (= la Chiesa) rigeneri per mezzo di Cristo ciò che un’altra vergine (= Maria) generò per mezzo di Dio. Celestiale unione fu quella tra Dio e la Vergine intemerata, perfetto e santo connubio è quello tra Cristo e la vergine (Chiesa). Che la Vergine concepisca è azione dello Spirito, non frutto della carne; che la Vergine dia alla luce è mistero divino, non effetto di unione coniugale: la nascita di Cristo si deve alla maestà divina, non all’opera dell’umana debolezza; intera risplende la gloria di Dio là dove non c’è traccia alcuna di imperfezione. (...)
Maria è chiamata madre. E quando Maria non è madre? (...) Forse che Maria non concepì con unico atto anche il popolo che usciva dall’Egitto, affinché quale celeste progenie emergesse rigenerato in nuova creatura, come dice l’Apostolo: «I nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare» (1 Cor 10, 1-2)? E affinché si veda che Maria cammina sempre avanti quando è in gioco la salvezza dell’uomo, giustamente essa cantando precede il popolo che l’onda generatrice libera dalla morte. Dice intatti: « Maria, sorella di Aronne, prese in mano un timpano e intonò il canto: Cantiamo al Signore, perché ha mirabilmente trionfato» (Es 15, 20-21). Nome questo (= Maria) indubbiamente profetico, di salvezza per i rinati, insigne per la verginità, nobile per la purezza, indice certo di castità, sacro a Dio, segno di generosa ospitalità, che in sé aduna ogni santità Giustamente dunque questo nome, che serve a indicare la sollecitudine materna, è proprio della Madre di Cristo.
(Sermone 146; PL 52, 592-593)
6.
MARIA, MADRE E FIGLIA DELLA CHIESA
Berengaudo (sec. IX)
Di questo autore medievale, vissuto nel IX secolo, oltre al nome, sappiamo che fu un monaco benedettino e scrisse un ampio « Commento all’Apocalisse » (da cui è tratto il brano seguente), opera già attribuita, ma erroneamente, a sant’Ambrogio di Milano.
«Il dragone si pose davanti alla donna che stava per partorire, per divorare il bambino appena nato» (Ap 12, 4). Qui per la donna possiamo intendere anche la beata Maria per il fatto che ella è madre della Chiesa per aver partorito colui che della Chiesa è il capo. Ma è anche figlia della Chiesa poiché ne è il membro più nobile. Il dragone, dunque, si arrestò davanti alla donna per divorarne il figlio appena l’avesse partorito. Infatti fu lui che, subito dopo la nascita di Cristo, decise di toglierlo di mezzo, servendosi di Erode come di suo ministro. E’ sempre lui che si drizza anche davanti a quell’altra donna che è la Chiesa, per cercare di trarre alla rovina, mediante la tentazione al male, coloro che essa genera a Dio col battesimo.
«Essa partorì un figlio maschio » (Ap 12,5). Se ciò che qui è detto si deve riferire al Signore nostro Gesù Cristo, che necessità c’era di specificare che la donna partorì un figlio maschio, dal momento che lo sappiamo tutti che il Signore nostro Gesù Cristo era maschio? Se invece si riferisce alla Chiesa, come mai vien detto che diede alla luce un figlio maschio, dal momento che essa genera ogni giorno a Dio una moltitudine di figli e di figlie dell’uno e dell’altro sesso? in realtà è vero che il sesso femminile è fragile per natura; ma quando la donna acquista una tale fortezza d’animo da vincere il diavolo e si sforza di piacere a Dio con le buone opere, non senza fondamento è chiamata uomo: nel corpo rimane donna, ma per il vigore dell’anima è paragonata agli uomini più gagliardi.
La donna diede alla luce un figlio: infatti la Chiesa genera ogni giorno le membra di colui che la beata vergine Maria un giorno diede alla luce. Uno solo, dunque, è il figlio che la vergine Maria partorì e che la Chiesa partorisce ogni giorno, giacché Cristo più tutte le sue membra formano un solo Cristo.
(Commento all’Apocalisse, XII, 3-5; PL 17, 960)
7.
PERFETTA CORRISPONDENZA TRA MARIA E LA CHIESA
S. Pier Damiani (1007-1012)
Nato a Ravenna da famiglia povera, ebbe come tutore il fratello maggiore, Damiano, di cui assunse il nome. Si fece monaco eremita camaldolese, ma fu spesso impegnato nella predicazione al popolo e a riformare monasteri. Creato cardinale-vescovo di Ostia, lottò efficacemente per liberare la Chiesa dagli affari temporali, reagì contro la decadenza intellettuale e morale del clero, e aprì così la strada a quella riforma che il suo grande amico, il monaco Ildebrando (Gregorio VII), intraprese più tardi. Per i suoi numerosi e infiammati scritti, fu dichiarato dottore della Chiesa nel 1828.
Vi piacerebbe, fratelli carissimi, che io ora esaminassi davanti a voi la molteplice bellezza del disegno divino e mettessi a confronto i due discepoli del nostro Redentore per mostrarvi come ambedue si corrispondano per una certa somiglianza di dignità? Intendo riferirmi a Pietro e a Giovanni. Infatti il Signore, come affidò a Pietro le chiavi della Chiesa, così volle affidare a Giovanni la custodia di Maria. L’una e l’altra è veramente madre: madre Maria, madre la Chiesa. Maria madre di Cristo, la Chiesa madre del popolo cristiano. Da Maria Cristo ha assunto la carne, ma poi dal suo fianco squarciato ha generato la Chiesa. Da Maria ha tratto origine quando nasceva secondo la carne, la Chiesa invece la dà alla luce quando la sua carne era ormai esanime. Da quella volle nascere, per questa si degnò morire. Dall’una nacque una volta per tutte Lui personalmente, dall’altra nascono ogni giorno le sue membra. Prese dall’una di che morire per l’altra, perché così si salvassero tutte e due insieme. Grande è perciò Maria, madre benedetta e vergine beata, dalle cui viscere Cristo ha assunto quella carne dalla quale poi scaturì la Chiesa per mezzo dell’acqua e del sangue. Di qui si vede chiaramente che anche da Maria è nata la Chiesa. Tuttavia entrambe (le madri) sono caste, entrambe pure, entrambe adorne di perenne verginità.
(Sermone 63; PL 144, 861)
8.
MARIA «PORTIO OPTIMA» E TIPO DELLA CHIESA
Ruperto di Deutz (1070/75-1129/30)
Nato a Liegi, giovanissimo entrò nel monastero della sua città. Da cinque anni si era trasferito, per amore della pace, a Siegburg presso Colonia, quando fu eletto abate di Deutz. Morì addolorato per l’incendio della sua abbazia. Nei suoi commentari esegetici ha percorso tutta la Bibbia, mostrandone la profonda unità in quanto narra un’unica grande vicenda che realizza il disegno di Dio per la salvezza degli uomini.
