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La Chiesa cattolica in Georgia


È un “piccolo gregge” numericamente esiguo ma spiritualmente tenace e attivo, quello della Chiesa cattolica in Georgia. Venticinque le comunità presenti in questo lembo del Caucaso. E un parroco cattolico al servizio di alcune decine di fedeli nella città natale di Stalin, Gori, dove rimane in piedi - unica in tuttol'ex Urss - la statua dell'ex dittatore. Ma la Georgia vanta anche un altro unicum: la chiesa cattolica di San Pietro e Paolo, nella capitale Tbilisi, la sola, fuori dalla Russia, rimasta aperta durante i settant'anni di ateismo sovietico, grazie al coraggio di un sacerdote polacco, padre Adam Ochal. Entrare oggi in questa chiesa, dove grandi foto ricordano la storica visita del Papa nel 1999, permette di rendere omaggio a quella schiera anonima di testimoni che hanno professato il loro credo anche in tempi di ateismo di Stato.

I segni del passato sovietico si vedono ancora. Entrando in Georgia dalla vicina Turchia ci si imbatte in Bitumi: un tempo fiorente località turistica frequentata dai «papaveri» di Mosca, ora giace trascurata, tra le coltivazioni di tè che abbondano in questa zona dal clima subtropicale. Nelle vicinanze di Kutaisi, nel centro del Paese, la più grossa industria siderurgica del Caucaso sovietico è passata da 20mila a 500 dipendenti e oggi produce martelli. Gli anziani tirano avanti con pensioni da fame: 17 lari al mese (l'equivalente di 6 euro), quando un chilo di zucchero ne costa 2 e il pane 1. La corruzione resta una piaga endemica, nonostante il giro di vite del presidente Mikhail Saakashvili, in carica dal novembre 2003. Spesso del malaffare elevato a sistema ne fanno le spese gli stranieri: ai posto di blocco, lungo le strade, si viene tartassati da insistenti richieste di mazzette.

Ma non è solo l'eredità sovietica a preoccupare i cattolici di Georgia. Da qualche tempo i vertici della gerarchia ortodossa sono scossi da spinte fortemente conservatrici, con inevitabili riflessi sul piano dei rapporti con la Chiesa cattolica. Episodi singoli, fors’anche marginali, ma che se inseriti in un quadro più ampio danno l'amara sensazione che la Chiesa ortodossa georgiana rischi di diventare ostaggio di un'avversione contro i non ortodossi, fomentata da frange oltranziste. Tali sentimenti derivano - spiega l'amministratore apostolico dei latini del Caucaso, mons. Giuseppe Pasotto - «dalla mancanza di cultura e di conoscenze adeguate». Il fanatismo religioso di alcuni, in altre parole, si nutre di ignoranza e semina inimicizia.

Incontrando i cattolici di Georgia, la sensazione è di preoccupazione diffusa. Famoso è rimasto l'incidente diplomatico dell'ottobre 2003, quando una serie di manifestazioni di piazza contro la Chiesa cattolica indussero l'ex presidente Eduard Shevardnadze a non concedere il riconoscimento giuridico della Chiesa cattolica. Proprio al momento della firma il governo georgiano comunicò al rappresentante vaticano, l'allora segretario per i rapporti con gli Stati, cardinal Jean-Louis Tauran che, causa l'esplicita opposizione della Chiesa ortodossa, l'accordo non sarebbe stato siglato. Alla guida delle proteste in strada un gruppo di monaci ortodossi e il vescovo Zenone di Dmanisi, autore di duri pronunciamenti contro Roma.

Ebbene: a leggere gli appelli di alcuni esponenti ortodossi - ad esempio il vescovo di Bitumi, Dimitri - colpiscono e amareggiano i toni delle accuse e i clamorosi errori storiografici con i quali si motiva l'avversione alla presenza cattolica in Georgia. «Purtroppo - commenta mons. Pasotto - in Europa l’immagine dell'ortodossia georgiana viene influenzata da questi fatti e dall'operato di persone non equilibrate. Un'ingiusta rappresentazione della realtà, che mi fa piangere il cuore per il tradimento verso questa terra i suoi cristiani che amo, da quando, più di dieci anni fa, ho messo piede qui».

L'episodio citato è sintomatico dell'involuzione che rischia di subire l'ortodossia. I segnali preoccupanti non mancano: di recente, due preti polacchi di Bale, sul confine con la Turchia, «rei» di essere andati a fare visita ad alcuni cattolici in un villaggio ortodosso, hanno ricevuto minacce di morte da parte di fanatici.

Ma il clima potrebbe, fortunatamente, cambiare: un gruppo di sacerdoti «riformisti», insoddisfatti della piega anti-moderna e anti-ecumenica assunta dall'ortodossia del Caucaso, pare stia per attuare una «rivoluzione delle rose» in seno alla Chiesa georgiana. Una sorta di replica in chiave ecclesiale del cambiamento politico avvenuto a novembre 2003, quando l'ex presidente Shevardnadze è stato spodestato da una sommossa denominata appunto «rivoluzione delle rose» (dal fiore che i rivoltosi portavano al momento dell'occupazione del Parlamento). Una rivoluzione ancora in itinere, come dimostra la vicenda del primo ministro Zurab Zhvania, trovato morto poche settimane fa in circostanze poco chiare.

Kutaisi è la seconda città del Paese, con i suoi 250 mila abitanti. Qui i cattolici hanno ricevuto dai fratelli ortodossi l'ultimo rifiuto - in ordine di tempo - di vedersi restituire le loro chiese confiscate dal passato regime comunista. Non potendo rientrare in possesso delle vecchie chiese, i cattolici georgiani, ne hanno costruite due ex novo: una, a Bitumi, inaugurata in occasione del Giubileo del 2000; l'altra, ad Akalsheni. piccolo villaggio a una ventina di chilometri da Kutaisi. Andandoci in automobile, in compagnia di padre Carlo De Stefatti, che cura questa comunità cattolica, si entra nel cuore della Georgia profonda, dove la povertà dei centri rurali testimonia la realtà di un Paese che resta in bilico fra progresso e sottosviluppo e che, pur desiderando l'Europa, è ancora attanagliato da sacche di disoccupazione e miseria.

La distanza fra ortodossi e cattolici nel Caucaso non si misura solo sugli edifici sacri, ma anche su una questione cruciale come il battesimo: «Non è facile vivere l'ecumenismo con una Chiesa che non riconosce la validità del tuo battesimo, come avviene con quella ortodossa georgiana oggi», afferma mons. Pasotto. Che, però, nutre una certezza: la strada del dialogo fraterno è la sola per attuare l'impegnativo motto episcopale («Ut unum sint») che si è scelto nel 2000. Pasotto si mostra ottimista: «È nel campo caritativo, della pace e della solidarietà che il dialogo diventa più facile. Dobbiamo insistere su questo e favorire incontri di base, tra fedeli e sacerdoti, ora che quelli ufficiali si sono un po' raffreddati».

Più roseo il futuro dei rapporti fra ortodossi e cattolici nel Caucaso appare dalle parole del nunzio apostolico, mons. Claudio Gugerotti: «Noi speriamo che il clima fra le due Chiese torni a essere sereno come era una decina di anni fa. Il dialogo e l'incontro, qui in Oriente, avvengono soprattutto fra persone, e non primariamente fra istituzioni», rimarca il nunzio. «La conoscenza e la stima fra individui possono essere decisive».

Proprio nell'ottica di un più efficace incontro con la tradizione locale, un attempato ma sagace religioso si è lanciato in un'avventura culturale di tutto rispetto. Padre Luigi Mantovani, stimmatino, per molti anni preside di una prestigiosa scuola di Verona, a metà anni Novanta - facendo la spola in estate fra Italia e Georgia - si è cimentato nella stesura della prima grammatica italo-georgiana, con tanto di audiocassetta e libro per gli esercizi. Ultimata la fatica, padre Mantovani nel 1998 si è trasferito in pianta stabile a Kutaisi per curare la monumentale opera di un vocabolario italo-georgiano (25 mila voci), ormai pronto per la stampa: «Ho impiegato quattro anni, ma finalmente l'ho terminato», dice soddisfatto mentre ci mostra alla fioca luce di una pila i fogli del dizionario che ingombrano il suo tavolo.

La presenza dei religiosi stimmatini (in buona parte provenienti da Verona) si colloca nel servizio alla Chiesa cattolica locale, in vista di una sua piena maturità dopo la rinascita della chiesa cattolica nel 1993, avvenuta con l’invio del primo nunzio, mons. Jean-Paul Gobel.

L’amministratore apostolico Pasotto ha aperto nel 2003 il seminario diocesano a Tzerovani, 20 chilometri da Tbilisi: «Per noi è il segno di un cammino fatto, di una crescita di Chiesa che non è numerica, ma di identità e consapevolezza». In formazione sono una mezza dozzina di seminaristi: nel miscuglio di lingue ed etnie, questi chierici danno già un’idea palpabile di quanto questo Paese sia cerniera tra Oriente e Occidente. C’è un ragazzo ebreo, profugo dell’Abkhazia (la regione nordoccidentale, ancor oggi nella morsa della guerra civile), due armeni, un russo. Tre soli i georgiani “puri”. «Questi ragazzi hanno tutti storie particolari. C’è chi è venuto alla fede in maniera personale, attraverso una vera e propria conversione; chi ha vissuto l’esperienza della guerra civile e dell’esilio della propria casa; chi ha alle spalle una famiglia cattolica», sottolinea don Mauro Bozzola, responsabile della formazione dei futuri preti. Dopo essere stato vicerettore del seminario della diocesi scaligera, don Bozzola è stato “prestato” alla chiesa georgiana per alcuni anni.

Nello stesso stabile del seminario, assediato da continui disagi e black out, si sta per ultimare la realizzazione di un centro di spiritualità che sarà uno spazio per l’approfondimento biblico e spirituale. La formazione dei futuri sacerdoti georgiani si tiene nello Studio teologico Saba, a Tbilisi, ed è diretta da un sacerdote francese, padre Pierre Dumoulin, con trascorsi in Russia (ha insegnato a S. Pietroburgo e Mosca – M.M., aprile 1995, pp. 61-63). Da poco è rientrato in patria, dopo gli studi in Polonia, l’unico prete cattolico georgiano, don Zurab Kakachishvili, parroco di Akalkizizhe, al confine con la Turchia.

