I martiri: interpellanza per la chiesa
di Jon Sobrino
1. Introduzione - il bisogno di interpellanza alla chiesa odierna
I martiri, presi nel loro insieme come martiri gesuanici, che vivono e muoiono come Gesù, e come popoli crocifissi, che vivono e muoiono come il servo di Jahweh (1), offrono alla chiesa luce e salvezza, come è stato già detto in precedenti articoli. In questo contributo vogliamo insistere sul fatto che essi sono pure interpellanza, cosa che è buona e necessaria.
Paragonata a quella che è sorta dal Vaticano Il, la chiesa universale vive un processo di involuzione. Certamente ci sono numerosi gruppi di cristiani solidali con il dolore del mondo, profetici e utopici, che cercano di rinnovare lo spirito e la fede. E anche oggi vi sono alcuni martiri gesuanici, soprattutto in Africa. Ma nel suo insieme la chiesa si sta configurando come istituzione alla ricerca di una “pastorale del successo" (Pedro Trigo) che mantenga o le restituisca presenza sociale e una dimensione di massa. Per paragonarla a quella di Medellin bastano queste parole di J. Comblin:
“Oggigiorno l'impressione dominante è che la gran parte delle Chiese, nei pastori e nelle pecore, sta tornando al passato. Mantiene lo stesso linguaggio, ma la pratica è diversa. Torna alle sagrestie e alle case parrocchiali. Non ascolta più la voce delle maggioranze povere e ascolta di più il suo pubblico tradizionale, quello che partecipa al culto. La Chiesa torna a preoccuparsi di se stessa. Cerca di recuperare posizioni di potere culturale, politico e perfino economico. Torna ad alimentare i sentimenti religiosi, le emozioni. Non le manca la clientela, perché il modello neoliberale ha fatto crescere l'angoscia, la disperazione, l'insicurezza, lo sconcerto dei popoli” (2).
Per invertire questa involuzione non è sufficiente riconoscere che la chiesa è peccatrice, casta meretrix, e chiedere perdono nel modo in cui è stato fatto negli ultimi anni dal vertice ecclesiale; in quanto astratta e poco coinvolta, infatti, la confessione del proprio peccato è stata inefficace. La domanda è dunque cosa può interpellare la chiesa.
Indubbiamente può interpellarla Dio, ma, a causa della sua trascendenza, Dio può rimanere distante e la sua interpellanza rimanere inascoltata. E, come ogni creatura, la chiesa fa in modo che così sia. Anni addietro, in epoca di antimarxismo viscerale, ho scritto che “la chiesa non ha paura del marxismo, ma di Dio". Può pure interpellarla Gesù Cristo, presenza storica del Dio trascendente, ma anche Gesù Cristo può essere situato in una lontananza senza volto né vigore interpellante. E quando si presagisce che il suo avvicinarsi è reale, allora può succedere quanto è accaduto nella leggenda del grande Inquisitore: il cardinale arcivescovo di Siviglia dice a Cristo: “Signore, non tornare".
Ma la fede cristiana è ostinatamente incarnazionale. La chiesa deve confessare che Cristo è presente nell'eucaristia, nella celebrazione della parola, nella comunità, nei pastori. Ed essa può essere interpellata da tutto questo, anche se può disattendere queste interpellanze. Ma c'è un'ultima specificazione - che in realtà è la prima - della presenza di Dio e del suo Cristo: “Ha voluto identificarsi con speciale tenerezza con i più deboli e poveri" (i Documenti della Terza conferenza genera/e dell'episcopato latinoamericano, Puebla 1979, n. 196). I poveri sono la massima presenza di Cristo nella storia: “vicari di Cristo" venivano chiamati nel Medioevo. Essi, pertanto, sono buona novella ed evangelizzano la chiesa. Ma essi sono pure lamento e chiamano alla conversione (Puebla 1979, n. 1147). Il motivo formale è stato già detto: sono presenza di Cristo. Il motivo materia/e è che i loro lamenti non possono essere zittiti (i Documenti della Seconda conferenza generale dell'episcopato latinoamericano, Medellin 1968; I: Giustizia, 1).
