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Giovedì, 07 Febbraio 2008 10:26

Nella prigione del dollaro

A San Salvador, capitale del paese centroamericano, tutte le mattine il centrocittà viene invaso da una marea di ambulanti, che occupano le strade tra povertà, cantilene e commerci, più o meno legali. Mentre il macellaio squarta la carne ai piedi della chiesa in stile coloniale, nella strada di fronte, accanto alla succursale della banca nazionale, s’improvvisa un ristorante all’aperto di piatti tipici, largo quanto il marciapiede. Il centro storico e questo mercato improvvisato sono diventati un tutt’uno, immersi in una moltitudine ondeggiante, che si muove come al ritmo d’un vecchio bolero popolare salvadoregno.

In Salvador, la dollarizzazione dell’economia è arrivata il 10 gennaio 2001, accompagnata da varie promesse, come l’aumento degli investimenti stranieri e delle esportazioni di prodotti nazionali. Da allora invece sono aumentati soltanto il costo della vita e la disoccupazione, con sullo sfondo un paesaggio sociale che si deteriora giorno dopo giorno. La mancanza di lavoro si è tradotta in un aumento del settore informale, che evidenzia la incongruenza tra la dollarizzazione e il Dna di un paese povero come El Salvador. Come risposta ai problemi economici, il governo di Elías Antonio Saca ha approvato il tanto discusso «articolo 15» che penalizza la vendita informale. A metà maggio, i 17.000 ambulanti della capitale hanno realizzato manifestazioni di protesta, chiedendo l’abrogazione della legge e la liberazione di Vicente Ramirez (dirigente dell’«Associazione dei lavoratori, venditori e piccoli commercianti salvadoregni», accusato di atti terroristici) sotto lo slogan «Siamo venditori, non terroristi».

In un paese come questo, la dollarizzazione ha significato non soltanto la moltiplicazione della povertà, ma anche l’impossibilità di svalutare la valuta nazionale. Pertanto, l’unico modo per accrescere la competitività del paese a livello internazionale (cioè per aumentare le esportazioni) è quello della «deflazione» (ridurre i prezzi delle merci). Per diminuire i prezzi delle merci occorre però precarizzare ancora di più le condizioni dei lavoratori, dando sempre più potere alle maquilas del settore tessile e alle multinazionali della frutta, che non pagano neppure il salario minimo. Nella situazione attuale, con le importazioni che superano le esportazioni, il mercato nazionale è letteralmente invaso da prodotti importati, specialmente nordamericani, dalle scarpe fino ai prodotti cerealicoli a basso prezzo (perché sovvenzionati) e geneticamente modificati. Questa invasione ha spazzato via l’autosufficienza alimentare: i contadini salvadoregni non producono più per il mercato interno, perché i cereali importati costano meno; questa situazione spinge i contadini ad abbandonare le campagne (dove ormai si concentra il 97% della povertà). D’altra parte, migliaia di artigiani e di piccoli produttori del settore calzaturiero sono rimasti disoccupati: le scarpe statunitensi costano meno, perché sono prodotte in quantitativi enormi e quasi sempre in Asia, dove i salari sono ancora più bassi che nel Salvador.

Sugli effetti quotidiani prodotti dalla dollarizzazione parliamo con la dottoressa Beatrice Alamanni de Carrillo, procuratore generale per i diritti umani della Repubblica del Salvador. «Come difensore dei diritti umani in Salvador - ci spiega - posso dirle che, per la gente, la dollarizzazione è stato un colpo terribile che si è ripercosso sulla vita quotidiana di ognuno. In pratica, si è passati all’equivalenza tra colon salvadoregno e dollaro Usa, una cosa insostenibile, perché le retribuzioni sono sempre calcolate in colones. Questo significa che i salari hanno perso 8 volte di valore, un fatto insostenibile per la gran maggioranza della popolazione. Con un salario minimo pari a 140 dollari è impossibile sopravvivere. Purtroppo, la tragedia della dollarizzazione pare un fatto irreversibile. Occorre affrontarla con interventi economici adeguati e con molta creatività».

La minoranza ricca del Salvador, assieme alla classe politica attualmente al potere, hanno voluto a tutti i costi la dollarizzazione dell’economia, per tutelarsi da un’eventuale salita al potere del Fmln («Farabundo Martì per la liberazione nazionale», la ex guerriglia ora diventata un partito politico di opposizione). Attraverso la dollarizzazione costoro possono controllare il paese anche dall’esterno, manovrando i flussi e deflussi di capitale. In sintesi, la dollarizzazione dell’economia non ha fatto che accrescere gli squilibri preesistenti, traducendosi a livello di macroeconomia in una camicia di forza, dato che l’economia salvadoregna ormai funziona come un «pilota automatico» alle dipendenze dei poteri economici statunitensi.


Di José Carlos Bonino
MC Luglio-Agosto 2007



IL GLOSSARIO DI «RADIO DI CARTA»

  • Dollarizzazione: è la sostituzione della valuta nazionale con il dollaro statunitense; oltre che a EI Salvador, la dollarizzazione è ufficiale in Ecuador e a Panama.

  • Deflazione: in economia, è la diminuzione del livello generale dei prezzi, l’opposto dell’inflazione; le imprese, non riuscendo a vendere i beni e i servizi prodotti, ne riducono i prezzi, ciò comporta una riduzione dei ricavi che esse cercano di compensare attraverso una riduzione dei costi (del lavoro, dei beni intermedi, eccetera); gli effetti negativi della deflazione tendono quindi a diffondersi, provocando una situazione di depressione economica.



