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La crisi finanziaria dei crediti immobiliari a rischio, partita dagli Stati Uniti questa estate, raggiunge le banche francesi. Quest’ultime avevano finora dichiarato che esse erano risparmiate, non avendo finanziato affatto o molto poco le famiglia statunitensi e investito poco nei profitti finanziari rischiosi, spalleggiate dalle famose “subprimes”. Pensavano anche di rimanere indenni. Non è così, evidentemente, anche se la degradazione dei loro conti sembra non essere paragonabile a quella di creti istituti americani, britannici o tedeschi.

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Dopo gli attentati
dell’11 settembre, non si era più visto un tale scenario. Le
banche centrali dei più grandi paesi industrializzati hanno
lanciato, mercoledì 12 dicembre, una vasta operazione
concertata sui mercati di creditoper tentare di placare le tensioni
crescenti causate dalla crisi dei mutui ad alto rischio. La FED, la
BCE, la Banca Nazionale Svizzera, la BOE e la Banca del Canada hanno
annunciato una serie di misure tecniche destinate ad offrire
liquidità – denaro disponibile – a un sistema bancario al
limite del soffocamento.

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Mercoledì, 02 Aprile 2008 11:56

Avanti tutta

Viene
spontaneo domandarsi quali siano state le carte vincenti che hanno
permesso alla Cina di emergere dallo status di paese in via di
sviluppo, diventando così una nazione «pericolosa»
per gli altri stati del mondo. Per quale motivo Cina e Africa, un
tempo entrambe considerate paesi del terzo mondo, adesso sembrano non
condividere più gli stessi problemi che una volta le
accomunavano?

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Mercoledì, 26 Marzo 2008 11:09

L'invasione

Nel
giro di pochi anni, alcune capitali dell’Africa dell’Ovest hanno
visto un cambiamento radicale del traffico su due ruote. I motorini,
mezzo principale di trasporto della popolazione cittadina a
Ouagadougou come a Cotonou, si sono rapidamente moltiplicati. Gli
indistruttibili Yamaha giapponesi, assemblati in Burkina Faso sono
stati soppiantati dai Jailing, Sukinda, Yashua e tanti altri nomi di
fantasia. Ma anche Yamaha contraffatti. Tutti «made in China».
A un terzo del costo.
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Mercoledì, 19 Marzo 2008 10:50

Il PIL

"Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.

Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo.

Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.

Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.

Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.

Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani".

Robert Kennedy


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Mercoledì, 12 Marzo 2008 14:21

Indipendenza finanziaria targata Bancosur

Ormai. è cosa fatta. Il Sudamerica avrà un proprio organismo di credito, che porrà fine al monopolio del Fondo monetario internazionale (Fmi), della Banca mondiale e del Banco interamericano de desarrollo (Bid).

In giugno è stato firmato in Argentina l’atto costitutivo del Banco del Sur (Bancosur), cui aderiscono Argentina, Bolivia, Brasile, Ecuador, Paraguay e Venezuela. L’entrata in funzione effettiva dell’organismo - che potrà contare su un capitale di sette miliardi di dollari - è avvenuta a fine giugno, con una cerimonia d’inaugurazione a Caracas. Il Banco del Sur avrà la sua sede principale a nella capitale venezuelana e uffici a Buenos Aires e a La Paz.

Si tratta di un importante progetto finanziario regionale, che rientra nel cammino verso l’integrazione del Sudamerica e che, allo stesso tempo, può essere letto come un modo per rafforzare i Paesi dell’area Mercosur (mercato comune dell‘America meridionale).

I principali promotori dell’iniziativa sono stati il presidente venezuelano Hugo Chàvez e il suo omologo argentino Nestòr Kirchner, che tempo fa aveva già rotto i ponti con l’Fmi, cancellando completamente il debito del suo Paese.

L’obiettivo principale dell’organismo è garantire l’indipendenza finanziaria del continente, facendo leva sulle ingenti riserve di dollari accumulate negli ultimi tempi dai Paesi sudamericani, soprattutto dal Venezuela. Recentemente il cancelliere venezuelano Nicolàs Maduro ha assicurato che il Banco del Sur è «un’ alternativa forte» per porre fine al monopolio dei tradizionali enti finanziari internazionali. Riferendosi all’Fmi e alla Banca mondiale, Maduro ha spiegato: «Loro ci pagano due o tre punti percentuali per il nostro denaro e in cambio ci fanno pagare l’8 o il 10 per cento di interessi per prestarci il nostro stesso denaro. Ci saccheggiano».

