Ecumene

Sabato, 09 Aprile 2005 18:27

III. Incarnazione e divinizzazione (Michelina Tenace)

Vota questo articolo
(2 Voti)

La fede nell'incarnazione del Verbo non si ferma all'avvenimento storico puntuale della nascita di Gesù a Betlemme, ma è fede nella sua presenza in noi tuttora attraverso il dono dello Spirito ed i suoi frutti.

Il peccato ha fatto perdere la visione dell'Immagine e quindi la possibilità di conoscere Dio. "Essendo l'umanità in preda all'errore, il Verbo venne ad abitare in essa apparendo come uomo, per salvarla dalla tempesta con la sua guida e la sua bontà" (22), "perché nessuno possa più essere ingannato, ma trovi dappertutto il vero Verbo di Dio. Così l'uomo, trovandosi chiuso da ogni parte e vedendo la divinità del Verbo dispiegata dappertutto, cioè in cielo, nell'Ade, nell'uomo e sulla terra, non si inganna più nella conoscenza di Dio, ma adora lui solo e attraverso di Lui conosce perfettamente il Padre" (23).

Visibile per noi e per la nostra salvezza

Solo il Figlio è la rivelazione del Padre. Il Verbo si fa visibile per farci vedere il Padre invisibile. Il destino dell'uomo si gioca su questo: o conosce Dio - e allora ha la vita -,o non lo conosce e cade nel nulla della morte. La divinizzazione è possibile per visione e conoscenza della vera Immagine di Dio (come il suo contrario era avvenuto per la considerazione della falsa immagine). Ecco allora tutta l'importanza del vedere l'invisibile e di poter discernere che il visibile è veramente Dio.

L'uomo non aveva bisogno solo di un modello. Aveva bisogno di un Salvatore che comunicasse la vita, la verità, e fosse lui stesso il cammino. Tutto l'opposto dell'idolatria, dove si mette "il nulla al di sopra di ogni vera realtà" (24). Per restaurare nell'uomo i tratti dell'immagine divina offuscata dal peccato, ci voleva non un modello, ma la presenza del modello. Bisognava poter dire: "ecco l'uomo!" e dello stesso uomo poter dire "ecco Dio!". E viceversa. Di Cristo, che era Dio, le parole più sconvolgenti saranno quelle pronunciate da un pagano: "Ecco l'uomo!". "[...] ciò che gli uomini non hanno potuto apprendere quando adoravano gli idoli, l'hanno potuto apprendere da lui [Cristo]" (25).

"E’ a causa nostra e per noi che è successo ciò che sta scritto, che il Signore fatto uomo ci rende immortali, noi che eravamo mortali ed effimeri, e ci introduce nell'eterno regno dei cieli [...]. È per noi che egli chiedeva la gloria (Gv 18,22), affinché la ricevessimo, affinché ce la desse, affinché fossimo esaltati in lui, allo stesso modo che egli si santificò per noi affinché noi fossimo santificati in lui" (26). Poiché l'uomo è nato dal nulla, "[...] sarebbe stato sconveniente che le creature, una volta create razionali e partecipi del suo Verbo, perissero e tornassero al nulla attraverso la corruzione" (27). "Dio da sempre ci preparava nel suo Verbo, per mezzo del quale siamo stati creati, l'economia della nostra salvezza, affinché, anche se ingannati dal serpente e caduti nel peccato, noi non restassimo completamente morti, ma avendo nel Verbo la redenzione e la salvezza che ci ha preparato, fossimo risuscitati e potessimo rimanere immortali" (28).

