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La fede cambia il credente nella sua vita privata, nella sua vita interiore, ma lo rende sempre anche protagonista di una novità relazionale che riguarda il suo popolo, la sua comunità di vita, la sua discendenza diffusa nello spazio e nel tempo.

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Venerdì, 07 Luglio 2006 21:51

Il Paese delle croci di pietra (Aldo Ferrari)

Il Paese delle croci di pietra
di Aldo Ferrari


La grande cupola bianca dell’Ararat riempie il cielo turchese d’Armenia. Fonte e perno dell’universo armeno, fondale fisso di un paesaggio aspro e immutato, colma gli occhi e la mente con la persistenza propria del simbolo: di una terra e di una storia. La montagna infatti si trova oggi in territorio turco, al confine con la Repubblica armena. Quasi un miraggio, dunque, e insieme un orizzonte inciso in ogni sguardo, memento di tutto ciò che è stato e di tutto ciò che è.

L’Armenia è la più piccola delle quindici entità statali divenute indipendenti in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica alla fine del 1991, e la sua popolazione, a causa della consistente emigrazione degli ultimi anni, è oggi ben inferiore agli oltre tre milioni e mezzo dell’epoca sovietica. Viaggiare in questo Paese significa entrare in contatto con una realtà che porta su di sè l’eredità di un passato tanto lungo e glorioso quanto tormentato. A partire dalle sue stesse dimensioni, che sono circa un decimo di quelle dall’antica Armenia, e che non le consentono oggi di avere un ruolo corrispondente a quello di molti periodi della sua storia. Ma almeno altrettanto importante, in chiave sia storica sia psicologica, è il fatto che tale ridimensionamento sia dovuto essenzialmente alla tragedia epocale del genocidio, che ha non solo sancito la perdita definitiva dei territori armeni occidentali, ma anche l’annientamento o l’espulsione della popolazione che vi abitava ininterrottamente da quasi tre millenni. Un evento cruciale per comprendere sia la diaspora che da esso è in larga misura scaturita, sia le sorti della Repubblica indipendente, che ancora ne subisce le ripercussioni. In primo luogo per i contrasti con la vicina Turchia, che non ha mai riconosciuto il genocidio, e quindi con l’altra Repubblica turca del Caucaso meridionale, l’Azerbaigian, con la quale l’Armenia ha in sospeso il contenzioso sul destino del territorio del Karabagh, abitato in larga maggioranza da armeni ma attribuito a Baku in epoca sovietica. Ciò significa che l’attuale Stato armeno deve fronteggiare non solo gli enormi problemi politici, economici e sociali di ogni Repubblica post-sovietica, ma anche una situazione geo-politica di estrema complessità. In questo compito è peraltro favorito dalla notevole compattezza etnica, mentre la forte coscienza nazionale che anima una diaspora più numerosa della popolazione che vive in patria consente a quest’ultima di non restare isolata e di trovare sostegno in numerosi Paesi del mondo (soprattutto nell’area del Vicino Medio Oriente, in Russia, in Francia e negli Stati Uniti).

Così come l’Ararat, anche la maggior parte dei monumenti del passato sono oggi in Turchia, dove versano in condizioni disastrose. Anche la Repubblica armena è ricchissima di testimonianze storiche e artistiche. Un itinerario attraverso questo territorio non può che iniziare dalla capitale, Erevan. Pur costruita prevalentemente in epoca sovietica, questa città ha nel complesso un aspetto gradevole, grazie ad un’urbanistica equilibrata e al pregio estetico del tufo, la pietra dalle numerose sfumature cromatiche che caratterizza l’architettura armena. Tra i monumenti più celebri è il Matenadaram (Biblioteca nazionale), che custodisce circa 17 mila manoscritti, molti dei quali impreziositi da bellissime miniature. Il fascino principale di Erevan nasce tuttavia dal profilo onnipresente delle sue vette perennemente innevate dell’Ararat, la montagna sulla quale, secondo la tradizione biblica, si arrestò l’arca di Noè. Nelle immediate vicinanze della città sorge il monumento alle vittime del genocidio. Una struttura all’aperto e un museo preservano la memoria della catastrofe che segnò in maniera indelebile la nazione armena.

È comunque lontano dal contesto urbano di Erevan che il genio specifico della cultura armena si manifesta con più intensità. In particolare, l’architettura è caratterizzata da uno stretto legame con l’ambiente; tende infatti ad inserirsi armoniosamente nel territorio, come se sorgesse dalla terra di cui riprende l’ocra e la porpora. Un esempio particolarmente significativo di questa aderenza al paesaggio è costituito da Geghard, un complesso monastico di straordinaria suggestione, costruito nel XIII secolo in un sito di antichi insediamenti eremitici. Rannicchiato nel fondo di una gola, il monastero si sviluppa in parte scavato nel vivo della montagna. Non lontano da Gerghard si trova il tempio pagano di Garni (I secolo d.C.), l’unico giunto sino ai nostri giorni in un’Armenia che per secoli si è intimamente identificata con la fede cristiana. Questa identificazione è stata duramente pagata dagli armeni, prima durante il lungo domino musulmano, poi sotto il «nero velluto della notte sovietica», per dirla con Mandel’stam, autore di “Viaggio in Armenia”. In questa terra ogni monumento cristiano assume pertanto un significato particolarmente intenso, testimoniando in maniera non scontata la fede di un popolo perennemente minacciato. Così a Noravank, un monastero isolato e deserto, costruito tra il XIII e il XIV secolo in una stretta valle con il medesimo tufo rossastro delle rupi circostanti, si ha l’impressione che al tramonto le mura assumano il colore del sangue. Naturalmente è solo una suggestione, indotta dalla conoscenza della dolorosa storia del popolo armeno.

Qui si trova la chiesa di Astvatsatsin (Madre di Dio), del XIV secolo, capolavoro dello scultore e miniatore Momik. Stretti gradini si inerpicano sulla facciata ovest fino all’ingresso, coronato da un timpano con l’immagine della Vergine con il Bambino attorniata dai santi Pietro e Paolo.

Quasi al confine con la Turchia, il profilo del monastero di Khor Virap (XVII secolo) si staglia contro il monte Ararat. Il nome in armeno significa “fossa profonda”. Al suo interno infatti è possibile discendere nella grotta in cui sarebbe stato imprigionato per tredici anni san Gregorio l’Illuminatore, colui che convertì l’Armenia la cristianesimo nei primi anni del IV secolo.

Non lontano sorge la cittadina di Etchmiatzin, il cui nome significa “l’Unigenito è disceso”, poichè Cristo vi apparve a san Gregorio. Qui risiede la suprema autorità della Chiesa armena, il “katholikos di tutti gli armeni”. Oltre alla cattedrale fondata da san Gregorio agli inizi del IV secolo, ricostruita nel V e nel XVII, vi si trovano alcune tra le più antiche e splendide chiese armene: ,Shoghakat (VI secolo, ricostruita nel XVII), che significa “effusione di luce”, e quelle intitolate alle sante vergini Gayanè e Hripsimè, edificate entrambe nel VI secolo. Nelle vicinanze di Etchmiatzin si incontrano anche le rovine dell’imponente chiesa di Zvartnots, del VII secolo, la cui ambiziosa e originale struttura non ha retto ai violenti terremoti che di frequente colpiscono questa regione. La corona di colonne superstiti lascia trapelare la leggendaria magnificenza di tempi passati.

Infatti, un altro itinerario di grande bellezza conduce al lago di Sevan, sulle cui rive azzurre si trovano due piccole chiese del IX secolo (Astvatsatsin e San Karapet) che un tempo sorgevano su un’isola e che oggi l’abbassamento delle acque, usate per l’irrigazione, ha ricondotto sulla terraferma. Nelle vicinanze si trova il cimitero di Noraduz, dove si possono ammirare numerosi khatchkar, le splendide “croci di pietra” che costituiscono forse le creazioni più caratteristiche dell’arte sacra armena. La croce (surb nshan, ovvero “santo segno”) ha del resto un ruolo centrale nella spiritualità del popolo armeno.

«Regno di pietre urlanti - / Armenia, Armenia!». Questi versi del poeta Mandel’stam sono un buon viatico per il cammino. Gettano una luce rivelatrice su una terra che, posta tra l’Anatolia e il Caucaso, conserva ancora oggi un sapore primigenio. Viaggiare per l’Armenia significa dunque percorrere sentieri che risalgono alle radici primordiali del mondo, penetrare nel cuore di chiese tetragone che hanno il colore del fuoco e nei silenzi secolari di monasteri simili a misteriosi congegni rotanti attorno ai rocchi delle alte cupole. E impastarsi lo sguardo nell’ocra di una terra all’ombra perenne dell’Ararat, «tenda di nomadi».

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Si può capire perché una teologia della creazione possa derivare e non "fare da premessa" alla fede che presuppone l'esperienza dell'alleanza e della liberazione.