Il nuovo organismo di credito, che è stato concepito come «la banca per lo sviluppo del futuro», ha tra i suoi obiettivi principali quello di attrarre investimenti economici verso l’America Latina e sostenere la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali. Chàvez ha già proposto il progetto anche al Paesi non allineati, a quelli asiatici e africani. Il tempo dirà se si tratta di una trovata ideologica o un efficace volano per lo sviluppo.

Di Alessandro Armato
MM/8-9/07


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Mercoledì, 05 Marzo 2008 10:16

L'incontro con l'altro: ferita e benedizione

Il tema del rapporto fra ricchezza e felicità vive oggi una stagione di grande interesse all’interno del mondo accademico e non solo. La nostra rivista se ne è già occupata in passato e continuerà a seguirlo, convinti come siamo che su questa pista si possano offrire utili provocazioni alla società civile e alla Chiesa. In Italia uno degli studiosi di riferimento è il professor Luigino Bruni, autore di numerosi e apprezzati contributi in proposito. Pubblichiamo ampi stralci dell’introduzione a La ferita dell’altro, l’ultimo volume di Bruni, in uscita presso Il Margine di Trento.

Immaginate….. una città senza condomini rumorosi e litigiosi, dove ogni famiglia ha la sua propria villetta isolata acusticamente e visivamente dalle altre in modo che nessun vicino possa dar fastidio all’altro; dove i pochi grattacieli rimasti sono costruiti in modo da evitare ogni incontro lungo le scale o nei pianerottoli; dove, negli uffici e nei posti di lavoro si comunica solo via mail o, per le decisioni più delicate, via Skype; dove tutti gli spazi una volta comuni sono stati lottizzati e privatizzati, dalle piazze ai quartieri, e ciascuno difende e controlla il suo pezzettino di città; dove con una semplice mail possiamo ordinare la spesa che ci viene recapitata a casa senza bisogno di uscire e perdere del prezioso tempo; dove i media sono diventati così sofisticati e interattivi da farci sentire tutto il giorno in compagnia di tanti, pur trascorrendo sempre più ore da soli davanti a pc e tivù; anche le lezioni universitarie ci vengono recapitate a casa via Internet, con docenti virtuali preparatissimi che ci seguono personalmente da qualunque parte del mondo, senza alcun bisogno di incontri faccia a faccia.

Una città «ideale»: i conflitti sono stati infatti eliminati perché è venuta meno la pre-condizione stessa del conflitto, insistere cioè su una terra comune, su di una communitas. Vi piacerebbe vivere in una tale città? Vi auguro di sì, poiché questa scena stilizzata è molto vicina a quella reale che si sta profilando nelle città che oggi stiamo immaginando e progettando nelle nostre società di mercato. Mercato, sì: perché il mercato e la sua logica è proprio ciò che più sta determinando questo scenario. Questo libro vorrebbe offrire qualche spiegazione del perché si sta profilando un quadro simile, e magari offrire qualche spunto di riflessione a chi (come me) è molto preoccupato da una tale prospettiva. Ci sono un’ immagine e un’intuizione all‘origine di questo testo: il «combattimento di Giacobbe con l’angelo» narrato dalla Genesi (l’immagine), e l’indissolubile legame presente in ogni autentico rapporto umano tra «ferita» e «benedizione» (l’intuizione).

Prima o poi ogni persona fa una esperienza, che segna l’inizio della sua piena maturità: capisce nella propria carne e intelligenza che se vuole sperimentare la benedizione legata al rapporto con l’altro/a, deve accettarne la ferita. Comprende, cioè, che non c’è vita buona senza passare attraverso il territorio buio e pericoloso dell’altro, e che qualunque via di fuga da questo combattimento e da questa agonia conduce inevitabilmente verso una condizione umana senza gioia. In un certo senso è tutta qui l’idea che ha originato il percorso di questo libro, il quale racchiude un tentativo di far dialogare l’economia con questo «combattimento»,con la ferita e con la benedizione dell’altro. Perché tentare questo dialogo?