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Martedì, 29 Gennaio 2008 22:50

Povertà, una patologia

La povertà, nel nostro paese, è un fenomeno tutt’altro che residuale. Interessa, secondo le statistiche ufficiali, oltre l’11% delle famiglie e il 13% degli individui residenti. Se si aggiunge l’area della vulnerabilità sociale, quella dei cosiddetti “quasi-poveri”, soggetti poco sopra la soglia di povertà relativa, si arriva a sfiorare il 20%: quasi una famiglia italiana su cinque è indigente, o le manca poco per esserlo tecnicamente. Un dato strutturale preoccupante, una patologia sociale conclamata.

La prima ragione di questo allarmante (e protratto) stato di cose è che l’Italia manca di un piano di lotta alla povertà. Sono esistite ed esistono misure di contrasto settoriali, mai una visione d’insieme. Dai governi del dopoguerra il problema è stato preso diverse volte in esame. La storia dell’Italia repubblicana è disseminata di buone intenzioni in materia, mai però tradottesi in un piano esplicito, serio, organico.

Caritas Italiana e Fondazione Zancan presenteranno in autunno Rassegnarsi alla povertà?, settimo Rapporto su povertà ed esclusione sociale. Hanno anticipato a fine luglio, in una conferenza stampa a Montecitorio, il messaggio centrale del lavoro di quest’anno: la politica e la società italiana devono farsi carico di realizzare un piano di lotta alla povertà, per arginare le ricadute negative che questo vuoto comporta nella vita di tanti individui e famiglie e per circoscrivere il rischio di un progressivo allargamento dell’area dell’esclusione sociale.

Tante risorse per pensioni e sanitàIn Italia la spesa annua per l’assistenza sociale non è irrilevante. Il suo volume complessivo è di 44 miliardi 540milioni di euro (dato 2006), circa 750 euro pro capire. In Italia utilizziamo un quarto del prodotto interno lordo per la protezione sociale, in armonia con quanto accade in altri paesi europei (Grecia, Regno Unito, Finlandia), ma significativamente meno rispetto ad altri stati (Belgio, Austria, Francia, Germania, Danimarca e Svezia).

Il profilo di questa spesa manifesta inoltre evidenti squilibri interni: più della metà (56,1%) è destinata alla voce “pensioni in senso stretto e Tfr”; il resto è ripartito tra le voci “assicurazioni del mercato del lavoro” (6,6%), “assistenza sociale” (11,9%), “sanità” (25,4%). Gran parte delle risorse, insomma, vanno all’ultima fase della vita, molte meno alla prima fase e al sostegno delle responsabilità familiari. Negli ultimi dieci anni, inoltre, sono aumentati il carico pensionistico (dal 55,7 al 56,1%) e sanitario (dal 20,8 al 25,4%), mentre sono diminuite le risorse per assicurazioni del mercato del lavoro (dal 9 al 6,6%) e assistenzasociale (dal 14,6 all’11,9%).

I due principali centri di spesa sociale sono lo stato e i comuni. Dei 750 euro impegnati per italiano, circa 664 sono gestiti dallo stato o da amministrazioni da esso controllate. Degli 86 spesi dai comuni, 21 se ne vanno per ulteriori trasferimenti monetari e circa 65 sono effettivamente spesi per servizi. Soltanto l’8,6% dei 750 euro di spesa pro capite, in definitiva, viene erogato in servizi, mentre ben il 91,4% si concretizza in trasferimenti monetari al soggetto in difficoltà. È l’enorme problema consegnatoci in eredità dalla non attuazione dell’articolo 24 della legge 328/2000: prevale l’incapacità istituzionale e sociale di operare sulla base dei bisogni effettivi, non solo in relazione ai diritti acquisiti.

All’interno della spesa sociale dei comuni, poco più di 363 milioni di euro (il 6,8% della spesa sociale complessiva) viene destinato all’area della povertà. Eppure, come detto, le famiglie che vivono in condizioni di povertà sono 2 milioni 585 mila (l’11,1% del totale) e raccolgono tantissime persone: 7 milioni 577 mila (il 13,1% del totale, tra essi molti bambini). Troppo spesso, insomma, la responsabilità di crescere i figli si scontra con le difficoltà economiche di famiglie a basso reddito. Il 26,2% dei nuclei con cinque o più componenti vive in condizioni di povertà (nel mezzogiorno il 39,2%); avere tre figli da crescere significa un rischio di povertà pari al 27,8% (nel sud 42,7%).

La povertà delle famiglie è una grande sfida. Le realtà familiari numerose sono le più esposte: brutalmente si può dire che ogni figlio porta con sé una crescita del rischio di impoverimento. L’Italia, coscientemente o meno, incoraggia le famiglie a non fare figli: nessuno sceglie liberamente di impoverirsi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: siamo agli ultimi posti nel mondo per fecondità familiare. Oggi la tendenza interessa anche i nuclei ricostituiti in seguito alla rottura di altre famiglie. Si rischia di entrare in una condizione di povertà soprattutto quando la famiglia diventa monogenitoriale, quindi molto spesso monoreddito: il fenomeno interessa quasi sempre madri sole con figli.