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Sabato, 03 Giugno 2006 21:42

Armenia. Arte senza confini (Herman Vahramian)

Armenia. Arte senza confini
di Herman Vahramian

«Quando un’idea si conserva immutata attraverso lunghe sequenze di variazioni di stile, è evidente che tale idea è il motivo e la forza dominante che anima l’opera». Il pensiero di Ananda K. Coomaraswamy, grande studioso dell’universo indiano, trova perfetto esempio nelle vicende dell’arte e della cultura armene. L’elemento costante e fondamentale che garantisce in esse la permanenza del senso nella permutazione delle forme, è un’ansia, una tensione metafisica verso un centro generatore, un “nodo” primordiale, archetipico. E, come questo è simile a un ventre materno universale, così la terra natale è chiamata “Madre Armenia”, originata dall’incombente entità della “madre-monte Ararat.

Ecco allora la dea Anahid, signora della fertilità, il cui nome significa “la Pura”, scolpita nell’oro che sarà il colore di Maria in tutte le terre mediorientali e in Russia. Ecco Vahagn, il dio guerriero che diventerà San Giorgio, l’uccisore dei draghi. Ecco il dio Aramazd, l’Ahura Mazda zoroastriano, e il culto del Sole (gli armeni sono chiamati Arevordì, “Figli del Sole”) il cui disco si trasmuterà nell’aureola cristiana. Ma con il martirio dei santi Bartolomeo e Giuda Taddeo, gli apostoli che avevano portato il Vangelo in Armenia, anche Aramazd si convertirà al cristianesimo.

Questo processo arriva a compimento nel 301, quando quello armeno diviene il primo popolo cristiano della storia. Il primato della conversione significa per gli armeni l’irrevocabilità nei secoli futuri della scelta fatta. Da questa scaturisce un modus vivendi che costituisce un amalgama quasi perfetto fra le nazioni e la cultura armena, da un lato, e la religione cristiana dall’altro.

La scelta religiosa e culturale operata dagli armeni rispondeva alle loro strategie di sopravvivenza come nazione. Dapprima impero, poi ridotta a entità territoriale omogenea e spartita in seguito fra Est e Ovest, l’Armenia fu oggetto nei secoli di devastazioni e stermini. Greci, romani, persiani, arabi, turchi selgiuchidi, mongoli, e ancora tartari, turchi ottomani e russi ne fecero oggetto di massacri e distruzione. Tra le cause (anche del genocidio) la posizione strategica del territorio e la ricchezza prodotta dai suoi abitanti. Ne derivano consistenti emigrazioni dall’Armenia storica (che comprendeva l’odierna Turchia, tutto il Caucaso meridionale e parte della Siria fino ai confini con la Mesopotamia) verso Bisanzio, la Cilicia, la Polonia, la Romania, la Russia. Flussi migratori che contribuirono alla costruzione di imperi, nazioni e città fino al lontano Bengala, alla Cina, all’Asia centrale. Gli armeni, oggi appena sei milioni sparsi in tutto il mondo, per definire la propria vicenda storica già nel Seicento coniarono l’espressione “genocidio bianco”, ovvero senza spargimento di sangue. Il popolo armeno si è reso presto conto di essere nell’arco della storia “fuori dalla civiltà” e si è aggrappato al cristianesimo come a un’ancora di salvezza. La ferrea adesione alla religione cristiana e la memoria di una costante persecuzione culminata nel genocidio sono le due chiavi, le due ideès fixes, con cui il popolo armeno osserva il mondo. Impossibile distinguerle, o peggio ignorarle, salvo a prezzo di un grave e pericoloso fraintendimento.

Capitale della Grande Armenia cristiana fu Anì. Già imponente fortezza e nodo strategico commerciale sulla Via della Seta, oggi è distrutta e abbandonata in Turchia. Col cristianesimo, e soprattutto nel Medioevo, Anì divenne la «città di mille e una chiesa». La sua cattedrale fu costruita nel 1001 da Trdat, l’architetto armeno che restaurò la cupola di Santa Sofia a Costantinopoli, distrutta da un terremoto nel 986. e per la cattedrale fu importato il lampadario più grande dell’India (X secolo), mentre varie campane tibetane furono sistemate nelle chiese minori.

L’architettura si era sviluppata a partire dal IV secolo d.C. in perfetta contemporaneità con la conversione. La cupola, elemento cardine dell’architettura armena, simile a una tenda appuntita, è la rappresentazione simbolica di un braccio, una mano chiusa e un dito che tendono verso il cielo. Se in principio il modello più diffuso è quello a pianta basilicale, a partire da VII secolo compaiono le chiese cruciformi che si svilupperanno sia in ambito cittadino sia monastico dando vita a complessi di squisita fattura. Ad aghtmar, sul lago di Van (oggi in Turchia), le superfici murarie si popolano di figure, divenendo un vero e proprio libro di pietra. L’architettura armena sembra rifiutare la vicina e potente Bisanzio per guardare direttamente all’Europa, divenendo così un ponte tra Oriente e Occidente. E non meravigli che i celebri pensieri leonardeschi sulla pianta centrale siano posti in relazione con una conoscenza indiretta degli edifici armeni.

A partire dal X secolo gli armeni, costituiti in compagnie di “maestri muratori” composte di maestranze e architetti, percorsero le strade dall’India all’Europa costruendo sinagoghe, caravanserragli, moschee, monasteri. In particolare nella regione balcanica centrale e a Costantinopoli buona parte degli edifici fino all’Ottocento è di fattura armena e perfino nel Taj Mahal in India operarono maestranze armene. C’è persino chi vede nelle compagnie di maestri muratori l’origine della massoneria. Fino agli anni settanta del secolo scorso, vicino al solco inferiore del basamento del duomo di Milano esistevano i logo dei maestri petrografi armeni, che qualche sovrintendente disinformato ritenne fatti con temperini da coppie di passaggio: furono inesorabilmente “armenizzati”, ovvero cancellati.

Con l’architettura gli armeni diffusero dal Golfo Persico fino all’India e al Tibet il simbolo di Cristo (khatch, “croce” in armeno, è una parola ancora oggi utilizzata in diverse lingue orientali) e con esso altri segni quali l’Albero della vita, le Porte del Paradiso (il tappeto posto sotto il feretro di Giovanni Paolo II conteneva questo simbolo armeno), il Sole ariano (o zoroastriano: la parola “ariano” nelle lingue orientali significa semplicemente “iraniano”) o svastica, che il nazismo nella sua foga predatrice adottò scambiandolo col simbolo opposto, quello della “morte del Sole”.

Vanto degli armeni sono i due santi monaci Mesrob e Sahak, che nel V secolo inventarono un nuovo alfabeto nazionale. Tradussero quel che era disponibile sul mercato della cultura occidentale (diversi testi antichi sono sopravvissuti solo in lingua armena) e avviarono “i secoli d’oro dello scritto e della parola”. I monasteri divennero università e soprattutto biblioteche (matenadaram, letteralmente “magazzini di codici”). Buona parte dei volumi fu depositata nei patriarcati e nei monasteri posti al di fuori del territorio armeno: da Gerusalemme a Venezia, da Vienna a Bombay fino all’Istituto Lazarev di Lingue Orientali fondato da un armeno a Mosca.

Fino alla Seconda guerra mondiale il libro (nono solo i testi sacri, ma il libro tout court) fu considerato sacro dagli armeni. Si racconta che durante il genocidio in Anatolia, agli inizi del Novecento, la Bibbia più grande del mondo, oggi nel matenadaram (Biblioteca nazionale) di Everan, fu tagliata in due da un capofamiglia perchè troppo pesante e la prima metà fu trasportata fino al mare e dorso di un mulo. L’uomo tornò dopo quaranta giorni per caricare l’altra metà e solo da ultimo recuperò la famiglia per salvarla dai massacri compiuti dai turchi.

L’alta considerazione dei libri si sviluppò anche in relazione al gesto efferato di Alessandro Magno. Egli bruciò tutto ciò che di cartaceo e pergamenaceo trovò sulla sua strada. Tra le innumerevoli biblioteche grandi e piccole che furono arse dietro suo ordine, la più famosa resta la Biblioteca Reale di Persepolis. E così il condottiero si guadagnò il soprannome di Guzhastak, che in pahlavide antico e in armeno classico significa “barbaro e portatore di sciagura e sventura”.

Per sopravvivere come entità etnica e religiosa gli armeni inventarono il camouflage artistico e culturale. Camuffamento è infatti la parola utilizzata da Arshile Gorkij (1904-1948), alias in armeno Vostanik Adoyan. Gorkij fu un esponente dell’arte d’avanguardia americana nota col nome di Action Painting. La sua fu una pittura autenticamente armena, che egli “contrabbandò” come arte americana.

Fino al XVIII secolo gli armeni esportarono in tutto il mondo conosciuto calligrafi, amanuensi, miniaturisti, pittori, e poi medici, chirurghi e soprattutto alchimisti. Naturalmente sotto nomi non armeni.