Per i Padri, a costituire il "fondo della religione" è il mistero dell'incarnazione come rivelazione della vera immagine di Dio, rivelazione della vera identità dell'uomo. Perciò l'incarnazione riassume in un certo senso tutti i dogmi: è legata al mistero degli inizi (Colui che si incarna è Colui ad immagine del quale l'uomo è stato creato); è legata al mistero della storia, perché Dio s'incarna e l'uomo si divinizza secondo un'economia inclusa nel tempo; è legata al mistero della caduta dell'uomo e del male, perché l'incarnazione che porta la liberazione dal peccato fa passare l'uomo e Dio attraverso la morte, attraverso una passione cruenta e indecifrabile. L'incarnazione non è solo liberazione dal peccato. Essa è rinnovo totale dell'uomo, è la divinizzazione della nostra natura a causa dell'unione ipostatica: se Cristo non è il Verbo di Dio, della stessa natura del Padre e insieme della nostra stessa natura umana, non c'è incarnazione (se non è uomo), né risurrezione (se non è Dio), né divinizzazione. Nell'incarnazione diventa visibile l'invisibile Dio, il che ci permette di guardare a Lui per riacquistare la visione dell'Immagine; nella risurrezione ci viene confermata la vocazione alla vita eterna trasmessa da Dio nella creazione. Quindi, se Cristo non fosse vero Dio non potrebbe ridarci lo splendore dell'immagine. E siccome questa perdita è il danno più grave riportato dall'uomo con il peccato, Dio ci salva in Cristo se ci ridà la sua Immagine e la nostra immagine: la speranza e il contenuto vero della divinizzazione sono la divinoumanità di Cristo, che è quindi dogma cristologico e antropologico insieme. "L'uomo non avrebbe potuto essere divinizzato nell'unione con una semplice creatura se il Figlio non fosse vero Dio. Allo stesso modo non potevamo essere liberati dal peccato e dalla maledizione se la carne rivestita dal Verbo non fosse per natura umana [...] così l'uomo non sarebbe mai stato divinizzato se il Verbo che si è fatto carne non fosse, per natura, dal Padre e il suo Verbo vero e proprio. Una tale unione si è realizzata allo scopo di unire a Colui che per natura appartiene alla divinità colui che per natura è uomo, e che la sua salvezza e la sua divinizzazione siano assicurate" (29).

L'unione ipostatica non è comunicazione di una verità teorica o astratta: si tratta della grazia di essere costituiti figli. Così come la creazione è secondo l'Immagine, la divinizzazione dell'uomo è comprensibile in quanto legata alla "divinità" come al Figlio e consiste nel diventare figli: Atanasio non ha dimenticato la lezione di Ireneo: "Chi regna nella casa di Giacobbe in eterno se non Cristo Gesù Signore nostro, Figlio del Dio altissimo che promise per mezzo della Legge e dei profeti di far vedere ad ogni uomo la sua salvezza (cf Lc 3,6), il quale divenne figlio dell'uomo affinché l'uomo potesse divenire figlio di Dio?" (30).

La fede nell'incarnazione del Verbo non si ferma all'avvenimento storico puntuale della nascita di Gesù a Betlemme, ma è fede nella sua presenza in noi tuttora attraverso il dono dello Spirito ed i suoi frutti. Se al cristiano è dato di vivere secondo Dio e in Dio, è perché Dio vive secondo l'uomo, vive nell'uomo. La vita di Dio nell'uomo, o inabitazione, non è forse l'incarnazione che continua nella sua forza salvifica universale? È la vita dunque che dà testimonianza della presenza e dell'identità del Verbo. Ma la prova della presenza e della divinità di Cristo è la trasformazione del mondo e dell'uomo per opera sua, poiché "[...] ci ha anche donato di vivere secondo Dio per mezzo della grazia del Verbo" (31).

Ascesi e discernimento: l'incarnazione da parte dell'uomo

Secondo la tradizione, sant'Antonio Abate è stato il primo monaco cristiano riconosciuto come tale e la sua Vita ha costituito il primo manuale di perfezione. Atanasio lo chiamò "uomo di Dio", che nel suo linguaggio assume una connotazione ben precisa: la perfezione cristiana è manifestazione della divinizzazione. Ora, insegnarci come diventare Dio è lo scopo dell'incarnazione del Verbo (32). Questo significa che nell'uomo di Dio, Antonio, l'incarnazione raggiunge il suo scopo in un modo osservabile, incarnato: Antonio è un'icona vivente, raccontabile, trasmissibile. Per quali qualità?