Facciamo ancora un passo. I poveri e i loro lamenti trovano la massima manifestazione nei martiri - in quelli gesuanici e, soprattutto, nei popoli crocifissi -, e per questo essi hanno la massima capacità di interpellare la chiesa. Dal punto di vista quantitativo essi sono tanto numerosi che solo con cecità e sordità colpevoli è possibile ignorarli. Dal punto di vista qualitativo è tale l'orrore che manifestano, che sono in grado di scuotere coscienze - e spingere pure alla conversione. E, inoltre, non permettono di utilizzare la fallace scusa cui la chiesa è incline - solo Dio può interpellarla -, perché Dio è in loro.
L'interpellanza dei martiri gesuanici si verifica più puntualmente in determinate epoche della storia (gli anni successivi a Medellin sono stati una di queste epoche in America Latina, e pure in Africa e in Asia), anche se, per interpellare, rimane sempre il loro ricordo. L'interpellanza dei popoli crocifissi e permanente, come lo è il mysterium inquitatis che permea la storia.
Abbiamo fatto un piccolo carosello teologico per mostrare quale sia la radice più profonda ed efficace dell'interpellanza alla chiesa, anche se questa radice - poveri, vittime e martiri - è palmare per qualunque cuore di carne. E tuttavia ci è sembrato importante farlo, tenendo conto che si tratta di interpellare la chiesa. Questa non può difendersi da una interpellanza che viene da loro, perché sono loro la massima presenza di Dio. E dato che l'interpellanza proviene da loro, e non da altro, l'interpellanza di fondo non verterà su alcunché di generico, ma sul nucleo stesso della fede cristiana: la misericordia, l'amore e la difesa del povero, l'identificazione con le vittime.
La conclusione è che la chiesa può essere interpellata e, come diceva mons. Romero, ne ha bisogno: “Abbiamo bisogno che qualcuno serva da profeta anche a noi, perché ci chiami alla conversione, perché ci impedisca di collocarci in una religione ormai del tutto intoccabile" (Omelia dell'8 luglio 1979) (3).
E, per finire questa introduzione, diciamo che, secondo quanto affermato, la prima e fondamentale interpellanza alla chiesa verte sul fatto stesso se essa sia o meno disposta a lasciarsi interpellare. Su cosa? Se somiglia o no a Gesù, se segue Gesù nella sua incarnazione, missione, croce e risurrezione. Vediamo.
2. Prima interpellanza: l'incarnazione, "superamento della irrealtà”
In questo terzo millennio la situazione delle masse del nostro mondo è miserabile. Vivere continua ad essere il loro impegno più difficile, e morire - nel proprio corpo, nella propria dignità, nella propria cultura, nel proprio spirito - la sorte più vicina. Orbene, la prima cosa che la chiesa deve fare per divenire "reale” e incarnarsi in questa realtà.
Una tale incarnazione non è facile per la chiesa anche se, partendo dalla sua fede, l'esigenza dovrebbe essere ovvia e fondamentale. Il Prologo di Giovanni esprime la volontà di Dio stesso di essere reale nel nostro mondo, volontà che consiste non solamente nel farsi storicamente carne, ma nel farsi carne debole. E, nel linguaggio della cristologia conciliare, la realtà assunta dal Figlio non è semplicemente l'humanitas, ma la sàrx, ciò che nella carne è debolezza. E nel cristianesimo trascendenza è in ultima analisi trans-discendenza (L. Boff). E questa discendenza non è solo diventare "l'altro", ma "il debole e piccolo".
Ciò a livello teorico è basilare, ma non suole esserlo nella vita della chiesa. Anche per essa - e non solo per la cristologia - il problema più grande è il docetismo (W. Kasper), ovvero crearsi un proprio ambito di realtà - dottrinale, liturgica, canonica - che la renda distante e così possa difenderla dal mondo reale, soprattutto dalle sue croci. Superare questo docetismo non è facile, ma almeno bisogna essere coscienti di quanto siamo inclini a cadervi e di quanto siamo assopiti dinanzi a questa realtà. E allora bisogna essere aperti all'interpellanza che Antonio Montesinos ha fatto cinque secoli fa: "Come è possibile che siano addormentati in un sonno letargico così profondo?".