Un’altra istituzione importante per la vita della Chiesa cattolica nel Caucaso, fortemente voluta da mons. Pasotto, è il Centro per la famiglia di Kutaisi. Oltre al supporto pastorale, qui vengono offerti i corsi di regolazione naturale della fertilità grazie all’Istituto internazionale per la conoscenza dei metodi naturali. La direttrice del centro, Lali Ciarkviani, ha studiato due anni in Italia e ora si divide tra Kutaisi e Tbilisi per tenere lezioni a una trentina di donne, che in futuro saranno anch’esse insegnanti dei metodi naturali. Un’urgenza sociale, quella di educare a una sessualità consapevole, spiega la Ciarkviani: «In Georgia l'aborto, anche se illegale, è molto diffuso. Basta scucire 17 lari (6 euro) a un medico compiacente».

La carità concreta è un altro tratto delta Chiesa cattolica in Georgia: la presenza di cinque suore di Madre Teresa e l'ospedale dei camilliani a Tbilisi, nonché l'importante presenza di Caritas Georgia sono gli esempi più eloquenti di una solidarietà pratica che si mette a servizio di tutti: la maggior parte dei dipendenti Caritas sono ortodossi; i poveri nelle mense, negli ambulatori o nelle case per bambini vengono aiutati senza alcuna distinzione di confessione religiosa. «Quando nel 1993 partii per Tbilisi il Papa mi disse: "Fate tutto affinché i cattolici diventino buoni cattolici, e gli ortodossi buoni ortodossi. Mettetevi al servizio della gente"», ricorda padre Witold Szulczynski, salesiano polacco, responsabile della Caritas locale. «Qualche tempo dopo venimmo ricevuti dal patriarca Ella II e gli riferimmo le parole del Papa: se ne compiacque. Lo stesso patriarca ha riconosciuto che noi aiutiamo i poveri senza guardare alla toro confessione religiosa».

(da Mondo e Missione, marzo, 2005)

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L'incarnazione ha manifestato questa verità: il valore della terra vivificata dallo Spirito. Perciò non si può parlare di Spiritualità cristiana quando, a motivo di qualche spiritualismo viene disprezzata la terra, il creato, il corpo, la materia.

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Venerdì, 17 Febbraio 2006 20:16

Il Tibet della Cristianità (Piero Pisarra)

Il Tibet della Cristianità

di Piero Pisarra


«Ci sono luoghi al mondo in cui la natura sembra offrirsi un santuario, con tutta la ricchezza del simbolismo primordiale: centro, asse, bellezza paradisiaca delle acque. E l'Athos è uno di questi», ha scritto il teologo Olivier Clément.

Monte Athos, Aghion Oros, Santa Montagna. Da più di un millennio il promontorio orientale della penisola Calcidica - secondo la mitologia, fu scagliato in mare dal gigante Athos in collera con Poseidone - richiama monaci e viandanti dell'assoluto. Dell'Athos parlano, nelle veglie attorno al fuoco del grande inverno siberiano, i personaggi di Leskov. All'Athos sogna di andare il Pellegrino russo, autore dei celebri Racconti. E all'Athos, quando le convulsioni della storia si fanno insopportabili, quando le guerre e l'odio lacerano l'umanità, si rivolgono le speranze del mondo ortodosso. Perché l'Aghion Oros non è soltanto un luogo di aspra bellezza, rifugio ideale di asceti in fuga dalle lusinghe del secolo: è anche, come vuole la leggenda, il "giardino della Vergine", precluso a ogni altro volto di donna. Un luogo di battaglie spirituali e di pace, di hesychia, la pace interiore che nasce dalla ripetizione incessante della "preghiera di Gesù" («Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me»), secondo il ritmo della respirazione.

Alla frontiera del mondo greco e del mondo slavo unito dal Mediterraneo ai patriarcati orientali e alla cattolicità latina, l'Athos - aggiunge Clément - sembrava predestinato «a diventare il cuore di una Chiesa che si definisce soprattutto come un mistero di deificazione». Ed è così che è stato visto da intere generazioni di credenti.

Cuore dell'ortodossia, Tibet della cristianità: queste definizioni possono farci sorridere, ma esse hanno affascinato i viaggiatori dei secoli scorsi, gli antenati di Bruce Chatwin e di William Darlymple, che a dorso d'asino - coi loro pesanti bagagli - venivano qui a respirare una dose di esotismo, senza le fatiche di un viaggio nella lontana India. Nel 1834, sir Roben Curzon concluse il suo viaggio tra i monasteri d'Oriente, alla ricerca di antichi manoscritti, qui all'Athos (si veda il suo pittoresco resoconto: Visits to Monasteries in the Levant, Century, Londra, 1983). E quasi un secolo dopo, nel 1926, il giovane Robert Byron, omonimo del celebre lord, vi fece due lunghi soggiorni. Curzon comprò per poche sterline, ingannando i monaci, manoscritti antichissimi. Byron, più disinteressato o squattrinato, si accontentò di raccontare il paesaggio umano e spirituale dell'Athos in un libro che avrebbe influenzato in maniera durevole i travel writer delle generazioni successive (The Station, tradotto sciattamente da Bompiani nel 1952, col titolo Monte Athos). Ma la descrizione più accurata della vita sulla Santa Montagna, prima che i germi della modernità - come lamenta l'autore - introducessero anche qui «gli agi e le usanze mondane», si deve alla penna e al pennello di Fortunato Perilla.

Sfoglio con emozione il Monte Athos del pittore italiano (Parigi e Salonicco, 1926), ricco di xilografie, corredato di acquerelli: monaci dalla lunga barba, con il tradizionale copricapo (lo skufos) oppure con l'abito angelico, il megaloskima dei monaci professi; volti levigati dagli anni, ma da cui emana una luce interiore come nei santi delle icone; novizi coi capelli raccolti a crocchia, secondo l'uso orientale. Perilla non trascura alcun dettaglio: gli affreschi antichi, le reliquie, i sigilli, le simandre, cioè le tavole di legno sulle quali ancora oggi i monaci battono ritmicamente per invitare alla preghiera o al riposo, le fiali, cioè i chioschi con al centro una fontana in cui è così gradevole prendere il fresco nelle sere d'estate.

Sono passati circa ottant'anni, eppure quel libro sembra parlare di oggi. Perché se anche qui trillano i cellulari, se le jeep e le Range Rover hanno sostituito gli asini e i muli, se i monaci non disdegnano Internet e le autostrade telematiche, l'Athos è pur sempre un angolo di Bisanzio sopravvissuto per miracolo agli assalti della modernità. Nulla sembra distinguerlo dall'ambiente circostante, dal resto della penisola Calcidica: qui ritrovi la stessa vegetazione, querce, castagni, cipressi, eucalipti, ulivi, aranci, gli stessi odori di origano e di basilico, la luminosità accecante, i riflessi dorati sull'azzurro dell'Egeo. Ma non appena si arriva nel porticciolo di Dafnì sembra di essere in un altro mondo, in un'altra dimensione. E non solo perché si torna indietro di tredici giorni, calendario giuliano oblige. «Qui il tempo sembra essere fatto di una sostanza differente. E il mondo dei vivi riproduce con tanta precisione quello dei morti e degli antenati che i monaci danno talvolta l'impressione di essere icone animate, ombre di ieri smarritesi nel nostro presente», ha scritto Jacques Lacarrière che all'Athos ha dedicato uno dei suoi libri più belli (L'ètè grec, 1975).

Le icone animate, i primi anacoreti, scelsero questi luoghi, le grotte a strapiombo sul mare, già nel VII e nell'VIII secolo, quando l'impero bizantino era lacerato dalla controversia iconoclasta. Ma il primo eremita venerato dai monaci della Santa Montagna è Pietro, un ex soldato che nelle caverne dell'Athos trascorse cinquantatre anni in solitudine, nel IX secolo. A Pietro l'Atonita apparve in sogno - così racconta la Vita scritta dal monaco Nicola nel X secolo - la Theotokos, la Madre di Dio. «La tua dimora sarà sul Monte Athos che su mia richiesta ho ricevuto in eredità da mio figlio», gli disse la Vergine. «Là quelli che abbandoneranno i turbamenti mondani e abbracceranno le cose spirituali, secondo le loro forze, e invocheranno il mio nome in verità, fede e disposizione d'animo, trascorreranno la vita presente e guadagneranno la vita futura per mezzo di opere gradite a Dio». Secondo la profezia, il Monte Athos si sarebbe riempito di monaci da un capo all'altro. E così avvenne. Non lontano dalle caverne degli eremiti, sorse il primo monastero, fondato da Atanasio, un greco di Trebisonda, amico del futuro imperatore Niceforo Foca.

La prima pietra della Grande Lavra fu posta nel 963. In pochi decenni, sulle tracce di Atanasio l'Atonita, arrivarono, da ogni regione dell'Oriente cristiano e poi anche dall'Occidente, centinaia di uomini: greci, georgiani, slavi del Sud, italiani. Lungo la costa, sorsero i monasteri di Vatopediou, Zografoti, Filotheou, Dochiariou, Xenophontos e Iviron. Serbi e russi arrivarono più tardi, tra l'XI e il XII secolo. Con la benedizione di patriarchi e imperatori, era nata una curiosa Repubblica monastica, uno Stato federale, senza esercito, ma sotto la protezione della Vergine. Accanto ai venti monasteri maggiori o lavre, furono fondate numerose dipendenze, che ospitavano comunità più piccole. Tutte le forme di vita monastica trovarono rifugio nel giardino dell'Athos: da quella eremitica a quella cenobitica e alla idiorritmica, secondo la quale ogni monaco organizza in maniera indipendente la propria vita, con pochi obblighi comunitari. Senza dimenticare i "folli in Cristo" della tradizione russa, dal comportamento che alle cosiddette persone normali può sembrare stravagante, ma che è il segno di una saggezza più alta (quella delle beatitudini). E i sarabaiti, i monaci girovaghi, a volte indicati a cattivo esempio, nella letteratura spirituale, per la loro irrequietezza.

Arrivarono anche i maestri dell'arte bizantina: nel XIV secolo, Manuele Pansélinos e i suoi discepoli affrescarono le chiese di Vatopediou, Chilandari e Karyes, nello stile della cosiddetta "scuola macedone", conciliando ieraticità e umanità nella raffigurazione dei personaggi e degli episodi del Vangelo. Poi, tra il XV e il XVI secolo, si impose lo stile cretese, più austero e di una religiosità tutta interiore. Ai grandi cicli della "scuola macedone", gli artisti di questa nuova corrente - il cui iniziatore fu il grande Teofane di Creta - preferivano composizioni più vicine, nella tecnica e nello spirito, alle icone o alle miniature destinate a favorire la contemplazione e la preghiera. Sull'Athos sorsero vari atelier, laboratori iconografici che nulla avevano da invidiare alle botteghe dei maestri italiani. E anche per la vita spirituale cominciò una fase nuova.

