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Mercoledì, 22 Giugno 2005 01:39

Il cuore nella spiritualità russa (Tomàs Spidlìk)

Il cuore nella spiritualità russa
di Tomàs Spidlìk

L 'importanza del cuore

"La nozione del cuore - scrive un teologo russo, B. Vyseslavcev - occupa il posto centrale nella mistica, nella religione e nella poesia di tutti i popoli". Nella misura in cui ci si allontana dalla vita nel cuore, ci si allontana da se stessi e dalla religione. Dello stesso parere è il suo coetaneo P. Ivanov: "Cercare il nutrimento per il cuore significa tornare a Dio, perché Dio stesso, è un cuore che abbraccia tutto". "Essere senza cuore" (bezserdecnost) è uno stato che caratterizza l'ateo, dato che il contatto reale con la divinità è possibile, dice ancora Vyseslavcev, soltanto "nella profondità del mio io, nella profondità del cuore, perché Dio, come dice Pascal, "è sensibile al cuore; là soltanto è possibile una vera esperienza religiosa, fuori di essa non vi è né religione né etica". Questa insistenza sul cuore che è specifica degli autori spirituali russi, soprattutto del secolo scorso, diventa per loro una specie di professione di fede ortodossa contro "il razionalismo" di cui scoprono il pericolo nelle tendenze occidentali.

E’ una tesi che è spesso difesa nei manuali teologici. Così per esempio, per Th. S. Ornatsky la fede è "una disposizione immediata del cuore". N. Malinovsky scrive: "La fede si comprende soltanto come un sentimento religioso". Per P. Sokolov la fede ha il suo "motivo nel sentimento". "Essa nasce nella sfera del sentimento - scrive J. Nikolin - e deve essere riscaldata e nutrita per mezzo del sentimento".

Questa insistenza sui sentimenti del cuore sorprende e non raramente insospettisce chi è abituato a una diversa terminologia. Per capire il giusto senso di queste espressioni bisogna sapere trasportarsi nell'ambiente dove furono pronunciate. Non vale un rinvio superficiale al "sentimentalismo slavo", perché così si rischierebbe di ridurre alla banalità ciò che gli autori classici e profondi hanno sostenuto con molta persuasione. In altri scritti abbiamo analizzato più in particolare questo termine complesso che è il serdtse (cuore) nella spiritualità slava. Lo scopo del presente articolo è piuttosto mostrare le sue radici, i motivi perché proprio questo termine è divenuto così significativo per la mentalità russa.

La prima ragione è storica. La Chiesa russa è figlia di Bisanzio, la sua spiritualità è "orientale". E qui il concetto di cuore ha già messo le sue radici sin dall'antichità. Vi si parla ripetutamente della custodia del cuore, dell'attenzione al cuore, della purezza del cuore, della preghiera del cuore, della presenza divina nel cuore, ecc. Basta gettare lo sguardo sugli Indici (alla voce: kardia) della famosa Filocalia, un ampio florilegio di brani più significativi sulla vita di preghiera tratti dai Padri e dagli scrittori bizantini. Ancora più impressionante è l'abbondanza del termine serdtse nella piccola antologia russa Dialoghi sulla preghiera a Gesù.

Ma l'amore per il termine "cuore" non può essere spiegato con il solo peso dell'eredità antica. Vi sono certi tratti del carattere slavo, che favoriscono il ricorso a questa voce piuttosto che ad altre. Il pensiero filosofico russo, come dimostra N. O. Losski, si differenzia dall'astrattivismo e oggettivismo della filosofia occidentale. Le sue caratteristiche sono al contrario: l'intuitività, l'ideale di una conoscenza integrale, il carattere tipicamente religioso di ogni problema sociale, filosofico e anche scientifico. Abbiamo dimostrato in un altro articolo come questi tratti hanno ispirato i pensatori russi a questa sostituzione: laddove gli occidentali usano la voce mente o ragione o intelletto, i russi sostituiscono spontaneamente il cuore.

Nelle righe che seguono, desideriamo restare nell'ambiente più ristretto degli autori spirituali (citando soprattutto Teofano Recluso, che può essere considerato sotto quest'aspetto classico. Studi recenti hanno messo in rilievo certi tratti tipici per la spiritualità dell'Oriente cristiano: è la sua indole antropologica, escatologica, ecclesiale, cosmica, contemplativa.

È proprio quando consideriamo queste caratteristiche tradizionali, ci rendiamo conto che il termine "cuore" è l'unico che serve in modo migliore ad esprimere ciò che gli autori spirituali desideravano insegnare e realizzare come scopo della vita cristiana.

La spiritualità antropologica

La spiritualità orientale - si dice spesso - dimostra un carattere essenzialmente antropologico. Parte dalla conoscenza di se stesso e s'impegna a sviluppare tutto ciò che Dio ha infuso nella intera natura umana: la sua immagine e rassomiglianza. O piuttosto, secondo il modo di parlare dei greci, dopo Origene: sviluppare l'"immagine" dinamica, con la quale siamo stati creati, affinché diventassimo "rassomiglianza" attraverso gli sforzi fatti durante la nostra vita.

In questa situazione non ci sorprende che ci furono all'inizio numerose discussioni e che furono date le risposte più svariate alla domanda fondamentale: in che consiste l'immagine di Dio nell'uomo? La quantità di opinioni dipende dai diversi punti di vista e dai diversi modi in cui il problema fu posto. Eppure tutte partono da una base comune, magistralmente esposta da san Cirillo Alessandrino: ciò che nell'uomo veramente rassomiglia a Dio può essere solo quell'elemento della nostra costituzione che è divino e spirituale nel vero senso della parola: lo Spirito Santo.

Un occidentale potrebbe essere sorpreso da questa constatazione: considerare lo Spirito Santo come un elemento costituente della persona umana. L'Oriente, al contrario, è stato sempre fedele alla "trichotomia" esposta da sant'Ireneo contro gli gnostici: "L'unione dell'anima e della carne, che assume lo Spirito Santo, costituisce l'uomo spirituale".

È il merito degli antichi filosofi greci che hanno vinto il materialismo stabilendo una distinzione netta fra il corpo e l'anima, l'elemento materiale e immateriale. I cristiani, a loro volta hanno superato una confusione più sottile: la falsa identificazione fra la realtà "spirituale" nel vero senso, e "l'immateriale" creato (quale è l'anima umana e le sue attività tipiche).

Gli autori russi, seguaci dei Padri greci, non raramente sospettano che l'Occidente sarebbe ricaduto nel vecchio gnosticismo a causa del suo razionalismo. Insistono quindi con un accento speciale sull'affermazione che la vita "spirituale" non è la vita "dell'anima" solo, ma il suo scopo è la partecipazione sempre più perfetta alla pienezza dello Spirito Santo. Egli è come se fosse "l'anima della nostra anima". La crescita nella rassomiglianza con Dio consiste quindi nella "spiritualizzazione progressiva" dell'anima, del corpo, di tutte le forze umane, e per mezzo dell'uomo, nella spiritualizzazione di tutto il mondo.

"La forza dello Spirito Santo - scrive Teofano Recluso - dà nascita alla vita spirituale e la stessa forza la sostiene e conduce alla perfezione: da Lui procede ogni movimento, ogni trasformazione nella vita spirituale. Senza l'anima il corpo è senza vita. Così anche senza lo Spirito di Dio l'anima è senza la vita spirituale".

Il paragone dello Spirito con l'anima è senza dubbio molto suggestivo. Eppure si tratta di una metafora, perché il contatto fra Dio e l'uomo è nascosto nella profondità del mistero. La teologia scolastica ha sollevato modestamente il problema de sede gratiae. La risposta che si dà normalmente, è che la grazia illumina direttamente l'anima e per mezzo dell'anima anche il corpo. Questa risposta sembra troppo generica ai mistici di tutti i tempi che furono sempre alla ricerca del "luogo" in cui lo Spirito risiede e tocca l'anima da vicino. Non credevano che si trattasse dell'anima intera, ma piuttosto del suo "fondo''.

Anche questa parola è simbolica e il simbolismo può essere anche inverso. Gli antichi filosofi greci erano persuasi che il mondo divino, simbolicamente collocato in "alto", si raggiungesse con quella parte della nostra anima che è la più "elevata": Non il "fondo", ma la "cima", la mente (il greco nous) che per natura sua è facoltà divina. Se i pellegrini del popolo salivano ai santuari sulle colline e sui monti, i saggi ellenici dissero che possiamo elevarci a Dio soltanto con la mente. Negli scritti dei Padri greci rimase a lungo questa terminologia antica. Passò quindi nel linguaggio cristiano nella definizione classica della preghiera come "l'elevazione della mente a Dio"

Dall'inizio però i cristiani si rendevano conto della problematica connessa con questa terminologia. Se la mente umana restasse sola, sarebbe certamente incapace di superare l'abisso che la separa da Dio. Nessuna idea, nessun concetto umano esprime l'essenza di Dio. Neanche Mosè che salì sulla cima del monte Sinai vi trovò il volto del Signore; così si formò l'immagine del mistico cristiano che ha sorpassato tutte le categorie della mente e che pur tuttavia crede di essere agli inizi della sua "elevazione a Dio". L'unico risultato di questo sforzo è il vivo senso della sua "ignoranza" e il desiderio ardente di esser rapito, sollevato dallo Spirito. L'ultima tappa, dalla cima in su, come dicono i mistici, seguendo san Gregorio di Nissa, si effettua con le "ali della carità diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo.

E' ovvio che la carità non è una virtù che può essere limitata alla sola ''mente'', a una sola ''facoltà'' umana, anche se suprema. Suppone al contrario la pienezza della vita, l'uomo intero, in tutto il suo essere e nella sua attività. Quindi, di conseguenza, lo Spirito Santo trova immediatamente l'uomo in quel "luogo" dove sono concentrate tutte le forze umane, dove si trova il centro e il cardine della persona: gli autori spirituali russi sono d'accordo che questo centro del nostro "io" ha un nome tradizionale; è il cuore (serdtse).

Il cuore, nel senso materiale come organo del corpo, è il centro della vita corporea: preso nel senso spirituale conserva la stessa funzione ora applicata alla vita dell'anima e dello spirito. Questo significato è del resto conforme alla Scrittura.

P. Florenskij fa derivare la parola serdtse dal serdo, centro.

Per Teofano Recluso tutte le facoltà e tutte le forme dell'uomo trovano nel cuore il loro campo naturale di azione. Perciò la preghiera, la fede, le azioni morali ecc., tutto deve uscire dal cuore. Per illustrare questa verità l'autore si serve di una metafora prestata dal teatro: quando un attore recita la sua parte fuori della scena, la sua interpretazione perde molto di efficacia. Così accade, quando si tratta di una facoltà umana che agisce isolatamente. Ma anche questo paragone sembra indebolire la funzione del cuore, perciò Teofano aggiunge l'interpretazione: "Infatti (il cuore) non soltanto è come una scena sulla quale gli attori recitano la loro parte, ma esso stesso prende parte alla interpretazione; per mezzo della loro attività tutte le forze (dell'anima) hanno una ripercussione in esso e, allo stesso modo, esso si ripercuote in esse. Quindi il cuore è considerato come la radice della sostanza umana, il focolare di tutte le forze umane, cioè: quelle dello Spirito, dell'anima e del corpo".

In coerenza con la trichotomia dei Padri orientali, quindi lo Spirito Santo fa parte della persona umana, egli risiede nel cuore. Come può quindi esserci altro scopo della vita spirituale che far del proprio cuore il degno "trono dello Spirito Santo"? "Nel cuore si concentra tutta l'attività spirituale dell'uomo: le verità vi ricevono la loro impronta, le buone disposizioni vi hanno la loro radice". Al contrario, se il cuore e lo Spirito sono "divisi fra di loro, l'uomo non è più buono a niente". In termini moderni si direbbe: egli ha frustrato la sua personalità umana.

La spiritualità escatologica

"La Russia - scrive Berdiaev - è una rivolta apocalittica contro l'antichità, come disse Spengler. Ciò significa che il popolo russo, per sua natura e per sua vocazione nel mondo, è un popolo della fine dei tempi... Nel nostro pensiero, il problema escatologico occupa un posto infinitamente più grande che nell'Occidente: ciò si deve alla stessa struttura della coscienza russa, poco capace e poco disposta ad attenersi alle forme limitate di una qualche cultura intermedia".

Del carattere "escatologico" della Chiesa orientale e in particolar modo di quella russa si è parlato più di una volta, ma nelle discussioni sull'argomento non sempre si sono evitati equivoci.

Esiste un escatologismo popolare, che caratterizza i predicatori nei tempi dell'attesa di un cataclisma. L'Occidente ha avuto il suo "millenarismo". La Russia medievale numerava gli anni dalla creazione del mondo e aspettava la fine quando il numero doveva salire ai 7000. Progettata nella vita di ogni giorno, l'attesa escatologica di questo tipo dimostra un disinteresse per la vita presente, priva di ogni senso.