In Dio nel suo disegno di salvezza aveva disposto che il Verbo si facesse prima « voce » e « parola » attraverso il cuore e la bocca dei profeti, e poi si facesse carne nel grembo della Vergine Maria. Così facendo, il Verbo di Dio diventato carne, il Figlio di Dio fattosi uomo, si sarebbe chiamato e sarebbe stato realmente sposo. Tutta la Chiesa sarebbe convolata a questa offerta nuziale, pur senza lasciare il Padre che fino ad allora essa aveva chiamato suo unico sposo.
Ora la Beata Vergine è stata la parte migliore della Chiesa antica (= Israele) e ha meritato di essere sposa del Padre; ma è stata ancor più il tipo esemplare della giovane Chiesa, sposa del Figlio di Dio, cioè del suo stesso Figlio. Infatti quello stesso Spirito che nel suo grembo ha operato l’incarnazione dell’Unigenito di Dio, nell’utero della Chiesa - cioè nel lavacro vivificante del battesimo con la potenza della grazia avrebbe rigenerato una moltitudine di figli a Dio. (...) Al contrario, non si può dire dell’antica Chiesa che fosse sposa del Figlio: il Re divino non aveva ancora celebrato le nozze di suo Figlio, e dunque il Figlio non era ancora sposo. (...) Ma quando venne la pienezza dei tempi, allora tutto l’affetto, l’amore, la forza generatrice di Dio si posò sulla Vergine, che meritò di udire dall’angelo le arcane parole: « Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo » (Lc 1,35).(La Trinità e le sue opere: lo Spirito Santo, I, 8; PL 167, 1577-78)
9.
MARIA, VERA EVA
Guerrico d’Igny (1078-1157)
Attratto dall’esempio di san Bernardo, il beato Guerrico entrò nel monastero di Chiaravalle nel 1125, ma nel 1138 dové trasferirsi a Igny (diocesi di Reims) di cui era stato eletto abate. Fra i discepoli del grande Bernardo, Guerrico è forse il più vicino al maestro per il modo con cui interiorizza i misteri di Cristo, li porta a una relazione personale con Gesù che preannunzia la devozione moderna, pur rimanendo sulla linea della grande tradizione patristica. Senza dubbio Guerrico è meno originale di molti altri autori cistercensi, ma ci sembra più accessibile. I 54 discorsi sull’anno liturgico che abbiamo di lui, riflettono con grande semplicità il fervore che animava le prime comunità cistercensi.
L’antica Eva, più matrigna che madre, perché diede ai figli la morte prima ancora di generarli, fu sì chiamata « la madre dei viventi» (Gen 3,20), ma in verità si potrebbe chiamare piuttosto assassina dei viventi, perché il suo generare non fu altro che ingenerare morte. Essa dunque non potè realizzare quanto il suo nome significava. Invece Maria diede piena attuazione a quel mistero di cui è espressione. E’ infatti madre di tutti coloro che rinascono alla vita, proprio come la Chiesa di cui è modello. E’ Madre di quella vita di cui tutti vivono. Generando la vita, ha come rigenerato tutti coloro che di questa vita dovevano vivere.
La santa Madre di Cristo si riconosce madre dei cristiani sul piano del mistero, e perciò esercita verso di loro tutte le sollecitudini e l’amore proprio di una madre. Non si sente insensibile verso i suoi figli, non li tratta da estranei, lei, che pur avendo generato una volta sola, fu sempre madre, né mai cessò di dare al mondo i frutti del suo amore materno.
Se un servo di Cristo può dire di generare i suoi figliuoli per le premure e l’amore che porta loro, finché non sia formato il Cristo in essi (cfr GaI 41, 19), quanto più la Madre stessa di Cristo? E Paolo li ha generati predicando la parola di verità con la quale sono stati rigenerati. Maria invece in un modo molto più divino e santo, generando lo stesso Verbo. Io lodo certo in Paolo il ministero della predicazione, ma ammiro e venero di più in Maria il mistero della generazione.
Anche i cristiani la riconoscono per madre e, mossi dal loro naturale affetto di figli, si rifugiano in lei in ogni necessità e pericolo, invocandone con fiducia il nome, come bimbi in braccio alla loro mamma. Per questo penso si possa intendere rivolto ad essi ciò che è stato promesso per mezzo del profeta: Abiteranno in te i tuoi figli (cfr Sal 101, 29), senza escludere naturalmente che tale profezia sia principalmente riferita alla Chiesa.
E ora, se davvero abitiamo al riparo della Madre dell’Altissimo, riposiamo sotto la sua protezione come all’ombra delle sue ali, e un giorno, condividendo la sua gloria, saremo ammessi alla sua presenza. Allora risuonerà un unico coro di cuori esultanti che acclameranno la madre: Sono in te tutte le nostre sorgenti (cfr Sal 86,7), o santa Madre di Dio.
(Discorso 1 sull’Assunzione di Maria; PL 185, 187-189)
10.
MARIA NOSTRA MADRE
Aelredo di Rievaulx (1110-1167)
Nato a Yorkshire, passò verso il 1133 dalla corte del re di Scozia all’abbazia cistercense di Rievaulx. Dottore di vita spirituale fu successivamente maestro dei novizi, abate di San Lorenzo di Rivesby e abate di Rievaulx. « E’ quasi un altro Bernardo, il nostro Aelredo », dicevano di lui i cistercensi che lo conobbero e lo amarono. In effetti, senza uguagliare il suo famosissimo contemporaneo, Aelredo ci ha lasciato un’opera di valore, i cui temi principali sono: l’amore tenero verso l’umanità del Salvatore e verso la Vergine Maria e l’amicizia spirituale tra gli uomini.
Accostiamocj alla sua sposa, accostiamoci alla sua madre, accostiamoci all’ottima sua serva. Tutto questo è la beata Maria.
Ma che cosa faremo per lei? Quali doni le offriremo? Potessimo almeno darle quello che dobbiamo per debito! Noi le dobbiamo onore, noi le dobbiamo servizio, noi le dobbiamo amore, noi le dobbiamo lode. Noi le dobbiamo onore, perché è madre di nostro Signore. Infatti colui che non onora la madre, senza dubbio disonora il figlio. La Scrittura dice: « Onora tuo padre e tua madre » (Es 20,12).
Che cosa diremo dunque, fratelli? Non è forse ella nostra madre? Certo, fratelli, ella è veramente nostra madre. Per lei infatti siamo nati non al mondo, ma a Dio. Tutti noi, come ben sapete e credete, siamo stati nella morte, nella decrepitezza, nelle tenebre, nella miseria. Nella morte, perché avevamo perduto il Signore; nella decrepitezza, perché eravamo nella corruzione; nelle tenebre, perché avevamo perduto la luce della sapienza e così eravamo del tutto perduti.