La scienza economica, con la sua promessa di una «vita in comune senza sacrificio», rappresenta nella tarda modernità una grande via di fuga dal contagio della relazione personale con l’altro, e proprio per questa ragione l’umanesimo dell’economia di mercato, che pure ha prodotto grandi frutti di civiltà, è oggi tra i grandi responsabili (sebbene non l’unico: un altro grande protagonista è la tecnologia) della deriva triste e solitaria delle moderne società di mercato, una condizione umana senza gioia anche per aver creduto alla grande illusione che il mercato, o l’impresa burocratica e gerarchica, ci potesse regalare una buona convivenza senza dolore, ci facesse incontrare un'altra che non ci ferisse, che non combattesse ma semplicemente scambiasse innocuamente con noi. E in effetti ci stiamo sempre più «incontrando» in questo modo negli anonimi mercati post-moderni. Ma forse stiamo uscendo dal territorio dell’umano, se è vero che l’umano inizia con la gratuità, che è sempre un’esperienza di relazione interumana rischiosa e quindi potenzialmente dolorosa. (...)

Questo innocuo incontro con l’altro senza ferita è anche un incontro senza gioia, che non porta ad una vita pienamente umana, per la persona e per la società, come i contemporanei studi sui «paradossi della felicità» ci dicono con sempre maggiore forza, come avremo modo di vedere nell’ultima parte di questo saggio. Questa grande illusione della modernità oggi la stiamo pagando infatti con la moneta della felicità, ed è ora che qualcuno chiami il bluff. (..)

Questo libro, però,non è scritto da un pessimista o da un nemico dei mercati e della società contemporanea, o da un nostalgico di antiche comunità pre-moderne. Lo sguardo con il quale guardo il mondo che cerco di descrivere vuole essere in realtà largo, positivo, uno sguardo di chi è solidale compagno di viaggio dei protagonisti (economisti compresi) delle storie che racconta. Le pagine che seguono sono solo un tentativo per comprendere qualche dinamica meno visibile delle cause della crisi epocale che stiamo attraversando (che è una crisi essenzialmente relazionale), e imbastire un ragionamento che renda ragione della speranza, che vorrei fosse la vera nota dominante di tutto il saggio.

Una riflessione a tutto tondo sulle relazioni umane, soprattutto su quelle orizzontali faccia a faccia (...), è dunque il filo conduttore del saggio. Sulla vasta gamma della relazionalità umana, come vedremo, l’economia si è concentrata essenzialmente su una sola forma, quella assimilabile all’eros,
trascurando la philia (amicizia), emarginando totalmente l’‘agape, la relazionalità improntata a gratuità, per la carica che l’agape ha di potenziale sofferenza dovuta alla mancanza di controllo pieno su di essa. La classica tripartizione dell’amore umano in eros, philia e agape sarà, non a caso, un altro tema dominante, e chiave di lettura, presente nelle pagine che seguono. Voglio poi specificare subito che questo libro non contiene nessun appello a combattere i mercati o a costruire una società libera dai mercati. Il tentativo che invece si nasconde in questo libricino è tentare di addurre alcune buone ragioni a sostegno dell’importanza e dell’urgenza di incontrare il mistero drammatico dell’altro e della communitas, senza però tornare in un mondo pre-moderno e senza mercati o uscire in una delle tante forme di comunitarismo di oggi. La storia umana ci mostra, infatti, che dove non arriva il mercato non è normalmente l’amore scambievole a prendere il suo posto; soprattutto nelle grandi comunità, il vuoto del contratto è spesso riempito da rapporti di potere, dove il più forte sfrutta il più debole. Anche nel mercato ritroviamo forti e deboli, ma spesso sappiamo riconoscerli e vogliamo superare le asimmetrie. Sono convinto che un mondo senza mercati e contratti non è una società decente; ma una società che ricorre solo a mercati e contratti per regolare i rapporti umani lo è ancor meno. Molta parte del discorso che svolgeremo in questo saggio si muove sul terreno compreso tra «solo» e «senza».

Il mercato, questa «zona franca» dove possiamo incontrarci senza sacrificio, in modo mediato e mutuamente vantaggioso, è una conquista della civiltà e uno strumento di civiltà che, qualche volta, può anche allearsi con la gratuità, e diventare mezzo per una convivenza umana più libera e addirittura più fraterna. Le tante esperienze di economia sociale, civile, di comunione, di ieri e di oggi, ci dicono esattamente questo: il mercato può diventare luogo di vero incontro con l’altro e di benedizione, purché si apra alla gratuità, purché non fugga dalla ferita dell’altro.