L'escatologismo però dei monaci contemplativi dell'Oriente è assai diverso. La vita eterna (in greco zoè), non comincia dopo la morte o dopo la fine del mondo, ma deve essere vissuta già nella vita presenta (in greco bios). Già nell'antica filosofia greca Parmenide fu profondamente impressionato dalla visione della vera realtà, eterna e immutabile, sotto le apparenze esterne e i mutamenti visibili. Lo scopo della "contemplazione naturale" (theoria physiké) dei monaci dovrebbe essere simile: scoprire sotto le apparenze visibili e sensibili del mondo creato il volto della sapienza divina creatrice e conservatrice del mondo. Ma non soltanto la natura intorno a noi, anche l'uomo stesso deve essere visto nella medesima prospettiva. La Bibbia ci mette spesso in guardia a non giudicare gli uomini secondo le apparenze ma secondo il cuore. Certamente è spiacevole l'espressione di Feuerbach: l'uomo è ciò che mangia. Ma infatti l'uomo non è neanche ciò che pensa e ciò che, in un momento determinato, vuole. I suoi pensieri, le sue decisioni sorgono dalla profondità del suo ''io'' misterioso e nascosto: "Non pensare a fondare la tua santità sull'agire - scrive Eckhart - bisogna che il suo fondamento sia l'essere; non sono le opere che ci santificano, ma siamo noi che dobbiamo santificare le opere". Non è certo opportuno minimizzare il valore delle buone azioni, ma la perfezione non può consistere in questi atti isolati, bensì nella disposizione stabile del cuore da cui provengono. Non è neanche puro caso che i manuali della morale occidentale - per natura pratica - analizzano con precisione estrema la perfezione o l'imperfezione degli atti morali. Ciò che ha preoccupato gli asceti orientali contemplativi fu al contrario lo stato (katastasis), le disposizioni stabili del cuore.

''La scala del paradiso, una icona del monte Sinai, illustra bene lo sforzo dei padri spirituali dell'Oriente a partecipare sempre di più all'eterna vita divina, in modo stabile e sicuro. Rappresenta i monaci che salgono la scala: sui gradini inferiori sono ancora agitati e si muovono dappertutto, ma più arrivano in alto, più diventano immobili e fissano i loro occhi nell'eternità.

Teofano Recluso interpreta la stessa esperienza spirituale in questi termini. Gli atti morali sono sotto il dominio della nostra volontà libera; ne consegue la piena responsabilità per tutto ciò che facciamo. A causa di questa libertà che però può cambiare da un momento all'altro, siamo continuamente esposti al pericolo del peccato, che è possibile nella libertà imperfetta, mutabile, instabile. La santità e le virtù debbono quindi diventare una disposizione permanente del cuore, "un sentimento del cuore"; l'espressione presa fuori dal suo contesto potrebbe apparire strana, ma Teofano si rende conto del suo vero significato e cerca di giustificarlo anche dal punto di vista psicologico: "Sappiamo bene che quando l'uomo è penetrato da un sentimento, questo lo rende in un certo modo stabile: egli è disposto a dirigere ogni sforzo verso tutto ciò a cui lo spinge questo sentimento".

Va da sé quindi che non possono mostrare questo carattere stabile i sentimenti labili del corpo e dell'anima. Duraturo è soltanto il sentimento "spirituale", quando il cuore umano batte all'unisono con lo Spirito che ivi risiede. Soltanto allora possiamo avere una certa sicurezza della salvezza, che è una prelibazione, anche se mai assoluta, dell'eternità nelle vicende della nostra vita che sfugge. Sembra strano: "Vi è forse un organo più fragile del cuore? Eppure nulla è più stabile di ciò che esce dal cuore; quando i comandamenti (di Dio) sono fissi nel cuore, il loro adempimento è sicuro".

La spiritualità ecclesiale

Il cuore indica l'unità delle facoltà e delle forze umane, in esso l'uomo riunisce in qualche modo le sue azioni disperse nel tempo, nel corso della sua vita terrena. Ma, si può considerare l'uomo come veramente unito, se rimane isolato in se stesso, separato dagli altri? Un tale isolamento condurrebbe alla distruzione della sua propria unità personale. Questo è il pensiero caro a molti pensatori russi.

Un concetto è divenuto caratteristico della teologia russa degli ultimi secoli: la sobornost, il senso della Chiesa, la devozione per la Chiesa, la "collegialità" (nel senso approssimativo), con diverse sfumature di interpretazione teologica, il cui fondo comune è la ferma persuasione che la vita spirituale di ognuno si può svolgere soltanto in unione con gli altri, nella Chiesa.

Alla domanda: Che cosa sia la Chiesa, le risposte diverse manifestano gli aspetti molteplici dell'unione dei fedeli. I russi insistono volentieri sull'affermazione che la Chiesa deve apparire in primo luogo come "unità di cuori". Ma per valutare giustamente la loro tesi, consideriamo i suoi presupposti "antropologici".

Nella composizione tricotomica dell'uomo spirituale, lo Spirito Santo, "l'anima della nostra anima" è insieme ''un' anima comune'' a tutti i credenti: quindi, essi costituiscono un solo corpo, vivono la loro vita spirituale nella loro unione inseparabile. Ma siccome lo Spirito risiede nei cuori dei singoli, ne consegue inevitabilmente la conclusione: l'unità dei fedeli si manifesta in primo luogo nei loro cuori. Quante volte viene interpretato in questo senso, dopo san Basilio questo versetto degli At 4, 32: La comunità dei fedeli (a Gerusalemme) aveva un solo cuore e un'anima sola. "Una via particolare conduce all'unione degli uomini - scrive Teofano - è il cuore. Uno spirito esercita la sua influenza sull'altro facendo intervenire il sentimento".

Quando parlano del ruolo del cuore nella vita sociale, i russi si esprimono talvolta in modo radicale. Ascoltiamo Vyseslavcev: "E' falso pretendere che esiste qualche "cordialità" senza religione, che si chiamerà solidarietà, coscienza sociale, ecc. Nel nome di questa solidarietà sono stati già commessi i più grandi crimini giustificandoli con le declamazioni sull'amore dell'umanità, con una retorica nello spirito di Rousseau o di un Robespierre. Prima di tutto bisogna dire che questi uomini non hanno avuto cuore e, di conseguenza hanno perduto ogni relazione mistica con il prossimo e con Dio: hanno perduto, infine, il loro vero "io", l'hanno dimenticato non sospettando neanche la sua esistenza".

Chi vive più "nel cuore" è il popolo semplice. Perciò, secondo gli slavofili la vera garanzia dell'unità della Chiesa è l'esperienza religiosa del popolo ecclesiale, il quale sente e conserva intatti i tesori del cristianesimo, spesso perduti e contaminati dal razionalismo delle classi che si chiamano intelligenti. I teologi che si allontanano dalla fede del popolo, rischiano di perdere la verità divina, anche se le loro riflessioni appaiono essere ingegnose.

"La verità spirituale - scrive A. S. Chomiakov - non si limita e non può limitarsi solo alla sfera della dogmatica. La fede ha in sé la forza di abbracciare necessariamente tutta la vita: il riconoscimento del popolo ecclesiale come custode della verità, come qualcosa di integro e spiritualmente vivente".

Di conseguenza anche l'autorità ecclesiale deve avere la sua base nella fede del popolo semplice. "I vescovi, i Padri dei concili - secondo A. A. Kireev - non sono legislatori indipendenti, ma solo testimoni della fede dei loro figli spirituali, delle loro Chiese". Non vogliamo entrare nei problemi teologici sollevati dalle riflessioni degli slavofili, insistiamo piuttosto di nuovo sul loro fondamento comune: "Se il centro della persona umana è il cuore, allora è con il cuore che l'uomo entra in relazione con tutto ciò che esiste", ed esso è quella "via particolare che conduce all'unione degli uomini".

La spiritualità cosmica

L'unità dell'uomo con tutto il mondo è un tema ben conosciuto nella tradizione orientale. I primi Padri della Chiesa nutrivano una grande ammirazione per il cosmos, l'universo creato. Esprimono le loro riflessioni spesso nella terminologia stoica. I filosofi del Portico professavano un logos unico che penetra tutte le cose e predicavano un dogma dell'unità del mondo nel pneuma, spirito divino.

I cristiani rifiutano l'unità panteistica dei pagani e professano il carattere trascendente del pneuma divino. Ma nello stesso tempo credono che Dio creò tutto il mondo per mezzo del suo Verbo e che in ogni cosa creata risiedono le tracce della divina sapienza. Lo scopo della contemplazione cristiana non è altro che vedere queste tracce divine sotto la superficie degli esseri, vedere Dio nelle creature che lo rivelano.

Origene esorta alla ricerca dei logoi dispersi nel mondo, san Basilio vi scopre la sophia, gli autori russi recenti parlano della sophiologia. Le icone russe dipingono la saggezza divina come un angelo di colore rosso che siede sul trono di questo mondo e gli conferisce unità e bellezza, qualità che ci invitano a essere ammirate e contemplate in ogni cosa creata; entriamo così consapevolmente nella salvezza cosmica, universale.

Nonostante il loro senso artistico e i loro numerosi trattati intitolati "Sulla natura", gli antichi greci non avevano una sensibilità romantica per le bellezze naturali, furono troppo speculativi. Fra gli asceti cristiani della loro generazione leggiamo forse soltanto di san Nilo di Grottaferrata che si permetteva una passeggiata per ammirare Dio nelle bellezze della campagna romana. Assai differenti ci si presentano, sotto questo punto di vista, i famosi "pellegrini russi". "Tutto ciò che mi circondava - scrive un pellegrino mi sembrava ammirevole: gli alberi, l'erba, gli uccelli, la terra, la luce, l'aria, sembrava che tutto sottolineasse la sua esistenza per l'uomo, tutto testimoniava l'amore di Dio per gli uomini, tutto pregava e cantava la gloria di Dio ".

I russi avevano sempre un grande senso della bellezza, nelle chiese, nelle icone, nel canto, in tutto ciò che appartiene al culto divino e alla preghiera. Secondo la narrazione del cronista di Kiev, questo motivo fu decisivo per la loro conversione al cristianesimo. Il principe Vladimiro avrebbe voluto decidere fra le diverse religioni dall'osservazione dei rispettivi riti. Provò un orrore vivissimo davanti al culto ebraico, per le cerimonie latine non sentì alcun trasporto, mentre il rito bizantino produsse su di lui e i suoi un impressione grandissima: "Quando siamo giunti in Grecia e quando i greci ci hanno condotto nell'edificio in cui si teneva il loro culto a Dio, non sapevamo se eravamo sulla terra o in cielo, perché sulla terra non ci può essere un tal splendore né una simile bellezza quali non siamo in grado di descrivere. Sappiamo soltanto che qui Iddio vive tra gli uomini e che le loro cerimonie sono le più nobili fra tutte le nazioni, non possiamo dimenticare la loro bellezza. Ogni uomo che ha provato il dolce, non vuole più gustare l'amaro.

La bellezza delle chiese e dei riti si considerava come ottimo metodo missionario per la conversione degli eterodossi. Il principe Andrea Bogoljubskij (+1174) aveva l'abitudine di condurre ogni mercante che dall'estero veniva da lui nei portici della chiesa, affinché "vedesse il vero cristianesimo e si convertisse". Anche le piccole chiesine di legno dei villaggi russi, dice Bulgakov, cercano di produrre la stessa impressione di santa Sofia a Costantinopoli, cioè il riflesso della sapienza divina in terra nel suo splendore di bellezza.

Non è però facile dire come venga considerata la bellezza dall'uno o dall'altro. Gli autori spirituali sottolineano che si deve trattare della "bellezza spirituale", non quella carnale; ciò è ancora più difficile a interpretare con le parole. E' però interessante che già san Basilio, quando parla della "bellezza" delle opere divine che ci introduce nella contemplazione, intendendola come armonia, ordine, l'unità degli esseri in Dio.

Il filosofo religioso Paul Florenskij, interpreta il vecchio assioma scolastico: unum, verum, bonum in questa forma: "La verità, la bontà, la bellezza - triade metafisica - non sono tre principi differenti, ma uno solo. Si tratta di un'unica vita spirituale contemplata sotto aspetti diversi. Non ci sfugge che il termine bellezza sostituisce quello di unità; vedere le cose come belle significherebbe l'esperienza vitale e il senso profondo della loro armonia, dell'unione di tutto ciò che esiste.

Forse la stessa parola slava per indicare la verità può servire come testimonianza di questo senso per indicare la realtà nella sua totalità. La voce istina ha la stessa radice del latino est, ciò che esiste, e ancora coll' asthmi sanscrito, che dice spirare. Cercare la verità vuol dire comprendere l'universo animato da una vita che vi "spira". Non sorprende quindi che la filosofia russa dimostra sempre una forte tendenza "esistenzialista", ma si tratta di un esistenzialismo che preferiamo chiamare cosmico, non individuale. La persona umana che è in continuo ascolto delle voci e dell'armonia cosmica desidera inserire se stessa in questa grande "liturgia cosmica".

L'ideale dell'arte iconografica fu proprio questo: la visione spirituale dell'universo pieno di bellezza, nel quale si deve trovare un posto per noi. "L'amore - dice ancora Florenskij - esige necessariamente che si sorpassino le frontiere del mio io per poter entrare in una nuova realtà dove tutto porta il sigillo della bellezza".