La divinizzazione è opera del dono di Dio nell'uomo, opera della risposta dell'uomo al dono di Dio. Ora, il problema che si pone (e che mai è stato risolto se non in riduttivismi scismatici) è il seguente: come mettere insieme l'affermazione della libertà dell'uomo e quella dell'indispensabile dono di Dio che ci chiama alla partecipazione. La risposta è sempre più vicina alla verità quanto più unisce e distingue l'opera dell'uomo e quella di Dio. Per Atanasio e la generazione dei primi interpreti del dogma, sarà l'ascesi a costituire una risposta concreta a questa antinomia della libertà e della grazia. Perciò la Chiesa ha sempre trasmesso la sua ammirazione ed incoraggiato l'ascesi cristiana, proprio perché esprime il tentativo di risposta dell'uomo di fronte alla grazia della ricreazione avvenuta con la presenza di Dio nell'uomo.

È interessante notare la coincidenza storica che fa di Atanasio il divulgatore del monachesimo e della valorizzazione dell'ascesi. Eppure questa paternità o responsabilità è discutibile, se si considera quanto egli scrive altrove, per esempio nella Lettera ad Amun, o nella Lettera a Draconzio (354), dove ricorda che per quanto egli sia entusiasta della vita monastica nel deserto e per quanto ammiri chi sceglie la verginità, nondimeno tale forma di vita va considerata un mezzo e non il fine della salvezza, il fine al quale devono aspirare tutti i cristiani, monaci e semplici fedeli, non può essere che identico, ossia la somiglianza con l'Immagine, la divinizzazione, poiché è per questo che Dio si è fatto uomo, per riportare ogni uomo alla sua vocazione divina. In tal senso va letto l'incoraggiamento di Atanasio a Draconzio che non voleva diventare vescovo per paura di venir meno all'ideale monastico. Atanasio gli dimostra che essere vescovo significa incarnare Cristo, e che questo non è affatto diverso dallo scopo dello stato monastico. Quanta saggezza e moderazione, contrariamente a quanto poi la storia vi ha "ricamato" sopra, portando ad una supervalorizzazione dell'ascesi nel monachesimo! L'ascesi, perduto il suo primo significato di testimonianza del Signore che regna, verrà identificata con l'eroismo e così anche l'idea di divinizzazione, identificata con la vita monastica, non sarà senza ambiguità.

L'ascesi rimane infatti, nell'ottica della divinizzazione, un mezzo, non lo scopo della vita cristiana. E questo secondo Atanasio stesso. L'ascesi è un aspetto della salvezza che coinvolge il corpo nel contributo positivo che può dare per il recupero della salute spirituale e anche fisica di tutto l'uomo. La spiegazione è importante: l'ascesi è legata alla persona e all'opera di Cristo, esprime che la salvezza è già realizzata tramite Cristo. Tale salvezza è una ricreazione dell'uomo totale, per cui l'opposizione corpo-anima, che ha un ruolo così grande nell'ascesi, viene rapportata non più ad una concezione dualistica dell'uomo, ma ad una ricerca di armonia che testimonia la vita nuova in Cristo. Vivere come uno che è completamente "dominato" da Cristo è il vero scopo dell'ascesi, ossia confessare che lui è il Signore. Come? Tramite la riconciliazione fra corpo e anima. L'ascesi sottomette il corpo allo spirito, affinché lo spirito possa vivificare il corpo.

L'asceta si occupa di rispondere allo scopo originale della creazione, ristabilisce la relazione primitiva con tutto il creato (anche con gli animali) e con l'ordine del mondo. "Quando Dio abita in un uomo e vi si riposa, tutti gli esseri gli sono sottomessi come lo erano ad Adamo prima che trasgredisse il comandamento di Dio" (33).

Infatti, il dominio di Cristo si rivela nella capacità di mettere il corpo al servizio delle opere di carità, opere incorruttibili, e di accedere così, tramite l'ascesi, allo stato della persona unificata.