Infine (…)non occorre dimenticare il ruolo potenzialmente civile delle mediazioni: anche la protezione dalla ferita dell’altro, assicurata dal sistema mediato e decentrato dei prezzi e dalla mediazione della legge, può svolgere una funzione positiva e civilizzante, soprattutto in quelle società dove il mercato è sottosviluppato, e le esperienze dell’uguaglianza e della libertà sono sempre minacciate. Esiste però un punto critico, una soglia, oltrepassata la quale la relazione anonima dei mercati produce anomia, solitudine e smarrimento dei legami identitari: è mia impressione che le opulente società occidentali abbiano già oltrepassato questa soglia, che delimita anche il territorio dell’umano.

di Luigino Bruni
Docente di Economia politica Università Bicocca - Milano
MM/10/07


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Giovedì, 28 Febbraio 2008 00:22

Etiopia: il risveglio

Lo straniero che si affaccia per la prima volta sulla scena etiopica coglie immediatamente il senso di sicurezza e di normalità che si respira nelle grandi città. È l’eredità di uno stato con una tradizione bi-millenaria. Ma i controlli sistematici negli aeroporti, nei ristoranti e nei principali alberghi della capitale, Addis Abeba, testimoniano di una certa tensione. Le autorità non scartano l’eventualità di un attentato terroristico, visto che l’esercito è impegnato in Somalia a rintuzzare le iniziative armate di gruppi del radicalismo islamico.

Altro sentimento dominante: una certa rassegnazione della popolazione che, dopo la morte del Negus, Hailé Selassié (regnò ininterrottamente dal 1930 al 1974), subì il terrore rosso di Menghistu Hailé Mariam. Oggi, a diciassette anni dalla caduta del regime marxista del derg, che aveva racchiuso il paese in una cappa di piombo, la vita culturale e notturna di Addis Abeba sta timidamente riprendendo.

Tuttavia, rimane il trauma causato dalle elezioni politiche del maggio 2005, che si chiusero con la netta sconfitta dei candidati della coalizione al governo, il Fronte democratico e rivoluzionario del popolo etiopico (Fdrpe). Dopo aver modificato a proprio favore l’esito delle urne, la Coalizione ha fatto largo uso della repressione per mantenersi al potere. Per la commissione d’inchiesta del parlamento, il bilancio delle manifestazioni del novembre 2005, che contestavano gli “aggiustamenti” del voto, fu di 193 morti. Arrestati anche i principali esponenti dell’opposizione, tra cui il presidente della Coalizione per l’unità e la democrazia (Cud), Hailu Shawel.

A luglio, il regime s’è inventato un colpo di teatro: il giorno 16, ha condannato all’ergastolo i 37 oppositori arrestati; il giorno 20, li ha liberati, dopo un’umiliante confessione, nella quale hanno «riconosciuto» la propria responsabilità negli incidenti del 2005. In questo modo, si è tentato di abbassare la temperatura politica prima dell’inizio delle celebrazioni del passaggio al terzo millennio.

D’altra parte, le divisioni in seno all’opposizione hanno tranquillizzato l’Fdrpe, tutto concentrato a realizzare opere infrastrutturali e convinto, in questo modo, di vincere le elezioni amministrative, la cui data non è ancora stata fissata. Va detto che l’atteggiamento dei principali partner dell’Etiopia, a cominciare dagli Usa, spinge una parte dell’opposizione a cercare una strada di compromesso con la maggioranza di governo.

E il fatto che gli stati europei abbiano ignorato la risoluzione del parlamento Ue, che chiedeva sanzioni mirate contro il primo ministro Meles Zenawi, rafforza la convinzione generale che il governo goda del sostegno dell’Occidente.

Zenawi, comunque, non può ignorare del tutto le preoccupazioni della popolazione. La più immediata è l’inflazione: l’indice generale viaggia attorno al 20%, ma per grano, mais e sesamo i tassi sono rispettivamente del 30, 150 e 100%. Inoltre, presto o tardi, bisognerà rispondere alla frustrazione degli amhara (da sempre il gruppo dirigente del paese), che abitano la capitale e i dintorni, e che sono indignati del fatto che il potere sia in mano ai tigrini (il 7% della popolazione). L’animosità è tale che, negli ultimi anni, alcuni fedeli hanno più volte tentato di lapidare il patriarca della chiesa ortodossa etiopica, Abuna Paulos, originario del Tigray (la regione più settentrionale) come Meles.

Le autorità negano ogni favoritismo etnico o regionale, invocando la costituzione federale e sottolineando che quest’anno più di due terzi del budget va agli stati della federazione.