La fuga del mondo praticata dagli asceti con tanto rigore sarebbe allora contraria a questo ideale? Florenskij non è di questo parere. Per lui "l'ascetismo non crea una personalità buona, ma bella: il tratto particolare caratteristico dei grandi santi non è la bontà del cuore, la quale è comune fra gli uomini carnali e persino fra i grandi peccatori, ma piuttosto la bellezza spirituale, la splendida bellezza della persona, bellezza che acceca e illumina, che non può essere raggiunta dall'uomo carnale". Indispensabile è quindi per l'ascesi un grande senso di moderazione.

Quando si tratta quindi di stabilire a quale organo è riservato di percepire questa bellezza-unità, gli autori russi non hanno alcun dubbio che questo può essere soltanto il cuore, centro della nostra propria unità personale. Per distinguere il vero dal falso abbiamo una facoltà speciale - la ragione: similmente per decidere a fare il bene abbiamo la volontà libera. Ma per valutare la bellezza - scrive Teofano Recluso - non basterebbe qualche facoltà speciale, deve intervenire il cuore che "ritorna a se stesso, alla sua propria grazia", che percepisce la sua propria unità e finalità.

Di conseguenza, se il centro dell'essere umano è il cuore, per mezzo del cuore l'uomo entra in relazione con tutto ciò che esiste. Stabilito una volta questo doppio nesso, si può definire la doppia funzione del cuore: essere centro delle forze e servire come base per stabilire "il contatto con tutto ciò che esiste al di fuori di noi". Poiché la realtà creata da Dio è bella, di fronte ad essa nascono nel cuore i "sentimenti estetici".

Nello stesso senso, scrive P. Ivanov: "E' soltanto per mezzo del cuore che si può afferrare il segreto dell'universo, ciò che Kant chiama la cosa in se stessa. E' il cuore quindi che percepisce Dio, gli uomini, gli animali, la natura. Il cuore solo può perciò dare pace allo spirito". Questa affermazione è del resto, la conseguenza della dottrina orientale sulla divinizzazione del mondo per mezzo dello Spirito Santo: il medesimo Spirito risiede nel cuore e vivifica l'universo; quindi è il cuore che percepisce la vita del cosmo.

Anche i greci avevano un grande senso dell'unità del cosmo. Ma si può dire che per i russi questo "senso cosmico' è meno speculativo, è più "sentito". L'ideale sarebbe ciò che dice Dostojevskij: "sentire con tutto ciò che esiste".

L’attenzione al cuore

La conclusione morale dalle precedenti considerazioni fu per gli asceti, sempre evidente. "Nel cuore si concentra tutta l'attività spirituale dell'uomo... Per questo motivo la formazione del cuore ha dall'inizio una grande importanza". Questa formazione del cuore ha, nella spiritualità orientale, nomi tipici: la custodia del cuore (phylaké kardias), la sobrietà (nepsis) interiore, o semplicemente l'attenzione (prosochè), vigilanza, sorveglianza (episkopé) del cuore. Ma anch'essa dimostra diversi aspetti.

Possiamo schematizzarli in tre punti: il primo si può chiamare "negativo" a differenza dell'altro "positivo", ed infine il terzo "contemplativo".

L'attenzione negativa concentra gli sforzi umani nella purezza del cuore, e questa, nelle esortazioni degli asceti, occupa il posto più ampio. Il peccato ha dissipato le forze che dovrebbero essere concentrate nel cuore in un'armonia perfetta. L'attenzione alla purezza del cuore significa quindi lo sforzo a restaurare l'unità della persona umana, escludere ciò che gli è estraneo; i peccati, le passioni e anche i loro semi - pensieri malvagi (logismoi, in slavo: pomysly).

Teofano paragona il cuore umano con un cavallo che dovrebbe rimanere tranquillo nei pascoli spirituali. Purtroppo il diavolo cerca di continuo di salire su di lui e condurlo sulle sue vie, di attrarlo a sé per mezzo dei "pensieri". Riprendendo l'insegnamento degli esicasti, l'autore distingue i seguenti gradi o stadi attraverso i quali un pensiero penetra nel nostro cuore:

1) la suggestione (prilog),

2) l'attenzione a quello che è suggerito (vnimanie),

3) compiacimento nel pensiero proposto (slazdenie),

4) desiderio della cosa proposta (zelanie),

5) risoluzione (resimost),

6) esecuzione dell'opera (delo).

Non è nelle nostre possibilità essere liberi dalle prime suggestioni al male. D'altra parte il vero peccato, nel senso formale, appare soltanto nel quarto stadio. Ma la perfezione consiste nel non ammettere neanche il secondo grado, cioè non prestare attenzione al pensiero malvagio. Nel linguaggio degli asceti si dice: mettere il Cherubino con la spada davanti alla porta del cuore, non dare un minimo accesso al serpente a penetrare nel nostro paradiso interiore

Questa attenzione negativa, difensiva è immediatamente seguita dall'attenzione positiva: al coltivare le virtù nel giardino del cuore. Fra queste la regina di tutte è la carità. Il cuore stesso, essendo centro di tutte le forze e aspirazioni umane ha per sua natura un ardente desiderio di Dio (cf. il famoso eros divino di Platone). Per mezzo dello Spirito Santo che vi risiede diventa anche sorgente dell'agape, amore cristiano nel vero e pieno senso della parola. Lo Spirito Santo è, come dicono i Padri, cristiforme, trasforma l'uomo nell'immagine di Cristo, fa sì che il nostro cuore batta all'unisono con quello del Salvatore. Teofano fa sue le parole di Crisostomo, il quale interpreta l'apostolo Pietro (Fil 1,8): "Vi amo nelle viscere di Gesù Cristo, ciò vuol dire per mezzo della sua grazia, per mezzo del suo cuore... Non dice (l'Apostolo) per mezzo dell'amore, ma parla in modo più espressivo, più forte: per mezzo del cuore di Cristo". L'effetto dell'attenzione positiva al cuore è quindi la santificazione, l'identificazione con la persona di Gesù, con il suo cuore.

La santità, perciò, e specialmente la carità è "la porta della contemplazione". Il cuore puro è quindi organo e insieme oggetto della contemplazione.

Spiritualità contemplativa

L'Occidente fu spesso paragonato a Marta, e l'Oriente a Maria (cf. Lc 10, 42) a causa del suo carattere contemplativo e il suo ideale di "vedere Dio in ogni cosa". Che "il cuore puro" vede Dio (cf. Mt 5, 8), che sia proprio esso l'organo della contemplazione, di questa verità fondamentale non si è mai dubitato in Oriente. Ragionare di Dio, dice Evagrio, possono anche gli empi, ma lo "vedono" solo quelli che sono puri.

La contemplazione, theoria (letteralmente: visione) è una "intuizione". Il termine slavo per la contemplazione sozertsanie rende perfettamente questa sfumatura. Sorprende che il termine si usa relativamente poco, se non nelle traduzioni dal greco. Come spiegare ciò?

La "contemplazione" è un termine spirituale, ma preso in prestito alla conoscenza sensibile, perché anch'essa è immediata. E' senza dubbio tipico che fra i cinque sensi del corpo la tradizione ellenica, di natura "visiva', abbia sempre creduto che il contatto più sicuro e intimo con la realtà si realizzi soltanto per mezzo della vista. Gli slavi, sembra, si fidino un po' meno degli occhi, specialmente quando si tratti di persone. Il loro vero valore non si "vede", ma piuttosto si sente". Dobbiamo quindi meravigliarci che gli autori spirituali si esprimono analogicamente in questa linea? Sono meno attirati dalla "visione di Dio", ma desiderano ardentemente sentire la sua presenza. Dato che è ovvio che il "vedere" spirituale si colloca nella mente - "occhio spirituale" - così è ugualmente spontaneo che l'organo del "sentire sia il cuore. Se presso i Padri greci il termine mente ha sostituito il cuore, i russi ritornano volentieri alla parola antica.

Questo ritorno alla kardia appare già nella cosiddetta spiritualità "del sentimento", presso i greci e i bizantini. Perciò nella Filokalia greca, ambedue i termini, la mente e il cuore, coesistono pacificamente con lo stesso significato. Nella lingua russa, tuttavia, la parola um, mente, dà sempre di più l'impressione di una facoltà discorsiva, non intuitiva, perciò viene sempre più radicalmente sostituita dal serdtse, cuore.

In questo processo non c'è niente che contraddice la tradizione. La terminologia divenne equivoca quando gli autori recenti ricevettero la divisione tripartita dalla psicologia sperimentale moderna: la conoscenza, la volontà, il sentimento. Allora gli autori occidentali, mossi dalla paura che l'insistenza sui sentimenti del cuore" potesse degenerare in qualche sentimentalismo banale, nell'irrazionalismo e nel "modernismo", sollevarono obiezioni contro la terminologia russa.

E' vero pertanto che Teofano Recluso vuole a ogni costo sfuggire non soltanto i pericoli di un "sentimentalismo", ma anche del "razionalismo" e distingue con cura, secondo la tradizionale tricotomia orientale, tre zone nella persona umana: il corpo, l'anima e lo Spirito. Quindi anche tre specie di "sentimenti": del corpo, dell'anima e quelli "spirituali" che non sono altro che la voce dello Spirito, unita al desiderio fondamentale di tutta la natura umana e quindi un'autentica sorgente della rivelazione.

Spostati nella sfera dello Spirito Divino, i "sentimenti del cuore", come li intendono i russi, non si possono, avverte N. Losski, neanche comparare con "l'intuitivismo" dei filosofi europei recenti. L'autore è persuaso che, in Occidente, il termine intuizione sia ancora sospettato di soggettivismo psicologico ed è quindi giudicata di secondario valore epistemologico dinanzi alla rigida conoscenza logica concettuale. Al contrario, "la fiducia dei filosofi russi riguardo all'intuizione" si spiega dalla circostanza che è proprio l'intuizione che "fa conoscere i principi metalogici". Traducendo questo linguaggio complicato nei termini degli autori spirituali possiamo dire: esiste una intuizione" puramente umana, che si cerca normalmente di giustificare con un ragionamento logico. L'intuizione che è la voce dello Spirito Santo, è evidentemente "metalogica", superiore a ogni giustificazione per mezzo dei ragionamenti umani, non è la voce della "ragione", ma della "carità", che diventa essa stessa conoscenza. Dio Padre che è la carità (1 Gv 4, 8.16) si conosce per mezzo della carità.

Tutti i maestri spirituali ortodossi hanno insistito fortemente sulla necessità della carità per la contemplazione spirituale. L'invocazione, che nel rito bizantino precede immediatamente la recita del credo, si considera come tipica di questa mentalità: "Amiamoci gli uni gli altri affinché possiamo con unanimità professare: Credo in un solo Dio Padre...". Aggiungiamo anche la spiegazione di Vyseslavcev: "E' profetica per ogni intellettualismo recente l'espressione di Leonardo da Vinci: "Un Grande amore è figlio di una grande conoscenza". Noi, cristiani dell'Oriente, possiamo dire il contrario: Una grande conoscenza è figlia del grande amore".

Teofano giudica questa voce della carità infusa nei cuori mediante lo Spirito di Dio indispensabile per la vita spirituale: "Se vi è qualcuno che non conosce per propria esperienza l'azione della grazia dello Spirito Santo nel suo cuore, bisogna dubitare della sua salvezza. In questo senso il cuore serve da "barometro" della vita spirituale: far penetrare le verità religiose nel cuore (ciò che si fa nella contemplazione, nelle meditazioni) significa conoscere la verità così "come essa lo esige".

Anche la famosa "preghiera di Gesù" diffusa ed elogiata negli ambienti monastici russi, praticata talvolta con l'aiuto di metodi "psicofisici" (per mezzo della respirazione, della posizione del corpo, concentrazione sul cuore), non ha altro scopo che introdurre la preghiera e tutta la vita spirituale, tutti i nostri pensieri "dalla testa nel cuore", nel loro fondo naturale, affinché le voci ossia le esigenze umane del nostro corpo e della nostra anima si uniscano con "lo Spirito nel cuore, il quale metterà fine al disordine che regna nei pensieri e darà la forza a dirigere tutti i movimenti dell'anima".

In linea generale, dicono i contemplativi, ogni cosa può e deve condurci all'unione con il Creatore. Di fatto, però ci troviamo di fronte alle diverse mentalità dei popoli. I greci cercarono Dio e lo scoprirono nell'ordine del cosmos, gli ebrei nella storia. Gli autori spirituali russi lo ricercano nel cuore e ivi godono della sua presenza.

Concludiamo quindi con un testo caratteristico: "Figlio mio, dammi il tuo cuore! Dice il Signore nei Pro 23, 26; perché nel cuore c'è l'origine di ogni bene e anche di ogni male. Quale sei nel cuore, tale sei davanti al volto del Signore".

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La gloria di Dio è l'uomo che vive, è vivo l'uomo formato dalle due mani di Dio: il Verbo e lo Spirito Santo.

