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Sabato, 19 Giugno 2004 02:14

La bibbia ebraica

APPENDICE
La chiesa delle origini


Lettura ebraica e cristiana
dell’Antico Testamento
di Don Filippo Morlacchi


La bibbia ebraica












Torah scritta (TaNaK)


Torah orale


Torah


Neviîm


Ketuvîm


Mishnàh [II sec.] + Ghemaràh = Talmud ("studio")


I midrashîm (midrash da darash = ricercare) sono commenti alla scrittura (il NT è "un midrash dell’AT").

Pubblicato in Bibbia
Sabato, 19 Giugno 2004 02:13

Interpretazione tipologica

APPENDICE
La chiesa delle origini


Lettura ebraica e cristiana
dell’Antico Testamento
di Don Filippo Morlacchi


Interpretazione tipologica


La maggiore discrepanza è l’uso della tipologia. Se l’AT acquista il suo pieno significato come "prefigurazione" del NT, come valutare questa esegesi tipologica, tanto importante nei padri? Ecco le indicazioni della Commissione per i rapporti religiosi con l'Ebraismo, che il 24 giugno 1986 ha pubblicato i Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell'Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa Cattolica. (Il documento è reperibile integralmente su internet all’indirizzo: http://www.nostreradici.it/sussidi.htm, purtroppo con alcuni errori tipografici).



  1. …nell'uso della tipologia, il cui insegnamento e la cui pratica ci derivano dalla Liturgia e dai Padri della Chiesa, occorre evitare ogni passaggio tra Antico e Nuovo Testamento che fosse esclusivamente considerato come una rottura. La Chiesa, nella spontaneità dello Spirito che la anima, ha vigorosamente condannato l'atteggiamento di Marcione e si è sempre opposta al suo dualismo.
  2. È importante anche sottolineare che l'interpretazione tipologica consiste nel leggere l'Antico Testamento come presentazione e, sotto certi aspetto, come il primo delinearsi e come l'annuncio del Nuovo (cf. per es. Eb5,5-10, ecc.). Cristo è ormai il riferimento chiave delle Scritture: "quella roccia era il Cristo" (1Cor 10,4).
  3. È dunque vero ed è bene sottolinearlo, che la Chiesa e i cristiani leggono l'Antico Testamento alla luce dell'avvenimento del Cristo morto e risorto e che, a questo titolo, esiste una lettura cristiana dell'Antico Testamento che non coincide necessariamente con la lettura ebraica. Identità cristiana e identità ebraica devono pertanto essere accuratamente distinte nella loro rispettiva lettura della Bibbia. Ciò che, tuttavia, nulla sottrae al valore dell'Antico Testamento nella Chiesa e non vieta che i cristiani possano a loro volta utilizzare con discernimento le tradizioni di lettura ebraica.
  4. La lettura tipologica non fa altro che manifestare le insondabili ricchezze dell'Antico Testamento, il suo contenuto inesauribile, il mistero che lo pervade, ed essa non deve far dimenticare che l'Antico Testamento mantiene il proprio valore di Rivelazione, che spesso il Nuovo Testamento non farà che riprendere (cf. Mc 12,29-31). Del resto, lo stesso Nuovo Testamento esige parimenti di essere letto alla luce dell'Antico. La catechesi cristiana primitiva vi farà costantemente ricorso (cf. ad es. 1Cor 5,6-8; 10,1-11)
  5. La tipologia significa inoltre proiezione verso il compimento del piano divino, quando "Dio sarà tutto in tutti" (1Cor 15,28). Questo fatto vale anche per la Chiesa che, già realizzata in Cristo, non di meno attende la sua perfezione definitiva come Corpo di Cristo. Il fatto che il Corpo di Cristo tenda ancora verso la sua statura perfetta (cf. Ef 4,12-13), nulla sottrae al valore dell'essere cristiano. Così la vocazione dei Patriarchi e l'esodo dall'Egitto non perdono la loro importanza e il loro valore proprio nel piano di Dio per il fatto che esse sono al tempo stesso delle tappe intermedie ( cf, per es., Nostra Aetate n. 4).


  • Ma allora riconoscere la legittima diversità di interpretazione significa dire che cristiani ed ebrei, pur leggendo la stessa Bibbia, non leggiamo lo stesso libro? No, perché "la chiesa delle origini, la quale compose il NT, pretese che questo, lungi dal proporsi come un’interpretazione aliena dalle Scritture di Israele, ne rappresenti l’ultima e definitiva rilettura, dunque indubitabilmente ebraica (At 26,22-23: "Null'altro io affermo se non quello che i profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, che cioè il Cristo sarebbe morto, e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunziato la luce al popolo e ai pagani": discorso di Paolo davanti ad Agrippa)" (F. Rossi de Gasperis, Cominciando da Gerusalemme, Piemme 1997, p. 384).