Come aprire gli occhi alla realtà e superare questo docetismo che diventa quasi un esistenziale storico? Il miracolo può essere fatto dai popoli crocifissi che gridano con gemiti inenarrabili e invitano ad abbassare lo sguardo. E i martiri gesuanici ce ne danno un esempio. Perché non ci siano pretesti, questi mostrano le diverse maniere di farlo nel mondo attuale: Martin Luther King nel contesto di un movimento sociale, Silvia Arriola [religiosa salvadoregna, assassinata] nel contesto di una comunità popolare, Ignacio Ellacuria nel contesto universitario.
Per mons. Romero era evidente che la chiesa dovesse essere, innanzitutto, "reale". Con parole estreme, alcune davvero tremende, soleva dire: "Sono contento, fratelli, che la chiesa sia perseguitata proprio per la sua opzione preferenziale per i poveri e per il suo tentativo di incarnarsi nell'interesse dei poveri" (15 settembre 1979). "Sarebbe triste che in una patria dove si sta assassinando in modo così orrendo non contassimo tra le vittime anche dei sacerdoti. Essi sono la testimonianza di una chiesa incarnata nei problemi del popolo" (24giugno 1979).
Chi scorgesse in queste parole sacrificalismo o masochismo non ha compreso né come era la realtà salvadoregna di allora né la profondità della scelta di mons. Romero nei confronti di questa realtà. Ciò che mons. Romero veniva a dire è che una chiesa che non è povera in tempi di povertà, che non è perseguitata in tempi di persecuzione, che non è assassinata in tempi di assassinii, che non si coinvolge in tempi di impegno e non incoraggia ad esso in tempi di indifferenza, che non ha speranza in tempi di speranza e non incoraggia ad essa in tempi di disincanto, non è una chiesa reale, ma una chiesa docetista. Va bene formulare l'ideale della chiesa come quello di una chiesa santa, autentica... Ma innanzitutto, l'ideale è il minimo-massimo di essere una chiesa reale.
Della chiesa di mons. Romero si potrebbe dire che era una chiesa con limiti, errori e peccati, ma ciò di cui non si potrebbe dubitare è che fosse una chiesa "salvadoregna", "reale". E perché partecipava non solo alla sofferenza della realtà salvadoregna, ma pure al suo spirito e alla sua creatività. "Voi, una chiesa così viva, così piena di Spirito!". Era una chiesa salvadoregna, segnata dalla generosità e dall'impegno della sua gente.
Superare il docetismo non è mai stato facile. La vera umanità di Cristo, pur essendo evidente nel Nuovo Testamento, è stata definita a Calcedonia (451) molti anni dopo che ne era stata definita la divinità a Nicea (325), che non era così evidente. C'è qualcosa di profondo che ci fa propendere verso il docetismo. Al suo superamento ci invitano e ci spingono i martiri: il popolo crocifisso in se stesso è un grido a volgere gli occhi su questa realtà, i martiri gesuanici insegnano ad abbassarsi a questa realtà.
3. Seconda interpellanza: la missione, "compassione verso la realtà
Medellin e Paolo VI nella Evangeli nuntiandi (n. 30) hanno fatto della liberazione integrale un elemento essenziale alla missione della chiesa. Vogliamo ora ricordare due caratteristiche di questa missione di liberazione, non per riprodurle oggi meccanicamente, quanto per raccogliere il pathos di quella missione che sta morendo la morte di mille scuse.
La prima caratteristica è la salvezza di un intero popolo. Mons. Romero è stato definito da Ignacio Ellacuria "un inviato di Dio per salvare il suo popolo" (4), e lo stesso arcivescovo ha visto se stesso come portavoce della parola di un intero popolo, un "essere voce per i senza voce" (29 luglio 1979). Ignacio Ellacuria insisteva sull’"invertire la storia, sovvertirla e lanciarla verso un'altra direzione" (5), e ha formulato l'utopia come una nuova "cultura della povertà" (6).