La virtù dell'ascesi è "naturale"

Nella grazia della divinizzazione, la distinzione fra Dio e l'uomo non è cancellata, ma è abolita la separazione che impedisce la comunione fra Dio e l'uomo, fra l'uomo e il creato, fra gli uomini. Nel dinamismo della divinizzazione è proposto all'uomo di giungere alla felicità stando alla presenza di Dio, nello stato cioè nel quale fu creato. Perciò l'ascesi presuppone che la virtù non sia anti-naturale, ma con-naturale. Ecco le parole di Antonio al riguardo:"Non temete sentendo parlare di virtù e non stupitevi di questo nome, perché essa non è lontana da noi, non sta fuori di noi; l'opera è dentro di noi ed è facile compierla, se lo vogliamo. [...] non dobbiamo attraversare il mare a motivo della virtù. Il Signore ci ha prevenuto e ci ha detto: "il regno di Dio è in mezzo a voi" (Lc 17,21). La virtù, dunque, non ha bisogno che della nostra volontà, dal momento che si trova dentro di noi e si forma a partire da noi. Se l'anima conserva la sua facoltà razionale conforme alla natura, allora si forma la virtù. L'anima è conforme alla natura quando rimane tale e quale è stata creata, ed è stata creata bella e retta al di là di ogni misura [...] quando devia ed è distorta rispetto alla natura, allora si parla di malvagità dell'anima. La cosa, dunque, non è difficile [...]. Se dovessimo cercare la virtù fuori di noi, sarebbe davvero difficile, ma se si trova dentro di noi è come se avessimo ricevuto un deposito, custodiamo la nostra anima per il Signore perché riconosca la sua opera trovandola tale e quale l'aveva creata" (34).

Viene qui enunciata un'antropologia interessante: la natura dell'uomo va protetta e difesa. La virtù, espressione della natura buona, aiuta a raddrizzare ciò che il peccato ha distorto. Il peccato è allora "contro natura"? Di sicuro il diavolo lo è: nell'uomo di Dio invece la divinizzazione si fa verificabile, per così dire, nella capacità di "promuovere" la natura umana (attraverso l'ascesi) e di "riconoscere" (attraverso il dono del discernimento) i nemici della natura umana, come li chiamerebbe Ignazio di Loyola, riconoscere e combattere con la forza dello Spirito di Dio, lo spirito "che distorce la natura umana" (35).

Ascesi e discernimento sono due espressioni concrete e complementari della divinità dell'uomo di Dio, Antonio. L'ascesi senza discernimento è eroismo pagano e può diventare superbia al servizio del diavolo, quindi può diventare "contro natura", peccato. D'altra parte, l'ascesi è necessaria al discernimento, come esercizio e purificazione della virtù considerata naturale da Antonio-Atanasio e che ristabilisce la capacità di conoscere e riflettere l'Immagine, il Lògos. Il discernimento è esercizio dell'uomo logikòs, esercizio dell'uomo redento. "La facoltà di distinguere [...] ecco il logikòn dell'anima umana che la distingue dagli à-loga" (36). Logikòs, lo ricordiamo, non significa "ragionevole", ma "capace di leggere negli esseri la presenza del Lògos perché familiare a Lui". Ridiventato logikòs; l'uomo unisce intelligenza e cuore in una nuova conoscenza, la conoscenza di sé, di Dio e di chi non è dio.

Il discernimento

Chi sa discernere è nella condizione di chi può vivere la realtà di immagine e somiglianza datagli per creazione. Si legge in Doroteo di Gaza: "[...] quando Dio creò l'uomo, depose in lui un germe divino, una specie di facoltà più viva e più luminosa come una scintilla per illuminare lo spirito e fargli discernere il bene e il male" (37).

Non sarebbe forse sufficiente per l'uomo mettersi a vivere in un certo modo per riacquistare la sua identità divina? Nessun'opera umana può divinizzare. Allora, cosa può fare l'uomo? Penitenza per i suoi peccati. Ma per quanto buona, la penitenza non ridà l'incorruttibilità perduta del corpo. La penitenza può fortificare, far cessare i peccati, ma non libera dalla natura che è mortale. Ci sono tanti mezzi proposti per lottare contro quelle forze che disturbano la natura umana e che vengono personificate dai demoni: la preghiera, le veglie, i digiuni... Ma tutti questi mezzi cadono se manca il presupposto fondamentale: la grazia-capacità di discernere gli spiriti che si presentano all'uomo di Dio con tanta ambiguità.