Gli uomini che avevano scelto il nascondimento, che in alcuni casi avevano abbandonato il potere o rinunciato al mestiere delle armi, che avevano lasciato affetti e amicizie, cantavano nel giardino della Vergine, in liturgie interminabili e affascinanti, le lodi al Signore del cosmo e della storia, il Pantocrator di cui vedevano, alla luce tremula delle candele, la figura maestosa negli affreschi o nei mosaici delle loro chiese. Vita angelica: così la tradizione definisce il monachesimo. Ma quella dell'Athos era una vita dura, povera, essenziale, nel rispetto della sobrietà e della vigilanza, la nepsi, che i Padri consideravano come valore fondamentale, per non lasciarsi sorprendere dal nemico in agguato e non essere vinti dalle passioni.

Vita di lotta spirituale e di penitenza, perché - come scrisse Gregorio Palamas in un encomio di san Pietro l'Atonita - «quando la mente si leva al di sopra di tutte le cose sensibili ed emerge dal diluvio turbinoso che le circonda e osserva l'uomo interiore, e vede la ributtante maschera derivata dalla caduta, cerca di lavarla con l'afflizione». Testimoni dell'unità e l'universalità dell'Ortodossia, i monaci atoniti hanno salvato in almeno due occasioni, secondo Olivier Clèment, la Chiesa ortodossa: nel XIV e nel XVIII secolo al momento della polemica sull'esicasmo che scosse l'Oriente cristiano e all'epoca dell'Illuminismo, quando la fede sembrava minacciata dalla dea Ragione.

Nato in ambiente monastico, l'esicasmo (da hesychia) trovò sull'Athos il terreno più fertile. Non soltanto una corrente teologica o un movimento che mette l’accento sulle “energie divine” all’opera nel mondo e che trasfigurano il creato, bensì una via alla contemplazione. Un "metodo" basato sul respiro e caratterizzato da una particolare postura del corpo, la testa raggomitolata tra le gambe. E che anche per questo si attirò il sarcasmo di un teologo come il monaco calabrese Varlaam di Seminara. «Omfalolatri, adoratori dell'ombelico», fu il giudizio sprezzante e superficiale. Gregorio Palamas (1296-1357), che era stato monaco dell'Athos prima di essere eletto arcivescovo di Tessalonica, definiva la vera hesychia come «il ritorno e la conversione della mente a sé», cammino di unità e di pacificazione interiore, illuminato dalla grazia. Il contrario, insomma, del ripiegamento narcisistico su sé stessi o sul proprio ombelico.

L'esicasmo segnò in profondità la vita del monachesimo atonita. E i suoi frutti, dopo periodi di crisi o di stagnazione, si manifestarono nel XVIII secolo, in tutto l'Oriente cristiano, in quella che fu chiamata l'epoca del "rinnovamento filocalico".

Sull'Athos, Macario di Corinto e Nicodemo l'Agiorita compilarono l'antologia che avrebbe rivelato all'Europa, nel clima dell'Illuminismo, la ricchezza della tradizione ascetica e mistica dell'Oriente cristiano, dai Padri del deserto ai grandi "teorici" dell'esicasmo, Gregorio il Sinaita e Gregorio Palamas.

Stampata a Venezia nel 1782, la Filocalia ebbe un impatto fortissimo nel mondo slavo, grazie alla traduzione di un grande maestro spirituale, lo starec Paisij Velickovskij. La "vita angelica" era, dunque, nient'altro che filocalia, amore della bellezza. Al di là del colore, delle lunghe liturgie e dei riti che tanto colpivano i viaggiatori occidentali, l'Athos aveva conservato per secoli, non come un tesoro inaccessibile ma come pratica di vita ascetica, la tradizione dei santi padri, l'insegnamento di Evagrio, di Massimo il Confessore, di Simeone il Nuovo Teologo. Così come aveva custodito gelosamente la tradizione dell'arte bizantina e ne aveva tramandato i canoni in un manuale preziosissimo per gli iconografi e gli studiosi di iconografia: l'Ermeneutica della pittura di Dionisio da Furnà (XVIII secolo).

Ma forse a queste due epoche, all'esicasmo e al rinnovamento filocalico, bisogna aggiungere il periodo della grande glaciazione comunista, quando anche sull'Aghion Oros si preparava la rinascita dell'Oriente cristiano, con i santi anonimi che qui custodivano i tesori spirituali della Santa Russia. O l'epoca immediatamente precedente la rivoluzione sovietica, quando al monastero di San Panteleimonos viveva, facendo il mugnaio, un uomo semplice, senza grande cultura, ma che fu uno dei grandi mistici del XX secolo: Silvano dell'Athos. Un uomo che bruciava di compassione per i suoi simili e per tutte le creature. E che anche nel buio della tentazione o della prova diceva: «Fratello mio, chiunque tu sia, per quanto grande sia il tuo peccato, per quanto oscura sia la tua tenebra, tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!».

Nato in uno sperduto villaggio della provincia di Tambov, in Russia, nel 1866, Silvano visse per quarantasei anni sul Monte Athos, fino alla morte nel 1938. «Fin dalla mia infanzia amavo il mondo e le sue bellezze», scrisse nei suoi quaderni spirituali. «Amavo i boschi, i verdi giardini e i campi, amavo guardare le nuvole splendenti e vederle correre nell'azzurro cielo, e tutto il mondo di Dio creato in modo così meraviglioso. Ma da quando ho conosciuto il mio Signore, è cambiata ogni cosa dentro di me, non desidero più contemplare questo mondo, ma l'anima mia è attratta incessantemente verso quel mondo dove si trova il Signore». Per tutta la sua vita, l'ex contadino russo, divenuto uno starec amato e ascoltato, volle essere testimone dello Spirito, «perché lo Spirito Santo è la vita eterna».

Quanti monaci come Silvano, quante altre icone viventi hanno percorso i sentieri dell'Athos? Quante altre storie di santità celano le grotte e i monasteri dell'Aghion Oros? Quanti altri uomini spirituali, veri pneumatikoi, praticano la preghiera di Gesù, alla ricerca dell’hesychia, il silenzio del cuore e dei pensieri, la serenità piena che nasce dalla lotta contro le passioni e che non è indifferenza al mondo, ma una forma più alta di compassione?

Ora, dopo il crollo dell'impero sovietico, l'Athos conosce un'altra fase di rinnovamento. Progressivamente, i monasteri hanno abbandonato il sistema idiorritmico, all'origine di molte contraddizioni e di abusi, per la vita cenobitica. Sotto l'impulso dei monaci di Stavronikita, Iviron, Simonos Petra, hanno riscoperto le radici autentiche della vita monastica, lo studio dei Padri, il valore della nepsi e dell'hesychia. Mai interrotti, i legami con i Paesi di quello che fu il blocco comunista sono ora più frequenti. E anche dai luoghi più lontani della diaspora ortodossa - America, Australia - arrivano nuovi candidati alla vita monastica, nuovi postulanti. L'Athos vive una nuova primavera. Eppure, di tanto in tanto riaffiora la tentazione della chiusura, dell'integralismo, della conservazione gelosa dell'identità ortodossa. Come nel 2003, quando alcuni monaci di Esfigmenou, ribellandosi al Patriarca di Costantinopoli, giudicato troppo aperto, troppo debole verso l'Occidente, issarono la lugubre bandiera: «Ortodossia o morte!».

Battaglie di retroguardia? Scaramucce di una piccola minoranza? Manifestazioni di"zeloti", nemici del dialogo ecumenico, difensori di un ritualismo senz'anima? Certamente. Nella stragrande maggioranza, i monaci disapprovano questo fanatismo, anche se la diffidenza per l'altro, in particolare per i latini (fratelli sì, ma eretici) è ancora forte. Ma è inutile applicare, a una realtà così complessa, troppo riduttive categorie di giudizio, schemi politico-teologici che non reggono alla prova dei fatti.

«L'Athos sconcerta gli occidentali», scrive Olivier Clément nei Dialoghi con Atenagora. «E talvolta di esso si nota soltanto l'aspetto pittoresco o le ombre: la sporcizia, le celebrazioni dall'orario indefinito, la tentazione dell'omosessualità. Ma questo operaio che lavora al mulino è forse uno starec Silvano. La santità non si vede. Tuttavia essa riempie certi luoghi, e l'anima attenta scopre subito che il silenzio delll'Athos è saturo di santità». Saturo di santità e di bellezza.

(da Jesus, agosto, 2004)

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Fonti di rinnovamento.
Monasteri in Egitto
di Luciano Ardesi


Già culla del monachesimo cristiano, negli ultimi 50 anni il deserto egiziano è stato testimone di un grande risveglio spirituale e materiale degli antichi monasteri copto-ortodossi che lo punteggiano. Restaurati, questi luoghi sono oggi resi vivi dalla presenza di numerosi monaci. Anche le agenzie di viaggio li inseriscono nei loro programmi.

La rinascita del monachesimo nella chiesa copto-ortodossa ha inizio dopo la Seconda guerra mondiale, grazie soprattutto all'impulso degli ultimi due patriarchi: Cirillo VI (1959-71) e Shenuda III, ambedue provenienti da intense esperienze monastiche.

La tradizione dei primi Padri del deserto si rifà sostanzialmente a due modelli; quello di Sant’Antonio (251-356), il più celebre anacoreta (eremita), e quello di San Pacomio, di poco posteriore, fondatore del modello cenobita (comunitario). Oggi i due modelli coesistono nella maggior parte delle esperienze in corso.

Centro di questo rinnovamento spirituale è il monastero di San Macario, dove vive Matta el-Meskin ("Matteo, il povero"), conosciuto anche all'estero grazie alla traduzione delle sue opere. La sua esperienza aiuta a comprendere quella della stragrande maggioranza degli odierni monaci egiziani.

Nel 1948, Iuseff ha28 anni. Ha una laurea in farmacologia e gestisce una farmacia, che gli garantisce una vita relativamente agiata. Come il ricco Antonio 16 secoli e mezzo prima, però, sente forte il richiamo di Cristo: «Va', vendi quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» (Mc 10:21). Sceglie allora di ritirarsi nel deir Amba Samuel (monastero di San Samuele), il più povero e più isolato di tutto l'Egitto presso el-Fayum, da poco restaurato da Mena el-Motawahid ("l'eremita"), il futuro patriarca Cirillo VI. Il nome che si dà, Matta el-Meskin, è tutto un programma. Qui trascorre tre anni come padre spirituale del monastero, poi viene trasferito al deir el-Suryan (monastero dei Siriani), a Wadi el-Natrun, una zona conosciuta nella tradizione dei Padri dei primi secoli come deserto di Scete.