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Le Chiese dell'oriente cristiano
VI. Chiesa Ortodossa Siro-malankarese
di Mervyn Duffy




Nella metà del diciassettesimo secolo la maggior parte dei cristiani, detti di S.Tommaso, in India dovette molto soffrire per i tentativi dei portoghesi di latinizzare la loro Chiesa. Questo portò migliaia di fedeli a radunarsi il 16 gennaio 1653  presso la  Coonan Crossa  a  Mattancherry  per giurare di non sottomettersi più all'autorità di Roma. La guida dei dissidenti pensò di ristabilire un rapporto di comunione con la Chiesa Assira dell’Est,  ma questo per una serie di casi non fu realizzato. Allora  nel 1665 il Patriarca Siro acconsentì ad inviare un vescovo per guidare quella comunità a condizione che essa accettasse la cristologia siriaca ed a seguire il rito siro. Questo gruppo  fu così costituito  come chiesa autonoma all'interno del Patriarcato siriano.

Tuttavia, in 1912 si creò una spaccatura in questa Chiesa quando una parte significativa di essa si proclamò Chiesa autocefala e decise la costituzione del Catholicosato Antico dell’Est  in India. Ciò non fu accettato da coloro che erano rimasti fedeli al Patriarca siro.



Le due parti furono alla fine riconciliate nel 1958, anno in cui la Corte Suprema dell’India decretò che soltanto il Catholicos ed in vescovi  dell’autocefalia in comunione  con lui avrebbero  goduto dello stato legale e riconosciuto. Ma nel 1975 il patriarca siro scomunicò e depose il Catholicos e nominò un rivale, una decisione che provocò un’ulteriore spaccatura nella comunità. Nel giugno 1996 la Corte Suprema dell'India prese una decisione secondo la quale:
(a)  Si riconosce valida la costituzione della chiesa che era stata adottata nel 1934 e  si rende noto che essa obbliga ambedue  le fazioni;

(b) si dichiara che esiste una sola Chiesa  siro-ortodossa  in India, attualmente divisa in due fazioni;
(c) si riconosce il Patriarca siro-ortodosso di Antochia come Capo spirituale della  chiesa siriaca universale, quindi anche della parte non costituita in autocefalia, mentre si  afferma che il Catholicos autocefalo  gode di un statuto legale come capo di quella Chiesa  in India  ed  è  il custode delle relative parrocchie e proprietà.



Le dimensioni precise  di queste due Comunità  sono estremamente difficili  da determinare e  la disputa tra le due parti crea sempre un’atmosfera  piuttosto calda. Molti osservatori esterni credono che metà di questa chiesa ortodossa in India, che complessivamente conta circa 2.000.000,  faccia  parte di questa chiesa autocefala, mentre l'altra metà  faccia  parte della chiesa sotto il controllo del Patriarca siro ortodosso.

Dalla comunità siro-ortodossa del  Malankar sono nate nel Kerala altre due chiese. In primo luogo, in parte a causa dell’attività missionaria anglicana, un movimento di riforma si è sviluppato in questa chiesa nel diciannovesimo secolo e coloro che vi hanno aderito hanno formato la Chiesa Siriaca di Mar Thomas nel Malabar, che in gran parte conserva  le pratiche ed i riti liturgici originari. Questa chiesa, che può contare su una valida successione apostolica derivante dalla Chiesa siro-ortodossa tende ad accettare la teologia riformata ed è in comunione con le province anglicane dal 1974. Essa ora ha circa 700.000 membri.



Verso la fine del diciottesimo secolo, un prelato siriaco a Gerusalemme ordinò un monaco locale come vescovo, ma questi non fu accettato dal metropolita del Malankar. Questo vesco allora fuggì al nord e stabilì un gruppo di seguaci  nel villaggio  di Thozhiyoor. Più o meno 10.000 fedeli compongono oggi questa chiesa, che è denominata Chiesa Siriana Indipendente del Malabar di Thozhiyor. Mentre conserva la fondamentale eredità orientale, questo gruppo ha collegamenti con la chiesa di S. Tommaso  ed anche, molto profondi con la Comunione Anglicana.

La chiesa  siro-ortodossa del Malabar  ha  un seminario teologico  a Kottayam,  che fu fondato agli inizi  del diciannovesimo secolo e che attualmente  ha circa 140 allievi.  Ulteriori sviluppi formativi sono stati programmati e realizzati,  compreso il centro “Sophia" per la preparazione teologica di uomini e di donne ed anche una  una scuola di musica liturgica che è affiliata all'università “Mahatma Gandhi“. La chiesa inoltre cura  un certo numero di università,  scuole,  ospedali, orfanatrofi.

Questa chiesa  ha  anche una modesta  tradizione monastica. Ci sono quattro Comunità  di  uomini che seguono una regola monastica ed undici  di preti celibi e laici, ma senza una struttura monastica ben definita. Vi  sono inoltre dieci conventi in cui le suore  vivono una vita di servizio e di preghiera.

Esiste un metropolita per gli USA,Canada ed Europa che ha giurisdizione su 56 parrocchie e 56 preti. Risiede a Buffalo nello Stato di New York.
Vi sono inoltre una parrocchia siro-ortodossa  in Inghilterra ed una in Australia.




TERRITORIO: L'India e la  piccolo diaspora

GUIDA: Baselius Mar Thoma Matthews II (nato nel 1915,  eletto nel 1991)

TITOLO: Catholicos dell'est; Catholicos del  Trono Apostolico di S. Tommaso e metropolita  del  Malankar

RESIDENZA: Kottayam, Stato del Kerala, India

INSIEME DEI MEMBRI: 1.000.000
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Le Chiese dell'oriente cristiano
V. Chiesa Siro-ortodossa  di Antiochia
di Mervyn Duffy




La chiesa  siriaca  ha le sue origini  nell’antica comunità cristiana di Antochia, che è ricordata negli Atti degli Apostoli.  La chiesa di Antiochia divenne presto uno dei maggiori centri  della Cristianità dei primi secoli. Ma il Concilio di Calcedonia nel 451  provocò una spaccatura  in questa comunità. Gli insegnamenti del concilio  furono fatti rispettare dalla autorità imperiali bizantine, ma questo avvenne nelle città mentre invece nelle campagne essi furono ampiamente rifiutati.

Nel sesto secolo, il  vescovo di Edessa, Jacob Baradai, ordinò molti preti e vescovi per sostenere la fede di coloro che avevano rifiutato Calcedonia  trovandosi così costretti a fronteggiare l’imposizione imperiale.  Di conseguenza, questa chiesa fu chiamata Giacobita, con una propria  liturgia chiamata Antiochena o Siro-antiochena e con altre tradizioni proprie e con l’uso della lingua siriaca parlata dalla gente comune.  Alcune Comunità  si stabilirono in Persia, perciò fuori dell’Impero bizantino.

La conquista del territorio da parte dei persiani e  successivamente  degli  Arabi  pose fine alla persecuzione bizantina e creò le circostanze favorevoli  per un ulteriore sviluppo della chiesa siriaca. Ci fu una grande rinascita degli studi teologici siriaci nel Medio Evo, quando questa comunità cristiana ebbe delle fiorenti scuole di teologia, filosofia, storia e scienze.  In quell’epoca la Chiesa siriaca giunse ad avere 20 sedi metropolitane e 103 diocesi  in un territorio che si estendeva fino all’est dell’Afghanistan.  Vi sono inoltre prove dell’esistenza di comunità ortodosse siriache, senza vescovi, presenti in territori molto lontani come il Turkestan ed il Sinkiang. Ma le invasioni dei mongoli, guidati da Tamerlano verso la fine del quattordicesimo secolo, fecero sì  che la maggior parte delle chiese e dei monasteri siriaci fossero distrutti.  Questo contrassegnò l’inizio di un lungo declino, inoltre la chiesa siriaca ebbe a soffrire altre terribili perdite durante e dopo la prima guerra mondiale a causa delle persecuzioni e dei massacri nella Turchia orientale. Tutto ciò fu causa  di  una dispersione diffusa della Comunità.



Anche  oggi la popolazione ortodossa  siriaca si sta spostando. Negli anni 50 e negli anni 60 molti  sono emigrati  dall'Iraq e dalla Siria nel Libano. In Iraq ci sono spostamenti di siro-ortodossi dalla città nordica di Mossul verso Bagdad. L'erosione più seria della comunità ha  avuto luogo nella Turchia sud-orientale, in cui rimane soltanto qualche siro-ortodosso. All’inizio di questo secolo molti siro-ortodossi sono emigrati in Europa occidentale e nelle Americhe, sempre per motivi politici ed economici.

La Chiesa siro-ortodossa ha una forte tradizione monastica, esistono tuttora alcuni monasteri nella provincia di Mardin in Turchia  ed in altre parti del Medio Oriente. Ci sono inoltre tre monasteri nella  diaspora, situati nei Paesi Bassi, in Germania ed in Svizzera.

I  Patriarchi siriaci hanno avuto la loro sede  in Antiochia fino al 1034. Da allora questa è cambiata più volte volta: nel monastero di Mar Barsauma (1034-1293), di  Der ez-Za'faran (1293-1924), ad Homs, in Siria (1924-1959) ed infine a Damasco (dal 1959).



Una certa formazione teologica ancora è fornita dai monasteri. Ma  il seminario ortodosso di  S. Ephrem Siro è l'istituto teologico principale del Patriarcato. È stato fondato in Zahle, nel Libano, ma  poi è stato spostato a Mossul in Iraq,  nel 1939.  E’ stato nuovamente trasferito a Zahle negli anni '60  per essere poi spostato ad  Atchaneh, vicino a Beirut, in 1968. Lo scoppio di guerra civile nel Libano ha causato il trasferimento forzato forzato  degli allievi a Damasco in  Siria. Di qui il Seminario è stato collocato a Sayedniya, vicino  Damasco ed inaugurato dal Patriarca  Siro-ortodosso  il 14 settembre 1996.

Dalla metà del secolo diciassettesimo il Patriarcato Siro ha inglobato una chiesa autonoma dell’India, una parte della quale è ora chiamata Chiesa Siro-ortodossa Malankarese, a capo di questa chiesa vi è il Catholicos  Mar Baselious Thomas I (nato nel 1929, eletto nel 2002). Un Vicariato patriarcale siro-ortodosso è stato costituito per gli USA ed il Canada nel 1949, trasformato in arcidiocesi  nel 1957 con a capo l’arcivescovo  Mar Athanasius Yeshue Samuel. Dopo la morte dell’arcivescovo  nel mese di aprile del 1995, il Santo Sinodo Siriaco ha diviso l’Arcidiocesi  in tre giurisdizioni. Il Vicariato patriarcale per gli Stati Uniti orientali con a capo  Mor Cyril Aphrem Karim (nato nel 1965, eletto nel 1995), che ha  18 parrocchie. Il Vicariato patriarcale   per gli Stati Uniti occidentali che ha cinque parrocchie ed  è sotto la cura pastorale di Mor Clemis Eugene Kaplan (nato nel 1955, eletto nel 1995). Il  Vicariato patriarcale per il Canada che ha cinque parrocchie, ed è guidato da Mor Timotheos Efhrem Aboodi  (nato nel 1930 ed eletto nel 1995). 



Nel 1993 il Santo Sinodo Siriaco ha separato le parrocchie  dei  fedele indiani dell’ America del Nord dall’arcidiocesi  siriaca  ed ha  creato l’arcidiocesi  Siro-ortodossa Malankarese  dell’America del Nord che è sotto la guida pastorale del Metropolita Mar Nicolovos Zachariah,  ed ha 28 parrocchie servite da 32 preti.  Nel settembre 2003 il patriarca Siro-antiocheno ha  ordinato  Mar  Malatius Malke Lahdo Malke come il primo Vescovo del Vicariato patriarcale dell'Australia e della Nuova Zelanda, egli ha la residenza presso la cattedrale di  S. Ephraim a Sydney. Vi sono sette parrocchie in Australia ed una in Nuova Zelanda. La chiesa siro-ortodossa  è rappresentata in Gran-Bretagna da Fr. Touma Hazim Dakkama  e la chiesa  del  Malankar da Fr. Eldhose Koungampillil.





TERRITORIO:
La Siria, Libano, Turchia, Israele, India, diaspora

GUIDA: Patriarca Ignatius Zakka I° Iwas (nato nel 1933,  eletto nel 1980)

TITOLO
: Patriarca ortodosso Siro di Antiochia e di tutto l'est

RESIDENZA: Damasco, Siria

INSIEME DEI MEMBRI: 500.000, più 1.000.000 in India


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La Madre di Dio
nella celebrazione
della Grande Settimana bizantina

P. Ermanno M. Toniolo, o.s.m.

 

Premessa

1. Anche se questa sera non siamo in un contesto liturgico, il solo capace di introdurci a comprendere la presenza di Maria nella Settimana Santa bizantina, ci poniamo tuttavia spiritualmente nel cuore delle celebrazioni, come si svolgono nelle chiese: celebrazioni fatte innanzitutto di ambiente sacro, attorno all'altare e agli altri segni visibili della invisibile Presenza; fatte di icone, che trasmettono incessantemente i loro molteplici messaggi convergenti al Messaggio, che è Cristo; celebrazioni fatte di testi, di riti, di gesti, di canti, che ripresentano il Signore tanto nella sua veste visibile, che può essere percepita dai sensi sotto i veli della Parola e del Sacramento (o di altri segni, come la croce, l'epitaffio, ecc.), ma soprattutto lo ripresentano nella sua realtà divina, fonte di Luce, di Spirito Santo e di vita, raggiungibili solo attraverso le vie della conoscenza spirituale.