Dai trasferimenti monetari ai serviziPer dare vita a un piano organico di lotta alla povertà, occorre prima porsi alcune domande (e darsi alcune risposte). Cosa intendere per piano di lotta alla povertà? Quali centri di responsabilità devono essere coinvolti? Per quali povertà varare il piano? Quali infrastrutture organizzative, professionali e di processo impiegare? Con quante risorse?

Oltre a un piano di attività, serve un piano strategico, capace di avviare un percorso di condivisione e integrazione tra responsabilità (oltre che tra risorse). Questo percorso (politico, amministrativo, sociale) deve articolare diversamente il governo “orizzontale” e “verticale” delle responsabilità: su scala orizzontale, i livelli istituzionali (stato, regioni, enti locali) e altri soggetti interessati sono chiamati a condividere priorità e condizioni di fattibilità (risorse comprese) in sede di conferenza unificata; su scala verticale, le parti regionali e locali definiscono altrettanti piani di azione, dimensionando obiettivi e risorse in ragione dei risultati attesi di riduzione del bisogno, tenendo conto di come esso caratterizza il proprio territorio.

Soprattutto, però, occorre delineare due scelte strategiche, di medio e lungo periodo. Anzitutto, va impostato il passaggio da una logica imperniata sui trasferimenti monetari a un sistema che valorizzi i servizi (per un migliore governo della quantità delle risorse); la prevalenza di trasferimenti monetari caratterizza infatti i sistemi di welfare a ispirazione “socio-assistenziale”, cioè tradizionale, nei quali la cosiddetta “assistenza” è intesa come insieme di provvidenze economiche, erogate per “diritti acquisiti” e non necessariamente per “bisogni verificati”. E non basta, dunque, a garantire inclusione sociale e promozione dei diritti, né ad alimentare il necessario rapporto tra diritti e doveri di cittadinanza sociale.

La seconda scelta riguarda il passaggio da una gestione centrale a una decentrata: nodo non sufficientemente presente nel dibattito politico e giuridico, ma di portata storica e strutturale. Occorre studiare modalità per concretizzare il trasferimento di risorse e per definire i gradi di libertà nella finalizzazione delle risorse stesse, non solo riguardo ai trasferimenti connessi a forme di non autosufficienza, ma anche a quelli che interessano la famiglia e che devono essere “sostituibili” con servizi ad essa rivolti.

Il deficit di solidarietà intergenerazionale, infatti, è in Italia un problema sempre più evidente e stridente. La distribuzione e l’orientamento della spesa sociale lo amplifica, visto lo sbilancio di risorse destinato a favore dell’ultima fase della vita. La quasi inesistente capacità di rappresentanza delle nuove generazioni rispetto alla generazione anziana rende questo problema scarsamente presente nel dibattito civile e politico. Ma i segnali di sofferenza e insofferenza sono sempre più forti, anche su scala europea

Una “grande opera” inattuata Dopo il 2000, in base alla legge 328, si è aperta una breve stagione di sperimentazione del Reddito minimo di inserimento (Rmi). Essa ha evidenziato che per i soggetti svantaggiati, senza occupazione e reddito avrebbe più senso parlare di Piani di inserimento con sostegno al reddito (Pisr), enfatizzando il fine principale (l’inserimento sociale) e non il mezzo temporaneo (il reddito minimo). Altra conferma che è necessario superare l’approccio per “misure” e sostituirlo con l’approccio per “problemi”.

Un piano nazionale di lotta alla povertà dovrebbe inoltre equivalere a una “prenotazione” dei livelli essenziali di assistenza sociale. Tale operazione produrrebbe profonde conseguenze sulle infrastrutture organizzative, professionali e di processo che prendono in carico, nel nostro paese, la condizione di bisogno sociale.
La povertà di individui e famiglie, i servizi da assicurare e i livelli essenziali di assistenza rappresentano, in altre parole, un banco di prova per un sistema di welfare oggi sostanzialmente fermo e incapace di modificare i propri elementi strutturali. Il blocco costituito da una gestione immobile delle risorse e l’assenza di volontà politica di riorientarle (per evitare la crisi di consenso da parte di alcuni gruppi, interessati a mantenere le cose come sono) inducono a lavorare con i “resti”, ovvero i finanziamenti ad hoc, che nascono da una finanziaria e sperano di essere incrementati dalla successiva.

Un piano condiviso di lotta alla povertà può rappresentare una grande occasione per il nostro paese per affrontare i principali nodi, non risolti, dell’intero sistema di welfare. È una “grande opera” inattuata: va quindi considerato non solo per il suo valore in sé (etico, culturale e politico), ma anche come occasione per rimettere in corsa il paese. E per contrastare la crisi di fiducia che nega, soprattutto alle nuove generazioni, la speranza del futuro.

di Tiziano Vecchiato
Italia Caritas / Settembre 2007



Non è un fenomeno “naturale”, non va delegata al privato sociale «Come considerare la presenza di una fascia così consistente di poveri, in un società ricca come la nostra? Considerarla fatalisticamente, come una componente “naturale” dello sviluppo economico che lo stato dovrebbe limitarsi ad arginare, impedendo che divenga esplosiva e pericolosa per l’ordine pubblico, ma senza illudersi di poterla eliminare? Oppure ritenerla un fenomeno da affidare agli interventi volontaristici e umanitari, che lo stato dovrebbe incoraggiare e promuovere, ma senza intromettersi in prima persona? Caritas e Fondazione Zancan ritengono che la teoria della “povertà naturale” è una spiegazione di comodo, che si rifà a una concezione della società vecchia e superata La povertà non esiste in natura ma è conseguenza di situazioni in cui “la politica non frequenta la giustizia”.