Focolai di conflitto
Se nelle principali città si respira un’atmosfera tranquilla (i turisti sono passati da 139mila a 227mila tra il 1997 e il 2005), nella periferia dell’immenso paese (quasi quattro volte l’Italia) covano numerosi focolai di guerriglia. Il gruppo guerrigliero più attivo è il Fronte nazionale di liberazione dell’Ogaden (Fnlo), di etnia somala, sorto nel 1984 a Mogadiscio e i cui effettivi sono stimati in qualche centinaio di combattenti. Il governo attribuisce all’Fnlo l’attacco al sito dell’impresa cinese Zhongyuan Petroleum Exploration, che lo scorso aprile ha causato 75 morti. A questo aggiunge l’attentato nello stadio della città di Jijiga, in maggio: una bomba ha ucciso 11 persone.

Governo e osservatori stranieri evocano spesso i legami dell’Fnlo con l’Unione delle corti islamiche della Somalia, e anche con i jihadisti somali di Al-Ittihad Al-Islamiya, sospettata di essere legata ad Al-Qaida. Ma il metodo scelto per combattere i secessionisti dell’Ogaden rischia di spingere le popolazioni locali, musulmane, tra le braccia dei ribelli.

In ogni caso, né l’Fnlo, né i ribelli afar, né il Fronte di liberazione oromo (Flo), poco attivo, né il Fronte patriottico Arbanyotsh, presente nell’area di Gondar, né il Fronte di liberazione del Tigray (Tlf), rivale del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Fplt) di Meles, sono in grado di rovesciare il governo. La situazione, però, potrebbe aggravarsi, se persistesse la tensione con l’Eritrea (Asmara sostiene le guerriglie etiopiche e gli islamisti somali; non si esclude una ripresa della guerra) e se si prolungasse la presenza armata etiopica in Somalia.

All’inizio di giugno, osservatori militari dell’Onu hanno rilevato l’installazione di batterie lanciamissili etiopiche lungo la frontiera eritrea e il concentrarsi verso Badme di contingenti di fanteria, scortati da mezzi blindati. Le relazioni tra Asmara e Washington traballano, tanto che gli Usa stanno pensando d’inserire l’Eritrea nella lista dei paesi “terroristi”. E questo è un fattore favorevole a un eventuale nuovo scontro Asmara-Addis Abeba, tanto più che Usa ed Etiopia sono alleati in Somalia, dove alcuni marines addestrano un’unità d’élite etiopica.

Il pericolo è che si crei un nuovo bubbone di tipo iracheno e che si offra ad Al-Qaida l’occasione di sfruttare le frustrazioni somale contro i “crociati” etiopici per fare proseliti in seno all’organizzazione Al-Sahabab. L’avventura somala è molto criticata ad Addis Abeba: viene chiamata “la guerra di Meles”. L’esercito etiopico, forte di non meno di 150mila uomini e rodato da anni di combattimenti ininterrotti su vari fronti, è il più potente del Corno d’Africa.

Un peggioramento delle cose non è, comunque, ineluttabile.

Anzi, la situazione potrebbe migliorare, se Washington riconoscesse che la presenza etiopica in Somalia è controproducente. Il politologo francese Gérard Prunier osa addirittura sperare in un possibile mercato comune del Corno d’Africa, «se prevarrà una certa logica».

Crescita del Pil verso il 10%
In attesa di sviluppi, la sicurezza alimentare – ogni anno crescono di 2 milioni le nuove bocche da sfamare – costituisce una sfida permanente, in un paese che ha conosciuto grandi carestie e non è al riparo da nuove catastrofi. In settembre, Medici senza Frontiere ha lanciato l’allarme sulla situazione nell’Ogaden. Non bisogna dimenticare che l’Etiopia soffre di un deficit cerealicolo cronico di 600mila tonnellate l’anno, anche se la produzione negli ultimi cinque anni è passata da 8,7 a 11,6 milioni di tonnellate.

Tra le cause dell’insicurezza alimentare vanno annoverati i bassi rendimenti agricoli, l’arretratezza delle tecniche di produzione e l’eccessivo frazionamento delle terre coltivate. La demografia galoppante sortisce l’effetto di diminuire la superficie della terra disponibile per ogni nucleo familiare. Anche nelle zone più produttive, come al sud, si trovano sacche di malnutrizione. Un altro handicap è costituito dal regime fondiario: la terra appartiene allo stato e i contadini non ne hanno che l’usufrutto; ciò riduce la possibilità per agricoltori e allevatori di accedere a finanziamenti per sviluppare la propria attività.