Il tentativo di lavorare per "un intero popolo" può - o ha potuto - essere più facile empiricamente in alcuni posti (America Latina) piuttosto che in altri, laddove i cristiani sono minoranza, e in alcune epoche, due decenni addietro, piuttosto che ora. Ma ciò che qui vogliamo sottolineare è l'orizzonte della missione, capace di coinvolgere e inglobare ciò che è vita e dignità delle maggioranze oppresse: il regno di Dio, la famiglia umana. Le chiese, grandi o piccole, devono tenerlo in considerazione e agire da lievito efficace. Questo è stato l'orizzonte di molte chiese, quella del Brasile per esempio; ma la tendenza odierna è quella di concentrarsi e di favorire la salvezza individuale, al massimo familiare -buona e necessaria -, più che quella di un popolo, ossia la salvezza interiore più che quella storica.
La seconda caratteristica è il pàthos dialettico, profetico. All' annuncio del regno era consustanziale la denuncia dell'antiregno, e così si originava il conflitto. Oggigiorno la missione non mette la chiesa, nel suo complesso, in seria opposizione al mondo oppressore, anche se vi sono alcune scaramucce. Su tutto ciò può essere che stiano esercitando il loro influsso la postmodernità, con la sua allergia verso i grandi racconti, e l'ideologia della globalizzazione, che ignora ciò che è dialettico per canonizzare - quasi sempre ipocritamente - il dialogo e la tolleranza, che quasi per necessità degenerano in indifferenza nei confronti dei poveri. Ma una chiesa che non è dedita alla difesa dei popoli, che non lotta né entra in conflitto per questo, diventa una setta chiusa o forse anche una istituzione di massa, ma certamente disinteressata alla realtà, un nuovo tentativo di cristianità socio-culturale.
E tuttavia, non può sparire la memoria sovversiva interpellante. Dove sono la profezia, le omelie e le lettere pastorali degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso? Dov'è l'abbassarsi verso i poveri, il condividere la loro impotenza e il loro destino? Insomma, dov'è quel primo amore della chiesa del Vaticano II, rispetto alla dignità del cristiano all'interno della chiesa, e soprattutto della chiesa di Medellin, rispetto all'essere chiesa dei poveri?
È evidente che le cose cambiano, ma né la realtà né il vangelo sono cambiati in tal guisa che il vecchio pathos sia ormai irrilevante. Questo pathos di liberazione, utopico e profetico, non è altro che la compassione che consegue allo stare di fronte ai popoli crocifissi. Non che la chiesa non abbia più nulla di tutto questo, ma essa rimane più a livello etico che profetico, cerca il dialogo con altri poteri e rifugge dal conflitto con essi, parla molto di nuova evangelizzazione ma poco della dimensione agonistica della missione, parla di comunità ecclesiale ma poco del regno di Dio come mensa di condivisione che mette al centro i poveri. Comblin lo ha affermato con forza - e ironia: "Si continua a ripetere il discorso dell'opzione preferenziale per i poveri, ma la pratica è altra cosa. Sono parole... Words, words, words... Una volta le parole esprimevano ciò che si diceva" (7).
Oggi, ovviamente, vi sono compiti nuovi nella missione: genere, indigeni, afroamericani, rifugiati, AJDS, ecologia, dialogo interculturale e interreligioso... E nello sguardo dall'oggi si scoprono i limiti della visione precedente. Comblin, per esempio, riconosce che la teologia della liberazione "non ha dedicato attenzione sufficiente al vero dramma delle persone umane, al loro destino, alla loro vocazione e, di conseguenza, al fondamento della loro libertà" (8). Ma una cosa è riconoscere le novità del presente e i limiti del passato, altra è ignorare il pàthos di cui prima era impregnata la missione: misericordia e verità, in opposizione all'assassinio e alla menzogna (Gv 8,44).
Recuperare questo pàthos non è facile. Vi possono pure essere - e vi sono - masse di poveri che non sono neppure interessate a ciò. Non va dimenticato che la chiesa ha fatto una opzione per i poveri, ed essi se ne sono andati, in buona parte, nelle chiese pentecostali. Ma ciò non deve servire da scusa per non riprendere il pàthos di Medellin. "La chiesa dei poveri è latente. Una nuova circostanza può portarla nuovamente alla superficie della storia. Medellin riapparirà nuovamente domani come nuovo avvenimento ecclesiale" (9). La questione è se nella chiesa ci sia questo convincimento.