Tra le arti la lavorazione dei metalli raggiunse livelli di eccellenza. In Anatolia officine e fonderie realizzavano sculture in bronzo per Atene e per Roma. Si narra che Nerone ricevette in regalo dal re Tiridate I i quattro cavalli che oggi ornano la basilica di San Marco a Venezia. Dovunque in Medio Oriente gli armeni misero in relazione Est ed Ovest, agevolati dal fatto di “possedere” la Via della Seta, la grande strada commerciale e di comunicazione che collegava Oriente e Occidente.

Dall’Ovest gli armeni introdussero la civiltà greca e romana e molto più tardi i primi brandelli della nascente civiltà industriale europea, come la tecnologia tipografica (in quasi tutti i Paesi mediorientali il primo libro stampato fu opera di un armeno) e ancora, a partire dalla fine dell’Ottocento, la fotografia. Il genocidio annichilì la cultura armena, le cui manifestazioni persero la propria radice originaria per finire assimilate o usurpate da altre culture. Furono distrutti o dispersi i manoscritti, i gioielli, i tappeti e tutto ciò che costituisce parte di un patrimonio culturale. Furono spezzate le relazioni artistiche, sociali, commerciali e interrotte le vie di comunicazione. Malgrado ciò la cultura e l’arte armene sopravvissero in periferia. E facendosi forza della propria situazione marginale furono capaci di ritagliarsi una fetta di universalità, pur rimanendo sconosciute ai più.

(da I luoghi dell'infinito)

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S. Giovanni Crisostomo ed il suo tempo
Conferenza di S. Em.card. Špidlík





Don Sergio Mercanzin:

Quando un nostro collaboratore ha invitato padre Špidlík a tenere qui una conferenza su Giovanni Crisostomo, ha risposto: “Volentieri, ma ad una condizione: che io sia ancora vivo!”. Non solo è vivo, ma nel frattempo è diventato cardinale! La porpora non gli ha tolto lo humour. Sembra che a qualcuno lui abbia detto: “Che vuoi, c'è chi cade dal motorino e chi diventa cardinale”. Ho incontrato questa mattina un sacerdote greco il quale ha detto che il cardinalato dato al padre Špidlík è un grande riconoscimento all'Oriente cristiano e a tutti coloro che, come lui, lo hanno fatto conoscere ed amare all'Occidente. Mi diceva prima padre Špidlík che alcune chiese ortodosse proprio ufficialmente, ad esempio il patriarca ecumenico Bartolomeo, hanno esultato - glielo hanno detto - per questa nomina, perché hanno visto in questo un riconoscimento altissimo della spiritualità orientale. Padre Špidlík ha insegnato per mezzo secolo a discepoli in tutto il mondo, tra i quali anche il sottoscritto. Ha ricevuto premi da cattolici e da ortodossi, i suoi libri sono tradotti in tantissime lingue, compreso l'arabo. Per presentarlo preferisco, però, citare una intervista che ha dato alla rivista 30giorni. Chiedono a Sua Eminenza: “Lei ama spesso ricordare Serafino di Sarov, forse il più grande mistico russo dell'800”. Risposta: “Il più grande? Meglio non dare premi. Davanti a Dio chi è più grande? Può darsi una mamma che ha educato cinque figli”.

P. Špidlík questa sera ci parla di S. Giovanni Crisostomo.



S. Em.card. Špidlík:

Allora dobbiamo parlare di Giovanni Crisostomo. Una volta ho comprato alla vecchia sede della Libreria Russia Ecumenica una piccola icona dei “Tre gerarchi” che raffigurava S. Giovanni Crisostomo, S. Gregorio Nazianzieno e S. Basilio, tre vescovi, senza iscrizioni che indicassero chi era ognuno dei tre; però si potevano riconoscere. Secondo le regole iconografiche S. Basilio deve avere la barba nera a punta, S. Gregorio Nazianzieno deve avere la barba quadrata e S. Giovanni Crisostomo deve avere una barbetta ed essere semicalvo. Era davvero così?

Beh, le icone lo dicono - o lo ricordano o lo sanno per rivelazione - dunque io non lo metto in dubbio.

Brevi cenni sulla vita di S. Giovanni Crisostomo

Della vita diciamo solo molto brevemente che Giovanni Crisostomo è nato ad Antiochia fra il 345 e il 350, a metà del secolo. In quel tempo c'erano ancora due mondi cristiani, greco e semitico, ma cominciavano a fondersi gli influssi dell'uno e dell'altro. S. Giovanni Crisostomo che è nato ad Antiochia è diventato poi Patriarca di Costantinopoli ed anche la sua educazione in certo senso ha risentito della mescolanza di due atteggiamenti qualche volta abbastanza diversi verso le cose. Gli antiocheni, come semiti, conoscevano meglio la Bibbia perché la leggevano nello spirito, nella mentalità semitica, nella quale era stata scritta. La mamma era vedova ed educava questo figlio che aveva però anche un altro educatore, greco, Libanio, sofista. Giovanni è andato a scuola della Scrittura da questi autori di cultura semitica, tra i quali il futuro vescovo Teodoro di Mopsuestia, uno di questi “duri”. Fu ordinato lettore, ma pensava all'ascesi - questi antiocheni avevano queste montagne, questi asceti, stiliti, reclusi, ecc. Il ragazzo è andato a fare l'ascesi e si è ammalato. Dunque tornò in città e fu ordinato diacono e sacerdote e predicò nella grande chiesa di Antiochia con grande successo - da ciò viene il suo nome Crisostomo (bocca d'oro)! Nel 397 morì il Patriarca di Costantinopoli e lui fu eletto nuovo Patriarca e l'anno seguente consacrato, ma un asceta e un semita a Costantinopoli, non poteva non creare dei conflitti, diciamo come un napoletano a Torino, o un piemontese in Sicilia. Tutto va bene spiritualmente, in spostamenti come questi, ma ci sarà qualche problema! Lui, asceta, arriva in una grande città e comincia a picchiare in testa a tutti i vizi, soprattutto all'imperatrice Eudossia, la quale ha poi convocato il sinodo che ha deposto Giovanni Crisostomo. Ma tutto era stato fatto troppo in fretta, era troppo scandaloso e la deposizione fu ritirata. Ma lui picchiava di più. Dunque arrivò il decreto di esilio, prima in Armenia. Ma là riceveva ancora troppe lettere, troppe visite. Dunque vollero mandare nel Ponto, ma morì sulla strada.

La sua vita non sembra così lunga come si pensa, quando si vede tutto ciò che si è scritto di lui. Quante prediche, quanti trattati - c'è anche lo pseudocrisostomo; chissà chi lo imitava o copiava.

I temi da lui affrontati sono diversissimi e io ne approfittavo sempre molto. Perché nella collezione dei Padri, curata dal Migne, ci sono gli indici. Allora quando si cercava un bel testo si trovava più facilmente che negli altri Padri.

Vivere per imitare Dio

Cominciamo dal primo principio che, allora, si cercava: quale è la fondamentale legge morale?

Sappiamo che c'erano due diverse tendenze. Gli stoici dicevano: “vivere secondo natura”, i platonici dicevano: “imitare Dio secondo le possibilità”. Vivere secondo natura è passato fino a S. Tommaso, a Dante, ecc., nella morale cristiana. Ma i primi cristiani avevano un po' paura di questo termine. Questa natura, questo destino! Contro il destino scrivevano molti autori, perché avevano paura del destino. Così come oggi, quando parliamo di diritti naturali, abbiamo anche paura di cosa ci mettono dentro. I platonici dicevano: “imitare Dio secondo la possibilità”. Aristotele all'inizio della sua morale distingue tre tipi di uomini. Prima categoria: gli uomini che vivono la vita utilitaria, mangiano per lavorare e lavorano per mangiare. Non sono mai felici! Il secondo tipo è di coloro che vivono la “vita politica”: i politici che lavorano per gli altri - in quel tempo ancora si credeva che i politici lavorassero per gli altri! Vita apostolica, fanno felici gli altri. Ma la vita più felice è la vita contemplativa: elevare la mente a Dio. Allora la contemplazione è la vita più perfetta. Allora la vita contemplativa. Questo è certo, ma Crisostomo non era così meccanico come altri. Si domanda: chi è quel Dio che vogliamo imitare? Questo è il problema secondo me anche oggi, quando si imitano queste contemplazioni del lontano Oriente. Chi è quel Dio? Per i platonici è un'idea, per i cristiani Dio è Padre, non un'idea, ma una persona. Io ho detto altre volte - devo stare attento per non dire qualche eresia! - che noi latini abbiamo un po' falsificato il Credo. Sapete perché? Abbiamo messo una virgola. Perché noi cantiamo “Credo in unum Deum” e poi “Padre, Figlio e Spirito Santo”. Ma in quel tempo non c'era nessuno che dubitasse dell'esistenza di Dio. La professione di fede era: “Credo in un solo Dio Padre, che è onnipotente e creatore del cielo e della terra”. Dunque Dio è Padre e Crisostomo insiste “imitare Dio”, Dio è philantropos, amante degli uomini. Lo si può dire degli dei pagani e dei platonici che amano gli uomini? No, non si può dire, mai.