  • L’esegesi tipologica è infatti nota già all’interno dello stesso AT. Come ricorda il n. 9 dei citati Sussidi, l’esodo egiziano è stato riletto dai profeti come paradigma per descrivere il ritorno dagli esili e la liberazione escatologica stessa: basti pensare al Seder di Pesah (la liturgia pasquale). Ma c’è una tipologia cristiana che si distacca da questa modalità: è quella che "si interessa agli eventi e alle persone del Primo Testamento unicamente come "figure" e "tipi" da attraversale in fretta per giungere alle "realtà" (= antitipi) della Nuova Alleanza" (ivi, p. 390). È la tipologia della "frattura tra i due testamenti", secondo la quale il Figlio con la sua incarnazione non avrebbe portato a compimento la rivelazione veterotestamentaria, ma la avrebbe totalmente rinnovata.

  • Occorre invece una lettura di pacificante continuità tra i due testamenti. La novità cristiana non indica frattura con l’antico, ma definitività della rivelazione in Cristo. "Per quanto concerne il Testamentum (= l’economia, distinta dall’Instrumentum, = gli scritti), mentre il NT può essere definito come l’ultima rilettura dell’Antico, esso stesso non può andare soggetto a una ulteriore allegoria, senza che venga distrutta la realtà della stessa fede cristiana" (ivi p. 403). Il NT è l’"ultima allegoria" dell’AT, rimanendo aperto solo all’anagogia escatologica (il compimento finale, quando "Dio sarà tutto in tutti": 1Cor 15,28). D’altro canto la novità cristiana può essere rinvenuta nel fatto che nessun ebreo è giunto alla fede in Cristo solo per aver letto le scritture: è necessario l’incontro con l’evento irripetibile della risurrezione (dunque il cristianesimo non è solo lo "sviluppo organico e naturale" dell’ebraismo).


  • "La lettura ebraica delle scritture, di per sé, rimane aperta a un futuro e a un’attesa escatologica indeterminata. […] La lettura cristiana crede di conoscere il nome preciso di questa incognita: Gesù di Nazaret" (ivi p. 422). L’evento di Cristo rimane la discrepanza di fondo nell’interpretazione di quello che noi chiamiamo AT: la prima venuta di Gesù non è riconosciuta dagli ebrei come chiave interpretativa della storia e della scrittura, mentre l’attesa escatologica della sua seconda venuta (la parusìa, quello che gli ebrei chiamano "il giorno di Yhwh") è ciò che ci accomuna.


  • "Leggendo l’AT, il cristiano […] è come il lettore di un libro giallo, che ne vada leggendo progressivamente il testo dopo essere stato preventivamente informato dello svelamento finale. […È così] molto più in grado di soppesare proporzionatamente l’importanza e il significato di quei particolari che, letti prima di conoscere la fine, possono apparire irrilevanti e casuali. […] Di per sé, però, l’ultima chiave della lettura cristiana della Bibbia non deve mortificare in nulla la consistenza dei capitoli precedenti, l’importanza di conoscere ogni loro pagina in se stessa e di soppesarne i contenuti e la struttura"" (ivi p. 423-425).
Pubblicato in Bibbia
Sabato, 19 Giugno 2004 02:11

Antico Testamento?

APPENDICE
La chiesa delle origini


Lettura ebraica e cristiana
dell’Antico Testamento
di Don Filippo Morlacchi


Antico Testamento?



  • Come denominare quella parte della Bibbia che precede il "Nuovo Testamento"? Escludiamo l’espressione "Vecchio Testamento" (come se fosse una cosa obsoleta e da buttare); accettiamo "Antico testamento", cogliendo un sfumatura di venerazione per la sua anzianità, in quanto è l’espressione più diffusa; preferiamo "Primo Testamento" o "Prima Alleanza", perché esprime al meglio la continuità dell’unica storia della salvezza. Ma per tanti studiosi oggi è solo la "Bibbia Ebraica". (A dire il vero, non è del tutto corretto, perché nel canone cattolico sono inseriti dei libri che non sono inseriti nel Canone Ebraico: sono i 7 libri di Tb, Gdt, 1 e 2Mac Sap, Sir, Bar, nonché alcune sezioni di Est e Dan. Alcuni di questi scritti inoltre ci sono pervenuti solo in greco o aramaico).


  • "La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2Tm 3,16)" [Dei Verbum 11]. Contro l’eresia di Marcione (II sec.), l’AT è essenziale alla vita della Chiesa: "I cristiani venerano l’Antico Testamento come vera Parola di Dio. La Chiesa ha sempre energicamente respinto l’idea di rifiutare l’Antico Testamento con il pretesto che il Nuovo l’avrebbe reso sorpassato (Marcionismo)" (CCC 123).