All'uomo di Dio tocca saper riconoscere quel che è di Cristo e che corrisponde alla sua natura e quello che non è di Cristo e va contro la sua natura. Questa stessa conoscenza viene data per natura, ma a causa del peccato essa costituisce ormai una grazia. Perciò troviamo tale equilibrio tra libertà e grazia particolarmente nell'uomo di Dio, nel santo. "Meditiamo e riflettiamo sempre che, se il Signore è con noi, i nemici non potranno farci nulla. Quando arrivano, infatti, adeguano il loro comportamento al nostro e creano immagini conformi ai pensieri che trovano in noi [...]e ingigantiscono i pensieri che già abbiamo in noi" (38). Questa è proprio la dinamica del peccato originale. Perciò l'uomo salvato in Cristo è colui che sa discernere gli spiriti, ossia che sa mettersi dalla parte di Dio con fede, cosa che Adamo non ha saputo fare. Antonio, quando vince, quando fa centro (il peccato è non fare centro!) conclude dicendo: "non ero io a farlo desistere [lo spirito malvagio] o a vincerlo, ma il Signore" (39). Infatti, solo "se Dio lo concede, è possibile e facile discernere la presenza degli angeli buoni da quella degli spiriti malvagi" (40).

Si può essere virtuosi ed essere considerati grandi per l'impegno nella virtù. Ma nessuno si può vantare di saper discernere gli spiriti, perché questo è un dono particolare, tanto grande perché mette l'uomo nella situazione di Adamo prima del peccato. "Bisogna dunque pregare [...] per ricevere il carisma del discernimento degli spiriti, perché, come sta scritto, non prestiamo fede ad ogni spirito (l Gv 4,1)" (41).

Ciò che tocca al monaco è non solo riconoscere il diavolo, ma per la grazia esercitata nell'ascesi e per la grazia della signoria di Cristo nel suo cuore, scegliere nella libertà di mettersi dalla parte di Cristo. Allora Cristo insieme all'uomo può vincere il diavolo che lì dove regna, rende impotente, abbatte e spoglia l'uomo della sua natura umana per cui, perdendo la sua natura, l’uomo si rivolta contro Dio. La grandezza - se vogliamo chiamarla così - dell'uomo di Dio è di scegliere Dio e basta. Il resto è opera della sinergia fra l'uomo divinizzato, nel suo riferirsi all'Immagine, e l'Immagine stessa che agisce in lui.

L'incarnazione, come si vede, non ha solo ristabilito la creazione originale. A causa dell'importanza del discernimento nella salvezza dell'uomo, l'incarnazione rappresenta un di più per l'uomo: il discernimento è "visione" e quindi possibilità di scelta dell'Invisibile (Dio) nel visibile (il Figlio) e perciò è la possibile attuazione della capacità dell'uomo, come essere logikòs, di vedere, in riferimento al Lògos-Cristo incarnato, la differenza fra i vari spiriti che lo agitano. Il discernimento è un frutto e un mezzo di salvezza reso possibile dall'incarnazione.

Nel discernimento, l"'uomo di Dio" realizza nella sua natura umana quella capacità di conoscere Dio e, nell'ambiguità della tentazione, riconosce il non-divino per smascherarlo e allontanarlo da sé. Riguardo alla concezione classica della conoscenza come conoscenza degli intellegibili, il discernimento è un di più, è una forma di conoscenza più profonda perché mette in pratica ciò che conosce e ne vede immediatamente l'effetto. È un'attività della conoscenza in relazione. Il discernimento suppone non solo l'attività dell'intelligenza, della volontà nella libertà, ma diventa "contemplazione" come custodia degli occhi del cuore che guarda a Dio e lo sa riconoscere perché "Lo frequenta". Il discernimento suppone una vita di unione con Dio, suppone la preghiera, il cuore puro. "[...] un'anima interamente purificata e ritornata al suo stato di natura ottiene il discernimento e può prevedere più cose e vedere lontano perché è il Signore a rivelarle gli eventi" (42). La conoscenza-discernimento è l'attività che muove il dinamismo della divinizzazione dall'immagine alla somiglianza.