Eros e agape. Amare Dio nel prossimo in S. Giovanni Crisostomo

Voi sapete qual è il trattato classico sull'amore prima del Cristianesimo? Il Symposium di Platone. Symposium: bevono un po' insieme e discutono; questo è la vera teologia, no? Discutono: come si dice “amore” in greco? EroS. Eros è nato dal padre cielo e dalla madre indigenza. Cosa significa questo? Io non ho soldi (indigenza della tasca), ma vedo il padre economo che ne ha la cassa piena, comincio ad amare quella cassa! Cioè l'uomo ama ciò che vede e non ha. Se ho lo stomaco vuoto amo la pastasciutta, se amo il movimento seguo il calcio, la Juve, la Roma ecc. Se amo la musica sono musicista, se amo la filosofia sono filosofo e se amo Dio sono l'uomo più divino che possa esistere. Dunque l'uomo secondo Platone è tanto grande quanto grande è il suo amore. Questo suona molto bene, questo testo poteva essere preso dai cristiani come tale. S. Agostino ha copiato parecchie di queste cose, però qualche cosa non va. L'uomo ama ciò che non ha. Ma che cosa Dio non ha? Ha tutto. Può desiderare allora qualcosa? No! Dunque il dio platonico non può amare gli uomini, non è philantropos, è un'Idea in alto, come se diciamo: “noi amiamo il sole e il sole non ama noi”. Siamo solo noi, da una sola parte, ad amare. Voi sapete quando si usa l'espressione amore platonico, quando un ragazzino ama una diva del cinema e questa non ne sa niente. C'è amore solo da parte del ragazzo. Dunque noi amiamo Dio, ma Dio non ama noi.

Ma noi amiamo Dio perché, come dice S. Giovanni, Lui ci ha amati per primo. Allora queste cose non vanno. S. Paolo e S. Giovanni dicono che Dio è amore; si può dire allora che Dio è eros, desiderio?

No, non si può dire, perciò hanno trovato un'altra parola greca: agape. Dunque abbiamo due nomi diversi per l'amore: eros e agape. Uno significa desiderare e l'altro avere e dare. Il Vangelo spiega questo molto bene con un testo in cui Gesù dice: “Se amate i vostri amici e parenti in cosa siete diversi dai pagani? Anch'essi amano gli amici perché li desiderano. Amate i nemici perché nessuno desidera avere nemici. Se amate i vostri nemici sarete come il Padre vostro in cielo che dà la pioggia per i buoni e per i cattivi”. Dunque “amare” in senso cristiano significa regalare. Allora eros e agape. C'è un vescovo protestante scandinavo, A.Nygren, che ha scritto un libro su questo, “Eros e agape”, e la sua sentenza è più o meno questa, (ha fatto una buona raccolta di testi). Dice: “All'inizio il Vangelo distingue molto bene questi due amori, ma la gente non ha capito bene, ha mescolato tutto insieme e così sono nate la Chiesa cattolica e quella ortodossa. Hanno mescolato questi due amori, senza rendersene conto. Per fortuna è venuta la Riforma che ha detto di non desiderare la beatitudine in cielo, di non cercare i meriti e tutte queste cose - questo è eros. Bisogna avere agape, regalare e non cercare di ricevere qualcosa da Dio”. Cosa dite voi? Qual è il vostro illuminato parere?

Diciamo che distinguere è bene, separare no. Dio è agape, ma noi siamo sia eros che agape. Se non desidero mangiare vado dal medico per curarmi, se non desidero studiare sarò bocciato. Dobbiamo desiderare, ma, inoltre, siamo capaci anche di amare, cioè dare. Dunque Dio ci ama e noi, secondo il suo esempio, dobbiamo essere capaci di questo amore divino. Questo amore divino a chi si rivolge? Si rivolge a chi incontro. Ma possiamo amare Dio? Era tanto difficile affrontare questi temi che poi i Padri non volevano mai scrivere sull'amore. Dicevano: “E' troppo difficile”. Climaco dice “Chi parla d'amore parla di Dio”, meglio lasciar stare. Solo S. Basilio all'inizio della sua Regola dice quattro motivi per i quali amiamo Dio.

Ognuno ama la luce, Dio è la luce infinita. Che cosa è, eros o agape? Ognuno ama la luce e Dio è la luce infinita. E' eroS.

Ognuno ama la bellezza, Dio è la bellezza infinita. Che cos'è? Eros.

Ognuno ama i benefattori, Dio è il nostro più grande benefattore, io amo Dio. che cos'è? Eros.

A questo punto, Basilio dice il quarto argomento. Io ve lo dirò, voi riderete, ma io non so come dirlo altrimenti. Immaginatevi il giudizio finale, a sinistra sono i dannati, a destra gli eletti e Basilio si trova tra i dannati. Viene il diavolo davanti a Gesù Cristo e dice: “Vedi quel Basilio? Tu l'hai creato, io no, ma lui ha seguito me. Tu gli hai dato tanti benefici, io gli ho dato soltanto guai, ma lui ha seguito me. Tu gli hai promesso beatitudine, io l'inferno, ma lui ha seguito me”. Basilio dice: “Va bene finire all'inferno, ma che quel diavolo possa vantarsi così davanti a Gesù Cristo io non lo sopporterei!”. Che cos'è questo? Che l'uomo può dimenticare se stesso e dire che l'interesse di Dio è superiore al mio. Questa noi la chiamiamo “contrizione perfetta” e quella purifica l'anima da tutti i peccati, perché solo Dio è capace di darcela. E' un po' difficile.

S. Giovanni Crisostomo è più concreto e dice: “Possiamo amare Dio? Sì, nel prossimo”. Perché Cristo ha detto “ciò che avete fatto a lui l'avete fatto a me”, e così Dio è philantropos, ama noi. E noi possiamo amare Dio. Allora ha fatto una bella sintesi della cultura greca con un precetto del Vangelo. Questa filantropia divina è una cosa molto importante. Allora, più che l'amore di Dio comincia a parlare dell'amore cristiano. Parla sempre dell'amore cristiano. Ma qual è l'amore cristiano? Lui dice che è soprattutto agape, perché eros è sempre un po' passionale. Amo, amo, amo, poi la passione passa e ti odio! Il vero amore non può passare, è stabile, perché è regalare. Se accetti, bene! Se non accetti, non importa.

Un proverbio tedesco dice: “L'amore che poteva passare non era amore”. Era una passione. Eros è passionale. E' sempre particolare, verso una ragazza e non verso l'altra. “Io amo Gina, non te!”. I monaci dicevano che bisogna amare tutti gli uomini senza distinzione, chi ama uno più dell'altro non è un vero cristiano. Come principio va bene, ma non è facile applicarlo. E' strano quando leggiamo le regole monastiche: è sempre vietato severamente l'amore particolare. S. Basilio dice: “Se c'è tuo fratello nel monastero, devi dimenticare che è tuo fratello. E' un fratello come gli altri”. Tutti uguali.

Anche in seminario si perseguitavano gli amori particolari. Quando due stavano tanto insieme, il Rettore diceva: “Mescolatevi, mescolatevi”. Più tardi, l'unica prudente era S. Teresa d'Avila che diceva: “Nei piccoli monasteri l'amore è uguale, ma nei grandi monasteri se non hai qualche amore particolare non hai amicizia con nessuno”. Questo vale per il mondo che è un monastero troppo grande! Se voglio amare americani e africani, ma dimentico che sto a Roma... Il principio formulato è: amore uguale per tutti. Poi Giovanni Crisostomo dice, l'amore passionale è facilmente attratto dal corpo, mentre l'amore spirituale è più concentrato sul bene dell'anima. Il bene dell'anima è dare il buon esempio, non dare scandalo. Una cosa che i monaci consideravano come grande beneficio dell'amore era rimproverare i difetti, la “correzione fraterna”. Sapete che nei monasteri c'era il capitolo, il monaco si inginocchiava in mezzo e tutti dicevano: “Tu fai questo, tu non hai pulito questo”, e lui: “Ringrazio per il vostro amore”. Più tardi dicevano con più prudenza Teodoro lo Studita: “Deve farlo chi sa farlo con carità, altrimenti succedono guai”, perché è come curare una ferita con il coltello. Non va bene!