Nel 1959, in compagnia di alcuni compagni, Matta va a Wadi el-Rayan, dove vivono in grotte simili a quelle in cui erano vissuti i primi Padri del deserto. Vi rimane fino al 1969, quando Cirillo VI lo invita a raggiungere il monastero di San Macario (deir Abu Maqar), in procinto di essere chiuso. Qui, raggiunto da altri monaci, Matta diventa l'anima del rinnovamento spirituale e materiale del monastero, pur rifiutando di diventarne il superiore. In pochi anni, il cenobio moltiplica per sei la proprietà e giunge a ospitare un centinaio di monaci. Egli però continua a vivere in una grotta non lontana, visitando la comunità solo quando i monaci chiedono di lui come padre spirituale.



Ospitalità

Il deserto di Wadi el-Natrun è oggi raggiungibile con l'autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria. Delle decine di monasteri costruiti nel corso dei secoli ne rimangono solo quattro: deir Amba Bishoy, deir el-Suryan, deir el-Baramos e deir Abu Maqar. Quest'ultimo è il più noto e il più aperto ai cristiani di altre confessioni.

È abba Ireneo ad accompagnarmi nel corso della visita. Mi ha accolto con pane, olive e tè, a testimonianza della proverbiale ospitalità del luogo. Indossa l'abito tradizionale di lana nera, sormontato da un cappuccio ornato di croci ricamate. Mi dice che anche lui era stato un farmacista prima di farsi monaco. Aggiunge: «Quasi tutti in questo monastero siamo laureati nelle più diverse discipline, anche tecnologiche. Questo spiega perché siamo dotati di un computer e curiamo un nostro sito web. Molto visitato, del resto».

Il monastero oggi vanta 700 operai e vive dei prodotti della terra, che gli stessi monaci coltivano, dell'allevamento e delle pubblicazioni in proprio.

Molti, anche se non sollecitati, i doni e le offerte.

Anche se entrati nella modernità, i monaci non guardano la tivù né ascoltano la radio. La loro attività principale, oltre al lavoro manuale, è la preghiera. Due i momenti vissuti in comune: la recita delle lodi, dalle 4.00 alle 6.00 del mattino, e il pasto di mezzogiorno. La cena, sempre molto frugale, è consumata da ciascun monaco nella propria cella.

Poco lontano dal convento, vivono anche alcuni monaci anacoreti o eremiti, ai quali i monaci della comunità portano acqua e viveri una volta la settimana. «Hanno bisogno di molto poco» spiega abba Ireneo: «Pregano molto e non parlano con nessuno».

Come tutti i monasteri della regione, anche quello di San Macario ha subito nella sua lunga storia numerosi assalti e saccheggi. Conserva ancora le reliquie di 49 martiri, uccisi nel V secolo. Al centro del complesso c'è ancora lo qsar, la fortezza autosufficiente e isolata dal resto del complesso dove i monaci si rifugiavano in casi di aggressioni da parte dei nomadi.


Grande apertura

Oggi, l'aggressione esterna è di tutt'altra natura ed è rappresentata da migliaia di pellegrini e curiosi che vengono a visitare il luogo. I monaci mostrano di saper amministrare con equilibrio il loro desiderio di isolamento e il sano interesse che molti mostrano nei confronti del loro stile di vita.

Nei monasteri del deserto di Scete non esiste - né è mai esistita - una “Regola”. Ogni cosa viene governata dalla direzione spirituale del monaco più anziano, cui i discepoli devono obbedienza. A San Macario libertà spirituale e semplicità senza artifizi sembrano regnare più che altrove. Ed è proprio questa atmosfera a facilitare la grande apertura e l'intenso scambio spirituale tra il monastero e il resto della grande famiglia cristiana.

Dal punto di vista storico, fu la parte orientale del deserto, non distante dalla costa del Mar Rosso, a essere il primo centro d'irradiamento dei Padri del deserto. Qui si trova il monastero di San Paolo. Eretto forse nel VI secolo da Giustiniano e, secondo la tradizione, attorno alla cella-grotta di Paolo di Tebe, il primo anacoreta in assoluto, fu fatto bersaglio di ripetuti attacchi e quindi abbandonato per lungo tempo. Oggi, nonostante i restauri - alcuni anche recenti-, l'insieme degli edifici conserva un aspetto più tradizionale e arcaico degli altri. Esiste ancora, ad esempio, una porta con l'antico sistema usato per far entrare i monaci o gli approvvigionamenti, sollevandoli con corde attraverso un sistema di carrucole.

Il monastero di Sant'Antonio è situato ai piedi della montagna dove il grande eremita ebbe la sua ultima dimora. Costruito dai discepoli nel IV secolo ospita in una delle sue chiese la tomba del santo, tuttora meta di un continuo e affollate pellegrinaggio. Di recente, il patriarca Shenuda III l'ha voluto restaurare per farne un centro di impulso spirituale. Le sue alte mura racchiudono ben 10 ettari di terreno, facendone il più vasto dei monasteri copti. Dietro il complesso si snoda la lunga scalinata – un’ora di fatica! - che porta alla caverna di sant'Antonio, oggi trasformata in cappella.

Forse il monastero copto più noto agli occidentali e quello di Santa Caterina, nella penisola del Sinai. Per arrivarci, si deve attraversare il Canale di Suez e scendere lungo il Mar Rosso, le cui coste settentrionali si stanno ricoprendo di nuovi centri turistici che contrastano con la struggente bellezza del deserto. Incassato in una vallata ai piedi del Monte Sinai (Gebel Musa), meta anch'esso del turismo di massa, il monastero ha l'aspetto di una fortezza. Anche

qui, lungo i secoli, i monaci hanno dovuto difendersi da molti attacchi.

Oggi, invece, questo luogo spirituale è letteralmente "aggredito" dai turisti, di gran lunga più numerosi dei pellegrini veri e propri. È stato costruito un ostello per i visitatori, che assomiglia più a un vero e proprio hotel. Dall'altra parte della vallata, di rimpetto al monastero, una impressionante colata di cemento è venuta a rafforzare la capacità ricettiva della zona.


Fedeltà

Questo essere presi d'assalto proprio da quel mondo da cui si è cercato di allontanarsi non è una novità nella vita dei conventi egiziani. Basta leggere le storie degli antichi Padri del deserto per rendersi conto di quanta gente corresse da loro in cerca di consigli o con richieste di preghiera. Oggi come allora, comunque, i monaci sono maestri nell'arte di adattarsi e di rinnovarsi, pur riuscendo a rimanere del tutto fedeli alla tradizione, grazie soprattutto alla direzione spirituale di figure eccezionali.

La tradizione della chiesa copto-ortodossa vuole che i patriarchi e i vescovi siano scelti tra i monaci. Non sorprende quindi, che il monachesimo abbia mantenuto una centralità che invece, ha perso nella chiesa cattolica o comunque occidentale.

Non va dimenticata la dimensione femminile dell'odierno risveglio spirituale operato dal monachesimo. Oggi sono diversi i monasteri femminili riabilitati e ripopolati da monache. È però vero che, come le Madri del deserto (il primo monastero femminile fu diretto da Maria, sorella di Pacomio) furono oscurate dai Padri ieri, le comunità monastiche femminili sono surclassate da quelle maschili oggi.

Tra le varie ragioni del rinnovamento del monachesimo egiziano alcuni citano la reazione alle molte discriminazioni cui i copti sono oggi sottoposti nel paese, soprattutto con l'avanzare del fondamentalismo islamico. C'è chi si spinge oltre e parlerebbe addirittura di una sorta di “nazionalismo copto”

Dagli anni Ottanta, le vocazioni monastiche sono notevolmente aumentate e il loro rifiorire contrasta vistosamente con il languire di molti monasteri in Europa. Non sorprende, pertanto, che alcuni monaci occidentali vengano proprio qui ad attingere alla sorgente della vita monastica, dando così vita a una nuova interessante esperienza di spiritualità e di conoscenza. Consapevoli di questo nuovo ruolo e delle loro attuali potenzialità, i monaci copti hanno intrapreso l'attività missionaria, anche per assumersi la cura pastorale della diaspora copta nel mondo. Un monastero è stato fondato anche nel deserto della California, e porta naturalmente il nome di Sant'Antonio.

(da Nigrizia, dicembre 2004)

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L'uomo, nel corpo, è immagine di Cristo risorto nel corpo. Quello che si tratta di affermare è quindi il rapporto tra corpo e risurrezione.

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Lo Spirito Santo
nella tradizione delle chiese orientali

di Tomáš Špidlík



Nella vita di san Serafino di Sarov, santo popolare russo morto nel 1833, si legge questo episodio, più volte citato. Si tratta di un colloquio che egli ebbe con uno dei suoi figli spirituali, un certo Motovilov, guarito dall'uomo di Dio da un grave reumatismo.

Lo starets (= padre) Serafino era famoso per il dono della chiaroveggenza spirituale. Perciò non sorprendono queste parole: «Dio mi ha rivelato - disse - che in gioventù tu desideravi ardentemente sapere qual’è il fine della vita cristiana e che più volte hai interrogato in proposito persone importanti ed esperte di cose spirituali».

Motovilov dovette ammettere che ciò era vero, perciò lo starets continuò: «Essi [i preti] ti hanno detto: Va in chiesa, prega Dio, osserva i comandamenti di Dio, fa il bene. Ecco, per te, il fine della vita cristiana».

Non è, forse, questo l'insegnamento che sentiamo spesso e diamo anche noi? Il fine della vita cristiana ci sembra chiaro: fare il bene. Il dovere specifico dei predicatori, poi, è spiegare più in concreto in che cosa quel bene consista. Serafino non si accontentò di questa risposta: «Non ti parlavano come occorre. La preghiera, il digiuno, le veglie e tutte le altre opere del cristiano, per eccellenti che siano, non sono, in quanto opere, lo scopo della vita cristiana, sebbene siano mezzi indispensabili per conseguirlo. Il vero fine della vita cristiana consiste nell'acquisire lo Spirito di Dio, la grazia dello Spirito Santo».