La salvezza non separa nell'uomo la fede (la confessione-conoscenza del vero Dio) e le opere, verifica dell'incarnazione di Dio come trasfigurazione della vita umana. Non è tanto affascinante il modello di un cristiano che si realizza nella conoscenza dei misteri divini (allora la contemplazione sarebbe l'apice della divinizzazione), quanto il modello di un uomo che vive la sua umanità secondo la misura che è Cristo.

È interessante che per Atanasio la rigenerazione legata all'incarnazione culmini nell'uomo capace di discernimento, uomo spirituale per eccellenza perché segue lo Spirito, uomo che ha esercitato e verificato la sua libertà nell'ascesi perché sa di non essere puro spirito.

Per Adamo il prezzo del peccato è stato la morte, mentre egli voleva essere immortale come Dio. Per l'uomo di Dio il prezzo della salvezza passa dalla "morte a se stesso" per testimoniare la vita di Dio che vive in lui. Come il martire che dice di credere in Cristo e nella vita eterna morendo per e con Cristo, così il monaco asceta muore al peccato per e con Cristo combattendo nella solitudine la "battaglia della fede". "Antonio partì e si ritirò di nuovo nella sua dimora solitaria; stava là e subiva ogni giorno il martirio della coscienza e combatteva le battaglie della fede" (43) e costruiva così la città di Dio nelle grotte dell'Alto Egitto. Come scrive sant'Agostino, "due amori hanno costruito due città [...] una si gloria in se stessa, l'altra nel Signore. Una chiede la sua gloria agli uomini, l'altra mette la sua gloria più cara in Dio, testimone della sua coscienza" (44).

Servizio di carità e aiuto nel discernimento

Unito a tutto e separato da tutti, come dice Evagrio, l'uomo di Dio lotta e vince in virtù della sua adesione a Cristo e nella sua vittoria diventa aiuto agli altri, li può amare veramente e supplire alla loro "ignoranza" aiutandoli a discernere e a camminare orientati a Dio, fortificando la loro fede. La carità, che si esprime nell'aiutare un altro a discernere, è una particolare manifestazione della divinizzazione da parte del padre spirituale al servizio della divinizzazione del figlio. È su questo sfondo che va letta la Vita Antonii, lo sfondo cioè della teologia di Atanasio che sta a fondamento della sua visione dell'uomo divinizzato. Il significato di "uomo di Dio" attribuito ad Antonio si può esplicitare in "uomo della carità", testimoniata nel radicale orientamento a Dio, nel discernimento degli spiriti e nell'ascesi. I Padri esortavano giustamente: "non temere il peccato, neanche l'adulterio, temi soprattutto l'ascesi e il discernimento".

Monachesimo uguale divinizzazione?

Ma non è forse evidente qualche influsso gnostico sul monachesimo cristiano delle origini? In Egitto, dove san Pacomio ha creato il primo monastero nel senso classico, sono stati trovati manoscritti gnostici. Ma non è questo il punto. Ciò che bisognerebbe approfondire è come il cristianesimo abbia utilizzato il monachesimo, come il monachesimo abbia custodito, trasmesso, promosso, il contenuto, la forma, la cultura ed il pensiero cristiani. Che ci siano state correnti o semplici atteggiamenti fondamentalisti più gnostici che evangelici, non toglie valore alla proposta antropologica che contiene il monachesimo: l'unione con Dio, l'unificazione della persona nella comunione con gli altri e con il creato, la conversione, la preghiera, l'umiltà, il servizio..., tanti valori che non sono affatto gnostici.

Nella fede cristiana si può affermare nello stesso tempo la centralità dell'incarnazione, il valore dell'essere nel mondo, quello della vita monastica, ma si deve diffidare dell'affermazione che voglia semplicemente identificare la divinizzazione con la vita monastica. La divinizzazione non può significare trasformare il mondo in un grande monastero, né può essere il pretesto per dividere l'umanità in puri (i monaci) ed impuri (tutti gli altri). Il monachesimo cristiano non è contro il mondo, non nega la dignità della carne e della condizione umana comune: come potrebbe farlo quando Dio ha scelto di assumere la nostra carne, di abitare in mezzo a noi, in mezzo a questo mondo che alcuni vorrebbero disprezzare ed abbandonare in nome di Dio? Atanasio spiega che, come un re che abita in una città per questo stesso fatto la distingue dalle altre e dà a quel luogo valore, splendore, dignità, allo stesso modo è per l'umanità che è stata abitata da Dio stesso.