L'amore particolare del matrimonio in S. Giovanni Crisostomo

Adesso vorrei trattare un argomento sul quale ho fatto un articolo. Lo consideravano come una scoperta, ma poi hanno detto: “Sì, è vero!” L'amore matrimoniale, qual è? Cade in questi termini monastici o no? E' amore “particolare”: si ama la moglie più della vicina, ecc. L'obiezione qual è? Questi monaci, con questi principi, hanno sempre parlato della verginità, mentre della spiritualità del matrimonio non scrivevano niente. Mancava totalmente. Beh, totalmente no. Agostino aveva scritto varie cose ed io ne ho cercato i testi. S. Giovanni Crisostomo che stava in mezzo alla gente, a Costantinopoli, si rendeva conto che doveva esserci una posizione della Chiesa verso il matrimonio. Crisostomo parte dal problema del tempo. Il problema del tempo era in un certo senso simile a quello di oggi. C'erano molti schiavi che alla fine ricevevano la libertà, perché nell'Impero cristiano a questi schiavi, divenuti vecchi, davano cristianamente la libertà. Ma cosa potevano fare questi poveri vecchi? Si radunavano insieme, alcuni dicevano che dovevano avere anche la cittadinanza, perché tutti gli uomini sono uguali. E' interessante che anche Marco Aurelio, che perseguitava i cristiani, diceva questo, ma lo diceva in questo senso: “Siamo tutti della stessa natura e nell'Impero romano tutti devono avere gli stessi diritti”. Questo piaceva anche ai Padri della Chiesa: siamo tutti uguali, prendiamo parte all'uguaglianza degli uomini. Ma quando Crisostomo era ancora studente, c'era Giuliano l'apostata, portatore di una reazione di nazionalismo romano: “Noi siamo romani, non come questi extracomunitari. Non è vero che tutti gli uomini sono uguali. Perché i cristiani dicono che discendiamo tutti da Adamo? Come è possibile se uno è bianco e l'altro è nero, uno è intelligente, l'altro stupido? Tante differenze. Gli uomini sono tutti differenti, è inutile dire che sono uguali”.

Cosa rispondevano i Padri della Chiesa? Hanno preso un principio: Dio ci ha creati tutti uguali, le differenze vengono dal peccato. Dunque se ci sono ricchi e poveri è colpa del peccato, dell'avarizia. Noi dobbiamo superare la differenza tra ricchi e poveri; questo è un obbligo per i cristiani. Stupidi ed intelligenti devono avere diritto all'istruzione, come ai tempi moderni.

C'è però un'altra differenza: ci sono l'uomo e la donna. Da dove viene questa differenza? Dal peccato? L'unico che ha avuto il coraggio di sostenerlo era Gregorio di Nissa. Diceva che dopo essere stati scacciati dal Paradiso hanno ricevuto un vestito di pelle e questo era il sesso. Il sesso sarebbe stato solo dopo il peccato, ma nessuno poteva accettare questo. Dio stesso ha creato l'uomo e la donna. Perché Dio ha fatto questa differenza, per procurare guai? Tutte le guerre cominciano nella famiglia, perché Dio ha fatto questa differenza? La maggior parte dei Padri è “femminista”. Affermavano: “Tutte le differenze sono nel corpo, ma l'anima è uguale. L'anima è l'immagine di Dio e nell'anima l'uomo e la donna sono uguali per la vita spirituale”. Infatti le Regole per le benedettine e i benedettini, basiliani e basiliane, sono uguali, per la donna e per l'uomo, perché la vita spirituale non conosce differenza tra uomini e donne. C'è una biografia, se non vera è molto ben trovata, di S. Marina. S. Marina voleva entrare nel monastero, ma i monasteri femminili erano troppo pieni e non l'hanno accettata, così è entrata in un monastero maschile e nessuno si accorse che era una donna. E' successo però che nel villaggio una donna doveva partorire e gli impiegati dello Stato volevano sapere chi fosse il padre del nascituro. Uno di quei monaci era salito là. Allora li misero tutti in fila e fu indicata proprio Marina. Lei non disse nulla, lavorò il doppio per nutrire il bambino e solo alla sua morte si è scoperto che era vittima di calunnie.

Si sosteneva che la spiritualità maschile e femminile è uguale. Solo S. Giovanni Crisostomo dice: “Hanno lo stesso valore, ma non sono uguali”. La matematica non è né maschile né femminile, ma l'atteggiamento verso la matematica può essere differente nell'uomo e nella donna. Così la vita spirituale: è dello Spirito Santo, ma l'atteggiamento verso di essa può essere differente. Sono dunque diversi! E si chiede: “Perché Dio ha fatto questa differenza?” Secondo l'antica mitologia greca, i giganti si erano ribellati a Giove il quale li aveva tagliati in due e da allora una metà cerca l'altra. Va bene, ma tutte queste sono favole! La risposta di S. Giovanni Crisostomo secondo me è bellissima. Non è ancora abbastanza apprezzata, ma è bellissima: “Affinché l'unione fosse non della natura, ma per mezzo dell'amore, l'amore che unisce due persone differenti”. Quindi il matrimonio è sacramento dell'amore. E' imitazione della SS. Trinità, come il Padre ama il Figlio, così il marito ama la moglie e per mezzo dell'amore si trasferisce sulla terra il grande sacramento del matrimonio. E' bellissimo.

L'amicizia spirituale, il celibato e la verginità

Adesso però potreste dire: “Va' e sposati!” Per me sarebbe facile, perché sono ancora giovane, ma per gli altri non lo so! (Il cardinale ride). Perché non andate in tutti i monasteri dalle suore e dai monaci a dire “Sposatevi perché questo è il sacramento dell'amore”? Offro 50 euro per una buona risposta. Di nuovo Crisostomo ha una bellissima risposta “L'amore è partecipazione di Dio e deve crescere”. E come cresce? Come la Bibbia: dall'AT al NT, dal corporale allo spirituale. All'inizio l'amore è piuttosto corporale, ma deve crescere nella spiritualità e quelli che capiscono che possono amare gli altri spiritualmente, scelgono il celibato. La Bibbia dice: “Chi lo può capire, capisca”.

Dunque verginità e matrimonio sono opposti ma, in un certo senso, la verginità è, in un certo senso, continuazione del matrimonio. Alla fine dei secoli non ci si sposerà più perché tutti avranno l'amore spirituale. Voi sapete che lo stesso pensiero si trova in pensatori moderni che dicono: “All'inizio è attrazione sessuale, ma questa deve svilupparsi in vera amicizia”. Se fra marito e moglie non cresce l'amicizia, il matrimonio fallisce. E' una bella cosa. Una volta dovevo tenere a Milano una conferenza all'Università. L'hanno annunciata: padre Špidlík parlerà della teologia del sesso. Era così pieno che quasi non riuscivo ad entrare! Ma alla fine molti ragazzi mi hanno chiesto: “Ma perché non ci dicono queste cose? Ci dicono solo: questo si può, questo non si può!” Bisogna capire che qui c'è un dinamismo, che se si blocca questa evoluzione è una tragedia. Crisostomo aveva capito molto bene questo, ma non aveva molto tempo per svilupparlo. Soltanto, agli eretici che criticavano il matrimonio rispondeva: “Perché calunni il nido dal quale sei uscito?” Infatti nel rito bizantino c'è la festa della concezione della beata Anna. Dal santo matrimonio di Gioacchino e Anna nasce la Vergine. Questo è amore fra gli uomini.

Il valore del lavoro: Adamo lavorava, prima del peccato, per sviluppare la sua personalità

C'è un altro aspetto moderno che Crisostomo ha sviluppato molto bene: il lavoro. La manifestazione dell'amore è il lavoro. In quel tempo evidentemente il lavoro, soprattutto quello manuale, si stimava poco, erano le opere “servili”, dei servi - per questo di domenica sono proibite. Se zappo la terra per più di tre ore è peccato mortale, se studio fino a diventare matto, questo è bene, di domenica si può fare! C'è distinzione. Ma i cristiani cercavano di riabilitare il lavoro manuale. Crisostomo dice: “Siamo figli di un operaio. S. Paolo lavorava per non essere di peso agli altri. L'uomo è stato posto nel Paradiso per coltivarlo, il mondo è per noi, ma affinché si sviluppi, l'uomo deve lavorare”. La questione è sempre stata: Adamo, nel Paradiso, lavorava? Ma c'era già tutto, perché doveva lavorare? La risposta di Crisostomo è: “Lavorava, perché altrimenti non avrebbe sviluppato la sua personalità”. Il lavoro è necessario per sviluppare la propria personalità. Adamo lavorava e coltivava il Paradiso. Dopo il peccato cosa è successo? Al lavoro si è aggiunta la fatica, e questo è il guaio. La fatica viene dal peccato. Allora dobbiamo scappare da ogni fatica? Crisostomo dice che anche questa è medicinale, ci aiuta a superare le nostre cattive inclinazioni. Uno che lavora vince tutti i vizi. Dunque anche la fatica è molto utile. Chi non lavora non deve mangiare. L'istituzione degli schiavi era il problema del tempo. I Padri non osavano dire – e neanche S. Paolo - che non era giusta, perché tutto il sistema economico era basato su questo. Abolire la schiavitù avrebbe causato il crollo totale dell'economia. Possiamo vedere nella vita di S. Melania, che voleva dare la libertà a tutti i suoi schiavi, che questi si ribellavano. Sarebbe stato come chiudere la FIAT, una grande azienda. Non si potevano lasciare gli schiavi. Quindi si ponevano solo dei limiti: trattateli bene, trattateli come fratelli. Ma la schiavitù non era in discussione. Invece Giovanni Crisostomo, come anche Gregorio di Nissa, dice: “E' contro la natura. Dio ci ha dato due mani, non ci ha dato gli schiavi, gli schiavi ci sono stati dati dalla società corrotta”. Allora sarebbe molto bello che ognuno lavorasse tutte le cose da solo. Le donne che lavorano sono più belle di quelle che mangiano soltanto, gli uomini che lavorano sono più sani. Dunque il lavoro è una cosa molto nobile. E Crisostomo loda ciò che qualche tempo fa ci ha creato problemi, i preti-operai. C'erano molti contadini ordinati sacerdoti, non come oggi il prete che va in fabbrica, ma semplicemente nel villaggio ordinavano prete un contadino. Crisostomo in un'orazione dice: “Quando vedo questi fratelli, che un giorno arano la terra con i buoi e la domenica fanno la liturgia celeste, sono sempre molto commosso nel vedere questi semplici sacerdoti che lavorano con le mani”. I monaci cosa devono fare? C'erano i messaliani che dicevano: “Il lavoro è per i secolari, i monaci devono solo pregare”. Certi schiavi si rifugiavano nei monasteri perché è più facile cantare che zappare la terra. Questi messaliani furono condannati. Conoscete S. Benedetto che ha insegnato: “Ora et labora”. Molti messaliani scappavano anche in Occidente, anche in Italia. Sembra che a Trento ci siano questi martiri che erano arrivati, chissà come, dalla Cappadocia. Rovinarono il tempio dei pagani con grande zelo. Uno di questi vide un monaco ortodosso che lavorava dei cestini. Gli disse: “Io non lavoro”. Il monaco gli diede un libro spirituale, ma la sera, quando fu il momento di mangiare, nessuno lo chiamò. Allora lui tornò e disse: “Padre, oggi non si è mangiato?” “Sì, si è mangiato, ma noi che siamo corporali; tu che sei come un angelo di Dio, pensavamo che non ne avessi bisogno”.