Ma per mezzo della beata Vergine Maria siamo nati molto meglio che non per mezzo di Eva, per il fatto che Cristo è nato da lei. Invece della decrepitezza abbiamo acquistato la freschezza; invece della corruzione l’incorruzione; invece delle tenebre la luce.
Ella è nostra madre, madre della nostra vita, madre della nostra incorruzione, madre della nostra luce. Dice l’Apostolo riguardo a nostro Signore: «Egli è diventato per noi sapienza e giustizia, santificazione e redenzione» (1 Cor 1,30).
Ella dunque, che è madre di Cristo, è madre della nostra santificazione, madre della nostra redenzione; perciò è per noi più madre della madre nostra secondo la carne. Dunque da lei abbiamo una natività migliore, perché da lei è la nostra santità, la nostra sapienza, la nostra giustizia, la nostra santificazione, la nostra redenzione.
Dice la Scrittura: « Lodate il Signore nei suoi santi » (Sal 150, 1). Se nostro Signore si deve lodare per quei santi per mezzo dei quali opera miracoli e prodigi, quanto più è da lodare in colei nella quale fece se stesso, che è mirabile su tutte le cose mirabili.
(Discorso 20 sulla Natività di Maria; PL 195, 322-324)
11.
MARIA-CHIESA: UNICA MADRE DEL CRISTO TOTALE
Isacco della Stella (+ 1178)
Isacco della Stella nacque in Gran Bretagna. Teologo e filosofo, è uno scrittore spirituale cistercense di prim’ordine. Andò a studiare in Francia con i più celebri maestri del suo tempo. In seguito entrò nell’abbazia della Stella nel Poitou e ne divenne abate nel 1147. Circa vent’anni dopo, a capo di un piccolo gruppo, stabilì la vita monastica nell’isola di Re, al largo di La Rochelle. Nei suoi sermoni, Isacco unisce armoniosamente la sostanza teologica della tradizione patristica, le nuove esigenze di un rigoroso approfondimento intellettuale e la sensibilità umana caratteristica della scuola cistercense del XII secolo.
E’ giusto che nel popolo dei redenti il primo posto sia riservato alla Madonna, che ha realmente generato il primo di tutti noi. Cristo infatti è il primogenito di molti fratelli. Figlio unico di Dio per natura, egli ha stabilito nella libertà del suo amore un legame con gli uomini, per renderli uno con lui. «A quanti l’accolgono ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1, 12)... Presi ad uno ad uno secondo la loro nascita terrena, gli uomini sono una moltitudine; ma la seconda nascita, quella divina, li rende uno con il Cristo. C’è infatti un solo capo, Cristo, e un solo corpo, il corpo di Cristo, e il capo e il corpo sono una cosa sola.
E questo Cristo totale è figlio di un solo Dio incielo e di una sola madre sulla terra. Ci sono dunque molti figli, ma in realtà c’è un unico figlio. E come il capo e le membra insieme, pur essendo molti, sono un solo figlio, così Maria e la Chiesa, pur partecipando a tutti la loro maternità e la loro verginità, sono una sola madre, una sola vergine. L’una e l’altra sono madre; l’una e l’altra, vergine. Entrambe concepiscono per opera dello Spirito Santo, non per desiderio carnale. Entrambe danno un figlio a Dio Padre senza peccato. Una ha generato, senza peccato, un capo per il corpo; l’altra, attraverso la remissione dei peccati, ha fatto nascere un corpo per il capo. Entrambe sono madre di Cristo, ma nessuna può generare il Cristo totale senza l’altra. Per questo nelle Scritture divinamente ispirate una stessa realtà può essere riferita, in modo generale, alla vergine madre che è la Chiesa, e in modo particolare a Maria, vergine e madre. Quando cioè un testo parla dell’una o dell’altra, esso può applicarsi all’una e all’altra quasi senza distinzione.
Non solo: anche ogni anima che crede è veramente, in maniera analogica, sposa del Verbo di Dio, madre, figlia e sorella di Cristo, vergine feconda. E’ dunque la stessa Sapienza di Dio, il Verbo del Padre, che sotto la medesima figura ci fa intravedere nel senso universale la Chiesa, in senso speciale Maria e infine ogni credente in particolare.
«In mezzo a tutte queste cose cercai un luogo di riposo», dice la Sapienza di Dio (Sir 24,11 Vg). Questa Sapienza è dappertutto e in tutte le cose. Essa si estende da un’estremità all’altra del mondo, dall’inizio alla fine della realtà, e lascia dappertutto una traccia di sé in modo che la si può cercare e trovare. Ma è soltanto negli esseri spirituali, fatti a sua immagine e somiglianza, che essa ritrova riposo e gioia o, al contrario, pena e dispiacere... « E fisserò la mia dimora nell’eredità del cielo» (Sir 24, 11). L’eredità del Signore è, globalmente, la Chiesa, Maria in modo speciale e ogni credente in particolare. Nella dimora del seno di Maria, Cristo è testato nove mesi; nella dimora della fede della Chiesa resterà fino alla fine di questo mondo, e nella conoscenza e nell’amore dell’anima fedele, per i secoli dei secoli.
(Sermone 51; PL 194, 1862-65)
12.
MARIA, MADRE AMOROSA E CORREDENTRICE
S. Bonaventura (1221 1274)
Nato nel 1221 a Bagnoregio (Viterbo), Giovanni Fidanza mentre era bambino fu miracolosamente guarito da san Francesco. In questa «bona ventura» trovò la sua vocazione francescana. Mandato per gli studi a Parigi, fu alunno di Alessandro di Hales. Per molti anni insegnò teologia e nel 1257 divenne l’ottavo Ministro generale del suo Ordine.
Bonaventura fu uomo di azione, ma ancor più pensatore e contemplativo. Lasciò un’opera considerevole che, per la sua importanza, si situa accanto a quella di san Tommaso d’Aquino. Nel 1273 il futuro «Dottore serafico» fu fatto cardinale-vescovo di Albano e morì l’anno seguente durante i lavori del Concilio di Lione.
Quando Cristo soffriva sulla croce per purificarci, lavarci e riscattarci, la Vergine, presente, accoglieva con generosità la volontà divina e accettava che fosse offerto in riscatto per noi sulla croce il frutto del suo seno.