Caritas e Zancan escludono inoltre che il problema della povertà possa essere risolto delegandolo al solidarismo privatistico. Gli interventi del privato- sociale e della stessa Chiesa sono indubbiamente utili e necessari, ma sono di loro natura Integrativi dell’intervento pubblico e per lo più settoriali.

Non hanno pertanto né la capacità né. il potere di affrontare globalmente il problema della povertà e delle sue cause, né quello di garantire ai poveri risposte sul piano dei diritti».

(monsignor Giuseppe Pasini, Presidente Fondazione Zancan, presentazione del rapporto “Rassegnarsi alla povertà?” )
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NdR: questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 1 agosto 2006
Il primo ministro britannico ha rivelato di essersi accordato, venerdì scorso, con il presidente americano per effettuare «uno sforzo finale» e cercare di rimettere in moto le trattative, sospese a tempo indeterminato lunedì scorso, tra i 149 Paesi della Wto, l'Organizzazione mondiale del Commercio. George Bush, per parte sua, ha confermato di avere istruito la negoziatrice americana, Susan Schwab, a continuare negli sforzi per rianimare i colloqui nel giro di settimane. Qualche speranza affinché anche il sistema globale degli scambi non scivoli verso la strada delle ripicche e delle dimostrazioni muscolari, dunque, rimane. Non è però il caso di trattenere il fiato, per ora. Il dato di fatto è che il negoziato è saltato esattamente una settimana dopo che i leader del mondo, riuniti nel G8 di San Pietroburgo, avevano dato indicazione pubblica affinché i loro ministri del Commercio raggiungessero un accordo. Che Bush e Tony Blair tengano oggi aperta una porta, dunque, non è indicativo del fatto che Stati Uniti e Unione Europea riescano davvero ad arrivare a una liberalizzazione significativa, soprattutto in fatto di agricoltura. Men che meno è un segno della disponibilità delle potenze emergenti a raggiungere un compromesso in tempi rapidi: in un incontro tra la signora Schwab e il ministro degli Esteri brasiliano Celso Amorim, sabato scorso, si è parlato di cinque-otto mesi prima che le trattative possano riprendere. Ieri, anche il commissario europeo al Commercio, Peter Mandelson, si è chiesto in un articolo molto aperturista sul «Financial Times» «quale fenice può risorgere dalle ceneri», dopo il fumo e le fiamme dei giorni scorsi. E ha sostenuto che «in agricoltura le posizioni non sono irriconciliabili»: la Ue deve muoversi verso il taglio delle tariffe chiesto dai Paesi emergenti e gli Stati Uniti devono tagliare pochi miliardi di dollari di sussidi agli agricoltori americani. Si può fare, dice Mandelson. In Europa, tra l'altro, si parla di un possibile consiglio straordinario dei ministri del Commercio per dare un mandato più flessibile al commissario stesso. Gli ostacoli politici, però, sono seri. La Francia, che vede arrivare le elezioni presidenziali, ha più volte detto di avere ormai superato il limite delle concessioni che i suoi agricoltori possono sopportare. E a Washington, con le elezioni di medio termine in autunno, la lobby degli agricoltori è fortissima. Un esito positivo del Doha Round beneficerebbe l'economia mondiale e soprattutto quella dei Paesi poveri. Ma, in questo momento, farebbe di più: sarebbe il rilancio di un sistema multipolare in un mondo con pochissimo ordine. Il litigio, invece, porta brutte notizie. Da quando i negoziati sono stati interrotti, le tendenze commerciali meno positive hanno preso a correre: la Russia ha dovuto accettare di rinviare al 2007 o al 2008 l'ingresso nella Wto; l'India ha detto che svilupperà i suoi accordi commerciali bilaterali, al di fuori del sistema multilaterale; la Cina sta già registrando rallentamenti nel passo delle riforme economiche (lo ha denunciato il dipartimento al Commercio americano). Le ragioni per insistere con il Doha Round sono insomma forti. Il guaio è che, come sanno Bush e Blair, lo erano già a San Pietroburgo.

Fonti:
Corriere della Sera
www.tradewatch.it
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Mercoledì, 19 Luglio 2006 00:34

Debito, peso che resta, ma in Zambia ora si spera

Ancora prigionieri. Una famiglia in Zambia, paese che, come molti altri stati poveri, soprattutto in Africa, continua a risentire in modo rilevante del peso del debito estero.

Nella definizione dei temi fondamentali per un’agenda di riduzione dell’ingiustizia e della povertà nel mondo, il tema del debito merita ancora di essere considerato come prioritario. Dopo la grande mobilitazione dell’anno del Giubileo, l’attenzione dell’opinione pubblica è stata sollecitata negli ultimi anni da iniziative spesso più ad effetto che di reale efficacia. Ma in termini concreti, il totale del debito dei paesi in via di sviluppo, che nel 1999, prima dell’avvio dell’iniziativa “rinforzata” Hipc (Heavily Indebted Poor Countries è il nome dell’iniziativa internazionale per la cancellazione del debito, ndr) era pari a 2.347 miliardi di dollari, è oggi (dato aggiornato al 2004) pari a 2.597 miliardi; i paesi dell’Africa subsahariana, che nel 1999 pagavano 13,6 miliardi di dollari per rimborsare questo debito, ne hanno pagati nel 2004 15,23.