Dunque - “ora et labora” - i monaci lavoravano. E non solo per se stessi, perché non hanno bisogno di tanto. Tutto quello che producono in più è a favore dei poveri. I monasteri sono diventati istituti di beneficenza. Orfanotrofi, ospedali per vecchi, scuole, tutto era opera dei monaci. C'era un grande patrologo, padre Gribomont, ha fatto fare ad uno a Bologna una tesi sul lavoro dei monaci. Il risultato era: qualche volta i monaci erano corrotti, ma i monaci corrotti cosa facevano? Mangiavano più del necessario, bevevano, ma quando l'opera dei monaci passava allo Stato, i “giusti” impiegati statali consumavano molto di più, con tutta l'onesta amministrazione! Che differenza passa tra la vita monastica e quella cristiana? I monaci non sono diversi, vogliono solo osservare tutti i comandamenti. La vita monastica è esempio della vita cristiana e la chiesa orientale è molto monastica. Non si distinguono ordini apostolici e contemplativi. Gli orientali dicono che tutti devono essere contemplativi. Il vescovo non deve perdere la contemplazione, se lo fa deve ancora stare nel monastero. Dunque si potrebbero dire ancora tante cose, ma speriamo che adesso finiamo qui e voi andate a lavorare invece di fare questa contemplazione!

Domanda

Innanzi tutto un grazie per l'esposizione chiara, provocante e luminosa. Avrei una piccola osservazione. Quando lei ha detto, molto giustamente, che Dio è pienezza e non ci può essere desiderio, indigenza, quindi eroS. Cosa che non è vera per noi creature che non abbiamo questa pienezza di essere. Tutto a posto, secondo le categorie di Atene: Dio è immutabile e anche santo, Dio non muta. Tuttavia Dio ha deciso di mandarci suo Figlio, di farsi uomo, di confrontarsi con gli uomini, di permettere che gli uomini lo rifiutino, di aspettare con amore. In questo senso, non per sua innata indigenza, ma per una sua decisione, pur essendo sovrano di tutto, lui dipende dalla cooperazione, dall'atteggiamento dell'uomo, quindi soffre finché l'uomo non lo accetta pienamente. In questo senso, un po' di desiderio c'è anche in Dio che vorrebbe che io fossi meglio di quel che sono. A proposito dell'eresia di cui lei parlava, quando stavo in Zambia c'erano dei gruppi che attendevano alle pulizie, c'era un gruppo che puliva solo la Chiesa. “Noi siamo spirituali”, dicevano, ma anche loro usavano i servizi igienici!

Risposta

Qui ci sono due problemi molto seri: come Dio può ascoltarci quando preghiamo? Filone di Alessandria, grande filosofo ebreo, ha portato all'università la traduzione dell'Antico Testamento in greco, per mostrare ai filosofi che anche noi abbiamo la saggezza. I filosofi ridevano: “Che ridicolo! Dio promette una cosa, gli Ebrei sono cattivi e lui si arrabbia; gli offrono dei buoi e lui si pacifica; dice: va bene, lo farò”. Ma Dio è immutabile! Come è possibile questo?”

Filone, buon ebreo devoto, non sapeva però cosa rispondere, diceva solo: “Se Dio non è libero, neanche noi lo siamo; siamo una macchina”. E' una risposta ad hominem. Ad Alessandria viveva Origene che diceva: “Tutto questo proviene dal nostro modo di pensare. Noi siamo nel tempo; qualcosa è prima, qualcosa è dopo, ma Dio vede tutto presente. Per lui questa cosa del prima e del dopo non esiste”. C'è un libro spirituale italiano che si chiama “Don Camillo”. Lì c'è questo problema, esposto in modo semplice. Gesù dice a don Camillo: “Senti, don Camillo, tu cammini spensierato, attraversi il binario e cadi in terra. Arriva il treno, tu preghi: oh Signore, fa che il treno passi sull'altro binario. Il treno passa là e tu ringrazi il Signore che ti ha salvato. Ma non poteva saltare da un binario all'altro, era già partito sull'altro binario!” Don Camillo non sa cosa rispondere e Gesù gli dice: “Sei tanto stupido? Non sai che prima che il treno partisse io ho visto la caduta, ho sentito la tua preghiera e ho arrangiato le cose in questo modo, sia secondo l'orario che secondo questo dialogo fra di noi”. E' una bella risposta.

Conferenza tenuta presso la Libreria Russia ecumenica, il 9 dicembre 2003.

a cura del Centro Russia Ecumenica
00193 Roma – Vicolo del Farinone, 30
tel 06-6896637


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Martedì, 02 Maggio 2006 00:24

I. Credo in Dio Padre Creatore (Michelina Tenace)

La fede, come riconoscimento dell'esistenza di un altro, passa dall'esperienza di una relazione-rivelazione dove l'affermazione di Dio come Creatore non è cronologicamente prima né esclusivamente cristiana.

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«Credo nello Spirito Santo che procede...» La tradizione orientale e occidentale
di Tomás Spidlík




Quando si pone la questione della differenza che passa fra i cattolici e i cristiani ortodossi, sentiamo spesso due risposte diverse. Gli uni dicono: Non esistono delle differenze sostanziali, si tratta di due Chiese sorelle con due tradizioni che si completano a vicenda. È però un ostacolo principale dell’unione il fatto che essi non riconoscono il papa come capo principale e infallibile della Chiesa universale. Gli altri dicono di più: Dopo un millennio di separazione sono apparse anche varie differenze nella fede stessa. Fra queste la più importante è il Filioque che la Chiesa occidentale ha aggiunto al testo del Credo: Crediamo nello Spirito Santo «che dal Padre e dal Figlio procede». Nel primo e originale testo, approvato nei Concili di Nicea e di Costantinopoli leggiamo: «che procede dal Padre». Una sola parola aggiunta dovrebbe costituire una notevole differenza nella fede? Sì, dicono gli ortodossi, dato che si tratta di professione di fede divina. Lo dicono tutti o ci sono anche interpretazioni più tolleranti?

Vediamo prima cosa dice del problema la Sacra Scrittura. Nel vangelo di San Giovanni lo stesso Cristo afferma che i discepoli riceveranno lo Spirito «che il Padre manderà» (14,25), ma in seguito Gesù aggiunge: «perché prenderà del mio» (16,14). San Paolo scrive che «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio» (Gal 4,6) che è «Spirito di Cristo».

Come interpretavano questi testi gli antichi cristiani? Nella professione di fede recitata durante il battesimo, come la riferisce Sant’Epifanio, leggiamo che lo Spirito «procede dal Padre e riceve dal Figlio». Si ripetono quindi semplicemente le parole del vangelo. Ma già San Damaso lo abbrevia e dice «procede dal Padre e dal Figlio». Questa formula cominciò ad essere generalmente usata in Occidente perché sostenuta dall’autorità di Sant’Agostino. San Cirillo di Alessandria e il grande dottore della Chiesa orientale San Giovanni Damasceno preferivano dire: «procede dal Padre per mezzo del Figlio». Si tratta quindi di diverse formule di spiegazione del mistero, ma nel testo del Credo durante la liturgia rimaneva il testo breve: Spirito «che procede dal Padre». Si temeva di aggiungere qualche cosa anche per il timore dell’eresia di cosiddetti pneumatomachi. Questi negavano la divinità dello Spirito Santo dicendo che fu creato per mezzo del Figlio. Allora era meglio lasciare semplicemente: «procede dal Padre».