Attorno al suo mistero celebrato nell'oggi della comunità che lo celebra, gravitano tutti gli esseri creati, celesti e terrestri, angeli, uomini e creature, anche i demoni, conculcati e spodestati dalla sua umile e onnipotente signoria.

La liturgia bizantina, in modo privilegiato rispetto alla liturgia occidentale, si presenta come una immensa mistagogia: un entrare cioè progressivamente delle creature nel mistero conosciuto, attualizzato, sperimentato; mistagogia della quale il vero mistagogo è Cristo col suo Spirito, mentre tutti gli altri, anche Maria, vi sono da lui introdotti, ciascuno a suo modo e secondo il proprio ruolo.

2. La Pasqua o meglio il Mistero Pasquale, da tutte le chiese e da sempre è stato ritenuto e celebrato come il vertice della rivelazione, il culmine dell'esperienza conoscitiva e mistica, sia comunitaria che personale: la Pasqua del Signore è Pasqua dei fedeli, che rinascono a Pasqua dal fonte battesimale: sono cioè illuminati dal Cristo morto e risorto, immersi nel suo mistero di morte e di Vita.

Si capisce l'importanza vitale della Pasqua, e come essa venga celebrata solennissimamente nell'anno liturgico, fin dall'antichità, con una quaresima di preparazione e cinquanta giorni di festa; come venga settimanalmente celebrata nella pasqua ebdomadaria, la domenica; e come caratterizzi la santificazione delle ore del giorno, specialmente la preghiera della sera (lucernario e vespri a Cristo, luce che non tramonta) e la preghiera del mattino (Cristo, sole di risurrezione e di vita).

3. Evidenziare dunque la presenza di Maria nella Settimana Santa è coglierne il significato più pregnante: la sua maternità protesa alla Pasqua, la sua figura come modello ecclesiale nel cuore stesso del mistero di Cristo, cioè al vertice della rivelazione del mistero salvifico di Dio.

Questo lo fa molto relativamente la liturgia occidentale, anche nella sua forma restaurata dopo il Concilio Vaticano II; lo fa invece, in modo singolare, la liturgia bizantina.

 

 

La Settimana Santa bizantina: prima parte

1. Dal sabato di Lazzaro al Giovedì Santo

La Grande Settimana comincia con il Sabato che precede la domenica delle Palme, dedicato alla risurrezione di Lazzaro: è il "Sabato di Lazzaro". La Settimana Santa si trova così fra due Sabati, che celebrano rispettivamente due risurrezioni, una relativa all'altra: quella di Lazzaro, quella di Cristo (non dimentichiamo che l'annuncio della risurrezione in rito bizantino si fa ancora il Sabato Santo mattina, come fino a poco tempo fa si faceva anche nel rito latino). Fino a questo giorno la liturgia era intrisa del senso del peccato e della conversione; ora entra già nella prospettiva della morte e della risurrezione.

La Domenica delle Palme celebra Gesù che entra in Gerusalemme come Re messianico e Sposo, accompagnato da fanciulli innocenti e da folle umili di popolo, che raffigurano il resto fedele di Israele di cui parlano i profeti: questo Israele, infatti, è come la sposa casta che accoglie il suo Re e Sposo, lo riconosce nella luce dello Spirito, lo acclama e lo confessa, quale Egli è, pur nella veste povera della sua umanità: egli infatti viene come agnello per essere immolato per il riscatto di tutti.

Sul tema comune di Cristo-Sposo, delle nozze di Dio con l'umanità redenta, dell'accoglienza o del rifiuto della redenzione, si articolano i temi dei primi tre giorni della Settimana Santa: il lunedì ha come tema congiunto la figura del patriarca Giuseppe ebreo venduto dai fratelli e il fico maledetto da Gesù, simbolo dell'Israele infedele, che non ha accolto il dono di Dio; il martedì ha per tema la parabola delle dieci vergini che attendono - vigilanti o meno - lo Sposo che viene; il mercoledì commemora la donna - una donna "peccatrice", sottolinea la liturgia - che unse il Signore con il miron: ma è Gesù il Mironeffuso, lo Sposo celebrato dal Cantico dei cantici, venuto a lavare la Sposa - l'intera umanità - nel suo sangue. In questo mercoledì inizia la presenza oscura di Giuda: mentre la peccatrice è il tipo degli uomini che confessando il peccato ricevono il perdono di Dio, Giuda è il tipo di chi non capisce e non accoglie: la donna viene trasfigurata dal perdono, egli resta imprigionato nella sua passione, accecato dal denaro:

"Giuda, il falso,
preso da amore per il denaro,
medita di tradire con inganno te, o Signore,
che sei il Tesoro della vita" (I, p. 177)

Si chiude così la prima parte della Settimana Santa, e si entra nel Triduo sacro.

 

 

2. La presenza di Maria nella prima parte della Settimana Santa.

Potremmo dire che è una presenza sfumata: fa parte dei contesti oranti di tutto l'anno liturgico bizantino. Ma qui, la sua figura di Vergine-Madre mentre il Figlio, lo Sposo dell'umanità, sta per entrare nella sua passione, si carica inevitabilmente di pathos: perché in lei egli ha sposato questa umanità, nascendo; e perché per mezzo di lei noi tutti, peccatori, speriamo il perdono.

Ecco due testi, fra i non molti presenti nell'ufficiatura. Il primo è di Andrea di Creta (+740):

"Dimora santa di Dio,
ti sei rivelata, o Vergine,
in te infatti il Re dei cieli ha abitato corporalmente,
e da te è uscito, bello,
dopo aver riplasmato in sé,
divinamente, l'uomo".

Il secondo è del monaco Cosma di Maiuma (+751):

"O Tuttapura,
che con il Figlio tuo hai confidenza di Madre,
non trascurare la cura di noi della tua stirpe,
perché te sola presentiamo al Signore,
noi cristiani, come offerta gradita".

 

 

La Settimana Santa bizantina: il Triduo Sacro

Con l'immagine soavissima del Signore, Pane celeste e divino che nutre l'universo, e in controluce, con l'immagine di Giuda, il traditore, che medita di vendere l'Inapprezzabile, la liturgia bizantina introduce i fedeli nel Triduo sacro.

È il Theotokion di Compieta che, in certo modo, fa da ponte alle precedenti celebrazioni incentrate su Cristo Sposo, e alle seguenti, che commemorano la sua Passione. Così canta l'ultimo tropario del Grande Mercoledì:

"Tu sola ti sei rivelata
Talamo celeste e Sposa sempre vergine,
portando nel tuo seno Dio
e generandolo incarnato da te senza mutamento.
Perciò ti esaltano tutte le generazioni,
con fede ortodossa,
come Sposa e Madre di Dio".
 

 

1. Il Grande Giovedì

"I Padri divini, che hanno disposto bene ogni cosa, avendo ricevuto questa tradizione dai divini apostoli e dai santi evangeli, ci hanno tramandato di celebrare in questo giorno quattro misteri: il santo Lavacro, la mistica Cena (cioè la consegna dei nostri tremendi Misteri), la Preghiera di Gesù e il Tradimento". Così dice la memoria liturgica.

Il tema principale del Giovedì Santo è la Lavanda dei piedi ("il santo Lavacro") e la Cena. La Lavanda prefigura il lavacro battesimale: ne sono "illuminati" gli apostoli tutti, ad eccezione di Giuda, che invece si ottenebra sempre più, fino a non comprendere ormai nulla del suo Signore, né parole né gesti. La Cena è il Banchetto della comunione: della conoscenza innanzitutto del Mistero eucaristico, e della comunione col Signore della gloria, che trasfigura l'uomo. È qui, in apertura dell'Ufficio mattutino, che si ritrova l'unico accenno a Maria, ma immensamente significativo, nel canone di Andrea di Creta.

"La Sapienza infinita di Dio,
causa universale, elargitrice di vita,
si è fabbricata la casa
dalla Madre pura ignara d'uomo.
Rivestito infatti del tempio del suo corpo,
gloriosamente si è coperto di gloria
il Cristo, Dio nostro!".

È il Banchetto della Sapienza divina, che Gesù imbandisce donando il suo Corpo e il suo Sangue e convocando gli amici: è il Banchetto sacramentale e sapienziale: Maria è alla radice, Madre pura, ignara d'uomo, di quel purissimo Corpo e di quel Sangue divino. Chi se ne ciba con vera fede, è introdotto ai Misteri tremendi, al segreto di Dio.

 

 

2. Venerdì Santo

"Oggi si celebra la memoria della santa, salvifica e tremenda passione del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo... e inoltre anche la confessione salvifica sulla croce del ladro riconoscente crocifisso con lui". Così il Sinassario. Da una parte, si staglia potente la luce della Croce; dall'altra, il ladro che si confessa peccatore e che riconosce in Cristo crocifisso il Signore del Regno:

"Ricordati di me!". In filigrana, l'immagine tortuosa di Giuda, che non volle comprendere: i testi liturgici ripetono, quasi come un ritornello: "Ma l'empio Giuda non volle comprendere!".- Perché?

"Oggi Giuda abbandona il Maestro
e assume il diavolo;
è accecato dalla passione del danaro
e cade fuori della luce, ottenebrato...".

La Croce di Cristo, che per amore si è fatto povero ("il Povero" del salmo 40), povero fino a morire nudo sulla croce, per arricchirci con la sua povertà, non è soltanto il segno di contraddizione predetto da Simeone: è luce per chi l'accoglie, tenebra per chi la rifiuta. Il ladro pentito ne è illuminato, ed entra nel Regno; Giuda all'opposto scende nella morte.

Ma è proprio in questo contesto che s'innalza al sommo la figura di Maria. Nel cuore dell'Ufficio mattutino (l'orthros) viene cantato il proemio e la prima stanza del celebre kontakion di Romano il Melode su Maria al Calvario: il proemio verrà poi ripetuto in tutte le ore diurne. Suona così:

"Venite, esaltiamo tutti
Colui che per noi è stato crocifisso!
Maria lo vide sul legno, e diceva:
Anche se patisci la Croce,
tu sei il mio Figlio e mio Dio!".

Più del ladro, del ladro teologo, che riconosce in Cristo il Re del regno, Maria è giunta al vertice della conoscenza mistica. Si è trattato anche per lei di un lungo e verginale cammino di fede: tutto il kontakion di Romano il Melode mette in luce questo suo progressivo penetrare nelle profondità, inaccessibili alla ragione, della kenosi suprema di Cristo, dell'ultimo abbassamento della sua infinita condiscendenza per salvare l'uomo:

"Vedendo il proprio Agnello condotto al macello,
Maria, l'Agnella, lo seguiva
con le altre donne, consumata dal dolore,
e diceva così: Dove vai, Figlio?
Forse ci sono altre nozze a Cana
e là ora ti affretti per fare di nuovo il vino dall'acqua?
Vengo con te, Figlio?
O meglio, rimango con te?
Dimmi una parola, o Parola,
non passare accanto a me in silenzio, tu che mi hai serbata pura,
perché tu sei il mio Figlio e mio Dio!".

La Settimana Santa contempla spesso la sofferenza di Maria ai piedi della croce. Il titolo "Agnella", che è attribuito a Maria, è un titolo antichissimo. Lo ritroviamo per la prima volta nella Omelia sulla Pasqua di Melitone di Sardi, il quale così descrive Cristo Agnello immolato:

"E' lui, che in una Vergine s'incarnò,
che sul legno fu sospeso,
che in terra fu sepolto
che dai morti fu risuscitato,
che alle altezze dei cieli fu elevato.
E' lui l'Agnello muto,
è lui l'Agnello sgozzato,
è lui che nacque da Maria, l'Agnella pura..."

Ora, secondo l'Esodo l'agnello pasquale doveva essere senza macchia. Tale è Cristo, l'Innocente, l'Immacolato. Ma anche Maria è detta Agnella, e non solo con riferimento pasquale, come se soltanto la sua maternità sia orientata all'immolazione pasquale; è detta Agnella, in simmetria con l'Agnello, anche per la sua purezza, la sua verginale immacolata bellezza. I libri liturgici sono attenti ad indicare la purezza dell'Agnella. Al momento della sua presentazione al tempio era già l'Agnella senza macchia, la pura colomba. A Natale ugualmente si canta l'Agnella senza macchia che sta per dare alla luce l'Agnello: perché l'Agnello nasce per essere immolato. Ma è soprattutto sul Golgota che l'Agnella senza macchia viene cantata con una insistenza sorprendente. Agnella immacolata, immacolatissima Agnella (Panamòmetos): son titoli che attirano l'attenzione sull'ineffabile purezza della Vergine: Agnella vittima che si unisce al suo Agnello immacolato per portare con lui il peccato del mondo. Più la Vittima è pura, più si accosta a Dio; più è accetta, più collabora alla Redenzione. Un tropario delle lodi del Venerdì Santo, mette in risalto questa sua partecipazione alla sofferenza del Figlio:

"Oggi la Vergine immacolata,
vedendoti innalzato sulla croce, o Verbo,
soffriva nelle sue viscere di madre,
aveva il cuore trafitto amaramente,
e, gemendo con dolore dalle profondità dell'anima,
si lacerava le guance, si strappava i capelli,
consunta dalla sofferenza.
Perciò, battendosi il petto, esclamava flebilmente:
Ahimè Figlio divino, ahimè Luce del mondo!
Perché sei tramontato ai miei occhi,
o Agnello di Dio?" (II, pag.90).