Eppure, il potenziale agricolo, grazie all’abbondanza delle precipitazioni, è considerevole. L’accordo dello scorso maggio con la Starbucks, la catena del caffè regina in America e nel mondo, ha aperto all’Etiopia – primo produttore africano di caffè, con una raccolta media annua di 300mila tonnellate – una strada per accrescere le entrate in valuta pregiata. L’accordo, infatti, riconosce la proprietà intellettuale dei piantatori e l’etichettatura delle qualità arabiche sidamo o harar. Anche i semi oleosi e l’orticoltura conoscono uno sviluppo spettacolare. Lo stesso si può dire della floricoltura intorno ad Addis Abeba e nella Rift Valley.

L’Etiopia è anche ricca di paradossi. Nonostante le tensioni interne e alle frontiere, il paese non ha mai conosciuto un boom economico paragonabile a quello del 2007. Nell’ultimo anno la crescita del prodotto interno lordo (Pil) è stata del 9,6% e, secondo le previsioni, nel 2007-2008 manterrà lo stesso ritmo. Il Fondo monetario internazionale, lo scorso giugno, ha rilevato che le performance economiche degli ultimi anni hanno contribuito a «ridurre significativamente la povertà». Ma il boom non deve far dimenticare la fragilità di un’economia con un deficit commerciale strutturale, che dilata il baratro del debito.

Puntare alla crescita
Pur con tutti i suoi limiti, l’Etiopia attira sempre più capitali stranieri. Gli investimenti diretti dall’estero sono passati da 149 milioni di dollari nel 2001 a 365 milioni oggi. La Cina, che già ha costruito molto nella periferia della capitale, ha investito 150 milioni di dollari nella realizzazione di una dependance dell’Unione africana (Addis Abeba è la sede dell’Ua): il progetto prevede 225mila nuovi alloggi entro il 2010.

La crescita crea anche inconvenienti. In luglio, Ethiopian Telecoms non è riuscita a soddisfare la domanda di carte Sim. Gli ingorghi del traffico sono all’ordine del giorno nella capitale e sulla strada che porta al porto di Gibuti. La linea ferroviaria, che è in fase di ristrutturazione grazie ai fondi Ue, potrà diventare un’alternativa al trasporto merci su gomma solo tra qualche anno. Gli industriali si lamentano per la frequente penuria di materie prime e per l’approvvigionamento intermittente di acqua ed elettricità.

Intanto, presso il mercato di Addis Abeba si allungano le file davanti ai cinema che presentano film etiopici. Opere non sempre di buona qualità, ma che testimoniano il dinamismo di un’industria in pieno sviluppo, anche attraverso la produzione di Dvd e videocassette. In espansione il turismo e in crescita le rimesse degli emigrati: 1,1 miliardi di dollari nei primi 9 mesi del 2007.

Grazie alle abbondanti piogge che si abbattono sugli altopiani, il paese dispone del secondo potenziale idroelettrico in Africa, dopo quello del bacino del Congo. Il governo è deciso a sfruttare questa opportunità, sia per soddisfare i bisogni interni, sia per vendere elettricità a Sudan, Kenya, Gibuti e Yemen. Le centrali elettriche di Gilgel Gibe II, Amerti-Neshe, Takeze e Anabeles saranno ultimate entro tre anni e potranno esprimere un potenziale di 880 megawatt (Mw), cioè il doppio della capacità attuale. In settembre, l’italiana Salini ha iniziato la costruzione di Gilgel Gibe III (1.870 Mw), con un investimento di 1,6 miliardi di dollari.

Venendo al settore minerario, sono in vigore 50 permessi di esplorazione che riguardano oro, platino, minerali di ferro, carbone, pietre preziose e metalli di base. Ma l’Etiopia, che ha una struttura geologica simile al Sudan e allo Yemen, aspira a diventare anche produttrice di petrolio e gas. La britannica White Nile sta sondando il territorio lungo il fiume Omo, nel sud; presto anche il centro del paese sarà oggetto di specifiche esplorazioni.

Il governo sta investendo massicciamente nelle risorse umane. L’obiettivo è di arrivare al 100% di scolarizzazione primaria (oggi 79%) entro il 2015, ma anche di sostenere la formazione professionale e l’insegnamento universitario. Nel 1991 c’era una sola università: oggi ve ne sono 8 e altre 13 sono in costruzione. Nello stesso tempo, c’è un problema di “fuga dei cervelli”, che ha assunto proporzioni spettacolari. Un recente studio evidenzia che un terzo dei medici ha lasciato il paese negli ultimi dieci anni.