Mantenere vivo il pathos del Vaticano Il e, dalla nostra prospettiva, il pathos di Medellin soprattutto, è un problema basilare per la chiesa odierna, e a questo spingono i martiri. I martiri gesuanici non hanno dato la loro vita solo per cose buone, ma per qualcosa di più profondo: la salvezza di un popolo. I popoli crocifissi continuano ad attendere dalla chiesa compassione, che lavori e lotti - insieme a molti altri - per farli scendere dalla croce. Di elemosine e piccoli aiuti, di parole compiute a metà o incompiute, di disinteresse o disprezzo, di illusori orizzonti della globalizzazione che li emargina hanno avuto già a sufficienza. E non va dimenticato che nel portare a compimento la missione in un modo o in un altro la chiesa si gioca la propria identità; infatti "non e la chiesa a creare la missione, ma la missione a creare la chiesa" (J. Moltmann).
4. Terza interpellanza: la croce, farsi carico del peso della realtà
La realtà è un carico pesante per i milioni di vittime e diventa carico oneroso per coloro che solidarizzano con esse. I popoli crocifissi sono espressione della prima e i martiri gesuanici della seconda. Su quest'ultimo concetto vogliamo insistere ora.
Per i martiri farsi carico della realtà non è stato masochismo né mero desiderio mistico di identificarsi con il Cristo crocifisso, ma la conseguenza derivante dal seguire quel Cristo, ovvero dal praticare la misericordia sino alla fine, e pertanto senza rifuggire da conflitti e rischi. In un certo senso la pretesa di Gesù ("Prendi la tua croce e seguimi") è tautologica: essere e fare come lui - seguirlo - porta a farsi carico di ciò di cui egli si è fatto carico - la croce.
In questo senso "croce" è la sofferenza e la morte che sopraggiungono per difendere l'oppresso e lottare contro l'ingiustizia, e proviene dalla volontà di incarnarsi nella conflittualità della realtà ingiusta. Analogamente, "croce" può esprimere altre sofferenze, angosce, malattie, insuccessi, disincanti, paure, che talora possono perfino essere più dolorose di quelle che provengono dalla lotta per la giustizia.
Ciò dovrebbe essere chiaro partendo dalla tradizione biblico-gesuanica. La storia è segnata da un conflitto teologale tra un Dio della vita e gli idoli di morte che esigono vittime per sopravvivere. Nella teologia di Giovanni il maligno non è solo "cattivo", ma pure "assassino". Per così dire il male è più che male, ha il potere di distruggere coloro che lottano contro di esso. La grande aporia della storia è che il peccato ha potere e, se la questione si pone così, la chiesa deve prendere posizione nei confronti di un male che è conflittuale.
Ciò avviene in alcune circostanze, e certamente è accaduto in America Latina in epoche passate: la missione della chiesa era essenzialmente conflittuale, al di là delle psicologie, per il fatto di essere incarnata nella realtà e per il fatto di difendere le vittime. Ma oggi c'è un deficit di tutto ciò. Ci possono essere scontri verbali tra gerarchia e poteri, ma le parole sono ordinariamente scelte in tal guisa che vi possono essere parole e testi conflittual4 ma non ci sono molti conflitti reali. Ci sono delle eccezioni come, solo per menzionare vescovi martiri, mons. Gerardi in Guatemala, mons. Isaías Duarte in Colombia, mons. Munzihirwa nella Repubblica democratica del Congo, ma nel suo complesso la chiesa non si fa carico oggi di croci notevoli per dire ciò che dice né fare ciò che fa, a differenza di quanto è accaduto anni addietro. E neppure canonizza questi e molti altri martiri dei nostri giorni - cosa che pure le causerebbe conflitti con i loro assassini ancora viventi. Di più, talora cerca il ritorno a una certa armonia con i poteri di questo mondo. In America Latina molte nomine di vescovi sono state guidate da questa logica.