Questi dati bastano a dare una prima indicazione sullo stato dei fatti: l’iniziativa internazionale di cancellazione del debito non ha risolto il problema. Ha semmai contribuito a evitare una situazione ancora più pesante, senza però trovare la via di uscita sostenibile invocata come una delle ragioni per procedere alla cancellazione. Ora si tratta di fare ogni sforzo perché le iniziative già adottate siano portate avanti in modo efficace e perché vengano introdotti correttivi per gli elementi che ne limitano l’efficacia. In questo, l’attenzione della società civile è fondamentale, se si vuole mantenere una giusta tensione su una questione che continua a influire in modo drammatico sulle condizioni di vita della maggior parte della popolazione mondiale.

Difficoltà dai governi

L’iniziativa di conversione del debito promossa dalla chiesa italiana, attraverso la Fondazione Giustizia e Solidarietà (nella quale sono coinvolti numerosi soggetti, tra cui Caritas italiana), è stata portata avanti con un impegno faticoso ma efficace, in continuità con la campagna ecclesiale per la riduzione del debito, lanciata nell’anno giubilare a seguito del pressante appello di Giovanni Paolo II. Questa iniziativa ha trovato le sue prime concretizzazione in Guinea (dove il fondo di conversione del debito è attivo dal giugno 2003) ed è giunta anche in Zambia a una fase operativa.

Proprio in Zambia la mancanza di un accordo tra i paesi debitori ha impedito a lungo di negoziare gli accordi bilaterali di cancellazione del debito e anche successivamente i due governi (zambiano e italiano) hanno frapposto numerose difficoltà all’ipotesi di creare un fondo di conversione del debito, come nel caso della Guinea. Per questa ragione, alla fine del 2004, il consiglio di amministrazione della Fondazione aveva stabilito di aprire un Fondo di riduzione della povertà, in accordo con la chiesa zambiana e amministrato secondo gli stessi criteri inizialmente individuati per la gestione del Fondo di conversione del debito, cioè con una larga rappresentanza della società civile zambiana. L’idea era che l’avvio unilaterale di questo fondo servisse anche come stimolo ai due governi. Dell’ammontare destinato dalla Fondazione
allo Zambia, pari a 10 milioni di euro, la metà è stato in un primo momento attribuita a questo fondo, in attesa di vedere se i due governi avrebbero dato seguito all’impegno circa il monitoraggio delle risorse liberate dalla cancellazione.

Rendere conto ai cittadini

Oggi, a un anno di distanza, entrambe le prospettive sembrano aver trovato concretizzazione: il Fondo Giustizia e Solidarietà per la riduzione della povertà (Isprf) è attivo e ha già identificato i primi progetti cui offrire un sostegno finanziario; i due governi hanno firmato nel gennaio 2006 un’intesa per la costituzione di un comitato di informazione, che avrà il compito di mettere a disposizione la documentazione riguardante l’impiego delle risorse liberate in seguito alla cancellazione del debito da parte del governo italiano (ai sensi della legge 209 del 2000) e in cui siederanno i rappresentanti dei due governi, un rappresentante della fondazione e un rappresentante della struttura operativa della chiesa zambiana, come garanzia di collegamento con la società civile locale.

Quest’ultima circostanza è significativa: il monitoraggio dell’uso delle risorse liberate con la cancellazione del debito è stato, negli anni scorsi, materia di accesa discussione nel dibattito pubblico in Zambia e ora per la prima volta i rappresentanti della società civile vengono coinvolti nello scambio di informazioni tra governi. Si tratta di un risultato politicamente importante: si afferma infatti il principio per cui è ai cittadini, in primo luogo dei paesi che beneficiano della cancellazione, che occorre rendere conto dell’uso delle risorse liberate. Un concetto diaccountability verso il basso, ben diverso dalle condizioni unilateralmente poste dai governi creditori o dalle istituzioni finanziarie internazionali.

Società civile coinvolta

Il comitato di informazione non ha collegamento funzionale con il Fondo di riduzione della povertà istituito in collaborazione con la chiesa zambiana, ma le due iniziative rispondono allo spirito originario della campagna giubilare, in particolare all’dea di un coinvolgimento diretto della società civile nella trasformazione della schiavitù del debito in nuove opportunità di sviluppo. Proprio in seguito alla costituzione del comitato di informazione, il consiglio di amministrazione della Fondazione ha avviato la riflessione sull’impiego della seconda metà dei 10 milioni.

Pochi mesi di attività del Jsprf sono sufficienti per tracciare un primo bilancio. Il comitato di gestione è presieduto da una rappresentante della chiesa zambiana e comprende rappresentanti delle principali reti di società civile, inclusa la più
grande federazione di produttori agricoli (i piccoli contadini sono il primo “ target sociale” delle attività del
fondo); nel comitato siedono anche due rappresentanti delle espressioni della chiesa italiana in Zambia (missionari e volontari). Il comitato, riunitosi per la prima volta nel novembre 2005, ha dato impulso all’intervento nei primi quattro distretti (Petauke, Kasempa, Isoka e Gwembe). È in corso una riflessione che potrebbe condurre all’allargamento delle aree coperte, senza tuttavia venire meno a un principio di concentrazione delle azioni, necessario per evitare interventi a pioggia, poco efficaci e di difficile gestione. Al momento sono stati finanziati 9 progetti per 485 mila euro: si tratta soprattutto di progetti di supporto alle attività economiche (produzione, stoccaggio, trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli), ma non mancano iniziative di microfinanza e di miglioramento dei servizi scolastici. Oltre progetti già approvati sono oltre 160 le proposte depositate da diversi attori della società civile e si può prevedere nei prossimi mesi un’accelerazione nel ritmo degli stanziamenti.