Accanto al Signore che volontariamente si immola, il solo Santo, l'Immacolato per natura, può stare la Madre, e; in gradini più bassi, il vergine Giovanni, le donne perdonate dai loro peccati e ora fedeli. Quando Gesù dall'alto della croce vide il supremo dolore della Madre, contemplò anche questa meravigliosa purezza che aveva ammirato prima della creazione del mondo. Mai come in questo momento la Madre sua era paragonabile ad un giglio tra le spine. Maria è la tutta pura.

Perciò è la sola che possa stare sempre accanto al Figlio; la sola che possa con libertà parlargli di noi, come afferma esplicitamente un altro tropario di questo Grande Venerdì:

"Poiché non abbiamo parrisia
per i molti nostri peccati,
o Madre di Dio Vergine,
supplica tu il Nato da te...
Non sdegnare le suppliche dei peccatori,
o Tuttasanta,
perché è misericordioso e potente nel salvare
lui che ha accettato anche di patire per noi".

Ma quando il Figlio della Tuttapura è steso sul legno, la sua contemplazione è inchiodata alla croce, senza staccarsene: vede, guarda, contempla. L'ultimo grado della conoscenza spirituale quaggiù, che necessariamente diventa comunione e fusione, è l'annientamento del Figlio-Dio, fino ad essere brutalmente legato, schiaffeggiato, flagellato, coronato, sputato in faccia, condannato e ucciso: e tutto questo, solo perché egli lo vuole! L'Agnella contempla il Figlio, l'Agnello, così umanamente sfigurato: lo contempla immolato, ingiustamente condannato, percosso, inchiodato, crocifisso, morto... I riferimenti a Cristo in croce sono innumerevoli. Il tropario delle lodi del Venerdì della Passione si rivolge alla Madre:

"Vedendoti appeso al legno, o Cristo,
te, il Creatore di tutte le cose e Dio,
Colei che senza seme ti aveva generato,
diceva amaramente: Figlio mio,
dove è scomparsa la bellezza del tuo volto?
Non posso vederti iniquamente crocifisso" (II, pag. 91).

Si potrebbe dire che tutta l'attenzione di Maria è centrata su di Lui che muore in croce. Più che la dolorosa passione, è la sua morte che Lei medita; e questa contemplazione di dolore la fa partecipare al suo sacrificio. Maria, Agnella pura, intrisa di dolorosa passione, "vede" Gesù, nella sua misteriosa indecifrabile natura divina nascosta sotto il velo di carne, ora sfigurato e confitto alla croce: vede, contempla, crede. Nonostante Cristo muoia sulla croce, Maria crede in Lui, crede che Lui è Dio. Ha percorso anche lei il suo cammino di fede, e cioè di conoscenza progressiva del Mistero che ora le si rivela in tutta la sua cruda e onnipotente realtà: le stanze del kontakion di Romano, a partire dalla prima che viene cantata il Venerdì Santo, lo mostrano in modo inequivocabile: anche lei, superando lo stupore proprio di ogni creatura davanti alle manifestazioni divine, è stata introdotta nel Mistero: ieri l'angelo l'aveva introdotta nel Mistero dell'incarnazione, oggi è il Figlio che la introduce nel mistero della sua Passione, con la quale liberamente vuol salvare l'uomo.

Proprio per questo l'Ufficio del Venerdì Santo ripete come ritornello anche nelle Grandi Ore il proemio di Romano il Melode, quasi aggrappandosi alla statura della Madre-Vergine, icona dell'itinerario di fede e del vertice umano della contemplazione:

"Maria lo vide sul legno e diceva:
anche se sopporti la croce,
tu sei il mio Figlio e mio Dio!" (II, pag. 101).

 

 

3. Il Grande Sabato

Scrive Costantino Andronikov:

"Liturgicamente, il sabato introduce alla domenica; il Grande Sabato, alla domenica di Pasqua. Metafisicamente, ma anche esistenzialmente, il mistero del Sabato si rivela nell'Ottavo Giorno del Signore. Tutto è compiuto e tutto è in germe. La condiscendenza vertiginosa del Figlio di Dio raggiunge il punto estremo della sua curva. Si sta abbozzando la risalita sfolgorante. La Kènosi è giunta al suo termine; la glorificazione è già intrapresa. La notte si chiude nel riposo; sta per spuntare il giorno senza tramonto. Il fondo dell'abisso assoluto dell'abbandono, perfino da parte del Padre, nella solitudine mortale, è stato raggiunto. Sta per cominciare l'ascensione del Re dell'universo con la sua Chiesa nascente, nella pienezza trinitaria. Tutti gli uomini, vivi o morti, possono fin d'ora stringere la mano che li aveva all'inizio formati dal nulla e che li innalza verso la vita eterna. Tutti gli uomini possono ormai rispondere alla chiamata della Parola incarnata che li ha fatti a sua immagine e che ha condiviso la loro sorte fino al sepolcro, tutti, a partire dal primo che conteneva l'umanità in germe: il Cristo è andato a cercare Adamo in capo al mondo e "lo ha trovato sotto terra" (prima stanza). Il Vivente afferra il morto. La salvezza si apre".

Il tema liturgico del Sabato Santo è così indicato dal Sinassario:

"Oggi si celebra la sepoltura del Corpo divino e la discesa agli inferi del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo. Per questi misteri il genere umano è stato richiamato dalla corruzione alla vita eterna".

L'azione liturgica più singolare, che avvolge di profondo significato mistagogico e di intima commozione i fedeli, è il rito dell'epitaphion. Così Maria Bianco descrive il termine epitaphion e il rito del Sabato Santo:

"Epitafion. In greco classico con questo termine si intende soprattutto l'elogio funebre; ma nella lingua liturgica più abitualmente significa il velo ricamato che rappresenta il corpo del Signore nell'atto della sua sepoltura. Esso è oggetto di specialissima venerazione il venerdì e il sabato santo. Tutto l'anno questo velo è onorevolmente custodito in Chiesa, in un quadro, assieme alle sante icone; ma il venerdì santo è deposto sull'altare e su di esso si appoggia il libro dei santi evangeli. Poi a Vespro, al canto dell'Apolitikion Il nobile Giuseppe, l'epitafion è solennemente riposto in un'arca, figura del santo Sepolcro, tutta ricoperta di fiori e di profumi. Là tutto il popolo accorre a rendergli omaggio. Ci si prostra due volte fino a terra, facendosi il segno di croce, si bacia il Vangelo e l'immagine di Cristo impressa sul velo, poi di nuovo ci si prostra fino a terra, segnandosi. C'è pure l'abitudine di dare ai fedeli, in segno di benedizione, qualche fiore che abbia toccato la santa immagine. Davanti a quest'arca il sabato santo si cantano gli enkomia, in persona delle sante mirofore; l'epitafion nella sua arca è portato in processione fuori del tempio al canto di un lungo tropario proprio. Questa processione notturna è uno dei momenti più forti della pietà popolare in tutto l'anno liturgico. Infine, all'inizio della veglia pasquale, la notte di Pasqua, l'epitafion è tolto dall'arca e deposto di nuovo sull'altare, dove resterà fino alla vigilia dell'Ascensione" (M. Bianco, Liturgia orientale della settimana santa, vol. II, p. 248).

 

 

Gli "Enkomia" o Elogi funebri o Lamenti o Compianto

Gli Enkomia sono una lunga serie di tropari suddivisi in tre stanze, e cantati a cori alterni assieme ai versetti del salmo 118: 156 versetti, 156 tropari. Dal punto di vista celebrativo, essi sono il cuore della commemorazione liturgica. Collocati nell'ufficio mattutinale (orthros), fungono da intimo legame tra la Passione consumata in Croce, la folgorante discesa negli inferi, il pianto delle mirofore al sepolcro, la trepida attesa della risurrezione. Come in una tragedia greca - si tratta infatti della suprema Tragedia, diventata vita per il mondo - il coro, composto da un piccolo gruppo: la Madre, Giovanni, Giuseppe, Nicodemo, le pie donne, chiama a raccolta tutto il creato e dà voce agli eventi, dalla crocifissione alla sepoltura, dalla discesa negli inferi all'annuncio già prossimo della vittoria pasquale. Trabocca, nei testi, lo sconvolgente stupore davanti ai due poli che qui si toccano e si incrociano: l'infinita grandezza, potenza, signoria del Verbo, e l'estrema umiliazione umana che ha voluto spontaneamente subire con la sepoltura di tre giorni, per scardinare le potenze dell'inferno che ci tenevano schiavi e far uscire definitivamente i morti dalla morte. Tutto il creato è spettatore attonito di questo evento divino: trema, condivide il pianto, adora e attende.

Davanti alla sepoltura di Cristo, gli Angeli, contemplando morto il loro Creatore, rimangono esterrefatti e si coprono il volto: perché egli è la Vita che non può morire. Il sole si oscura, perché è tramontato il Sole senza tramonto; la terra è sconvolta fin nelle viscere, quando il Verbo che è luce si nasconde sotto terra. Soltanto gli uomini ciechi ed empi, mentre Dio muore, insultano e bestemmiano.

Lo stesso Ade, che si apre ad accogliere come vinto il Signore che è stato crocifisso, viene sgominato e vinto dal Salvatore,

"il Vivificante, che lo spoglia delle sue prede e fa risorgere i morti da secoli".

In questo contesto immenso, che è insieme pianto e canto, primeggia la Madre: i testi le assegnano un posto di privilegio. È la Vergine-Madre, colei che lo ha generato; è l'Agnella che l'ha visto morire, ed ora lo deve consegnare al sepolcro. Il suo cuore è una diga che si apre in torrenti di lacrime:

"O Dio e Verbo! Mia gioia!
Come potrò sopportare la tua sepoltura di tre giorni?
Ora le mie viscere di madre sono dilaniate!".
"Chi mi darà pioggia e fonti di lacrime
per piangere il mio dolce Gesù?
diceva la Vergine Sposa di Dio".

E chiamando al compianto tutte le creature, sembrava dir loro così:

"Monti e vallate, e voi figli dell'uomo,
e creature del cosmo, piangete!
fate cordoglio con me, la Deipara!".

Il dolore della Vergine, però, anche se straripante, era insieme pienezza di adorazione, di cui faceva omaggio supremo al suo Figlio Dio:

"Gesù, mia gioia, tu amata mia luce,
perché t'han posto in un buio sepolcro?
oh, misterioso umiliarsi di Dio!".

Ancor più grande dell'immenso dolore di Madre e di Theotokos è la fede di Maria: una fede discepolare, protesa come tutta la sua vita verso la Pasqua del Signore. Nel contesto della Settimana Santa bizantina, fortemente orientata alla Risurrezione, gli innografi hanno voluto quasi ritrarre nei sentimenti della Madre l'attesa e la speranza dell'uomo, che Cristo ha redento e immerso nei fulgori della risurrezione: anche se tuttora siamo nel nostro Sabato Santo, segnato dalla morte, e dalla figura di un mondo che sarà trasfigurato. L'icona di Maria del Sabato Santo è l'ultima icona della speranza cristiana: un'immagine evangelica di Maria, già tratteggiata da due testi di Luca: "Maria conservava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore" (Lc 2, 19.51). La Vergine durante la vita del Signore aveva ascoltato e accolto con fede e custodito gelosamente nel cuore non solo la predizione dolorosa della sua morte, ma anche l'annuncio della sua gloriosa risurrezione dopo tre giorni. Qui, al sepolcro del Figlio, davanti a una tomba sigillata - sepolcro nuovo come il suo grembo di vergine da cui era nata la Vita - è Lei che ricorda al Figlio sepolto la fedeltà alla parola che ha dato:

"Fiumi di lacrime effonde la Madre
al monumento ove giaci sepolto;
ti grida: Sorgi, perché l'hai predetto!".

È su questa fede dolorosa e fiduciale della Madre, compartecipata dalla Chiesa, e sulla fedeltà del Signore, del Vivente e Vivificante, alla sua promessa, che poggia la speranza dell'uomo; se ne fa eco il coro delle mirofore:

"Ritorna presto, Signore, tra i vivi,
per dissipare l'affanno profondo,
di lei che, Vergine, t'ha generato!".