Quando fu introdotto il Filioque nel simbolo di fede recitato durante la messa? Si dichiararono in favore di questa addizione i partecipanti al sinodo della Spagna visigotiniana a Toledo nel 589; in seguito al concilio di Francoforte del 794 lo decretò l’imperatore Carlomagno. Il papa di Roma Leone III consentì. Fu quindi l’inizio di una doppia recita del Credo in Oriente e in Occidente, ma il fatto non era oggetto di discussioni. Queste sorsero a Gerusalemme. L’abate del monastero del Monte degli ulivi introdusse nell’807 l’uso «dei Franchi» e i monaci del monastero di San Saba protestarono. Ma la controversia non ebbe troppe conseguenze.

Il vero conflitto ecclesiale sorse nei momenti della separazione fra la Chiesa latina e greca verso la fine del primo millennio. Da una parte Fozio accusò i missionari latini in Bulgaria che insegnavano il Filioque e con ciò proponevano «una falsa spiegazione del Credo», perché lo Spirito Santo «procede dal solo Padre». Al contrario il cardinale Umberto rimproverò i Greci che «avrebbero omesso» nella recita del Credo il Filioque. Notiamo che si tratta di due erronei equivoci. A Fozio rispondiamo: non è lo stesso dire che «lo Spirito procede dal Padre» o che «lo Spirito procede dal solo Padre». E sul conto del cardinale Umberto possiamo dire che sapeva poco della storia della liturgia quando disse che i Greci «avrebbero omesso» il Filioque. Purtroppo le controversie, in quel momento, ebbero gravi conseguenze e divennero il tema di mutue accuse.

Il grande concilio di unione tenuto a Firenze nel 1439 cercò una riconciliazione dichiarando che il latino con Filioque non vuole affermare altro che ciò che ammettono i Padri sia dell’Occidente che dell’Oriente, cioè che «lo Spirito procede dal Padre per mezzo del Figlio».

Quale importanza assume la questione nelle relazioni fra Chiesa cattolica e Chiese orientali oggi? In linea di massima, fra i teologi ortodossi, possiamo distinguere quattro atteggiamenti.

  1. I più radicali sono quelli che dicono che la formula latina è del tutto falsa e che porta delle conseguenze gravi: dato che i latini hanno un’altra fede nello Spirito Santo rispetto agli orientali, hanno anche una differente spiritualità.
  2. Moderati si possono dire quelli che affermano che si tratta in questo caso di questioni teologiche liberamente disputate come avviene per tante altre fra i teologi; non dovrebbero impedire l’unione delle Chiese.
  3. La terza opinione affronta il problema dal punto di vista della disciplina ecclesiale: è sempre pericoloso introdurre dei cambiamenti di maggior rilievo in qualsiasi campo, se vi è pericolo di diminuire l’unità del popolo di Dio; il Credo della liturgia fu composto con il consenso universale, la Chiesa latina non aveva il diritto di toccarlo senza consultare gli altri e perciò oggi dovrebbe ritirare la sua aggiunta.
  4. Infine notiamo un atteggiamento che fu la conseguenza di un dialogo concreto tra la Chiesa russa e gli anglicani intorno all’interpretazione e al senso da attribuire al testo della tradizione latina.

Se le opinioni degli ortodossi sono, come vediamo, diverse, i cattolici sono riusciti a unificare il loro atteggiamento che si può riassumere in poche parole. Già il Concilio di Firenze dichiarò in modo autorevole che il Filioque si deve intendere nel senso della tradizione comune in Oriente e in Occidente. La Chiesa di Roma permette di recitare il Simbolo niceno-constantinopolitano senza il Filioque là dove questa omissione si vede opportuna, come in certe Chiese orientali cattoliche.

È da notare che nelle diverse tradizioni linguistiche, talvolta le stesse parole assumono significati diversi: ciò avviene, per esempio, per il verbo “procedere” che può significare «provenire in qualsiasi modo» oppure indica la prima sorgente, la prima causa.

Laddove questa sfumatura linguistica è sensibile, allora è davvero opportune tralasciare la formula «procede dal Padre e dal Figlio», perché ciò significherebbe due sorgenti primarie. Il Concilio unionistico di Lione nel 1274 espressamente rifiutò una tale spiegazione, dicendo che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio «però non come dai due princìpi ma come da uno solo».

Possiamo quindi concludere che la questione sulla processione dello Spirito Santo è come tutte le altre verità di fede un mistero divino rivelato che non possiamo comprendere con gli argomenti razionali e nei dubbi di interpretazione cercare di trovare la concordia nel dialogo ispirato dalla carità ecclesiale e dall’amore per l’unità che è frutto dello Spirito.

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Mercoledì, 05 Aprile 2006 02:33

La Chiesa ortodossa (di Mervyn Duffy)

Le Chiese dell'oriente cristiano
La Chiesa ortodossa
di Mervyn Duffy




I cristiani ortodossi si considerano parte di una sola chiesa nel senso che condividono la stessa fede e gli stessi sacramenti, come pure la liturgia bizantina la tradizione canonica e quella spirituale. Tutti gli ortodossi riconoscono i primi sette concili ecumenici come normativi per la dottrina e la vita della chiesa. Si ritiene che un certo numero di concilii successivi abbia espresso la stessa fede delle origini. Sebbene si faccia comunemente riferimento ad essa come alla Chiesa Ortodossa, questa comunione è anche frequentemente chiamata la Chiesa Ortodossa Orientale, per distinguerla dalle chiese ortodosse orientali descritte nella sezione precedente.

A livello di governo ecclesiale, l’Ortodossia è una comunione di chiese che, tutte, riconoscono il patriarca di Costantinopoli come primus inter pares, o “primo fra uguali”. Sebbene egli non abbia l’autorità di intervenire negli affari delle chiese locali al di fuori del suo patriarcato, è considerato primo in dignità e centro simbolico di tutte le chiese ortodosse. Così il Patriarcato di Costantinopoli (conosciuto anche come Patriarcato Ecumenico) gode di una certa priorità fra le varie chiese ortodosse. Questo status è considerato come un servizio per promuovere la conciliarità e la mutua responsabilità. Questo ruolo include il convocare le chiese e il coordinare la loro attività, e talvolta intervenire in situazioni per tentare di trovare soluzioni a specifici problemi.

Lo scisma tra quelle che ora sono conosciute come chiese ortodosse e chiese cattoliche è il risultato di un secolare processo di allontanamento. Eventi come le scomuniche nel 1054 fra il Patriarca di Costantinopoli e il legato papale furono soltanto momenti salienti di questo processo. Inoltre, ogni chiesa ortodossa ha una propria storia di contrasti con Roma. Non c’è mai stata, per esempio, una separazione formale tra Roma e il patriarcato di Antiochia, anche se Antiochia condivise la comune percezione bizantina dello scisma. Oggi è largamente condivisa l’opinione che non ci siano stati fattori teologici in gioco in questo graduale allontanamento fra oriente e occidente. Tra questi ci fu l’interruzione di una regolare comunicazione in seguito a sviluppi politici e all’incapacità di entrambe le chiese di comprendere rispettivamente il Greco e il Latino. Inoltre erano in gioco questioni dottrinali, che riguardavano soprattutto la natura della chiesa. Le più importanti di esse riguardavano l’eterna processione dello Spirito Santo (questo in merito all’aggiunta del filioque al credo della chiesa occidentale) ed il significato del ruolo del vescovo di Roma come primo vescovo nella chiesa.

Due notevoli tentativi di ristabilire la comunione tra i cattolici e gli ortodossi avvennero durante il secondo concilio di Lione nel 1274 e nel concilio di Firenze-Ferrara nel 1438-1439. Sebbene unioni formali fossero state proclamate in entrambi i casi, alla fine esse furono rifiutate dalla popolazione ortodossa. I molti secoli di mutuo isolamento hanno avuto fine soltanto in questo periodo a noi contemporaneo. Un dialogo internazionale ufficiale tra le due chiese ha avuto inizio soltanto dal 1980.

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Da dove viene il mondo? Noi, da dove veniamo? Dove andiamo? Da dove viene e dove va tutto ciò che esiste?

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Domenica, 19 Marzo 2006 19:02

Il popolo dell’Ararat (Claudio Gugerotti)

Gli armeni
Il popolo dell’Ararat
di Claudio Gugerotti




Dove si innesta la croce di pietra che costella tutto il paesaggio armeno: una lastra, a volte verticale, a volte orizzontale, che reca inciso l'albero della vita, allargato all'estremità dei quattro bracci e recante un germoglio alla base, segno di una risurrezione più forte di ogni morte? Si direbbe che quella croce sia piantata nel cuore della terra, di una delle terre più antiche del mondo.