Massimo Pallottino
Italia Caritas/Maggio 2006

Evoluzione del debito internazionale(dati in mld di dollari)

1982

1996

1999

2001

2003

2004

Paesi in via
di sviluppo

Debito
estero totale (DET)

715,79

2044,97

2346,64

2260,52

2554,14

2597,06

Servizio
del debito pagato

108,38

262,55

352,22

365,52

419,77

373,80

Di
cui interessi

62,85

96,15

113,88

110,33

101,18

103,14

Asia orientale
e Pacifico
(DET)

88,17

494,03

538,61

501,98

525,54

536,54

Europa e Asia
centrale
(DET)

88,46

368,32

503,45

507,78

676,00

728,47

America Latina
e Caraibi
(DET)

333,14

638,47

771,83

749,18

779,63

773,46

Medio Oriente
Nord Africa
(DET)

82,33

163,18

155,80

142,14

158,83

155,47

Asia
Meridionale
(DET)

47,35

149,62

161,99

156,25

182,79

184,72

Africa
sub-sahariana
(DET)

76,34

231,35

214,96

203,19

231,36

218,41

Fonte: elaborazione sui dati della Banca Mondiale

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Mercoledì, 21 Giugno 2006 23:53

America Latina: petrolio e banche private

Venezuela-Caraibi petrolio e diplomazia
Dopo la nascita in giugno di Petrocaribe, una sorta di succursale regionale di Pdvsa, l’industria petrolifera pubblica venezuelana, il 7 settembre in Giamaica è stato firmato un accordo per la fornitura di greggio a prezzi ridotti a 13 Paesi della zona caraibica (tra gli altri, Belize, Cuba, Guyana, Suriname, Repubblica Dominicana).
Il Venezuela, quinto produttore mondiale di greggio e unico membro latinoamericano dell’Opec, concede ai Paesi firmatari di acquistare petrolio pagando in denaro solo il 60% (qualora la quotazione superi, come avviene ora, i 50 dollari al barile); la parte restante potrà essere rimborsata con beni agricoli e industriali oppure con un debito a scadenza di 25 anni, con l’1% annuo di interesse. Al di là della sua scarsa rilevanza economica, viste le dimensioni e il “peso” dei Paesi coinvolti, l’accordo è significativo per le implicazioni politico-diplomatiche: potendo contare su un avanzo record nelle casse pubbliche grazie al boom dei prezzi petroliferi, il Venezuela di Chavez intende proporsi nella regione come un punto di riferimento alternativo al nemico di sempre, gli Usa, promuovendo il proprio modello di sviluppo “bolivariano” e anti-liberista.

Sempre più banche private in America Latina
Secondo statistiche citate dall’agenzia Noticias Aliada, il settore bancario latinoamericano sta conoscendo – come nel primo mondo - un intenso processo di concentrazione. Inoltre il numero e il peso relativo delle banche pubbliche si riducono, mentre si affermano i grandi gruppi privati transnazionali. Ai primi dieci posti della graduatoria si trovano due banche pubbliche e otto private, quattro di queste sono di proprietà dei gruppi nazionali, quattro invece sono di gruppi stranieri. In testa alla classifica si trova una delle due banche pubbliche: il Banco do Brasil, con attività per 73, 2 miliardi di dollari nel 2004. Segue una banca privata brasiliana, il Bradesco. Al terzo posto l’altra banca pubblica presente nei primi dieci posti: la brasiliana Cef (Caixa Econômica Federal). Seguono, come detto, sette gruppi privati: Bancomer/Bbva (Messico/Spagna), Itaù (Brasile), Banamex/Citibank (Messico/Usa), Unibanco (brasile), Santander/Banespa (Brasile/Spagna), Abn_Amro/Banorte (Olanda/Messico).

Popoli 11/2005

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Mercoledì, 03 Maggio 2006 23:55