E rivolto alla Madre-Vergine, a chiusura degli Enkomia, è il coro delle mirofore, ma in loro siamo tutti noi che la supplichiamo:

"O Vergine, rendi degni i tuoi servi
di vedere la risurrezione del Figlio tuo!".

Non poteva mancare, a tanta fede, a un interrogativo che lo chiamava direttamente in causa sulla sua parola, la risposta di Cristo. Com, secondo i libri sacri, Dio entrò in scena e rispose a Giobbe e al suoi amici; qui, dal fondo dell'Ade dove ha richiamato a vita Adamo ed Eva perduti, il Signore risponde al pianto e all'attesa della Madre. È il primo tropario dell'Ode IX, opera del monaco Cosma di Maiuma:

"Madre, non piangere sopra di me,
vedendo chiuso in un buio sepolcro
l'eterno Figlio che desti alla luce:
risorgerò con potenza e splendore
e innalzerò fino a gloria immortale
chi con amore e con fede ti canta".

Siamo giunti così alle soglie della Risurrezione. Sta già tremando la terra; sta per aprirsi il sepolcro: la pietra sarà rotolata inutile fuori della tomba. Ma chi contemplerà per primo il volto del Risorto, portando a compimento definitivo il proprio itinerario di dolore, di fede e di conoscenza? Certo, la Madre. Introdotta per prima nel mistero dell'Incarnazione, entrata per prima in quella della Risurrezione, resta per tutti - prima fra le mirofore - l'Annunciatrice pasquale:

"Illùminati, illùminati, o nuova Gerusalemme,
la gloria del Signore è sorta sopra di te!
Danza ora ed esulta, o Sion,
e tu rallegrati, o pura Madre di Dio,
nella risurrezione del Figlio tuo!"
(Giovanni Damasceno, Ode IX del Canone)

 

a cura del Centro Russia Ecumenica

00193 Roma – Vicolo del Farinone, 30

tel 06-6896637

Pubblicato in Chiese Cristiane
Domenica, 17 Aprile 2005 20:11

La Chiesa Ortodossa Etiopica (Mervyn Duffy)

Le Chiese dell'oriente cristiano
IV. Chiesa Ortodossa Etiopica
di Mervyn Duffy




Secondo una antica tradizione il primo evangelizzatore dell’Etiopia è stato San Frumenzio, un cittadino romano, proveniente da Tiro che era naufragato lungo il litorale africano del Mar Rosso. Conquistò la fiducia dell’Imperatore ad Aksum e portò alla conversione suo figlio Ezana che in seguito divenne imperatore, questi successivamente, intorno all’anno 330, introdusse il Cristianesimo in Etiopia come religione di stato. San Frumenzio fu ordinato vescovo da San Atanasio di Alessandria e tornò in Etiopia per continuare l’evangelizzazione del paese.

Intorno all'anno 480 i "Nove Santi" giunsero in Etiopia ed iniziarono la loro attività missionaria. Secondo la tradizione venivano da Roma, da Costantinopoli e dalla Siria. Avevano lasciato i loro paesi a causa della loro opposizione alla Cristologia di Calcedonia e probabilmente avevano risieduto per un certo tempo nel Monastero di San Pacomio in Egitto. La loro influenza, i relativi collegamenti tradizionali con i Copti, spiega probabilmente l'origine del rifiuto da parte della chiesa etiopica di Calcedonia. Ai "Nove Santi" vengono attribuiti, per gran parte, l’eliminazione del residuo paganesimo in Etiopia, l’introduzione della vita monastica, un sostanziale contributo alla sviluppo della letteratura religiosa in Ge’ez con la traduzione della Bibbia e con altri lavori religiosi nella lingua classica etiopica.

La chiesa etiopica raggiunse il suo massimo livello nel quindicesimo secolo quando si vide una copiosa e creativa produzione teologica e di spiritualità ed una Chiesa impegnata in una vasta attività missionaria.

L'esperienza molto negativa del contatto con i missionari cattolici portoghesi nel sedicesimo secolo è stata seguita da secoli di isolamento da cui la chiesa etiopica è emersa soltanto recentemente.

Questa chiesa è unica nel mantenere molte pratiche ebree quali la circoncisione ed il rispetto delle leggi riguardanti gli alimenti ed il sabato, per cui per loro i giorni liturgici sono il sabato e la domenica. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che la prima presenza del Cristianesimo in Etiopia sembra essere originaria dalla Palestina attraverso l’Arabia del Sud. Ma vi è anche una tradizione secondo la quale il Giudaismo è stato conosciuto e parzialmente accettato dagli Etiopi prima ancora dell’arrivo del Cristianesimo.



La Chiesa Etiopica ha avuto anche alcuni sviluppi cristologici insoliti. Una scuola di pensiero ha asserito ed insegnato che l’unione della natura umana e di quella divina in Cristo ha avuto luogo soltanto dopo il suo Battesimo. Ma questo insegnamento non è mai stato ufficiale e non ha avuto lunga durata.

La liturgia etiopica trae le sue origini da quella copta di Alessandria ed è stata influenzata da quella siriana. Essa è sempre stata celebrata nell’antica lingua Ge’ez fino a tempi molto recenti. Oggi una traduzione della liturgia in amarico è sempre più usata nelle parrocchie. Questa liturgia, perfettamente adattata all’ambiente, si caratterizza per l’uso di strumenti musicali, tipo i sistri ed i tamburi ed anche per un altro elemento, che crediamo renda la Chiesa Etiopica unica tra le antiche chiese cristiane: le danze liturgiche. Altro elemento caratteristico è il fatto, di sapore ebraico, che nello loro chiese in un luogo chiamato il Santo dei Santi viene custodito il Tabot, una specie di Arca dell’Alleanza , che viene particolarmente venerato nella Festa di Timkat (Epifania). L’interno delle chiese che è tipico, è delimitato in vari spazi: delle donne, degli uomini, di coloro che comunicheranno, del clero. Altra importante festa per il rito etiopico è quella del Maskal o Ritrovamento della S. Croce. E’ sempre viva la forte tradizione monastica.





Fin dai tempi più antichi tutti i vescovi in Etiopia furono egiziani copti nominati dal Patriarcato Copto e per molti secoli l’unico vescovo in Etiopia fu un Metropolita copto. All’inizio del ventesimo secolo la chiesa etiopica iniziò a fare pressione sul Patriarcato copto per una autonomia più ampia e per la possibilità di avere finalmente dei vescovi etiopici di nascita. Nel 1929 furono finalmente ordinati quattro vescovi etiopici che fossero di aiuto al Metropolita copto. Con l’aiuto dell’Imperatore Hailè Selassiè (che regnò dal 1930 al 1974), fu raggiunto nel 1948 un accordo con il Patriarcato Copto per cui alla morte del Metropolita Cirillo si sarebbe fatta l’elezione di un Metropolita etiopico. Così quando nel 1951 Cirillo morì un’assemblea di preti e di laici scelse come Metropolita un etiope Basilios, e votò per l’autonomia della Chiesa d’Etiopia.

Finalmente nel 1959 il Patriarcato copto riconobbe il metropolita Basilios primo patriarca della Chiesa Ortodossa Etiopica.

Una facoltà ortodossa etiopica di teologia, il Trinity College, ha funzionato come componente dell'Università di Addis Abeba fino a quando nel 1974 il governo ne ordinò la chiusura. Nello stesso anno la Chiesa Etiopica fondò ad Addis Abeba l’Università teologica San Paolo per la formazione dei candidati al sacerdozio. Per lungo tempo questa è stata il luogo della formazione per gli uomini ortodossi etiopici che aspiravano al sacerdozio. Un problema importante perché è stato valutato nel 1988 che nel paese vi erano 250.000 sacerdoti . Per fornire loro un livello di formazione sufficiente, sei centri di formazione del clero sono stati recentemente istituiti in varie zone dell'Etiopia. Ora si prevede che si arrivi anche ad avere per ogni parrocchia una Scuola Domenicale di formazione.

Specialmente negli ultimi anni, la chiesa etiopica ha assunto un ruolo attivo nel servizio di coloro che si trovano in condizioni disagiate e di povertà. Ha patrocinato sforzi , impegni e programmi a loro favore e sono stati anche realizzati a cura della Chiesa vari orfanotrofi.

La chiesa ortodossa etiopica è stata la religione di stato per il paese fino alla rivoluzione marxista del 1974; questa depose l’Imperatore e mise il colonnello Mengistu Haile Mariam a capo di governo. Molto presto la rivoluzione separò ufficialmente la Chiesa e lo Stato e nazionalizzò la maggior parte delle terre della Chiesa. Questo fu il segnale di inizio di una campagna contro i gruppi religiosi del paese.

A seguito del crollo del governo comunista nel mese di maggio 1991, il patriarca Merkorios (eletto nel 1988) fu accusato di collaborazionismo con il regime di Mengistu ed egli nel settembre in seguito a pressioni si dimise dalle sue funzioni di Patriarca. Il 5 luglio 1992, il Santo Sinodo Etiopico scelse l’Abuna Paulos come quinto patriarca della Chiesa Ortodossa Etiopica.

Egli era stato imprigionato per sette anni dalle autorità marxiste dopo che il patriarca Theophilos (deposto nel 1976 ed assassinato in prigione nel 1979) lo aveva ordinato vescovo nel 1975 senza l’approvazione del governo. Paulos fu liberato nel 1983 ed andò in esilio per alcuni anni negli Stati Uniti. Il Patriarca deposto, Merkorios, rifugiatosi in Kenia, ha rifiutato di riconoscere l’elezione di Paulos.

Nell’ottobre del 1994 il patriarca Paulos ha proceduto alla riapertura del College Teologico della Trinità nella capitale etiopica. Il College ha cominciato a funzionare con 50 allievi nei corsi di laurea e 100 che studiano per i diplomi in teologia.




I dati statistici segnalati sono stati forniti dal Consiglio Ecumenico delle Chiese. Ma alcune fonti credibili etiopiche asseriscono che i cristiani ortodossi etiopi dovrebbero essere circa 30 milioni, questo basandosi sul fatto che gli ortodossi etiopici sono circa il 60% su una popolazione totale di 55 milioni.

In Australia vi sono comunità ortodosse etiopiche in ciascuna delle capitali dei vari stati. Le tre parrocchie esistenti in Gran Bretagna sono state guidate dal Vescovo Yohannes fino alla sua morte nel mese di dicembre del 1997. Dopo di lui il Rev. Berhanu Beserat è stato chiamato a capo della Chiesa Ortodossa Etiopica in Europa.

Negli Stati Uniti, l’arcivescovo etiopico Yesehaq non ha riconosciuto l'elezione del patriarca Paulos e d ha rotto la comunione con il Patriarcato nel 1992. In risposta, il Santo Sinodo Etiopico lo ha sospeso dalle sue funzioni ed ha deciso di dividere la l’arcidiocesi esistente dell’emisfero occidentale in tre giurisdizioni (USA e Canada, l'America Latina ed i Caraibi, Europa occidentale). Ha nominato Abuna Matthias come nuovo arcivescovo degli Stati Uniti e del Canada. Successivamente il Canada è stato costituito come diocesi separata sotto la guida del vescovo Matthias che risiede a Londra, nell’Ontario. Tuttavia l’arcivescovo Yesehaq continua ad avere ancora un certo seguito da parte di molti etiopi ortodossi risiedenti in America. Complessivamente ci è sono oltre 100.000 ortodossi etiopici nell'emisfero occidentale, compreso un numero significativo di convertiti nell’India dell’ovest.






TERRITORIO: L'Etiopia, piccola diaspora.

GUIDA: S. S. Abuna Paulos Gebre Yhoannis (nato nel 1935, eletto nel 1992)

TITOLO: Echege della S. Sede di S. Tekle Haimanot di Debre Libanos, Arcivescovo di Axum

RESIDENZA: Addis Abeba, Etiopia

INSIEME DEI MEMBRI: circa 30.000.000

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Chiesa Ortodossa Greca
Il ripristino del diaconato femminile
di Phyllis Zagano


 



Il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa di Grecia ha votato ad Atene l'8 ottobre 2004 la restaurazione del diaconato femminile. Tutti i membri del Santo Sinodo – 125 metropoliti e vescovi e l'arcivescovo Christodoulos capo della Chiesa di Grecia - avevano riflettuto sul tema. La decisione non riguarda direttamente l'arcidiocesi greca ortodossa d'America, che è un'eparchia del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli.  Le province ecclesiastiche greche del Patriarcato ecumenico hanno ottenuto la loro indipendenza da Costantinopoli nel 1850 e sono state proclamate Chiesa autocefala di Grecia.

Mentre le diaconesse erano virtualmente scomparse dal IX secolo, il fatto della loro esistenza era ben noto, e la discussione circa la restaurazione del diaconato femminile nell'ortodossia è iniziato nella seconda metà del XX secolo. Due libri sul tema di Evangelos Theodorou, Heroines of Love: Deaconesses Through the Ages (1949) e The “ordination” or “Appointment” of Deaconesses (1954), hanno documentato l'ordinazione sacramentale delle donne nella Chiesa delle origini. Il suo lavoro è stato completato nella Chiesa cattolica da un articolo pubblicato da Cipriano Vagaggini, un monaco camaldolese, in Orientalia Christiana Periodica nel 1974. Gli studi più significativi sul tema concordano sul fatto che le donne sono state ordinate al diaconato con un sacramento all'interno della iconostasis all'altare dai vescovi, nella Chiesa delle origini. Nel corso della loro ordinazione, le diaconesse ricevevano la stola diaconale e la comunione, condividendo la stessa qualità pentecostale delle ordinazioni episcopali, sacerdotali o diaconati maschili.