Ella ha pagato questo riscatto da donna coraggiosa, compresa di amore e di venerazione per Dio. Leggiamo nel libro dei Proverbi: «La grazia inganna e la bellezza svanisce: la donna tema Dio e sarà lodata» (31,30). Anna fu lodata per aver offerto Samuele; offrì il figlio suo per il servizio del tempio, ma la santa Vergine ha offerto suo figlio per il sacrificio. E tu, Abramo, volevi offrire tuo figlio, ma alla fine hai offerto un capretto, mentre la Vergine gloriosa ha offerto il figlio. Lodiamo anche la povera vedova, perché ha offerto tutto quello che possedeva; ma quest’altra donna, la Vergine gloriosa, nella sua grande misericordia, nel suo amore e nella sua devozione a Dio, ha offerto tutta la sua vita.
La gloriosa Vergine ha pagato il nostro riscatto da donna coraggiosa e piena di amore compassionevole per Cristo. E’ detto in san Giovanni: « La donna, quando partorisce, è triste perché è venuta la sua ora » (16,21). La beata Vergine Maria non ha provato i dolori del parto, perché non ha conosciuto il peccato come Eva, contro la quale fu lanciata la maledizione; il suo dolore lo ha avuto dopo: ha partorito sulla croce. Le altre donne conoscono il dolore del corpo, ella ha provato quello del cuore. Le altre soffrono di una alterazione fisica, lei di compassione e di carità
La beata Vergine ha pagato il nostro riscatto da donna coraggiosa, capace di un profondo senso di pietà per il mondo, e soprattutto per il popolo cristiano. « Può una donna di Israele » dimenticare il suo bambino e non aver pietà per il frutto del suo seno?» (Is 49, 15). Questo può farci comprendere che il popolo cristiano intero è frutto del seno della gloriosa Vergine.
Quale Madre amorosa abbiamo! Modelliamoci sulla nostra Madre e seguiamola nel suo amore. Ella ha avuto compassione delle anime a tal punto da considerare un nulla ogni perdita temporale e ogni sofferenza fisica. « Siamo stati riscattati con un grande prezzo» (1 Cor 6,20).
(I sette doni dello Spirito Santo, V, 15-21; 1, Opera omnia, ed. Quaracchi, IV, 1891 pp. 487-489)
di Mauro Perani
Al profeta Isaia nella letteratura esegetica ebraica medievale è riservato un posto di rilievo fra gli altri profeti, in conformità con quanto avveniva già nei testi rabbinici dei secoli precedenti. Il nucleo del suo libro considerato da diverse fonti come la punta più significativa del suo messaggio profetico è probabilmente la sezione nota come libro della consolazione. Se Geremia ha il compito scomodo di annunciare il castigo divino, a Isaia spetta quello assai più soave di consolare il popolo d'Israele e di annunciargli un'epoca nuova di salvezza. Nella disputa medievale fra cristiani ed ebrei, che ovviamente spesso si polarizzava sulla questione della messianicità di Gesù, anche i Canti del servo divengono oggetto di un dibattito serrato per stabilire se questo servo sia il Messia e se questo sia già venuto o meno.
Shelomo ben Yitzchaq, il più grande commentatore ebreo di tutti i tempi meglio noto con l'acronimo Rashì (Francia settentrionale 1040-11 05), inizia il suo commento alle prime parole del libro di Isaia Visione di Isaia figlio di Amos riportando un detto di Rabbi Lewi che a sua volta menziona una tradizione trasmessa dai padri secondo cui Amoz e Amasia re di Giuda (cf 2 Re 12,22) erano fratelli. A suo avviso tuttavia, in base al principio esegetico per cui nella Bibbia non c'è un prima e un dopo ('en muqdam ume 'uchar he-seder) secondo una rigorosa successione cronologica, il primo versetto non è l'inizio del libro, come dimostra il fatto che non ne costituisce il titolo. L'inizio a suo avviso va ricercato nel capitolo sesto dove si parla della chiamata e della missione del profeta.
Anche Dawid Qimchi, un esegeta di tradizione più legata al senso letterale e all'analisi del lessico vissuto a Narbona (sec. XII-XIII), menziona all'inizio questa tradizione: «Visione di Isaia figlio di Amos. Non sappiamo le sue relazioni di parentela e a quale tribù questi appartenessero, ma ci è solo noto che i nostri maestri di beata memoria ricevettero la tradizione in base alla quale Amoz e Amasia erano fratelli». Commentando il versetto seguente Ascoltate o cieli, terra porgi l'orecchio, questo esegeta osserva che Isaia «inizia il suo libro con parole di biasimo poiché i figli della sua generazione erano empi e, benché sia scritto a proposito di Ozia che egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore e così pure riguardo a Iotam, pure è detto di Ozia che in seguito alla sua potenza il suo cuore si insuperbi fino a rovinarsi (2 Cr. 26,16)»
Tornando alla formula di apertura del primo annuncio profetico isaiano Ascoltate o cieli, terra porgi l'orecchio molti commentatori medievali si sono chiesti perché il profeta usi esattamente le stesse espressioni di Mosè, ma invertite; Isaia infatti dice in ebraico Shim'u shamayim we-ha 'azini eretz; mentre Mosè, aprendo il suo cantico in Esodo 32,1dice: Ha 'azinu ha-shamayim ... wetishma ha-aretz; scambiando i verbi usati da Isaia. Dawid Qimchi osserva al riguardo che, a differenza di Mosè, «Isaia dice Ascoltate (shim'u) o cieli poiché egli era lontano dai cieli, quindi aggiunge terra porgi l'orecchio (ha'azini) poiché egli era vicino alla terra». Anche Rashi riprende questa interpretazione tradizionale e osserva: «Perché Isaia ha cambiato l'espressione? I nostri maestri ci hanno lasciato un insegnamento su ciò, e su questo brano ci sono molte interpretazioni midrashiche». Più ampia la spiegazione dello Yalqui ha-Makiri, una raccolta di midrashim compilata da Makiri Abba Mari nella Francia meridionale tra la fine del sec. XIII e il XIV. In esso leggiamo: «Disse Rabbi Aqiba: insegna ... che (Mosè) è come un uomo che parla al suo prossimo e disse Porgete l'orecchio o cieli; vide la terra lontana e disse: Ascolta o terra. Venne Isaia e pronunciò la parola: Ascoltate o cieli, terra porgi l'orecchio per attribuire grandezza alle cose grandi e piccolezza alle cose piccole». Ossia, Mosè parla dall'alto del Sinai, e si trova più vicino ai cieli, mentre Isaia parla in basso sulla terra a lui vicina, mentre si rivolge ai cieli come se fossero più lontani.