Con questo insegnamento Serafino rimane pienamente nella tradizione della chiesa orientale che presenta lo Spirito Santo come principale e vero autore della nostra santificazione. Egli abita nei nostri cuori umani così che i cristiani diventano «un solo spirito con il Signore» (Pseudo Macario). L'uomo non può essere chiamato spirituale per il solo fatto che possiede un'anima immateriale, capace di conoscere e cercare i valori che nel linguaggio profano vengono chiamati "spirituali": la filosofia, la scienza, l'arte. Nel senso autenticamente cristiano l'uomo è chiamato spirituale a livello più elevato: perché possiede in sé lo Spirito Santo. Fu un grande contributo che sant'Ireneo diede stabilendo questa verità contro gli gnostici: «Molti uomini - scrive - non possiedono lo Spirito ... questi sono coloro che Paolo chiama carne e sangue.... Ma tutti quelli che temono Dio, che credono alla venuta del suo Figlio e che, per fede, stabiliscono nei loro cuori lo Spirito di Dio, questi meritano di essere chiamati spirituali, perché hanno lo Spirito del Padre che purifica l'uomo e lo eleva alla vita di Dio».

L'interlocutore di Serafino ebbe però delle difficoltà, non sull'insegnamento ma sulla prassi: «Padre, ecco che voi continuate a parlare di acquisto della grazia dello Spirito Santo e mi dite che in ciò consiste il fine della vita cristiana, ma come posso scorgerlo?

Le buone opere sono visibili, ma come si può vedere lo Spirito Santo? Come saprò se è in me o meno?». Non vi è dubbio che non fu soltanto Motovilov a porsi una tale domanda. Perciò l'esperienza miracolosa dello Spirito che seguì la preghiera di Serafino fu, come notò egli stesso, destinata a confermare la fede di tanti altri che, nel futuro, avrebbero letto questi ricordi.

Non tutti, evidentemente, possono avere una tale occasione straordinaria di sentire la presenza dello Spirito come luce, calore, felicità. D'altra parte, tutti i cristiani, dai tempi antichi si chiedevano come avrebbero potuto sapere se avevano o meno lo Spirito Santo. È lecito aspirare ad averne conoscenza? La questione dell'esperienza religiosa era sempre attuale in Oriente. Il teologo russo Vladimir Lossky afferma che «la tradizione orientale non ha mai distinto nettamente tra mistica e teologia». Come lo Spirito Santo potrebbe essere chiamato "luce" se la sua presenza non fosse vista in alcun modo e solo vi si "credesse"? Ma, d'altra parte è vero che verso la fine del secolo IV vennero condannati i carismatici esagerati, i cosiddetti "messaliani".

Questi identificavano la presenza dello Spirito Santo con la propria esperienza: chi lo sente lo possiede; chi non lo possiede non lo sente. La reazione degli ortodossi fu netta: «la grazia è deposta segretamente nel fondo dello Spirito, fin dall'istante del battesimo, sottraendo la sua presenza al sentimento». Così scrive, contro i messaliani, un grande autore spirituale greco del V secolo, Diadoco di Fotica.

Ma anch'egli non ha voluto esagerare nella direzione opposta. Il fatto che non possiamo sempre sentire lo Spirito è vero, però è una conseguenza del peccato. Questo genera in noi una anaisthesia, insensibilità per le cose divine. Col progresso della vita spirituale dobbiamo superarla. Nel contesto del discorso, l'autore spirituale russo Teofane il Recluso (+1894) dichiara che il risveglio dei sentimenti va, in un certo qual senso, di pari passo con la recuperata salute spirituale. Lo stesso Spirito Santo ci aiuta a sentirlo.

La pedagogia divina è, molto frequentemente, la seguente:

1. La grazia è presente dall'inizio, dal battesimo.

2. Quando qualcuno decide di proseguire la sua santificazione, lo Spirito fa spesso sentire la sua consolazione, una ricompensa per le fatiche.

3. Più tardi si nasconde di nuovo e Dio lascia i suoi santi nella sofferenza.

4. Alla fine, quando il periodo della purificazione è compiuto, Dio accorda di nuovo le sue consolazioni e la pienezza dello Spirito Santo.

È evidente che in questa vita il significato della "pienezza dello Spirito" si deve intendere in senso assai ristretto. Per esprimerlo gli autori utilizzavano una metafora tradizionale: «come una donna incinta». Lei sa che il bambino esiste nella sua vita, ma non conosce la sua forma e la sua bellezza. Così anche per il cristiano la grande consolazione sta nel fatto di sentire lo Spirito nel proprio cuore.

Il grande mistero della vita cristiana è dunque quello delle molteplici relazioni dello spirito umano con lo Spirito di Dio. In certi istanti tutti e due appaiono così uniti da sembrare fusi, ma in altri sembra ci sia una distanza infinita che li separa L'anima che si sente separata dallo Spirito si vede in un abisso di debolezza e di ignoranza, è piena di tristezza e di desolazione. Ma questo stato non è duraturo. .All'improvviso tutto cambia. L'uomo si sente forte, illuminato, pieno di gioia e di consolazione spirituale.

Il problema del come "sentire" la presenza dello Spirito può essere definito di un ordine pratico che tocca direttamente la vita spirituale. La teologia speculativa, al contrario, rimaneva perplessa davanti alla domanda teorica se lo Spirito Santo fosse la terza Persona divina. Egli viene nel nostro cuore come un "ospite divino". Un'antica formula cristiana parla dell'«angelo-Spirito Santo", inviato dal Padre. Come può unirsi con noi in modo tale da diventare «un solo spirito con il Signore»?

Per facilitare la risposta, la teologia occidentale parla della "grazia santificante", di un dono creato che trasforma la nostra anima e costituisce il fondamento reale per i nuovi rapporti con Dio. I Padri greci e gli autori orientali in genere, al contrario, continuano ad usare il linguaggio della Sacra Scrittura: lo Spirito Santo in persona viene ad abitare nei nostri cuori e si unisce così intimamente con noi che diventiamo "uno". San Basilio non esita a chiamare lo Spirito Santo la nostra "forma" e, per Teofane il Recluso, lo Spirito è «anima della nostra anima». Si tratta di una "incarnazione" dello Spirito nella chiesa e nei fedeli. Con quali parole umane esprimere questo mistero? L'Oriente cristiano usa il termine "divinizzazione", "spiritualizzazione", "vivificazione".

Lo Spirito Santo è Dio che entra nella nostra vita, ci vivifica e ci divinizza, non distruggendo la nostra umanità, ma, al contrario, elevandola e perfezionandola. Egli rende l'uomo più libero, mentre il mondo e lo spirito maligno si impossessano delle nostre facoltà rendendoci schiavi.

Riassumendo l'insegnamento tradizionale, Teofane il Recluso scrive: «L'essenza della vita in Gesù Cristo, della vita spirituale, consiste nella trasformazione dell'anima e del corpo e nell'introduzione nella sfera dello Spirito, cioè nella spiritualizzazione dell'anima e del corpo».

La vita spirituale, inoltre, ha un influsso determinante sulle nostre relazioni con il prossimo ed anche sui rapporti con la natura irrazionale, con il cosmo. L'uomo, nel mondo visibile, realizza il suo fine spirituale con la "spiritualizzazione cosmica".

All'inizio di ogni Ufficio divino la chiesa bizantina invoca lo Spirito con questa preghiera: «Re celeste, consolatore, Spirito di verità, che sei dovunque presente e riempi ogni cosa, Tesoro di beni e donatore di vita, vieni e rimani in noi e salva le nostre anime, Tu che sei buono».

(da Orientamenti pastorali)
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Venerdì, 04 Novembre 2005 22:05

La Chiesa Greco-Melkita (Lorenzo Lorusso)

La Chiesa Greco-Melkita

di Lorenzo Lorusso o.p.


Cenni storici.

La Chiesa Melkita non è una Chiesa nazionale come tutte le altre Chiese orientali, ma è una Chiesa sparsa in tutto il Vicino Oriente arabo e nella diaspora, ereditaria legittima di tre sedi apostoliche:

Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Le sue origini si confondono con la predicazione del Vangelo nel mondo greco-romano del Mediterraneo orientale e l'estensione del cristianesimo al di là dei confini dell’Impero. La formazione dei patriarcati di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme, i primi al concilio di Nicea (325 d.C.), il terzo a Calcedonia (451 d.C.), l'hanno formata e ne hanno fatto una entità territoriale e giuridica.

La Chiesa Melkita deve il suo carattere di Chiesa sui iuris a due fedeltà: quella all'impero di Bisanzio e quella ai sette primi concili ecumenici. Il suo nome lo si deve ai monofisiti (ritenevano che dopo l'incarnazione ci fosse in Cristo una sola natura) per stigmatizzare la sua fedeltà all'imperatore (malka in siriano) e alla dottrina del Concilio di Calcedonia.

La conquista arabo-islamica del VII secolo portò i patriarcati melkiti sotto la dominazione non cristiana, e così Alessandria, Antiochia e Gerusalemme saranno in terra d'Islam fino alla dominazione ottomana del 1516. Salvo rare eccezioni, i cristiani non subirono persecuzioni, ma un regime di vessazioni e di soggezioni. Essi assumeranno con rassegnazione e coraggio il loro nuovo ruolo di testimoni di Cristo in Islam. Non avendo più la possibilità di svolgere un ruolo politico, i Melkiti si dedicheranno alle professioni liberali, soprattutto la medicina, e saranno gli artigiani della versione in arabo dell'eredità filosofica, medica e scientifica della Grecia antica.

La riconquista bizantina non durerà che un secolo (960-1085). Essa ebbe come conseguenza la bizantinizzazione della liturgia dei tre patriarcati.

Con le crociate, i patriarchi e i vescovi latini rimpiazzarono i gerarchi melkiti (ad eccezione di Alessandria). La Chiesa locale fu sottomessa a una Chiesa straniera. Una sorta di estraniazione si stabilì tra le due, senza che la prima, tuttavia, rompesse le sue relazioni con Roma.

Il regno dei Mamelucchi (1250-1516) non solo mise fine ai possessi franchi in Oriente, ma fu un periodo cruciale per le comunità cristiane: persecuzioni, distruzioni, massacri. Risale a questo periodo una regressione del cristianesimo. Tuttavia il "piccolo resto" continuerà la sua missione di testimonianza e di fedeltà a Cristo.

La conquista ottomana (1516-1918) non fu più clemente, almeno fino al XVII secolo. Ormai tutto l'Oriente dipendeva da una sola autorità, quella del sultano. Costantinopoli diverrà non solo capitale politica di un immenso impero, ma anche capitale religiosa dell'Oriente, come Roma lo era per l'Occidente. Il Patriarca ecumenico fu chiamato ad esercitare un'autorità sui gerarchi melkiti. La loro conferma e a volte la loro elezione dipendeva ormai da Costantinopoli. La gerarchia d'Alessandria e di Gerusalemme si ellenizzò completamente. A partire dal 1534 sino ai nostri giorni, tutte le loro sedi episcopali furono assegnate ai greci. I due patriarcati si staccarono così da Roma per abbracciare lo scisma. L'ellenismo non ebbe presa su Antiochia, i cui patriarchi erano scelti fra il clero indigeno; essi conservarono dei legami con Roma, anche se qualche gerarca restava più favorevole a Costantinopoli che a Roma.