Nonostante il declino delle ordinazioni di diaconesse all'inizio del Medio Evo, l'Ortodossia non l'ha mai proibita. Nel 1907 una commissione della Chiesa ortodossa russa ha registrato la presenza di diaconesse in ogni parrocchia della Georgia; il popolare santo ortodosso del XX secolo, Nektario (1846-1920) aveva ordinato due diaconesse nel 1911; e fino agli anni 50 alcune monache greche ortodosse divennero diaconesse nei monasteri. Nel 1986 Christodoulos, allora metropolita di Demetrias e ora arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, ha ordinato una diaconessa secondo il rituale di s. Nektarios, l’antico testo bizantino che s. Nektario usava.

Numerose conferenze inter-ortodosse hanno richiesto la restaurazione dell’ordine, tra cui il Simposio interortodosso di Rodi, nel 1988, che affermò esplicitamente "l'ordine apostolico delle diaconesse dev'essere fatto rivivere". Il simposio notò che "la restaurazione di questo antico ordine dev'essere presa in considerazione a partire dagli antichi prototipi testimoniati in molte fonti e con le preghiere rinvenute nelle Costituzioni Apostoliche e negli antichi testi liturgici bizantini”.

Al Santo Sinodo di Atene del 2004 il metropolita Chriysostomos di Calcedonia ha avviato la discussione sul tema del ruolo delle donne nella Chiesa di Grecia e sul recupero dell'ordine del diaconato femminile. Nella discussione che ne èseguita, alcuni vescovi più anziani apparentemente hanno dissentito dalla completa restaurazione dell'ordine. Anthimos, vescovo di Tessalonica, ha poi riferito al Kathimerini English Daily "per quanto ne so, l'inserimento delle donne nella polizia e nell'esercito è stato un fallimento, e noi vogliamo tornare su questo vecchio argomento?".

Mentre l'aspetto di servizio sociale del diaconato femminile è ben noto, il Santo Sinodo ha deciso che le donne potessero essere promosse al diaconato solo in remoti monasteri e a discrezione dei singoli vescovi. La decisione limitativa di restaurare solo il diaconato femminile monastico non è piaciuta ad alcuni membri del sinodo. La Athens News Agency ha riportato che Chrysostomos, vescovo di Peristeri, ha detto che "il ruolo delle diaconesse deve svolgersi nella società e non nei monasteri". Altri membri del Santo Sinodo si sono detti d'accordo e hanno sottolineato il fatto che il ruolo delle diaconesse dev'essere sociale, per esempio l'amministrazione dell'estrema unzione ai malati.

Il voto del Santo Sinodo per restaurare il diaconato femminile in determinate circostanze potrebbe essere l'idea più progressista che la Chiesa ortodossa può offrire al mondo. Il documento non usa la parola ordinazione, ma permette specificamente ai vescovi di consacrare (kathosiosi) monache anziane nei monasteri delle loro eparchie. Ma i vescovi che scelgono di pro-muovere le donne al diaconato hanno solo la liturgia bizantina antica, che prevede la stessa cheirotonia, imposizione delle mani, per le diaconesse e per gli ordini maggiori: vescovo, prete e diacono. Alcuni studiosi (per lo più occidentali) hanno affermato che l’ordinazione storica delle diaconesse non era una cheirotonia, o ordinazione agli ordini maggiori, ma una cheirotesia, una benedizione che significa insediamento in un ordine minore. La confusione è comprensibile, dal momento che i due termini sono stati talvolta usati in modo indiscriminato, ma altri studiosi sono ugualmente convinti che le donne sono state ordinate all’ordine maggiore del diaconato. La prova sarebbe nella liturgia che i vescovi utilizzano. Al momento vi è una sola liturgia e una sola tradizione con la quale creare una diaconessa nel rito bizantino, ed è con ogni evidenza un rituale di ordinazione per il “servo che dev’essere ordinato all’ufficio di diaconessa”.

Anche il documento sul diaconato pubblicato dalla Commissione teologica internazionale del vaticano del 2002 ammette che “il canone 15 del Concilio di Calcedonia (451) sembra confermare il fatto che le diaconesse erano veramente ‘ordinate’ dall’imposizione delle mani (cheirotonia)”. Nonostante l’uso peggiorativo delle virgolette qui e altrove nel documento quando vengono menzionate le ordinazioni storiche di donne al diaconato, la commissione vaticana non sembra intenzionata a negare la storia alla quale ora la Chiesa di Grecia è nuovamente tornata. Inoltre, il documento vaticano indica che la pratica dell’ordinazione delle diaconesse secondo la liturgia bizantina è durata almeno fino all’VIII secolo. Non esamina la prassi ortodossa dopo il 1054.

La ripresa dell’ordine del diaconato femminile nella Chiesa di Grecia dovrebbe partire nell’inverno 2004-2005. l’ordinazione odierna (cheirotonia) delle donne fornisce una prova e un sostegno per la restaurazione del diaconato femminile nella Chiesa cattolica, che ha riconosciuto la validità dei sacramenti e degli ordini ortodossi. Nonostante la distinzione nel canone 1024 (“Solo un maschio battezzato riceve validamente l’ordinazione sacra”) si può presumere la possibilità di una deroga dalla legge, come suggerito dalla Canon Law Society of America nel 1995, per consentire l’ordinazione diaconale delle donne (la storia del canone 1024 è chiaramente uno dei tentativi di escludere la donna dal sacerdozio, non dal diaconato).

In effetti, la Chiesa cattolica ha già indirettamente riconosciute come valide le ordinazioni di donne effettuate dalla Chiesa apostolica armena, una delle Chiese orientali che ordina diaconesse. Vi sono due recenti dichiarazioni di unità – accordo di reciproco riconoscimento di sacramenti ed ordini – tra Roma e la Chiesa armena, una firmata da Paolo VI e Catholicos Vasken I nel 1970, l’altra tra Giovanni Paolo II e Catholicos Karekein I nel 1996.

Questi accordi sono significativi, perchè la Chiesa apostolica armena ha conservato il diaconato femminile fin nei tempi moderni. Il catholicossato armeno di Cilicia ha almeno quattro donne ordinate. Una, sorella Hrip’sime, che vive ad Istanbul, compare nel calendario ufficiale della Chiesa pubblicato dal patriarcato armeno di Turchia come segue: “Madre Hrip’sime protodiaconessa nel 1984; madre superiora nel 1998. membro dell’oridine kalfayano”. Madre Hrip’sime ha lavorato per restaurare il diaconato femminile come ministero sociale attivo, e per molti anni è stata direttore generale del Bird’Nest, un orfanotrofio che era anche scuola e centro sociale vicino a Beirut, in Libano. Il suo diaconato e quello di altre tre donne, non è certo monastico.

La risposta futura della Chiesa al passato documentato e al presente in cambiamento promette di essere interessante. Il tono del documento della Commissione teologica internazionale rivela un tentativo di escludere le diaconesse, ma la questione è significativamente lasciata aperta: “Spetta al ministero del discernimento che il Signore ha stabilito nella sua Chiesa pronunciarsi con autorità su questa questione”.
È sempre più chiaro che nonostante la non volontà della Chiesa cattolica di dire sì alla restaurazione del diaconato femminile come ministero ordinato dalla Chiesa cattolica, non può nemmeno dire di no.


(da Adista n. 16, febbraio 2005)
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La fede nell'incarnazione del Verbo non si ferma all'avvenimento storico puntuale della nascita di Gesù a Betlemme, ma è fede nella sua presenza in noi tuttora attraverso il dono dello Spirito ed i suoi frutti.

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Martedì, 29 Marzo 2005 23:55

Ortodossi. Tensioni e compromessi (L. Pr.)

Ortodossi
Tensioni e compromessi
di L. Pr.




Grecia-Costantinopoli.
Compromesso, soddisfacente per ambedue le parti (non ancora formalmente definito), è stato raggiunto fra il Sinodo della Chiesa ortodossa greca (presieduto dall'arcivescovo di Atene, Christodoulos) e il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I. La materia del contendere riguarda la nomina dei vescovi nelle 34 diocesi appartenenti ai «nuovi territori» della Grecia (il Nordest e la Tracia) che dipendono canonicamente da Costantinopoli e pastoralmente da Atene. Il caso esplode nel luglio scorso dopo la morte dell'arcivescovo di Tessalonica (a cui si sono poi aggiunte le sedi vacanti di Eleutheroupolis e Kozani). La prassi invalsa prevedeva la presentazione della lista dei candidati da parte del Sinodo greco al patriarca. Bartolomeo ha invece preteso il pieno rispetto di un accordo del 1928, secondo cui non si trattava di mera informazione, ma di vera valutazione. Il Sinodo greco non si oppone a questa richiesta ma, nella riunione del 1° marzo, specifica che l'eventuale censura su un nome o l'introduzione di altro nome deve essere accompagnata da motivazioni coerenti coi sacri canoni. L'episodio mostra la permanente tensione fra il patriarca e il primate di Grecia, ambedue decisi a difendere e ampliare il proprio ruolo.

Il 1° marzo Bartolomeo I ha inoltre deciso di modificare la composizione del Sinodo della sua Chiesa, la più alta istanza decisionale. Finora i dodici membri venivano scelti fra i vescovi residenti in Turchia. D'ora in poi il Sinodo sarà composto da sei membri con nazionalità turca e altri sei provenienti da altre diocesi ortodosse nel mondo, fra quelle direttamente dipendenti dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. La precedente composizione era legata alla disposizione del potere turco, che tendeva a ridurre il patriarca a espressione della minoranza ortodossa greca in Turchia, non riconoscendo alcuna rappresentatività internazionale alla sua figura. La decisione unilaterale, che sembra non aver sollevato alcuna rimostranza del governo turco, preoccupato di non aver ostacoli per l'entrata in Europa, rafforza la rilevanza pastorale oltre a quella canonica del Sinodo.

Mosca-Europa occidentale. Il Patriarcato di Mosca vuole ricondurre le diverse Chiese ortodosse di origine russa operanti in Occidente sotto la sua giurisdizione. Il progetto è attivo, secondo diverse declinazioni, sia verso la Chiesa «oltre frontiera», la cui sede è a New York, sia verso le presenze ortodosse in Europa. A queste è stata indirizzata una lettera di Alessio Il che formalizza la proposta: un'unica diocesi in Europa occidentale con ampie autonomie. L'ipotesi è diversa e concorrente rispetto a quella coltivata da tempo dalle Chiese ortodosse più consistenti, operanti in Francia: l'avvio di un'Assemblea dei vescovi con l'elezione del presidente e l'attesa di una sola Chiesa ortodossa operante nello stesso territorio.

Dopo i primi imbarazzati silenzi l'Assemblea dei vescovi ortodossi di Francia (che raccoglie la diocesi del Patriarcato ecumenico, quella di tradizione russa sotto la giurisdizione del Patriarcato ecumenico, la serba, la romena, I'antiochena e quella del Patriarcato di Mosca) ha deciso nella sua riunione del 9 marzo di rispondere alla sollecitazione di Alessio Il con una serie di visite e dialoghi ai patriarchi delle Chiese di riferimento: Costantinopoli, Antiochia, Mosca, Serbia e Romania. La scelta mira a far decantare la potenzialità eversiva (molte comunità sono ormai interetniche e non accetterebbero un ritorno indietro) della proposta di Alessio e a dare alla decisione una tonalità conciliare. In una recente intervista, l'arcivescovo Gabriel di Vylder, responsabile della Chiesa ortodossa di tradizione russa dipendente dal Patriarcato di Costantinopoli, ha censurato la lettera di Alessio Il come «un colpo che attenta all'unità della nostra arcidiocesi ed è suscettibile di provocare uno scisma nel corpo della Chiesa. Scusate, ma questo è inaccettabile» (SOP, aprile 2004 ).

(da Il Regno, 8, 2005)

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Venerdì, 25 Marzo 2005 01:17

Chiese Cattoliche orientali

CHIESE CATTOLICHE ORIENTALI



Quanti sono i membri delle Chiese cattoliche orientali:

Maronita 3.300.000
Italo-albanese 62.000
Caldea 313.000
Siro-malabarese 3.155.000
Armena 249.000
Copta 190.000
Etiopica 141.000
Sira 109.000
Siro-malankarese 310.000
Melchita 1.100.000
Ucraina 5.200.000
Rutena 500.000
Romena 2.000.000
Bizantino-cattolica neII'ex Jugoslavia 49.000
Bulgara 20.000
Slovacca 238.000
Greca 2.500
Ungherese 280.000
Russa 4.000
Bielorussa 5.000
Georgiana (dato non disponibile)
Albanese (dato non disponibile)
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