Veniamo ora a vedere alcune interpretazioni della famosa espressione di Isaia: Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme (40, Is). Una bella omelia che commenta questo capitolo di Isaia e che costituisce il brano profetico (haftarah) che accompagna la sezione della Torah letta nel primo sabato dopo il 9 del mese di Av, ci è presentata dalla Pesiqta rabbati, una raccolta di omelie sinagogali la cui datazione è incerta ed è collocata dagli studiosi fra il V ed il IX secolo d.C. Ecco questo bellissimo commento che parla del bisogno che ha Dio di essere consolato e pone a confronto Geremia che ferisce con Isaia che risana; lo propongo nella traduzione di M. Gallo. (1)
Altra parola. Consolate, consolate, o popolo mio, dice il vostro Dio. Dice rabbi Barachià, il sacerdote: Consolami, consolami o popolo mio. Da che mondo è mondo se un uomo possiede una vigna e vengono i ladri e la tagliano, chi si deve consolare, la vigna o il padrone della vigna? Così pure, se un uomo possiede una casa e vengono i ladri e le appiccano il fuoco, chi si deve consolare, la casa o il padrone della casa? Ma voi siete la mia vigna: Vigna del Signore delle schiere è la casa d'Israele (Is 5,7). Ora è venuto Nabucodonosor e l'ha distrutta e vi ha tratti in esilio e ha dato fuoco alla mia casa, sono io che devo essere consolato:
Consolami, consolami, o popolo mio.
Altra parola. Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme. Tutto quello che Geremia dice per punire, Isaia viene e (lo) risana. Geremia castiga e dice: Come siede sola la città ricca di popolo! È come una vedova la grande fra le nazioni, la principessa tra le province è soggetta a tributo! (Lam 1,1). Isaia viene e dice: Io ho visto la vergine. Sì, non ti si dirà più abbandonata e alla tua terra non si dirà più desolata perché tu sarai chiamata «Il mio compiacimento è in lei», e alla tua terra si dirà «Sposata»; perché il compiacimento del Signore è in te e la tua terra sarà sposata. Sì, come il giovane sposa la vergine, ti sposeranno i tuoi figli, e, come gioisce lo sposo per la sposa, gioirà per te il tuo Dio (Is 62,4s). Geremia colpisce e dice: Piange amaramente nella notte, le sue lacrime sulle sue guance, non c'è per lei consolatore tra tutti quelli che l'amano; tutti i suoi amici l'hanno tradita, le sono divenuti nemici (Lam 1,2). Isaia viene e risana: Sì, popolo che sei in Sion, che abiti in Gerusalemme, tu non dovrai più piangere! Alla voce del tuo lamento avrà compassione di te, appena avrà udito ti risponderà! (Is 30,19). Geremia colpisce e dice: Giuda è esiliata. Oppressa dalla miseria e da grave schiavitù, dimora fra le genti, non trova riposo, tutti i suoi persecutori la raggiungono tra le angosce (Lam 1,3). Isaia viene e risana: E sarà in quel giorno: la radice di lesse, eretta come vessillo dei popoli, a lei si volgeranno le genti e la sua dimora sarà gloria. E sarà in quel giorno: di nuovo il Signore stenderà la mano per riscattare il resto del suo popolo, che sarà scampato a Assur e in Egitto, a Patros, a Cush, a Elam, a Shinear, a Hamat e nelle isole del mare. Innalzerà un vessillo sulle nazioni, radunerà i deportati d'Israele, raccoglierà i dispersi di Giuda dalle quattro estremità della terra (Is 11,10-12). Geremia colpisce e dice: Le vie di Sion sono in lutto (Lam 1,4). Isaia viene e risana: Una voce grida: aprite nel deserto la via del Signore, spianate nella steppa un sentiero per il nostro Dio (Is 40,3). Geremia colpisce e dice: I suoi nemici sono alla testa (Lam 1,5). Isaia viene e risana: A testa curva verranno a te i figli dei tuoi oppressori, prostreranno alla pianta dei tuoi piedi tutti coloro che ti disprezzavano, ti chiameranno: Città del Signore, Sion del Santo d'Israele (Is 60,14). Geremia colpisce: È uscito dalla figlia di Sion tutto il suo splendore (Lam 1,6). E chi è questo suo splendore? È il santo, - sia benedetto -, poiché di lui sta scritto: Di gloria e splendore ti sei rivestito (Sal 104,1). Isaia viene e risana: lo l'ho visto venire. Chi è costui che viene da Edom, da Bosra, con le vesti tinte di sangue? Che è splendido nel suo manto, che incede pieno di forza? Sono io che parlo con giustizia, che sono grande per salvare (Is 63,1). Geremia colpisce: Si ricorda Gerusalemme nei giorni della sua miseria, della sua vita errante, di tutte le sue cose preziose, che possedeva nei giorni antichi (Lam 1,7). Isaia viene e risana: Ecco, io creo cieli nuovi e terra nuova. Non si ricorderanno più le cose di prima, non saliranno al cuore (Is 65,17). Geremia colpisce: Ha peccato, ha peccato Gerusalemme, perciò è divenuta una sozzura (Lam 1,8). Isaia viene e risana: Ho dissolto come bruma le tue colpe, come una nube i tuoi peccati. Ritorna a me, perché lo ti ho riscattata (Is 44,22).
Il passo procede ancora nell'intrecciare citazioni dalle Lamentazioni a quelle di Isaia, in un mirabile effetto di contrappunto fra le sciagure annunciate da Geremia e le consolazioni pronunciate dal nostro profeta, relative esattamente ad una stessa espressione ed a una stessa punizione.
Rashi a proposito del versetto Consolate, consolate il mio popolo così commenta: «Ora il profeta ritorna sulle sue profezie destinate ad accadere, per il fatto che da qui fino alla fine del libro le parole di consolazione creano uno stacco in questa sezione fra esse e fra le punizioni: consolate, o voi miei profeti, consolate il mio popolo».
Una bella interpretazione del famoso passo isaiano del c. 55,8: Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri sono riprese in diverse interpretazioni ad esempio nello Yalqut Shim' oni (paragrafo 482) e nello Yalqut ha-Makiri dal quale presentiamo questa suggestiva spiegazione.
«Poiché i miei pensieri sono i vostri pensieri ... A che cosa assomiglia ciò? Ad un re di carne e sangue che siede e giudica un uomo, ed il giudice gli dice: "Di' se hai ucciso o se non hai ucciso". Se dice: "ho ucciso", il giudice lo fa uccidere, ma se non lo ammette, egli non lo fa uccidere. Ma di fronte al Santo, benedetto egli sia, non è così. Al contrario, se uno confessa la sua colpa, il Santo, benedetto egli sia, ha pietà di lui, come è detto: Chi nasconde le proprie colpe non avrà successo, chi confessa e le abbandona troverà misericordia (Prv 28,13)».