In un’Africa dalle strutture statuali deboli, l’Etiopia, disponendo da secoli di un’amministrazione pubblica disciplinata, ha dimostrato di essere capace di generare una forte crescita economica. Occorre far sì che questa crescita sia duratura. Ma per dare continuità alla crescita è necessario che chi è al potere eserciti l’arte del compromesso, presupposto della pace. Uno storico etiopico emigrato ci spiega che «nella lingua amharica non c’è un termine che corrisponda alla parola “compromesso”». Vorrà dire che saranno i bisogni a imporre un cambio di mentalità.


François Misser
Nigrizia / Novembre 2007


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Giovedì, 21 Febbraio 2008 20:13

Quanto spende l'Unione? Il budget cambia struttura

Quanti soldi spende l’Ue? E dove indirizza i fondi, provenienti per la gran parte dalle casse degli stati membri (in ragione della ricchezza nazionale) e per il rimanente da risorse proprie? Due anni fa erano state definite le Prospettive finanziarie 2007-2013, che costituiscono, in sostanza, la programmazione finanziaria pluriennale dell’Unione allargata; ogni anno, poi, viene definito un budget d’esercizio, la cui bozza iniziale spetta alla Commissione, che lascia la decisione finale alle “contrattazioni fra le due autorità di bilancio, ossia Parlamento e Consiglio.

Rispetto al passato, il bilancio2008 lascia intravedere una novità significativa «il budget proposto - ha spiegato Daha Grybauskaité, commissaria incaricata della programmazione finanziaria - rappresenta un tornante storico per la Ue le spese legate a sviluppo e occupazione costituiscono la voce principale del bilancio comunitario» e, per la prima volta in cinquant’anni, «supereranno quelle per agricoltura e risorse naturali». Insomma, un bilancio più moderno per un’Europa che guarda avanti (grattacapi politico-istituzionali a parte!).

Il peso delle singole voci
A maggio ha preso avvio l’iter budgetario che nei prossimi mesi coinvolgerà il Consiglio (dove sono rappresentati i governi degli stati membri) e il Parlamento, per concludersi .- salvo sorprese - a dicembre. La commissione lituana ha sottolineato con enfasi alcune novità nella struttura dei conti Ue e, di conseguenza, delle politiche comunitarie, «a conferma del fatto che l’esecutivo intende ricentrare il budget sulle sfide globali che si pongono dinanzi all’Europa». Secondo il documento contabile, gli impegni di spesa per il 2008 sono stabiliti in 129,2 miliardi di euro (1,03% del prodotto interno lordo Ue). Le spese per crescita sostenibile, impiego e coesione fra le regioni, necessarie anche per dar corso alla Strategia di Lisbona, si attestano attorno a 57 miliardi (44,2% del bilancio), contro i 55 miliardi per agricoltura, allevamento e attività per la tutela del patrimonio naturale (43,6%).

Le cifre attestano che, in realtà, le uscite previste per il settore primario rimangono ferme fra quest’anno e il prossimo, mentre crescono in percentuale gli stanziamenti per formazione permanente (+9%), ricerca (+ 11%), reti transfrontaliere ed energia (14%). Lievitano inoltre le spese per la gestione dei flussi migratori (390 milioni euro in più nel 2008, cifra ancora lontana dalle reali necessità) e per rafforzare le “azioni esterne” (+6,9 miliardi); ma le voci “cittadinanza, libertà e sicurezza” e “ruolo mondiale dell’Ue” non vanno oltre (rispettivamente) l’1 e il 5,4% del totale. Le spese amministrative e per il personale sono al 5,7%.

Tra le voci finanziate dal bilancio appaiono (per fare qualche esempio) il fondo sociale europeo (formazione e risorse umane); i fondi per lo sviluppo regionale; le infrastrutture viarie e le reti di collegamento; il programma Erasmus per gli studenti le sperimentazioni scientifiche, la formazione e mobilità dei ricercatori; la promozione della cultura e dei media; la tutela della biodiversità; la protezione dei consumatori e la salute dei cittadini; il sostegno alle piccole e medie imprese; gli aiuti umanitari verso i paesi poveri che, per quanto modesti rispetto al bilancio totale, restano pur sempre i più elevati al mondo.