La comunione con Roma.

Dopo l'unione formale stabilita al Concilio di Firenze, alcuni missionari gesuiti, cappuccini, carmelitani e francescani, si misero al servizio della gerarchia locale e cooperarono con essa. Gli stessi pastori che non erano in comunione con Roma indirizzarono i loro fedeli ai missionari. Il popolo sentiva la necessità di una intelligenza più profonda della fede tradizionale che professava malgrado la repressione. Una parte attirata dalla cultura occidentale prese in blocco ciò che la latinità le apportava. Fu così che dopo qualche decennio apparve una nuova maniera di concepire la fede tradizionale. Il comportamento di questi nuovi "cattolici1' fu considerato come un tradimento e una mutazione della fede ancestrale da una frazione attaccata al suo passato. Così la comunione con Roma fu messa in questione e due modi di concepirla fecero la loro apparizione. L'identità antiochena si perse. Una frazione di fedeli propendeva verso Bisanzio e divenne più costantinopolitana che antiochena, e l'altra verso Roma con una forma di relazione più romana che fedele alla fede della Chiesa locale. Così alla morte del patriarca Atanasio nel 1724, una doppia linea di patriarchi fu instaurata: una ortodossa e l'altra cattolica. Esse durano ancora ai nostri giorni.

La Chiesa greco-melkita-cattolica si organizzò interiormente. Nuovi Ordini monastici furono fondati. Un clero educato a Roma dispensava l'insegnamento nelle nuove scuole fondate. Un seminario fu aperto a Ain Traz (1811). Ricordiamo in modo particolare due grandi patriarchi del XIX secolo: Maximos Mazloum (1833-1855) e Grégoire Joseph (1864-1897). Mazloum perfezionò la legislazione canonica tramite i concili di Ain Traz del 1835 e di Gerusalemme del 1849; estese la sua sollecitudine al patriarcato di Alessandria, dove si erano rifugiati i cattolici di Siria e del Libano per fuggire alle persecuzioni, e al patriarcato di Gerusalemme. Nel 1838 al patriarca di Antiochia fu anche riconosciuto il titolo patriarcale di Alessandria e Gerusalemme. Ma Mazloum è soprattutto conosciuto per essere stato l'artefice del riconoscimento da parte del sultano dell'indipendenza completa della sua Chiesa, tanto dal punto di vista civile che ecclesiastico (1848).

Il patriarca Grégoire Joseph lavorò per la riforma della sua Chiesa nel senso della pura tradizione orientale. Al Concilio Vaticano I si oppose all'opportunità della proclamazione dei dogmi del primato e dell'infallibilità del Papa, così come venivano intesi dalla maggioranza dei Padri, e abbandonò i lavori del Concilio proprio in prossimità della votazione della costituzione Pastor Aeternus. L'approvazione del patriarca infine giunse, ma in un secondo momento (rispetto alla votazione del Concilio). Egli lottò contro il protestantesimo che penetrava con forza in Oriente, fondando i collegi patriarcali di Beirut (1865) e di Damasco (1875). Nel 1866 riaprì il seminario di Ain Traz, ma soprattutto fu all'origine di quello di S Anna di Gerusalemme (1882).

Ricordiamo anche il patriarca Maximos IV (1947-1967), per il suo apporto al Concilio Vaticano II. Egli era cosciente di parlare a nome dei "fratelli assenti", della Chiesa ortodossa. Egli concepiva la sua Chiesa come ponte tra Roma e l'Ortodossia. Il suo successore, Maximos V Hakim, ha seguito la linea tracciata dal suo predecessore, ma con un attenzione tutta particolare ai fedeli della diaspora.

Attualmente, la Chiesa Melkita conta circa 1.350.000 fedeli distribuiti in quattordici eparchie (diocesi) in Siria, Libano, Giordania e Israele, cinque eparchie in diaspora (USA, Brasile, Messico, Australia, Canada), due esarcati patriarcali (Iraq e Kuwait), due esarcati ortodossa. Brasile, Messico, Australia, Canada), due esarcati patriarcali (Iraq e Kuwait), due esarcati apostolici (Argentina e Venezuela). Egitto, Sudan e Gerusalemme sono considerati territori patriarcali. (...)

L'attuale Patriarca, S.B. Grégoire III Lahham, è nato a Daraya, presso Damasco, il 15 dicembre 1933. Nel 1943 entrò nel seminario dei Salvatoriani presso Saida in Libano. Dopo gli studi istituzionali fu inviato a Roma nel 1956 presso il Pontificio Istituto Orientale, dove conseguì il dottorato in Scienze Ecclesiastiche Orientali. Fu ordinato presbitero il 15 febbraio 1959 nella chiesa del monastero di Grottaferrata. Tornato in Libano, fu nominato superiore del Grande Seminario del suo Ordine a Jeita, presso Beirut, e insegnava teologia e liturgia presso l'università dello Spirito Santo di Kaslik (Beirut).

Nel 1974, dopo l'arresto dell'arcivescovo Hilarion Capucci da parte delle autorità israeliane, il patriarca Maximos V Hakim lo nominò Amministratore Patriarcale, poi Vicario patriarcale di Gerusalemme. Il 27 novembre 1981 fu consacrato vescovo a Damasco.

Quando il patriarca Maximos V rassegnò le sue dimissioni per motivi di salute, il Santo Sinodo riunito a Raboueh il 29 novembre 2000 lo elesse Patriarca di Antiochia e di tutto l'Oriente, di Alessandria e di Gerusalemme. La sede patriarcale è Damasco (Siria).

L'anno liturgico bizantino.

Il rito della Chiesa Melkita è quello bizantino, celebrato sia in arabo come in greco, con la forma dei sacramenti, dell'Eucaristia e del tempio uguale a quello delle Chiese ortodosse. Il rito bizantino chiamato anche rito greco, si è sviluppato a Costantinopoli sulla base di elementi provenienti dalla tradizione di Antiochia, Alessandria e dalla Cappadocia. All'inizio era solamente in greco, ma a partire dal medioevo è stato tradotto nelle lingue utilizzate dalle diverse popolazioni che aderivano alla fede calcedonese, nel Medio Oriente e nelle regioni limitrofe, quindi in Europa centrale ed orientale ed in Russia. Questo è il rito proprio delle Chiese ortodosse calcedonesi e delle Chiese greco cattoliche. Oltre il patriarcato ortodosso di Costantinopoli e qualche gruppo di fedeli cattolici in Turchia, il rito bizantino è seguito in Medio Oriente dai patriarcati greco-ortodossi di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme, come dalla Chiesa Melkita cattolica. I patriarcati ortodossi di Antiochia, di Gerusalemme e di Alessandria e la Chiesa Melkita utilizzano soprattutto come lingua liturgica l'arabo, mentre l'impiego del greco è stato ripreso nel patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, anche se limitato alle celebrazioni liturgiche nei luoghi santi e nei monasteri. Nel patriarcato di Costantinopoli il greco è la lingua liturgica.

Ispirazione principale della liturgia è la lettura della Sacra Scrittura. Nella tradizione bizantina grande rilievo viene dato alla lettura del Nuovo Testamento, del quale si prevede la lettura integrale ogni anno. La lettura diretta dei testi dell'Antico Testamento, invece è piuttosto limitata.

Durante l'anno liturgico si legge il Vangelo secondo diverse modalità. In una prima sezione, si segue l'ordine dei quattro Vangeli: Giovanni, da Pasqua a Pentecoste; Matteo, dopo Pentecoste sino al 14 settembre (Esaltazione della Croce); Luca, sino alla quaresima; Marco, in quaresima.

Altre sezioni raccolgono i testi di tutti e quattro i Vangeli relativi alle feste o ai giorni che ricordano avvenimenti particolari della vita di Gesù: un gruppo segue il calendario lunare della Pasqua ebraica; un altro gruppo il calendario solare dei dodici mesi.

L'anno liturgico bizantino si svolge secondo due cicli ben distinti. Uno ruota attorno alla Pasqua, ed è legato al calendario lunare; l'altro celebra le altre feste attorno al calendario solare dei mesi.

A. Il ciclo lunare è centrato sulla Pasqua e comporta diversi momenti:

1. La preparazione alla Pasqua con la pre-quaresima (4 domeniche e 3 settimane) e la quaresima o 40 giorni. Durante la quaresima si celebra la Divina Liturgia soltanto di sabato e di domenica, oppure, in altri giorni e per circostanze particolari, si presenta nella forma detta dei "Presantificati".

2. La Grande Settimana inizia con il sabato e la domenica, che ricordano la risurrezione di Lazzaro e l'entrata a Gerusalemme. Dal lunedì al giovedì evoca gli ultimi insegnamenti di Gesù e gli avvenimenti che precedono immediatamente la Passione. Culmina nei tre giorni, da venerdì a domenica, ove si celebrano successivamente la Passione, la Morte e la Risurrezione.

3. Cinquanta giorni seguenti, Penticostarion, celebrano la pienezza del mistero della Risurrezione.

4. Anche il tempo dopo la Pentecoste conserva diversi legami con il calendario lunare. Dopo la Domenica di "Tutti i Santi", che chiude il Penticostarion, si ripristina l'uso del ciclo liturgico settimanale. Esso parte dalla domenica, centrata sulla Risurrezione ma al contempo inserita nell'insieme del mistero divino. Il lunedì ricorda gli angeli; il martedì Giovanni Battista; il mercoledì e il venerdì il mistero della Croce vivificante; il giovedì gli apostoli e San Nicola; il sabato i defunti e più specialmente i Santi. La Madre di Dio è inseparabilmente associata a tutte le celebrazioni, e il ricordo dei martiri viene spesso evocato.

B. Il ciclo solare segue il calendario mensile. Con inizio il primo Settembre, comprende le feste del Signore, della sua Madre, dei Santi e di avvenimenti particolarmente importanti come i concili ecumenici. Si celebra in date fisse.

L'anno liturgico bizantino è una continua celebrazione del mistero pasquale-pentecostale. questa impronta risurrezionale-escatologica della liturgia bizantina è la base per la devozione ai defunti così marcata nell'anno bizantino.