Si ripete oggi che non bisogna essere anacronistici, ma noi aggiungiamo che non bisogna essere acritici e neppure autoingannarsi. Sia la fede cristiana che la realtà storica continuano ad essere onerose e conflittuali. Comunque qualcosa bisognerà mantenere della parresia paolina, coraggio, audacia e fiducia, e non cadere nella vigliaccheria. Non vi esibito un cristianesimo fanatizzato, ma ancor meno un cristianesimo annacquato, che in ultima analisi potrebbe parlare allo stesso modo con le vittime e con i loro carnefici Non bisogna fare del cristianesimo una "grazia a buon mercato" che, come diceva Bonhoeffer, è il suo più grande pericolo. Non bisogna introiettare subliminalmente che la croce (e, logicamente, anche la risurrezione) sono cose buone nella liturgia e nella devozione privata, ma che non dicono nulla di serio sulla realtà di cui la chiesa deve farsi carico. In questa situazione i martiri ci interpellano e ci incoraggiano a farci carico della croce della realtà, e con ciò fanno un gran bene.
In primo luogo bisogna ricordare che, seppure non si tratti di una verità filosofica universale (ma certamente di una verità biblica e cristiana), per redimere il male esso va combattuto non solo dall'esterno, con tutti i mezzi legittimi ed efficaci, ma pure dal di dentro, facendosi carico di esso. Se non si accetta questo, vana è la parola di Dio sul servo sofferente e su Cristo crocifisso.
In secondo luogo, farsi carico della croce procura alla chiesa credibilità, cosa che non si consegue in alcun altro modo, e invera che la chiesa sta agendo cristianamente; infatti se non le accade, in maniera notevole, quanto è accaduto a Gesù, non si vede per quale ragione essa debba essere compresa e accettata come chiesa di Gesù. Così pensava mons. Romero: "Una chiesa che non soffre persecuzione, ma che sta godendo dei privilegi e dell'appoggio della terra, questa chiesa abbia paura! Non è la vera chiesa di Gesù Cristo" (11 marzo 1979).
A volte abbiamo eccellenti esempi di assunzione della realtà, rimanendo immersi in essa pur, nella consapevolezza che essa scaricherà tutto il suo peso. E il caso dei sette monaci trappisti di Thibirine (Algeria) che, nonostante le minacce, sono rimasti nel loro monastero, trasformato dal priore Christian de Chergé in un centro per il dialogo cristiano-islamico. Sono stati sequestrati e poi, il 26 maggio 1996, assassinati. Pur conoscendo quale sarebbe stato il loro futuro essi sono rimasti là. Sono stati "reali" fino all'estremo. Questo esempio, come le citate parole di mons. Romero, costituiscono ovviamente un caso limite, ma sono un esempio di come i martiri incoraggino - ordinariamente in modo più modesto - a farsi carico della realtà.
L'invito a "farsi carico della croce" è tanto antico quanto il cristianesimo. Non è mai stato facile ieri, e non lo è oggi. Ma almeno questo invito dovrebbe rimanere chiaro nella teoria cristiana e non si dovrebbero cercare strade per eliminarlo. E questo, che non è mai stato un compito facile, è ciò che viene reso facile dai martiri; ad ogni modo, essi ci interpellano al riguardo. Se i popoli crocifissi non muovono la chiesa a farsi carico della loro sofferenza e a partecipare al loro destino, nessuno sarà in grado di farlo. Se i martiri gesuanici non persuadono del fatto che l'amore più grande è possibile e umanizzante, e che passa dal farsi carico della croce della realtà, nessuno sarà in grado di farlo.
5. Quarta interpellanza: la risurrezione, “lasciarsi portare dalla realtà"
Formuliamo questo concetto in simmetria con il linguaggio precedente. I martiri ci interpellano-invitano pure a partecipare della risurrezione di Gesù.
Nella realtà c'è peccato; per questo essa è onerosa e bisogna farsene carico. Ma nella realtà c'è pure grazia; per questo essa è forza e può farsi carico di noi. I martiri - e tutta la gente buona lungo la storia - impregnano la realtà di amore e verità, cosa che rende questa più leggera perché ce ne facciamo carico, e la rende potente perché essa si faccia carico di noi. Per questo motivo non parliamo ora solo di interpellanza - scossone, messa in discussione -, ma pure di invito - offerta di grazia. Anche se aggiungiamo che, sebbene lo sembri, neppure è facile lasciarsi prendere in carico dalla realtà, perché sempre appare con vigore la hybris, l'arroganza degli uomini, il loro non lasciarsi donare. E per questo bisogna continuare a parlare di interpellanza.