  • "L’AT è il fondamento comune, la radice teologia e storica del giudaismo e del cristianesimo. […] La problematica della teologia cristiana dell’ebraismo si acuisce poi, allorché si comincia a intuire che il giudaismo prolunga e vive realmente – benché in maniera diversa dal cristianesimo – l’AT e il modo in cui lo fa. Israele non è riconducibile a un’entità biblica passata" (C. Thoma, Teologia cristiana del giudaismo, Marietti 1983, p. 17). Dunque c’è un valore permanente non solo dell’AT, ma anche dell’interpretazione che ne danno gli ebrei.


  • L’AT è parola di Dio; rivela dunque il mistero di Cristo; è "antico" in relazione al "nuovo". Ma ha anche una sua consistenza in sé: gli ebrei infatti considerano sacre ed ispirate le loro scritture, indipendentemente da qualunque riferimento alla persona di Gesù di Nazareth. L’ermeneutica [cioè "arte dell’interpretazione"] cristiana dell’AT/Bibbia ebraica è dunque diversa o addirittura incompatibile con quella ebraica?
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Sabato, 19 Giugno 2004 02:10

A Roma Paolo annuncia il Vangelo (28,16-30)

Da Gerusalemme a Roma
di Don Filippo Morlacchi


A Roma Paolo annuncia il Vangelo (28,16-30)


Gli Atti si concludono con l’annuncio del vangelo a Roma. Paolo è in custodia militaris molto mite, e annuncia il Vangelo con grande libertà. Ma prima vuol chiarire la faccenda con la comunità giudaica (in fondo è per accuse giudaiche che lui è a Roma): anche a loro annuncia il vangelo. La conclusione è che alcuno credono e altri no: questa è LA scissione nell’ebraismo, tra coloro che credono in Gesù Messia e coloro che non ci credono, e la conseguente apertura ai pagani.

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Sabato, 19 Giugno 2004 02:10

A Malta e poi Roma (28,1-15)

Da Gerusalemme a Roma
di Don Filippo Morlacchi


A Malta e poi Roma (28,1-15)


Ricevono una buona accoglienza (Paolo avrà fatto da interprete con la sua conoscenza dell’aramaico). L’episodio del serpente che non fa del male a Paolo ha richiami evangelici (Mc 16,18), come pure la capacità di imporre le mani e guarire il padre di Publio, che ospitò la comitiva per tre giorni. Ancora d’inverno (primi di febbraio 61 d.C.) salpano per Siracusa; poi Reggio; poi Pozzuoli, dove abbandonano la nave.

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Da Gerusalemme a Roma
di Don Filippo Morlacchi


Partenza per Roma, viaggio e naufragio (27,1-44)


Il discorso riprende con il "noi". Luca è stato probabilmente spesso da Paolo nei due anni di prigionia a Cesarea; ora lo accompagna nel viaggio. È in assoluto uno dei documenti di navigazione antica tra i più importanti per le scienze nautiche.


Era ormai estate inoltrata; bisognava partire presto per Roma, perché il mare Mediterraneo era considerato "chiuso" da novembre a marzo, a causa delle possibili tempeste. Settembre era già tardi… Salpano su una nave della Misia (esattamente di Adramitto, poco a sud di Troade) che tornava a casa, per fare un primo tratto di viaggio. Paolo è accompagnato da Luca e Aristarco, ma è consegnato al centurione Giulio, responsabile del suo arrivo a Roma. Breve tappa a Sidone, poi Cipro, poi in Licia (Turchia del sud). Cambio di nave, arrivo a Creta, località Buoni Porti. Paolo suggerisce di non proseguire, temendo la forza del mare (era passata la festa di Yom Kippur – giorno dell’espiazione – ai primi di ottobre). Vogliono raggiungere Fenice, un porto migliore dell’altra parte dell’isola, ove svernare; ma anche nella navigazione costiera li sorprende una tempesta.


Paolo è avvisato da un angelo che tutti si salveranno. Dopo 14 giorni di deriva nell’"Adria" (Mare Adriatico) si avvicina una costa, pur senza vederla. Lo scandaglio rivela 20 braccia (37 m.); poi 15 braccia (28 m.): rischio di incagliarsi contro scogli. La nave viene ancorata. Un tentativo di egoistico salvataggio da parte della ciurma è stroncato dalle guardie su indicazione di Paolo. L’indomani la nave si avvicina alla costa, ma si insabbia; le guardie vogliono uccidere i prigionieri per evitare che possano fuggire, ma il centurione lo impedisce. Pian piano tutti scendono a terra.