L'immagine dell’Armenia è nella fantasia di molti una grande pietraia. Ed è vero che buona parte del suo territorio è fatta di pietre, anche se non vanno dimenticate lande verdeggianti, oasi di acque e di uccelli, gravide di frescura. La pietra è origine e fondamento. E dunque richiama la culla di una delle più antiche civiltà del mondo. La pietra è altresì resistenza, coraggio a oltranza, voglia di sopravvivere caparbiamente alle avversità infinite della vita, volontà di esserci comunque, impegno per i posteri e per tutta l'umanità. Anche le chiese armene sono pietre dalla pietra. Solo la luce che vi filtra, le accarezza e le ingentilisce. Grotte di preghiera, ma anche nascondiglio nella roccia, e voglia di penetrare nel mistero della vita, un po’ per passione, un po’ per disperazione, un po’ per nascondersi agli occhi di una storia poco generosa, un po’ per cercare nelle profondità il senso di una sofferenza infinita, una sofferenza che appartiene al sangue del Caucaso.

Immagino la storia armena segnata da alcuni dei suoi santi più emblematici. È un modo come un altro per ispirarsi. Comincerei con san Gregorio, detto "l'Illuminatore degli Armeni". Un uomo venuto dalla gente dei Parti, come canta un inno liturgico. Agli albori del IV secolo, egli risveglia l'antica presenza dei santi apostoli Bartolomeo e Taddeo, che la tradizione vuole i primi evangelizzatori dell'Armenia. Dopo terribili sofferenze inflittegli dal re Tiridate, caparbio avversario della fede prima di lasciarsi avvincere dai miracoli del santo, alla fine converte il re, la sua famiglia e l'intera nazione. Ancora oggi dà brividi di bellezza e di sconcerto scendere nel pozzo profondo (khor wirap), dove egli sarebbe stato recluso per anni, nutrito solo dalla bontà di una povera vedova. Sul luogo ora sorge un monastero, in una collocazione naturale tra le più suggestive al mondo: ai piedi dell'Ararat, la montagna biblica ove l'arca riposò dopo il diluvio, sempre innevata, sempre irraggiungibile, in una pianura vasta e brulla, segnata solo dalle torrette di confine con la Turchia. Nel pozzo si scende in silenzio, con una scaletta appesa al muro, come nelle vie ferrate. E si finisce anche lì nelle viscere della terra, in quel mondo ipogeo dove gli armeni cercano il senso del vivere e del morire.

Una conversione in realtà molto complessa, quella degli armeni: sugli antichi templi del fuoco sorgono le nuove chiese, e gli antichi sacerdoti del culto pagano vengono convertiti alla nuova fede e ne diventano i leviti. Una discontinuità tra nova e vetera che si volle, in alcune fonti, marcata e implacabile: in realtà molto più progressiva e velata, e soprattutto rispettosa di un sostrato culturale e identitario che trova nella nuova religione non una frattura ma una, sia pur ripensata, continuità. Da allora il cristianesimo segna le sorti dell'Armenia, al punto che, come dice un suo antichissimo storico, è più facile togliere alla pelle il suo colore, che all’armeno la sua fede in Cristo.

Poi le vergini martiri, con a capo santa Hripsimé, con la nutrice Gaianè, fuggite dalle brame dell'imperatore romano e cadute in quelle del locale sovrano, uccise per non aver ceduto. Sepolte in due chiese a loro dedicate che fanno da corona alla santa cattedrale di Etchmiatzin, luogo, come dice il termine, in cui "l'Unigenito discese", per indicare a san Gregorio Illuminatore dove sarebbe sorta la sua Chiesa. Ancora oggi ci si inginocchia con venerazione davanti all'altare di alabastro che segna il luogo della discesa, il luogo dell'incarnazione armena. Hripsimé e Gaiané sono il simbolo di una cristianità ancora aperta, ancora in cammino: pellegrine d'Occidente che cercano in Oriente comprensione e rifugio. Sangue non armeno che, per il fatto stesso di essere versato in Armenia, diventa appartenenza alla cristianità che lo ha raccolto e custodito. Segno di una identità ecclesiale non ancora identificata pienamente con l'etnia, ma accogliente nuovi santi, da ricevere, da fare propri, come massicciamente avvenne anche nella vicina Georgia.

Poi san Vartan Mamikonian: un feudatario, un uomo politico e, se si vuole, un calcolatore del vantaggio che si può ricevere affittando la propria fedeltà al miglior offerente; un uomo che, però, alla fine, comprende che c'è un'unica fedeltà, quella a Cristo, e che essa non tollera infingimenti: o con me o contro di me. E quando gli Zoroastriani vogliono imporre a lui e alla sua gente l’abiura, egli passa la notte in preghiera e riceve l'Eucaristia, vero viatico, prima della battaglia decisiva in cui perderà la vita. Una santità guerriera cui si rifaranno altri combattenti, come a un prototipo. In realtà il simbolo di un martirio di popolo, dove si soccombe col corpo, ma lo spirito invitto trionfa nella profezia di tempi diversi, quando non vi saranno più oppressori e Cristo sarà la fonte di amore che non conosce adultèri. Un uomo che mostra come la politica non abbia mai l’ultima parola, ma resti soggetta al dovere della verità, severo giudice di ogni compromesso, di ogni coscienza posta in vendita. San Vartan, così come Hripsirnè e Gaiané, divengono i capifila di una moltitudine di martiri, conosciuti e sconosciuti, caduti per non rinunciare alla verità della coscienza. Non sempre i riferimenti collettivi ad essi saranno storicamente pertinenti, talora forse potranno apparire precritici o approssimativi per eccesso di zelo nazionale, ma sempre costituiscono un monito al mercantilismo cui ogni ideologia umana finisce col soggiacere.

E così Cristo sarà per gli armeni la grande Vittima, il Sacrificato, l'Immolato, Colui nel quale si identificano i diseredati, gli spogliati, i violati della terra, come accade nella tradizione slava con i santi Borys e Glebs, uccisi perché innocenti, e per questo assimilati all'Agnello scannato senza colpa. Di qui anche l'elegia dello splendido lamento liturgico armeno, in fin dei conti, quello di ogni cuore armeno, che esprime anche nel suo folklore la nostalgia per il diletto allontanato a forza dalla guerra, dalla miseria, dall'oppressione. Ecco chiedere alla gru che vola da lontano se porti notizie del caro fuggitivo, anch'egli sentito come vittima sacrificale di un amore straziato da una diaspora senza fine.

Infine, san Nerses Shnorhali (ovvero «portatore di Grazia»). Abbiamo già scavalcato l’anno Mille e molti armeni sono fuggiti in Cilicia a causa delle continue invasioni dei propri territori. Lì il katholikos Nerses si erge come maestro di fede e vero capo di una disciplina morale di popolo. Capo di profughi, egli ridà loro la dignità di popolo, canta il mistero di Dio con inni liturgici impareggiabili, guida la Chiesa con fermezza, è spesso capace di coraggiose ammonizioni. Ma soprattutto dialoga con tutti, con i popoli che convivono in quella terra, in particolare con greci e siri, aprendo la strada ad un rapporto con i latini, stabilitisi anch'essi in quell'area per guerre o commerci. Amante appassionato dell'unità cristiana, Nerses cerca il confronto, perché tale unità sia restituita alla sua visibilità, ma senza perdere lo specifico di ogni identità. Un'unità pluriforme, considerata, proprio nella sua diversità, come ricchezza, non come frutto di peccato. Unico frutto del peccato è per lui la divisione, l'opposizione astiosa, l'orgoglio che si autoassolve e condanna l'altro. La denuncia contro tali atteggiamenti è adamantina e incessante. Anche se quel profeta di unità non sortirà, per varie vicende storiche oltre che per la durezza dei cuori, risultati duraturi, pure i principi da lui stabiliti rimarranno nei secoli, ancor oggi modernissimi: un dialogo frutto della fede comune e di un rispetto, nella coscienza che la verità non può essere "posseduta" e che la ricchezza e la potenza di un popolo non sono il segno di una maggiore fedeltà a Cristo. Cercare insieme di mostrare l'amore cristiano, senza vinti nè vincitori, senza risentimenti umani nè disumane vendette, senza sottintesi politici, ma nella pura fedeltà allo Spirito, costantemente invocato, e in una carità che sa rinunciare a ciò che non è essenziale, perché quanto veramente conta, la testimonianza dell'amore, nome stesso di Dio, possa risplendere. Ecco il sogno di Nerses. E contro chi lo rimprovera per il fatto che il popolo armeno non entra nell'edificio della chiesa per pregare, ma resta nella parte esterna, egli scaglia il suo monito a non considerare scelta religiosa quella che è solo necessità pratica; «Perché li critichi - chiede al suo interlocutore - quando tu stesso non consenti loro di costruirsi una chiesa sufficientemente grande? Dovevi guardarli come pregavano nella loro terra natia. Vedrai che ciò che credi frutto di una scelta liturgica è solo drammatica necessità».

Ecco alcuni santi che interpretano un’anima. Può essere un modo di ricostruire la storia di un popolo e della sua sensibilità religiosa e culturale. Piccolo passo, forse utile a far crescere la curiosità, sano atteggiamento che attingerà tesori preziosi nel contatto col mondo degli armeni, affinché impariamo ad apprezzare l'altro per guardare con più profondità il mondo di tutti.

(da Luoghi dell'infinito)


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