Mettiamo ciò in rapporto con la risurrezione. Questa realtà impregnata di amore e verità rende possibile che possiamo già vivere come risorti nelle condizioni della storia. Per non cadere in forme angelicali ricordiamo che dal Risorto non sono sparite le piaghe, e ancor meno spariscono quelle di coloro che vivono la risurrezione nella storia. Non si trasformano in sostanze celesti. Ma una realtà di dono rende possibile il vivere con amore la sequela di Gesù, con la sfumatura di "pienezza e vittoria" che la risurrezione aggiunge. In termini storici questo significa, per la chiesa e per la vita dei cristiani, vivere con liberta, come trionfo sull'egocentrismo e l'egoismo, in maniera tale che nulla sia di ostacolo per fare il bene. Vivere con gioia, come trionfo sulla tristezza, in maniera tale che la sofferenza non produca amarezza ma purificazione. Vivere con speranza contro la rassegnazione, in maniera tale che il mistero dell'iniquità, l'ancora-no, il certamente-no, il disincanto, non seppelliscano la promessa... In questa libertà, in questa gioia e in questa speranza c'è già come un riflesso della risurrezione.
Questo è l'invito che i martiri fanno alla chiesa. E per tutto ciò l'interpellanza ultima è a non dimenticare. Non per il loro interesse - perché essi non vivono più in una struttura di egoismo -, ma per bisogno della chiesa.
6. Conclusione
Su questo bisogno diciamo una parola finale. Il Vaticano II ci ammoniva a far attenzione che "in questa genesi dell'ateismo possono avere non piccola parte gli stessi credenti che […] hanno velato più che rivelato il genuino volto di Dio" (GS 19). E con parole più forti la Scrittura denuncia: "Per causa vostra il nome di Dio è bestemmiato fra le nazioni" (Rm 2,24).
Orbene, i martiri gesuanici non hanno velato il volto di Dio: con la loro vita e la loro morte lo hanno rivelato. In chiese di martiri non si bestemmia il nome di Dio, ma lo si benedice o, almeno, lo si rispetta. A partire da loro si può dire con gratitudine: "A causa vostra il nome di Dio viene benedetto tra i poveri". Questo per quanto concerne il mondo che guarda alla chiesa.
Per ciò che riguarda i popoli crocifissi, che pure hanno lo sguardo rivolto alla chiesa, solo una chiesa di martiri gesuanici che si lasci coinvolgere da loro e ne raccolga l'eredità avrà credibilità dinanzi ai popoli crocifissi e manterrà viva la loro speranza nel tentativo di deporli dalla croce.
(traduzione dallo spagnolo di Mauro Nicolosi)
Note
1) Su questa distinzione, cf. il nostro articolo in Concilium 1, 2003: Il nostro mondo. Crudeltà e compassione, pp. 21-32.
2) J. COMBLJN, Medellin ayer, hoy y mañana, in Revista Latinoamericana de Teologia 46 (1999) 79s.
3) [Cf O. ROMERO, Il mio sangue per la libertà di El Salvador. Le omelie dell'arcivescovo di San Salvador ucciso nella cattedra/e, Eurostudio, Milano 1980].
4) Cf I. ELLACURÌA, Monseñor Romero, un enviado de Dios para salvar a su pueblo, in Revista Latinoamericana de Teologia 19 (1990) 5-1 0.
5) ID., El desafio de las mayorias pobres, in Estudios Centroamericanos 493-494 (1989)1079.
6) ID., Utopia y profetismo desde América Latina, in Rivista Latinoamericana de Teologia 17 (1989)164-184.
7) J. COMBLIN, Medellin, in Revista Latinoamericana de Teologia 46 (1999) 79.
8) ID., Called For Freedom, Orbis Books, Maryknoll/N.Y. 1998, 197.
9) ID., Medellin, cit., 81.
(da Adista, n. 30, 12.04.2003, pp. 9-13)