Corno d'Africa: Fao, 11 milioni contro la siccità

 Occorrono 11 milioni di dollari e occorrono in fretta per salvare i tre Paesi del Corno d'Africa colpiti da una grave siccita'. E' quanto chiede la Fao, lanciando un appello ai Paesi donatori affinche' si possa portare sostegno ai 15 milioni di persone del Kenya, Eritrea e Gibuti che rischiano di perdere i propri mezzi di sussistenza a causa della prolungata siccita' che sta interessando la zona. Tra questi, la situazione e' ancor piu' grave per 8 milioni di persone che hanno bisogno d'aiuti d'emergenza. C'e' urgenza di un maggiore impegno, sostiene la Fao, ''il sostegno della comunita' internazionale e' fondamentale - spiega Anne Bauer, direttrice della Divisione Operazioni d'Emergenza e Riabilitazione della Fao - per assistere queste comunita' di pastori a ristabilire le proprie condizioni di vita ed aiutare le popolazioni vulnerabili a soddisfare il proprio fabbisogno alimentare''. Le comunita' piu' a rischio sono quelle pastorali che continuano ad essere tra le piu' povere della regione a causa delle crisi ricorrenti e dei problemi strutturali. La siccita' nel Corno d'Africa e' un fenomeno ricorrente, si e' ripetuta infatti quattro volte negli ultimi sei anni. Le cause sono da ricercarsi nelle scarse precipitazioni, nell' accresciuta pressione demografica e nel degrado ambientale. E le previsioni per il futuro non fanno ben sperare: l'attuale tendenza climatica indica precipitazioni ancor piu'ridotte nel Corno d'Africa e nel resto dell'Africa orientale. Ma anche se ci fosse un periodo di piogge regolari - avverte la Fao - ci vorranno anni prima che greggi e mandrie potranno recuperare vigore e tornare a fornire ai loro proprietari mezzi di sussistenza stabili e durevoli. Per queste ragioni, le comunita' che gia' soffrono le conseguenze di anni di siccita' e di piogge discontinue al di sotto della norma, continueranno ad aver bisogno, in questi anni cruciali, di aiuti e di assistenza allo sviluppo.

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Sabato, 25 Settembre 2004 14:06

Globalizzazione

di Fabrizio Galimberti


Ci sono nella storia dei punti di flesso, dei punti di svolta che ogni volta, con l’accelerazione del cambiamento, provano tensioni e fanno temere catastrofi. Dal punto di vista economico, è quello che successe con la Rivoluzione industriale nell’Inghilterra del tardo Settecento e del primo Ottocento, con la globalizzazione del primo Novecento (ancora più intensa, secondo alcuni parametri, di quella attuale ), con la Grande depressione…
Nel dopoguerra ci sono stati alcuni sommovimenti economici, dall’abbandono dei cambi fissi alle crisi petrolifere, ma niente di paragonabile a quei punti di svolta appena citati. Negli ultimi anni, tuttavia, si è andata profilando (era cominciata prima ma non ce ne eravamo accorti) un’altra ondata di cambiamenti epocali, legata alla globalizzazione e alla telematica: due fenomeni che non sono indipendenti, ma si completano e si nutrono a vicenda, e che vanno lentamente cambiando sia il modo di produrre che il modo di consumare nel mondo intero.
Come tutti i grandi fenomeni, ci sono aspetti positivi e negativi. Vediamoli, dal punto di vista economico, uno per uno. Useremo per convenienza il termine globalizzazione, con l’avvertenza però che questo termine racchiude tanti aspetti: fusione economica e fissione politica, ragnatela telematica e delocalizzazione della produzione, avvicinamenti e scontri fra culture. Menzioniamo quattro critiche che sono solitamenti rivolte alla globalizzazione e vediamone, dal punto di vista economico, la rilevanza.

1. Incertezza del domani e instabilità.
Certamente, la globalizzazione aumenta l’incertezza, come tutti i cambiamenti. Quando le cose cambiano, non si sa mai dove si andrà a finire. L’incertezza è obiettivamente uno svantaggio dal punto di vista economico, perché introduce grani di sabbia nei meccanismi delicati delle decisioni di investimento e di lavoro. Ma in tutte le grandi epoche di cambiamenti è aumentata l’incertezza. Il problema non è quello di constatare la maggiore incertezza, ma quello di capire se questo cambiamento è un cambiamento in meglio o in peggio.

2. Maggiori disuguaglianze.
Gli economisti sono divisi sul fatto che l’innegabile allargarsi delle disuguaglianze sia da attribuirsi alla globalizzazione. Ma il consenso che va emergendo è il seguente. All’interno dei Paesi ricchi l’allargarsi delle diseguaglianze è prevalentemente dovuto alla tecnologia e non alla globalizzazione. La rivoluzione industriale in corso (la “quinta” rivoluzione industriale, dopo il vapore e i telai di fine Settecento, l’elettricità e le ferrovie nell’Ottocento, la radio e la motorizzazione nella prima metà del Novecento, le materie plastiche e l’elettronica nella seconda metà del Novecento) sta trasformando l’economia in una “economia della conoscenza”, con le applicazioni della telematica nei processi produttivi, l’Internet e la fertilizzazione incrociata fra informatica, biologia e nuovi materiali. A questo punto si approfondisce il solco fra i “compensi alla conoscenza” e i “compensi al lavoro manuale”. Si tratta di qualcosa che è già successo nella storia e che spinge naturalmente ad elevare il livello di formazione e di istruzione di chi voglia andare avanti nel mondo. Si tratta di un processo irreversibile e non si può fare nulla per tornare indietro. Bisogna solo accettarlo e mettere in opera programmi di riaddestramento per preparare i lavoratori a mansioni segnate da maggiore conoscenza.
All’esterno dei Paesi ricchi, cioè nelle relazioni fra Paesi ricchi e Paesi poveri, invece, la globalizzazione riduce le diseguaglianze. Quando ci si lamenta che un programmatore in Italia viene scartato a favore di un programmatore in India, questo è molto triste per il programmatore in Italia ma è molto bello per il programmatore in India. E, dato che l’India è un Paese molto più povero che l’Italia, le differenze di reddito fra Italia e India si riducono. Nei Paesi emergenti i redditi stanno crescendo più rapidamente che nei Paesi ricchi per due ragioni: i lavori di manifattura passano nei Paesi nuovi, dove il costo del lavoro è minore (il disegno dei pantaloni italiani rimane in Italia, ma i pantaloni vengono tagliati e confezionati in Marocco); e i prodigi della telematica permettono di trasferire nei Paesi poveri anche quei lavori impiegatizi (ticketing per le linee aeree, trattazione dei rimborsi di spese mediche…) che si prestano a essere fatti a distanza. In più, i Paesi poveri di reddito ma con scuole che funzionano riescono anche a entrare, come accennato sopra, in quei “mercati della conoscenza” che sono la programmazione e la gestione di sistemi informatici.
Vi sono poi i casi famosi dei bambini che cuciono palloni da calcio nei Paesi del Terzo mondo: questi casi ricalcano situazioni di sofferenza che sono andate scandendo lo sviluppo economico dal Settecento in poi. Lo sfruttamento minorile nelle fabbriche inglesi del tardo Settecento è tristemente famoso. Allora, come adesso, le alternative non erano molto allegre. Un testimone dell’epoca ricorda che nelle campagne, da dove quei minori erano andati via per essere sfruttati nelle fabbriche, le cose andavano ancora peggio: ho visto, diceva, bambini morti di inedia lungo i fossati della strada. Le stesse alternative terribili esistono adesso, ora che la clamorosa miseria urbana in molti Paesi emergenti sostituiscie la miseria silenziosa delle campagne. Ma come nell’Inghilterra di allora anche nei Paesi in via di sviluppo di oggi le cose miglioreranno man mano che l’economia acquista forza in un contesto di globalizzazione. Intanto, è bene che i cittadini dei Paesi ricchi facciano sentire la loro voce, attraverso boicotti o denunce, presso le multinazionali che producono beni in quei Paesi, così da evitare situazioni estreme di sfruttamento.
Vi sono, purtroppo, dei Paesi che non beneficiano di questo processo di sviluppo, come molti Paesi in Africa. Ma non ne beneficiano a causa del fatto che la globalizzazione non li lambisce. Sono Paesi che si chiudono agli scambi internazionali, per oscurantismo culturale o per insufficienze, per non dire corruzione, della classe dirigente.