Questo modo di pensare risente dello gnosticismo primitivo. Il monachesimo cristiano è tutt'altra cosa. Non può essere "contro" qualcosa o qualcuno, se non contro il peccato. E comunque la scelta di vita non si fa in base a ciò che si rifiuta o non piace (il mondo, il matrimonio), ma in base all'amore più forte. Nei primi monaci è evidente come ci fosse una sorta di "ebbrezza di Dio" e di grande amore per l'umanità che li distingueva, attirava la gente e ne faceva dei modelli di vita cristiana per tutti.

Ad Atanasio, il teologo dell'incarnazione, viene attribuito il ruolo più importante nel diffondere l'ideale monastico attraverso la sua famosa Vita Antonii. Ma appunto, proprio perché questa Vita, "prima ancora che modello di vita monastica, è esempio di vita cristiana, di incarnazione della fede e dell'amore, non è scritta soltanto per i monaci, ma è rivolta a tutti i cristiani, a tutti quelli che confessano Cristo, vero Dio e vero uomo", è "la prima espressione, la realizzazione concreta della fede di Nicea" (45).

Qual è lo scopo della vita cristiana che testimonia ed incarna la vita monastica? Come evoca il nome stesso, lo scopo è la vita unificata. Monòs. Uno. Il monaco è l'uomo unito, unificato. Quindi è come Dio? Il cristiano confessa però di credere nel Dio Tri-Uno. Cosa significa diventare uno (monòs) ad immagine di Tre Persone Divine che sono un solo Dio? La vita dell'uomo e la sua costituzione fisica, psichica e spirituale poggiano sulla relazione, sulla comunione e sull'unità-integrità della persona. Per cui, la dinamica dolorosa e feconda della vita monastica sgorgherà da questa tensione tra l'essere unito e l'essere diviso, l'essere solo e l'essere insieme, senza far venir meno la passione per il traguardo di unificazione nell'amore che tutto unisce e tutti abbraccia. Infatti, il monachesimo cristiano oscillerà in questa ricerca del bene, della carità più grande inventando "forme" di vita sempre più regolamentate e sarà fecondo solo quando dalla diversità di perfezione delle forme farà uscire l'unico frutto superiore ad ogni forma di vita: la carità.

La divinizzazione: essere solo, essere insieme, essere bello

Sono tre le vie intorno alle quali si elaborano le forme del monachesimo cristiano: la via della solitudine, la via della comunità, la via della bellezza.

Essere solo... L'eremita, l’anacoreta sceglie di vivere solo, una solitudine in funzione dell'unione con Dio. Se l'uomo ha peccato per aver preferito il mondo creato alla luce increata, il monaco solitario dice in tutti i modi che egli preferisce a tutto il Creatore. Questo è l'eremita, la figura del vero monaco come l'ha trasmessa la tradizione cristiana, un uomo "tutto di Dio", veramente orientato alla divinizzazione, un uomo spirituale.

Ma nei racconti di queste vite, la leggenda spesso supera ogni realismo e il tema della fuga dal mondo e della solitudine diventa più importante dell'incarnazione e del senso della storia tipica del cristianesimo. Anche la lotta spirituale, al centro della spiritualità monastica, dev'essere concepita in favore di una più efficace incarnazione e non può essere orientata ad una sorta di "ex-carnazione" più gnostica che cristiana. È frequente l'identificazione tra divinizzazione e vita monastica eremitica ascetica per questo innegabile legame che c'è tra divinizzazione e purificazione. Ma sarebbe sbagliato pensare che basti la purificazione per fare l'uomo puro! È ciò che riempie l'uomo che lo rende puro, non ciò da cui ci si svuota: la pienezza di grazia, l'inabitazione dello Spirito Santo, non il semplice astenersi da tutto...