(da O Odigos - La guida, n. 3, luglio/settembre 2004, p. 15)



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Le Chiese dell'oriente cristiano
VII. La Chiesa Ortodossa Eritrea
di Mervyn Duffy


 

Il cristianesimo in Eritrea, regione situata lungo il litorale di sud-ovest del Mar Rosso, data almeno dal quarto secolo  periodo in cui fiorì  il regno cristiano antico di Aksum.  Questo regno cominciò a declinare  nel settimo secolo come conseguenza delle invasioni musulmane, ed il nuovo regno si stabilì e si consolidò all’interno, nell’altipiano etiopico.  La regione tuttavia mantenne una certa indipendenza finchè cadde sotto la dominazione musulmana  nel sedicesimo secolo. L’Eritrea  fu  una colonia italiana da 1890 a 1941, quando questa fu presa dagli Inglesi. Ha formato una federazione con l'Etiopia nel 1952 ed è stata annessa come provincia etiopica  nel 1962.  La lunga lotta per l’autogoverno culminò con la dichiarazione di indipendenza il 24 maggio 1993.  In quel tempo la popolazione ortodossa del paese  era, come circoscrizione religiosa, all'interno della chiesa ortodossa etiopica.

Nel mese di luglio del 1993, con il supporto del governo, i vescovi della regione chiesero al Papa Shenouda III della Chiesa Ortodossa Copta  la separazione dalla Chiesa Ortodossa Etiopica ed il riconoscimento dello status di autocefalia.  Il 28 settembre 1993  il Santo Sinodo Copto rispose favorevolmente alla richiesta ed autorizzò la formazione, nei monasteri copti, di circa dieci vescovi per l’Eritrea. Il 19 giugno 1994 il Papa Shenouda, al Cairo ne ordinò cinque come nuovi vescovi.

Il processo di costituzione di una Chiesa Ortodossa Eritrea si è avviato e stabilizzato in accordo con la Chiesa Ortodossa Etiopica

 All'inizio di settembre del 1993  il patriarca etiopico Paulos  ed l’arcivescovo Philippos di Asmara, vescovo dell’Eritrea,  firmarono l’accordo che sanzionava  la separazione delle loro chiese, mentre  affermava  il loro desiderio di lavorare sempre  e  molto attentamente insieme. Il 28 settembre 1993. Nel febbraio del 1994  le due Chiese, eritrea ed etiopica, hanno firmato ad Addis Ababa  un  accordo che  riafferma lo status di autocefalia  per entrambe le chiese e riconosce alla Chiesa Copta un Primato di Onore fra le chiese ortodosse orientali in Africa.

Dopo  intense discussioni tra il governo civile ed i capi della Chiesa eritrea nel mese di aprile del 1998  l’Arcivescovo di Asmara  Philippos è stato scelto come  primo patriarca della Chiesa Ortodossa  Eritrea. È stato installato come patriarca dal papa Shenouda III al Cairo il giorno 8  maggio del 1998.  Un protocollo fu firmato in tale occasione tra i due Santi Sonodi, eritreo ed etiopico.

In  esso si prevede una stretta collaborazione tra le due Chiese, la memoria dei due Patriarchi nella liturgia di entrambe le chiese, la convocazione, almeno ogni tre anni, di un Sinodo generale comune, la formazione di una comune commissione teologica per il dialogo con le altre Chiese, l'istituzione di un comitato permanente dei due sinodi per promuovere la cooperazione in  alcuni settori come la formazione teological, i servizi sociali ed i progetti di sviluppo.

 Su una popolazione di circa  3.500.000 gli ortodossi  sono circa il 40% , il 50% sono musulmani  sunniti, il  5%  sono cattolici ed i protestanti il 2%. La maggior parte  degli ortodossi sono membri del gruppo etnico di Tigrinya che risiede per la maggior parte sugli altopiani centrali e del sud. Oggi la chiesa ortodossa di Eritrea ha circa 1.500 chiesa, 22 monasteri e 15.000 preti.

I fedeli ortodossi  eritrei in Gran Bretagna sono sotto la cura pastorale del  vescovo Markos, che ha responsabilità della diaspora. Il vescovo Bishop Makarios un eritreo etnico e membro del Santo Sinodo Copto, è responsabile dei fedeli eritrei ortodossi  negli Stati Uniti.

 


TERRITORIO: Eritrea e diaspora
GUIDA: Patriarca Antonios I ( eletto nel 2004)
TITOLO: Patriarca dell’ Eritrea
RESIDENZA: Asmara, Eritrea
INSIEME DEI MEMBRI: 1.400.000

Pubblicato in Chiese Cristiane

Piccola introduzione
alla teologia dell'icona
di Olivier Clément




Nella tradizione "ortodossa", l'icona fa parte integrante della celebrazione. Si tratta di un'arte liturgica che non può essere isolata dal suo contesto ecclesiale: la Scrittura e il suo ampio commentario innografico, ricco di dottrina e di spiritualità.

Le immagini (icona, eikônin greco, significa immagine) sono apparse molto presto nel mondo cristiano: si conosce l'arte delle catacombe, arte funeraria piena della gioia della risurrezione. Ma quest'arte riprende la sua tecnica dall'arte romana o ellenistica del suo tempo e si limita a cristianizzarla tramite il gioco dei segni e dei simboli. A partite dal IV e dal V secolo appare l'icona che include i simboli nei volti, mentre la teologia trinitaria include l'essere nella comunione.

Tuttavia una corrente ostile alle immagini persiste nel cristianesimo, attinge argomenti di interdizione nell'Antico Testamento e nella paura (talvolta giustificata) dell'idolatria, spingendosi fino a uno spiritualismo dematerializzante: Altro argomento contro le immagini è il carattere pan-umano di Cristo, da cui l'impossibilità di rappresentarlo.

La crisi esplode intorno al 726 e va avanti fino all'843. Alcuni imperatori energici, strappando lo Stato dal caos che si era creato. ingaggiano una lotta contro il monachesimo il quale, di fatto, limita il loro potere e sembra compromettere la vita sociale. Profezia del Regno di Dio, testimonianza di un Signore crocifisso, l'ideale monastico si inscrive nell'icona. Un'ampia politica di secolarizzazione appoggiata dall'esercito e dai teologi spiritualisti diventa allora iconoclasmo.

La crisi ha permesso di fondare e di purificare la venerazione delle sacre immagini. Contro una concezione puramente speculativa della trascendenza, la Chiesa sottolinea che il Dio vivente trascende la sua stessa trascendenza per rivelarsi in un volto d'uomo. L'icona per eccellenza, quella di Cristo, si giustifica con l'Incarnazione, anche perché il Figlio non è solo la Parola, ma anche l'Immagine (consustanziale) del Padre, "fonte della divinità". «Nei tempi antichi - scrive san Giovanni Damasceno - Dio, incorporeo e senza forma, non poteva essere raffigurato sotto nessun aspetto; ma ora, poiché Dio è stato visto mediante la carne ed è vissuto in comunanza di vita con gli uomini, io raffiguro ciò che di Dio è stato visto» (Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. Discorsi apologetici contro coloro che calunniano le sacre immagini, I, 16, tr. it. di V. Fazzo, Roma 1983, p. 45). Perché, così come il Verbo si è fatto carne, la carne si è fatta Verbo. Il Damasceno respinge l'obiezione di chi considera la materia indegna e sottolinea che la grazia, in Cristo, ha penetrato la materia e ha liberato la sua potenziale sacramentalità. «Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, che è diventato materia a causa mia… Venero la materia attraverso la quale è avvenuta la mia salvezza, poiché essa è piena di potenza e di grazia divina» (Ibid. pp. 45-46).

Così, «quando colui che è immenso e sussistente nella forma di Dio si è invece ristretto alla misura e alla grandezza, dopo aver preso la forma di schiavo... riproduci la sua forma su di un quadro, ed esponi alla vista colui che ha accettato di essere visto. Di lui riproduci l'inesprimibile condiscendenza…» (Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. I, 8, ibid., p. 37).

Questo è l'argomento fondamentale da Dionigi l'Areopagita a Teodoro Studita: in Cristo l'invisibile si fa vedere perché il Segreto è anche Amore. Antinomia che doveva sistematizzare nel XIV secolo san Gregorio Palamas, per il quale Dio è totalmente inaccessibile - essenza o sovraessenza - eppure si rende totalmente partecipabile nelle sue "energie".

Da qui l'importanza nella teologia dell'icona del tema della trasfigurazione e dell'immagine "non fatta da mano d'uomo".

«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte» (la tradizione ha precisato che si trattava del Tabor). « E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce ». Una variante dice: «come la neve» (Mt 17,1-2). Luca precisa: «candida e sfolgorante» (9,29).

Quando un cristiano, monaco o laico non importa, accede al ministero di iconografo, il sacerdote recita su di lui l'essenziale dell'ufficio della Trasfigurazione. I teologi dell'icona non hanno cessato di commentare i testi evangelici consacrati a questo episodio. Dice Atanasio il Sinaita: «Cosa c'è di più sconvolgente di vedere Dio nella forma di un uomo, il volto risplendente, radiante più del sole?» (Omelia sulla Trasfigurazione, PG 84, 1376).

In Cristo, d'altra parte, il tempo è ricapitolato e l'icona implica memoria e anticipazione, una sorta di visione che guida la mano dell'artista. "Cristo stesso ha trasmesso la sua immagine alla Chiesa", scriveva all'inizio della crisi iconoclasta Giorgio di Cipro (Nouthesia, ed. Mélioniransky, p. XXIII). La memoria di questo volto - il Santo Volto - è evocata da due racconti significativi: in occidente, quella del velo con cui Veronica (da vera in latino e eikôn, "immagine", in greco) avrebbe asciugato il volto di Gesù durante la Via Crucis; in oriente, quella del Mandylion, un velo anch'esso, sul quale Gesù avrebbe volontariamente impresso la sua immagine rispondendo al desiderio del re Abgar di Edessa, ammalato. Effettivamente qualche cosa è stata scoperta ad Edessa nel VI secolo e trionfalmente portata a Costantinopoli nel 944, qualcosa che ha precisato fin nei particolari la rappresentazione di Cristo. Un sudario forse, di cui non si può dire esattamente che legame avesse con la Sindone di Torino, tanto studiata oggi. Più ampiamente il Volto di Cristo è detto acheropita, "non fatto da mano d'uomo", così come Maria concepisce in modo verginale, perché la mano dell'artista, se questi si è preparato con la preghiera e il digiuno, è guidata miracolosamente dallo Spirito (cfr Giorgio di Pisidia, Poemi, in «Studia Patristica et Byzantina», 1960, p, 91).

La proibizione di rappresentare Dio (nell'Esodo e nel Deuteronomio) non vale più non solo per Cristo. Non vale neanche per sua Madre, per i suoi amici, le membra dei suo Corpo sacramentale. L'uomo creato "ad immagine" di Dio è predestinato a diventare «conforme all'immagine del Figlio suo» (Rm 8,29), «trasformato in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18). Egli si deve rinnovare sempre «ll'immagine del suo Creatore» (Col 3,10). Fondata nell'incarnazione del Figlio eterno, l'icona si moltiplica tramite la santificazione degli uomini nello Spirito: le icone della Madre di Dio e del santi anticipano la trasfigurazione finale: «quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3,4).