Vediamo ora alcune interpretazioni relative al servo del Signore proposte da un altro grande commentatore ebreo: Mosheh ben Nachman o Nachmanide, nato a Gerona in Catalogna nel 1194 e morto a Gerusalemme nel 1270. Riprendiamo i suoi commenti da alcuni passaggi della famosa Disputa di Barcellona, che egli fu costretto a sostenere con i domenicani nel 1263. Uno dei suoi interlocutori è un ebreo convertito, il quale cerca di appoggiare la sua tesi che il Messia è già venuto su alcuni passi della letteratura rabbinica. La discussione inizia con un riferimento al passo di Isaia 52,13 Ecco il mio servo prospererà, citato dall'interlocutore cristiano. Vediamo il passo:
«25. Quello stesso uomo sostenne: "Vi è un passo (della Scrittura) che dice: Ecco il mio servo prospererà (Is 52,13), e tratta della morte del Messia, di come fu catturato e fu posto tra i malfattori esattamente come è accaduto a Gesù. Tu credi che questo passo si riferisca al Messia?".
26. Gli risposi: "Secondo il suo autentico significato esso non parla d'altro che del popolo d'Israele nel suo complesso. Infatti molto spesso i profeti si riferiscono al popolo d'Israele con le formule Israele mio servo (Is 41,8) e Giacobbe mio servo (Is 44,1)".
27. Intervenne allora fray Paul: "Ma io posso provare, sulla base delle parole dei vostri sapienti che questo passo si riferisce al Messia".
28. Gli risposi: "È certamente vero che i nostri maestri, di venerata memoria, nei libri di Haggadot, riferiscono allegoricamente quel passo al Messia. Tuttavia non potrai mai trovare in alcun libro della letteratura ebraica, né nel Talmud, né nell'Haggadah, che il Messia figlio di Davide sarà giustiziato né che sarà consegnato nelle mani dei suoi nemici, né che sarà sepolto in mezzo ai malfattori: infatti, neppure il Messia che vi siete creati, (vi) fu sepolto. lo posso spiegare per voi questo passo, se lo volete, con un commento corretto e illuminante, (e si vedrà che) non si dice che sarà giustiziato, come invece accadde al vostro Messia". Essi però non vollero stare a sentire. ( ... )
49. Risposi: "No, anzi io credo e so che egli (il Messia) non è venuto. Inoltre non ci fu mai un uomo che dichiarò, o del quale fu detto, che era il Messia se non Gesù, e a me è impossibile credere nella sua Messianicità. Infatti il profeta afferma, a proposito del Messia: Regnerà da mare a mare e dal fiume sino ai confini della terra (Sal 72,8); ed egli non ebbe nessun regno, ma anzi nel corso della sua vita fu perseguitato e dovette nascondersi per sfuggirgli ma alla fine cadde nelle loro mani e non poté salvare se stesso. Come avrebbe potuto salvare tutto Israele? Nemmeno dopo la sua morte ebbe un regno perché l'impero di Roma non deriva da lui, anzi, prima che i romani credessero in lui, la città di Roma dominava sulla maggior parte del mondo, mentre dopo che adottarono la sua fede essi persero numerosi regni. E attualmente i fedeli (servitori) di Maometto hanno un regno superiore al vostro. Inoltre il profeta annuncia che all'epoca del Messia Non dovranno più istruirsi a vicenda e nessuno dirà più al fratello: 'riconoscete il Signore', perché tutti mi conosceranno (Ger 31,34). Inoltre è scritto: La conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare (/s 11,9): e inoltre: Forgeranno le loro spade in vomeri ... un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non si apprenderà più l'arte della guerra (Is 2,4). Ora, dai tempi di Gesù fino a oggi, tutto il mondo è stato ricolmo di violenza e rapina e i cristiani hanno sparso più sangue delle altre nazioni e inoltre intrattengono relazioni illecite. Come sarebbe difficile per te, re nostro signore [scil. l'autore si rivolge al sovrano Giacomo I d'Aragona che presenziava alla disputa], e per i tuoi cavalieri se davvero non apprendessero più l'arte della guerra. Inoltre il profeta afferma, a proposito del Messia: Egli colpirà la terra con il bastone della sua bocca (Is 11,4); questo passo è commentato nel libro di Haggadah che ha in mano fray Paul: "Si dirà al re Messia: Una provincia si è ribellata contro di te; ed egli dirà: Che le cavallette si abbattano su essa e la distruggeranno. Gli diranno: Un ducato (eparchia) si è ribellato contro di te; ed egli dirà: vengano i mosconi e la divorino" (Midrash a Salmi, 2). Niente di simile si è verificato per Gesù. Quanto a voi, vi compiacete dei cavalieri in armatura, e forse tutto ciò non significa molto per voi. Per di più io posso portarvi molte prove ricavate dalle parole dei profeti».
50. A questo punto quell'uomo (fray Paul Christiani) levò un grido e mi interruppe: «Ecco di nuovo la sua brutta abitudine di fare discorsi prolissi, ma voglio fargli io una domanda».
51. Allora il re mi disse: «Taci, perché è lui che ha diritto di fare delle domande»
52. Quegli riprese: «I loro sapienti hanno affermato a proposito del Messia che è più onorato degli angeli; non può evidentemente trattarsi di altri che di Gesù perché egli è di natura divina. A questo punto citò un passo dell'Haggadah: "Ecco (il mio servo) sarà onorato, sarà esaltato e grandemente innalzato (Is 52,13), sarà onorato più di Abramo, sarà esaltato più di Mosè, sarà innalzato al di sopra degli angeli del servizio (divino)"».