Essere insieme... Il monaco cenobita cerca di vivere la divinizzazione realizzando lo scopo della vita monastica: la ricomposizione della comunione fra le persone secondo un nuovo ordine scelto come pratica di incarnazione dello Spirito. Anche la carità è "ordinata" secondo il carisma del fondatore o della fondatrice, carità ordinata alle opere portate avanti dalla comunità. Nella tradizione cristiana occidentale, questa via è stata privilegiata come più espressiva della spiritualità dell'incarnazione. Ma a causa dell'efficacia della fiducia e obbedienza alla regola, la stessa carità poteva essere soffocata dal sogno di una perfezione formale. La comunione fra le persone non può essere formale, perché passa attraverso la ricomposizione dolorosa dell'unità spezzata dal peccato, attraverso la libera adesione delle persone le une alle altre, attraverso la vicenda della conversione, del perdono, del sacrificio amoroso, verifica più grande sul cammino della divinizzazione.

Essere bello... Nella lingua romena, monaco si dice "calugaro", parola che evoca il greco kalòs (che significa bello/buono), e géròn (anziano). il monaco è "bello", per gli anni di "familiarità" con Dio, per la vita nello Spirito, per la progressiva conformità a Cristo. La trasfigurazione è la profezia portata dal monachesimo, ma questa si fonda sulla incarnazione. Ora, incarnazione e trasfigurazione dicono il mistero della bellezza e indicano la via della bellezza come migliore interpretazione del cristianesimo.

L'ascesi stessa può essere capita in quest'ordine: applicazione della volontà in vista della trasfigurazione del corpo affinché, una volta purificato dalle passioni, ritrovi la sua capacità di amare. La contemplazione, nucleo della vita spirituale dell'essere solo e dell'essere insieme, è il presupposto indispensabile del cristiano: si incarna ciò che si contempla e ama, come sostiene Gregorio di Nissa, affinché "essendosi avvicinati alla luce, l'anima si trasformi in luce" (46) e brilli ed illumini intorno a sè.

Il monaco è mònos, uomo unito nell'unità spirituale. La bellezza, la preghiera e l'amore sono le realizzazioni dell'unità fra materia e spirito (bellezza), fra Dio e l'uomo (preghiera), fra persone (amore). A fondamento della qualità sia dell'essere solo che dell'essere insieme sta il gusto della bellezza, l'attrazione per la via della trasfigurazione che, iniziando da sé, porta gli altri e il mondo verso il compimento della promessa. Perciò ogni monaco, qualunque sia la forma di vita che percorre, realizza fondamentalmente ed insieme la chiamata alla solitudine, alla comunione, alla trasfigurazione che è bellezza. A chi non ha gusto per la bellezza, verrà a mancare la visione e la preghiera. A chi non ama, verrà a mancare la comunione con la Santissima Trinità. A chi non prega, verrà a mancare lo Spirito...

Michelina Tenace

Note

(22) De incarn., 43.
(23) De incarn., 45.
(24) Contra Arianos, 2,14.
(25) De incarn., 52.
(26) Contra Arianos, 2, 48.
(27) De incarn., 6.
(28) Contra Arianos, 2,56.
(29) Contra Arianos, 2,70.
(30) Adv. haer., III, 10,2.
(31) De incarn., 5.
(32) Cf. Contra Arianos, 3,19.
(33) Cirillo di Scitopoli, Vita Eutimii, 13, in Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, Abbazia di Praglia (PD), 1990, p. 122.
(34) Vita Antonii, 20.
(35) Vita Antonii, 20.
(36) Contra gentes, 31.
(37) Instructiones 3,40, SC 92 (1963), p. 209.
(38) Vita Antonii, 42.
(39) Vita Antonii, 40.
(40) Vita Antonii, 35.
(41) Vita Antonii, 38.
(42) Vita Antonii, 34.
(43) Vita Antonii, 47.
(44) De civitate Dei, 14, 28, PL 41, 436.
(45) L. Cremaschi, Introduzione a Vita di Antonio, Roma 1984, p. 41 e 40.
(46) In Canticum Commentarius, 5, PG 44, 869a.
 

.

Letto 3500 volte Ultima modifica il Domenica, 13 Novembre 2011 16:56
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search