È quanto riassunte meravigliosamente il ritornello liturgico (kontakion) della Domenica dell'Ortodossia, prima domenica di Quaresima in cui la Chiesa celebra solennemente il ristabilimento definitivo del culto delle sacre immagini nel 843: «L'incircoscrivibile Verbo del Padre, incarnandosi da te, Madre di Dio, è stato circoscritto, e, riportata all'antica forma l'immagine deturpata (cioè l'uomo), l'ha fusa con la divina bellezza» (tr. it. Anthologhion II. Roma 2000, p. 596).

I teologi dell'icona hanno chiaramente distinto l'icona dall'idolo, sottolineando che l'icona non pretende affatto di afferrare colui (o colei) che rappresenta: "immagine artificiale", l'icona non è in niente della stessa natura del suo modello. Non appartiene all'ordine magico del possesso, ma all'ordine propriamente cristiano della comunione. Non rientra nella categoria del sacramento in cui la maceria riceve una forza santificante, ma rimanda alla categoria della relazione, di un incontro interpersonale. Il prototipo, che è divino-umano (Cristo) oppure l'umano deificato (il santo) sfugge ad ogni opacità, separazione. Al contrario si rende presente e accogliente nell'immagine che rappresenta la sua "somiglianza". La presenza iconica è dunque una trasparenza personale, «secondo la somiglianza dell'ipostasi» (Teodoro Studita, Antirrheticus II, 3,1), cioè della persona allo stesso tempo unica e in comunione. L'icona permette l'incontro degli sguardi (da cui l'importanza della pupilla dell'occhio, [Strana coincidenza: Guillaume Apollinaire nella poesia "Zone" all'inizio della Raccolta Alcools scrive: «Pupilla, Cristo dell'occhio»] proprio come punto della trascendenza) in cui, più che guardare, sono io ad essere guardato. Sono guardato da uno sguardo di santità, uno sguardo al di là della morte che mi trascina verso questo aldilà. Uno sguardo da risorto che sveglia in me la mia resurrezione e l'immagine di Dio come una chiamata alla libertà e all'amore.

L'iscrizione del Nome sull'icona (épigraphé) sottolinea questa relazione con la persona rappresentata. Così san Teodoro Studita può affermare che l'icona di Cristo è Cristo, senza la minima confusione magica: «l'immagine di Cristo secondo la relazione» (Antirrheticus I, 11).

L'icona esige dunque un elemento ritrattistico, alcuni "caratteri" concreti che distinguono tale individuo «dagli altri individui della stessa specie» (Antirrheticus III,1,34). La circoscrizione, cioè la possibilità stessa di rappresentare, è «composta di alcune proprietà» (Antirrheticus III 1, 17). Il paradosso tipico della fede cristiana è che Cristo da una parte «ricapitola», racchiude in sé tutta l'umanità; eppure la sua umanità d'altra parte sussiste, si lascia vedere «in un individuo preciso» (atomos) (Antirrheticus II, 18). Ecco per ché, nelle icone, da una parte il bambino Gesù è rappresentato con una fronte alta, segno della Sapienza, e dall'altra l'ipostasi del Verbo è circoscritta nei tratti individuali di un volto d'uomo. L'arte dell'icona unisce realismo e astrazione per suggerire, con san Giovanni, l'identità dell'umiliazione e dell'elevazione, la morte in croce come vittoria sulla morte. Né dolorismo dunque, né trionfalismo secondo una concezione umana della gloria.

Nell'essenziale, questa teologia dell'icona ha trovato la sua sintesi nella definizione (l'horos) del Settimo Concilio Ecumenico, o Concilio di Nicea II (787). Il "modello rappresentato" deve accordarsi con il Vangelo e l'icona per eccellenza, quella di Cristo, «serve a confermate l'Incarnazione, reale e non illusoria, del Verbo di Dio». Così Scrittura e icona «rimandano l'una all'altra». Le immagini rinviano significativamente al mistero della Croce - sempre, contro l'idolo, questa identità della gloria e della Croce - e di tutto l'insieme del culto di cui l'icona, come abbiamo detto, fa parte integrante. I gesti e i segni che avvolgono l'icona - il bacio, l'inchino, la candela e l'incenso - non significano affatto adorazione, che «si deve solo alla divinità», ma sono i segni della stessa venerazione accordata alla Croce e al Vangelo. Per due volte l'horos, riprendendo una formula di san Basilio, ricorda che «coloro che guardano le icone sono guidati al ricordo e al desiderio dei prototipi» e che «l'onore reso all'icona riguarda il prototipo», di modo che «chi si inchina davanti all'icona lo fa davanti all'ipostasi (la persona) di colui che vi è rappresentato».

Attraverso la crisi iconoclasta, l'arte dell'icona si è dunque precisata e purificata per suggerire, nell'uomo e nel cosmo, la luce trasfigurante del Regno, quel Regno che è in noi e in mezzo a noi, dice Gesù. La santità anticipa questo regno di cui aspettiamo e prepariamo la piena manifestazione nella Gerusalemme nuova, la città cubica dalle mura di pietre preziose che uniscono la più alta densità e la luminosità più grande.

Questa luce è l'essenza della bellezza e la bellezza è un Nome divino, un' "energia" tramite la quale Dio si "estasia" nella sua creazione; offuscata dalla nostra cecità, è pienamente ritrovata, diffusa da Cristo, non solo sul Tabor, ma nella notte del Getsemani e del Golgota. Si conosce la leggenda della "scelta della fede" da parte di Vladimir, gran principe di Kyiev, alla fine del X secolo. Si convinse di aderire al cristianesimo di Bisanzio a causa di ciò che raccontarono i suoi inviati: avevano visto una liturgia nella chiesa di Santa Sofia, e davanti a tale bellezza non sapevano più - dicevano - se erano in cielo o sulla terra. Dunque la bellezza è criterio e prova della verità. Anche nel XX secolo, un grande scienziato e teologo russo, Pavel Florenskij, scriveva che la Trinità di Rubliev è prova dell'esistenza di Dio. Tale bellezza non è una categoria estetica ma ontologica, perché nella teologia orientale l'essere ha la sua fonte nella comunione, L'iconografo è tenuto quindi ad una grande responsabilità ed una grande sobrietà. Deve superare ogni soggettivismo, ritirarsi nella preghiera, nel digiuno, unire l'intelligenza e il cuore, favorire nel silenzio l'incontro con colui o colei che sta per rappresentare sull'icona. Regole precise determinano la composizione delle scene e permettono di riconoscere i volti. Il genio creatore, liberato dai fantasmi individuali, non perde niente: basta pensare alle opere straordinarie di un Teofane il Greco, o a quelle completamente differenti di un Mahmoud Zibawi, stili iconografici così diversi secondo la loro epoca e il loro luogo.

Tutto nell'atteggiamento e nell'espressione del personaggio rappresentato deve indicare la sua intima partecipazione alla "luce taborica". Il corpo, esageratamente lungo, non è che uno slancio verso il volto segreto, il volto interiore, aperto simultaneamente a Dio e al prossimo. E il volto stesso diventa «tutto sguardo» (Pseudo-Macario, Prima Omelia, 2). Il più delle volte la rappresentazione frontale, in segno di presenza e di accoglienza. Le rocce, come tanti piani, suggeriscono il deserto di questo mondo, ma per la grazia della santità questo deserto fiorisce in vegetazioni fantastiche. Gli animali sono stilizzati secondo la loro essenza paradisiaca come nell'arte celtica o in quella degli sciti. Le architetture, sempre in secondo piano, diventano un gioco surrealista, sfida evangelica alla pesantezza e alla potenza di questo mondo.

Certo, la rappresentazione della gloria non può che essere simbolica. Ma è l'originalità di quest'arte che il simbolo si incorpori al volto e che l'eternità si inserisca all'infinito nella comunione delle persone senza spersonalizzare. Il Concilio Quinisesto (692) riunitosi in oriente, ha proposto che i simboli della prima arte cristiana (l'Agnello ad esempio), venissero sostituiti da ciò che essi prefiguravano, ossia il volto umano di Cristo […].

La Gerusalemme nuova, sulla quale si apre l'icona, «non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello» (Ap 21,23). Nell'icona, dunque, la luce non proviene da un punto preciso: è diffusa dappertutto senza creare ombre, come se tutto fosse interiormente illuminato dal sole. Spesso la prospettiva è rovesciata: le linee non convergono verso un punto di fuga, lì dove si chiude lo spazio decaduto che separa e imprigiona, ma si dilatano verso la luce, «di gloria in gloria».

Quando l'icona descrive una scena, contrae in una simultaneità liturgica vari momenti spesso lontani nel tempo. Nell'icona della Natività, ad esempio, si vede come in un'armonia gioiosa l'annuncio degli angeli ai pastori, la cavalcata dei re Magi, il Bambino nella grotta (anticipazione della discesa agli inferi del Sabato santo) e in braccio alle donne che lo lavano in un modo quasi battesimale.

L'icona non ha soltanto un valore pedagogico, ma anche "misterico", dischiude una benedizione della Chiesa. Si apre così alla teologia un altra prospettiva oltre a quella del concetto.

L'arte dell'icona non è affatto estranea alla tradizione occidentale, almeno fino al Trecento. Dopo, l'occidente che scopre esplora e libera l'umano, preferisce a quest'arte della trasfigurazione ciò che chiamerei un'arte dell'esodo in cui si esprimono le ricerche, le angosce, la sensualità, anche le intuizioni dell'umanità, intuizioni che a volte ritrovano spontaneamente lo spirito dell'icona, da Fra' Angelico a Rembrandt e Rouault. Oggi il fallimento a una certa arte "religiosa", sentimentalista e pietista, apre all'icona le chiese cattoliche e anche alcuni templi protestanti. L'icona allo stesso tempo corrisponde alla cultura dell'immagine e la esorcizza («guardare un icona è un digiuno degli occhi»). Apre alla teologia delle vie nuove, sostituendo il concetto che vuole possedere, con il volto che chiama alla comunione.


(da "Contacts" n. 181, 1998, pp. 25-32)


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Ireneo difende l'integrità della rivelazione perché avverte la gravità del pericolo di isolare elementi del messaggio evangelico o della Scrittura in genere, e di elaborare sulla parzialità qualche dottrina che alla fine non ha più niente di cristiano riguardo all'insieme della salvezza.

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