53. Gli risposi: «Questa affermazione è applicata dai nostri sapienti a tutti i giusti: "I giusti sono più grandi degli angeli del servizio (divino)" (Talmud babilonese, trattato Sanhedrin 93a). Inoltre Mosè nostro maestro, disse all' angelo: "Nel luogo in cui io siedo, non ti è permesso stare" (Avot de-Rabbi Natan 12). E dell'intero Israele i nostri sapienti hanno detto: "Israele è più amato degli angeli del servizio (divino)" (Talmud babilonese, trattato Chullin 91b). Ma l'intenzione dell'autore di questa Haggadah a proposito del Messia è che Abramo, su di lui sia la pace, convertì alcuni gentili e predicò davanti alle nazioni la fede del Santo, sia benedetto, e si oppose a Nimrod senza averne paura. Mosè poi fece ancora di più perché si mantenne umile di fronte al Faraone il grande re malvagio, non gli risparmiò (lett. = ebbe il minimo riguardo per lui) a proposito delle gravi piaghe che lo afflissero e liberò Israele dal suo potere. Ora, gli angeli del servizio sono molto zelanti per quanto riguarda la redenzione, come è scritto: Nessuno mi aiuta in questo se non Michele, il vostro principe (Dn 10,21). Inoltre è scritto: Ora tornerò a combattere con il principe di Persia (Dn 10,20). Il Messia però farà ancora di più di tutti costoro, E il suo cuore sarà forte nelle vie del Signore (1 Cr 17,6). Egli verrà e ingiungerà al papa e a tutti i re delle nazioni, in nome di Dio: Lascia andare il mio popolo perché mi possa servire (Es 8,16). Egli compirà in mezzo a loro segni e numerosi miracoli straordinari, non avrà alcun timore di fronte a loro e si tratterrà nella loro città di Roma finché l'avrà distrutta. lo posso spiegarti tutto questo passo (di Isaia) se vuoi. Ma egli non volle». (2)
Nachmanide ritorna in esplicitazione in altra sede sull'interpretazione della pericope isaiana che inizia con le parole Ecco il mio servo prospererà? Egli ribadisce l'interpretazione ebraica che riferisce il passo del servo a Israele:
«L'interpretazione corretta di questa pericope è che essa si riferisce ad Israele tutto intero. ( ... ) Tuttavia secondo l'opinione del Midrash essa si riferisce al Messia (cf Yalqut su Isaia par. 476); ora noi dobbiamo interpretarla in base alle parole dei libri. Un'interpretazione diversa afferma che il Messia figlio di Davide, a cui si riferisce il versetto, non sarà sconfitto né sarà ucciso per mano dei suoi nemici, e ciò è indicato chiaramente dai testi. Ecco l'interpretazione della pericope: Ecco il mio servo avrà il discernimento (yaskil) (3),poiché ai tempi della redenzione il Messia capirà e sarà capace di discernere il tempo della fine e saprà che è giunta l'epoca della sua venuta e che la fine è arrivata; essa sarà rivelata all'assemblea di coloro che lo attendono. Il testo dice avrà discernimento in conformità a quanto è detto nel libro di Daniele: Queste parole sono nascoste e sigillate fino al tempo della fine. Molti saranno purificati, si renderanno candidi e raffinati, ma gli empi agiranno empiamente e nessuno di loro comprenderà; invece i saggi capiranno (we-ha-maskilim yavinu) (Dn 12,9-10). Daniele afferma che fra gli empi ce ne saranno alcuni che agiranno empiamente per insultare i passi del Messia (cf Sal 89,52). Ciò a motivo del suo grande ritardo, e non crederanno assolutamente in lui e nessun empio discernerà la fine (dei tempi), poiché ci saranno fra di loro alcuni che erreranno andando dietro ad uno che erroneamente essi crederanno essere il Messia. I saggi, invece, comprenderanno la fine vera ed attenderanno lui. E in rapporto a ciò che Isaia afferma che il Messia servo del Signore discernerà e comprenderà la fine e subito sorgerà, sarà esaltato ed elevato e il suo cuore sarà forte nelle vie del Signore (2 Cr 17,6), venendo a radunare i dispersi d'Israele (cf Is 56,8), non con la potenza né con la forza, ma con il suo spirito (cf Zc 4,6). Egli confiderà nel Signore, allo stesso modo in cui avvenne per il primo redentore (scil. Mosè) che venne con il suo bastone ed il suo sacco dal Faraone e colpì la sua terra con la verga della sua bocca (cf Is 11,4)» .
Note
1) M. GALLO (a cura di), Sete del Dio vivente. Omelie rabbiniche su Isaia, Città Nuova, Roma 1981, pp. 8589.2) Il passo è riportato nella prima e ad oggi sola versione italiana della Disputa curata da S. Campanini, in M. IDEL e M. PERANI, Nachmanide esegeta e cabbalista. Studi e testi, La Giuntina, Firenze 1998, pp. 392-393 e 396-397.
3) Osserviamo che in ebraico si ha yaskil, verbo che significa in prima istanza «aver senno, esser saggio, aver discernimento» e secondariamente «riuscire, aver successo, prosperare» avendo agito con intelligenza.
(da Parole di Vita, 4, 1999)
Testimonianza I Le Piccole sorelle di Gesù nel Maghreb
di Fabrizio Mastrofini
La fiducia verso l’altro apre ogni porta. E’ l’esperienza vissuta nel quotidiano con i musulmani. In uno stile di amicizia.
Il dialogo che parte dagli aspetti quotidiani, dal lavoro, dal vivere fianco a fianco, condividendo spazi e problemi della vita di tutti i giorni. È la caratteristica del dialogo interreligioso attuato dalle Piccole sorelle di Gesù, che si ispirano alla spiritualità di Charles de Foucauld, nate nel 1939 in Algeria a Touggourt, dove piccola sorella Magdeleine Hutin ha dato vita alla prima comunità. Sono oggi presenti in 67 nazioni e contano 1.250 religiose. In Italia sono una quarantina e vivono in piccole comunità di 3 o 4 persone a Milano, Torino, Chiusi, Bologna (dove vivono con gli zingari), Roma (una comunità lavora al Luna Park, ma risiede in un appartamento), Assisi, Napoli e Vittoria. A marzo, nel contesto del ciclo di incontri «Storia, storie, luoghi e volti nelle diverse esperienze d’incontro tra musulmani e cristiani», promosso a Roma, dal Centro interconfessionale per la pace (Cipax), tre di loro hanno parlato dell’esperienza che conducono, sia nei Paesi musulmani sia a Milano.
Nella metropoli lombarda sono presenti dal 1952 e fino agli anni Settanta hanno abitato nelle case minime di via Zama. Oggi vivono in un appartamentino di fronte alla chiesa di San Galdino, sempre in zona Forlanini. Suor Fiorella, responsabile della piccola comunità di quattro persone, ha spiegato che «la gente oggi ha bisogno di essere ascoltata, di avere un luogo dove dire liberamente quello che pensa e vive». Da una decina d’anni nel quartiere si assiste a un progressivo insediamento di stranieri: marocchini, egiziani, pakistani, singalesi. Oggi almeno la metà degli immigrati sono di origine islamica. «A motivo del nostro legame con l’islam, già vissuto da fratel Charles in Algeria, ora noi cerchiamo di essere attente in particolare ai musulmani, di fare conoscenza con loro e di entrare in amicizia con le nuove famiglie. Pur conservando le vecchie amicizie, come comunità abbiamo deciso di avere una cura privilegiata per gli stranieri». E nell’approccio «partiamo dagli aspetti più semplici, cominciando a salutare in strada, oppure sull’autobus. Così prende avvio un percorso di conoscenza, che porta alla confidenza e anche all’amicizia. Qualcuno ci parla spontaneamente del cammino spirituale che compie, mettendolo a confronto con il cristianesimo. Oppure in altri casi si affronta il tema della pace, ma sempre incontrandoci come persone, per aiutarci, per rispettarci».