La Commissione ha ribadito, attraverso la Grybauskaité, l’impegno, assunto nel dicembre 2005 al termine della maratona per le Prospettive finanziarie, verso una «revisione complessiva del bilancio, che ricalibri il peso assegnato alle singole voci». Ora si attendono i fatti.

di Gianni Borsa inviato agenzia Sir a Bruxelles
Italia Caritas/Luglio-Agosto 2007

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Mercoledì, 13 Febbraio 2008 12:58

Lo show del G8, chi controlla l'economia?

Serve o non serve? Si è trasformato in uno show di burocrati, come sostiene l’ex presidente francese Giscard D’Estaing, oppure il G8, cioè il vertice dei sette paesi più industrializzati del mondo più la Russia, è ancora il salotto buono da dove si governa l’economia mondiale? L’ultima edizione, in Germania a inizio giugno, ha messo in moto una corrente di pensiero sulla sua inutilità, che accomuna economisti radicali, ex premier conservatori e guru ecologisti.

Il gruppo era nato, anni fa, come G7 l’idea era quella di un salotto di una trentina di persone, per discutere senza peli sulla lingua di economia, ammettendo errori e correzioni di prospettiva All’ultimo G8 i leader erano accompagnati da duemila persone in un turbinio di riunioni, vertici nel vertice e incontri bilaterali, ormai la chiave per governare un pianeta sempre più turbolento; anche la scelta del tema (clima e problemi dell’ambiente) ha rasentato la farsa. I problemi di ruolo si erano posti già quando ai sette era stata aggiunta la Russia, l’ottavo convitato che ha sparigliato la carte, spostando la discussione sul piano geopolitico e mettendo in crisi l’approccio economicistico prevalente tra i sette paesi a .più forte crescita. In ogni caso, da quando la crescita economica ha preso la strada della globalizzazione, il G8 rischia di implodere e di lasciare sul campo un sacco di vittime.

L’epoca della disgiunzione
Intanto oggi bisogna. chiedersi chi controlla chi e se si può parlare di un “sistema” che ha sostituito quello uscito dal secondo conflitto mondiale, che mirava a ottenere, e per un certo tempo ci è riuscito, stabilità nei tassi di cambio e nel commercio mondiale. Il G7 è nato proprio quando qualcuno ha alzato il dito per annunciare che il sistema non teneva più e gli squilibri potevano fare grossi guai, naturalmente al ricchi. Il G7, insomma, è stato un tentativo di proteggersi, più che un’azione virtuosa di governare il cambiamento. Per questo oggi l’ex presidente francese, uno degli inventori del G7, è così critico.

In più, dietro le quinte di un palcoscenico che cede da più parti si affacciano ormai attori e problemi nuovi. Centrale, nel gruppo degli Otto, e prima dei Sette, è sempre stata l’attenzione per il cosiddetto “ciclo americano” cioè il ruolo globale dell’economia Usa, dalla cui tenuta dipendeva tutto il resto. Oggi però la realtà è diversa e in giro si colgono una sfida globale alla prima potenza e uno spostamento dell’asse del governo mondiale dell’economia. Qualche economista lo chiama decoupling, disgiunzione tra economia americana ed economia globale. Il dibattito è aperto, ma assomiglia ancora a un rebus, con soluzioni non facili.

Di certo c’è che la crescita americana è in declino, l’eurozona accelera, mentre Cina e India continuano a marciare a ritmi forsennati. Nella spesa globale la quota di mercati emergenti (Cina, India, Brasile, Messico e Corea,. tutti paesi che nel GB non hanno nemmeno uno strapuntino in fondo alla fila) è cresciuta dal 1990 ad oggi dal 20 al 37% Tuttavia il consumatore americano è ancora il più forte in assoluto (la Cina, per esempio, manda negli Usa il 21% del suo export). Allora solo quando lo Zio Sam si stancherà, si vedrà se l’economia mondiale potrà farne a meno. Adesso tutto rimane sospeso, perché debito americano e crescita delle quote dei nuovi mercati finanziari sono strettamente correlati. La disgiunzione può essere una linea di condotta per il futuro, ma non è detto che sia la soluzione per migliorare il sistema economico mondiale nel senso della giustizia e dei diritti. Il rischio è che si cambi solo l’arredamento del salotto.

di Alberto Bobbio
Italia Caritas/Luglio Agosto 2007


Pubblicato in Mondo Oggi - Economico
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