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Da Gerusalemme a Roma
di Don Filippo Morlacchi


Il giudizio di Agrippa e Berenice e il discorso di Paolo (25,13-26,32)


Agrippa II, figlio di Erode Agrippa I (quello che aveva fatto uccidere Giacomo: At 12) e pronipote di Erode il grande, era amante incestuoso di sua sorella Berenice (quest’ultima, tra l’altro, amante anche di Tito: una donna molto chiacchierata). Due spregevoli figure. Si presentano a Cesarea per salutare il nuovo procuratore. Festo parla loro di Paolo; Agrippa vuol fare l’esperto e chiede di parlarci.


Paolo si racconta; leggiamo la terza narrazione lucana dell’episodio di Damasco. I pagani sono stati l’ultimo obiettivo della sua missione ("infine": 26,20) e lui fino alla fine è fedele a Mosè e ai profeti. Festo lo prende per matto, Agrippa sembra quasi convinto (o forse si fa beffe di Paolo: "ti basterebbe poco per farmi convertire, eh?…"). Il tutto finisce con la faciloneria di una corte orientale.

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Da Gerusalemme a Roma
di Don Filippo Morlacchi


Il nuovo prefetto Festo e l’appello a Cesare (25,1-12)


Porcio Festo inizia il suo incarico, svolto con zelo, nel 60 d.C. A Gerusalemme per la presa di possesso, gli vien chiesto di far salire Paolo e poterlo giudicare (in realtà volendo ucciderlo prima dell’arrivo – chissà se i 40 stavano ancora digiunando). Festo invita a fare il contrario, cioè riscendere a Cesarea. Arrivano i giudei, e si tiene il processo; Festo, per ingraziarsi i nuovo sudditi, chiede se Paolo accetta di andare a Gerusalemme. Forse temendo il peggio, egli si appella a Cesare, sfuggendo agli accusatori e ottenendo un viaggio gratis a Roma, secondo i suoi desideri (19,21).

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Da Gerusalemme a Roma
di Don Filippo Morlacchi


Primo processo romano: davanti a Felice (24,1-27)


Per accusare Paolo vengono convocati da Gerusalemme Anania, alcuni anziani e l’avvocato Tertullo. Questi esordisce con un captatio benevolentiae e accusa Paolo di essere a capo della setta dei nazorei. Paolo risponde con un’apologia: si dichiara ebreo in tutto e per tutto, spiega di essere venuto per portare il frutto della colletta ai giudeocristiani e per il culto di shavuot; riferisce che tutto è nato dai giudei di Asia e riferisce l’esito del processo presso il sinedrio. Felice non prende decisioni e vuole sentire personalmente il tribuno Lisia. Paolo rimane custodia militaris (c’erano tre livelli di restrizione carceraria: custodia pubblica, ossia il carecere; custodia militaris, ossia rimanere incatenati ad un militare, ma liberi di muoversi o incontrare persone; custodia libera, ossia arresti domiciliari presso uno che si faceva garante).


Quel debosciato di Felice tenne così per due anni Paolo; lo presentò alla moglie Drusilla (della famiglia di Erode, donna immorale e approfittatrice, sorella di Agrippa II e Berenice) che volle sentirlo, e poi lo tenne in custodia sperando di estorcergli dei soldi: invano. Sarà stato umiliante per Paolo essere chiamato da quella coppia molle e decadente a parlare della fede solo per far passare il tempo e discutere superficialmente… (succede anche oggi in certe catechesi…).

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Sabato, 19 Giugno 2004 02:08

Complotto e trasferimento a Cesarea (23,12-35)

Da Gerusalemme a Roma
di Don Filippo Morlacchi


Complotto e trasferimento a Cesarea (23,12-35)


Una quarantina di esaltati fa voto di sciopero della fame fino all’uccisione di Paolo, chiedono al sinedrio di richiamare Paolo, e loro lo avrebbero eliminato prima dell’ingresso nell’aula. Ma il nipote di Paolo viene a saperlo, e informa Paolo. Il tribuno, furbo, sceglie di togliersi dall’impiccio spedendo Paolo all’autorità superiore: il procuratore Felice. Fa preparare una numerosa scorta e ordina il trasferimento notturno. Il prigioniero viene accompagnato dall’elogium, la lettera di presentazione in cui il magistrato inferiore si affida alla competenza del magistrato superiore a riassume gli estremi del caso come gli sono noti (in realtà egli modifica un po’ i fatti, a suo favore ed omettendo di averlo trattato non da cittadino romano). Di notte la carovana scende ad Antipatride e l’indomani a Cesarea; Paolo viene incarcerato nel palazzo fatto costruire da Erode il Grande, poi adibito a sede abituale del procuratore. Antonio Felice fu uomo ignobile ("esercitò il suo potere con animo da schiavo, ricorrendo a sevizie e libidine", scrisse Tacito).

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