Attraverso il contatto quotidiano, sottolinea suor Fiorella, emerge un’idea che per le Piccole sorelle di Gesù in questi anni è diventata un filo conduttore della loro azione: riconoscere la fede dell’altro, senza volerlo convertire, entrare nel progetto di Dio che è più vasto di quello delle singole religioni. E spiega ancora il «segreto» di una presenza che sa farsi accogliere e accettare: mettersi a disposizione. «Ad esempio per i bambini, quando hanno bisogno di aiuto per i compiti, dare un passaggio in macchina o riceverlo volentieri, fare la spesa insieme, aprirsi alle feste religiose e condividere i momenti difficili, le malattie, le perdite, tutte le occasioni per vivere insieme».
Un’esperienza simile è stata riportata dalle altre religiose presenti all’incontro: suor Odile Marie, oggi in Medio Oriente, ha sottolineato proprio quanto nella cultura orientale sia importante l’esperienza di accoglienza dell’altro; le fraternità, dunque, intendono riproporre l’idea di un modo di vivere insieme capace di rendere le suore vicine a tutte le persone che incontrano sul loro cammino. Come farlo? Di nuovo è l’esperienza di vita che parla, questa volta di suor Maria Cecilia, di origine libanese, otto anni trascorsi nel sud della Tunisia, nel piccolo villaggio di Oudref, dove le religiose hanno imparato la tessitura - attività prevalente - e dove Maria Cecilia ha lavorato per diverso tempo nella lavanderia di un ospedale di montagna. «Ho capito che la fiducia verso l’altro apriva ogni porta. Non avevano mai visto delle suore prima di noi, se non nelle telenovelas latinoamericane, che arrivano anche lì. Così all’inizio ci siamo sentite osservate, per il senso di novità che portavamo e anche per la difficoltà a comprendere cosa ci facéssero tre donne straniere arrivate fin là per vivere insieme e per lavorare. Hanno capito che non avevamo niente da nascondere, che la nostra presenza era per l’incontro con gli altri, e così si sono create relazioni di amicizia».
Relazioni espresse in piccoli gesti significativi, doni lasciati sulla porta della casa delle suore, riconosciute da tutti come donne di preghiera. A proposito di questa forma di dialogo interreligioso e dell’impegno delle Piccole sorelle, l’arcivescovo di Algeri, mons. Henri Tessier, ha scritto qualche tempo fa che «le case d’accoglienza per anziani delle Piccole sorelle dei poveri sono sostenute finanziariamente quasi solo dalle famiglie musulmane più agiate. La stessa collaborazione avviene nelle attività in favore degli handicappati. La relazione islamo-cristiana, dall’essere uno scambio astratto di idee, diventa invece luogo di un impegno comune per l’uomo».
Delle loro storie di vita, le suore preferiscono mettere in ombra gli aspetti problematici o negativi, rilevando che l’unica risposta possibile nel dialogo interreligioso che si compie nei Paesi islamici è data dalla capacità di incontro personale.
E il cammino più lungo da compiere, l’unico però destinato a portare risultati duraturi e soprattutto a far cadere le barriere, come ribadisce anche un recente volume, Francesca De Lellis e intitolato Magdeleine di Gesù e le Piccole sorelle nel mondo dell’islam. Il volume (Emi, Bologna 2006, pp. 224) ricostruisce da vicino l’eccezionale biografia di piccola sorella Magdeleine, meglio conosciuta come Magdeleine di Gesù. La sua è una storia di grande attualità in un momento in cui il pluralismo religioso sembra l’orizzonte inevitabile di ogni sentiero di fede. L’autrice sottolinea come il modello adottato nel dialogo islamo-cristiano dalla fondatrice della Fraternità delle Piccole sorelle di Gesù sia quello del dialogo della vita, che smonta i pregiudizi e apre alla comprensione. Suor Maria Cecilia fa notare che nelle situazioni di conflitto, come in Libano, le difficoltà sono senza dubbio maggiori rispetto alle incomprensioni o ai pregiudizi che possono verificarsi altrove. Niente però che non possa venire risolto dalla preghiera, dalla presenza pacata, dalla testimonianza silenziosa... Lo ha sottolineato anche Luigi Sandri, giornalista, coordinatore dell’incontro del Cipax: «La vocazione delle suore di vivere il Vangelo in mezzo all’islam si rivela sempre di più come una scelta felice di un modo di invocare Dio».
E dal canto suo Gianni Novelli, responsabile dello stesso Cipax, ribadisce l’importanza di diffondere le testimonianze di coloro che giorno dopo giorno vivono all’interno del mondo islamico: «L’Occidente ha i suoi pregiudizi e vede l’islam attraverso gli stereotipi della politica e della divisione del mondo. In realtà il mondo non è diviso come vogliono far apparire gli specialisti del conflitto delle civiltà». Per questo le testimonianze risultano importanti: per evidenziare che è possibile vivere insieme e comprendersi.
La storia «lo, a lezione»
Nadjia Kebour è algerina; dopo la laurea in filosofia ad Algeri su sant’Agostino, oggi sta conseguendo un dottorato a Roma. Ha conosciuto il cristianesimo in Algeria, attraverso il contatto diretto con le Piccole sorelle di Gesù. «Mi sono resa conto - racconta - che abbiamo tanti pregiudizi nei confronti delle altre religioni, verso le quali esiste un atteggiamento di condanna. L’esperienza con le suore mi ha fatto vedere un altro aspetto, nascosto, della religione cristiana. Le suore mi hanno aperto il loro cuore, e così ho potuto sperimentare la loro prassi di tolleranza e apertura al dialogo, al confronto, alla realtà delle persone».
Così, prosegue Nadjia, «abbiamo anche festeggiato insieme le diverse feste delle nostre tradizioni: Natale, Pasqua, il Ramadan e le altre, per poterci conoscere e dunque comprendere meglio, scoprendo quei valori della carità e della tolleranza che prima credevo esistessero soltanto nella mia religione. Un tempo non pensavo che potesse esistere il dialogo interreligioso; in seguito ho compreso che si tratta di un cammino verso la pace e per la prima volta ho sperimentato un’esperienza non solo di apertura ma anche di comprensione verso l’altro, per arrivare a una forma di liberazione dall’egoismo che ci porta a pensare solo a noi stessi e alla nostra religione. Diffondere questo cammino porta, come effetto, a liberarci dall’orgoglio per cercare la verità di Dio».
(f.m.)
(da Mondo e Missione, maggio 2007)Che minaccia possono costituire le 11.000 anime che formano la comunità dei cristiani in Algeria per il resto dei 32 milioni di musulmani? Se lo domandano i firmatari della petizione e affermano “la libertà di coscienza e il diritto di ognuno di praticare la religione scelta o di non praticarla”.
Se nell’immagine quotidiana la sera rappresenta la fine della giornata, nell’arco del tempo la fine viene vista nei segni imminenti di un futuro incerto. Un futuro che, poiché non può essere conosciuto, finisce con il riservare delle sorprese. Si è spesso portati a pensare a questo futuro con le immagini del disastro e della catastrofe.