3. Lavoro (troppo) flessibile.
La flessibilità del lavoro è un bene quando viene dall’offerta. Cioè a dire, se chi si offre di lavorare ha bisogno non di un lavoro regolare ma di un lavoro parziale od occasionale, perché vuole conciliare studio e lavoro, o lavoro e famiglia, o semplicemente guadagnare un po’ di soldi per poi andare a fare il giro del mondo, è un bene che il sistema economico offra queste opportunità di lavoro. Non succedeva spesso tempo fa e succede adesso, perché la società è cambiata. La flessibilità del lavoro è anche un bene quando viene dalla domanda, cioè dai datori di lavoro: dovendo calibrare la produzione sulle quantità che i clienti richiedono, variabili lungo l’anno, è bene che i datori di lavoro possano avere a disposizione figure contrattuali diverse dal tempo pieno e dal contratto a tempo indeterminato tipici del passato. La flessibilità del lavoro non è invece un bene quando la domanda di lavoro flessibile e l’offerta di lavoro flessibile non si incontrano, così che chi vorrebbe il tempo pieno è costretto al tempo parziale o chi vorrebbe un contratto permanente è costretto a prendere contratti di tipo precario.
Questa precarietà rende certo la vita difficile a chi oggi si affaccia al mercato del lavoro. Ma è una precarietà connaturata alla fase di intensa trasformazione che stiamo attraversando. Gli unici rimedi sono quelli di considerare la vita lavorativa come una “formazione permanente”, attenti a cogliere i cambiamenti nei lavori e nelle professioni che l’economia richiede. L’importante è che l’economia cresca e che i nostri Paesi rimuovano gli ostacoli alla creazione d’impresa – mancanza di concorrenza, adempimenti burocratici soffocanti – che ancora impediscono di cogliere le opportunità offerte da questa straordinaria stagione di innovazione nei prodotti e nei processi.

4. Deregolamentazione selvaggia.
Un’altra caratteristica solitamente considerata negativa dalle temperie presenti è la degolamentazione, che finisce col sacrificare al “dio-mercato” le tutele e le sicurezze di ieri. Questo è un campo dove l’economista può dare il suo contributo, nel senso che ci sono casi in cui la deregolamentazione è positiva e casi in cui è negativa. In linea di massima, è normale che in tempi di rivoluzione tecnologica e di cambiamenti accelerati sia necessario spostare uomini e capitali dai settori in declino ai settori in espansione. Se le istituzioni dell’economia rendono questa mobilità difficile, è giusto deregolamentare. É difficile dire qualcosa di meno generale, perché bisognerebbe andare a studiare i singoli casi.
Esiste il pericolo che le resistenze incontrate dal processo di globalizzazione siano tali che il processo venga interrotto e si ritorni a una frammentazione dei mercati, a un “nuovo medioevo di mercati regionali”? No, questa possibilità è remota perché i benefici dell’apertura ai mercati, specie per i Paesi emergenti, sono ormai così evidenti che la frammentazione non è un’opzione. I problemi del mondo di oggi sono più politici che economici. Originano dal bubbone irrisolto Israele-Palestina, diventano contrapposizione di civiltà fra l’Occidente e l’Islam, esplodono nel terrorismo e nelle politiche sull’orlo del rasoio di Paesi che, come la Corea del Nord, si sono tenuti ai margini della globalizzazione.







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Domenica, 18 Luglio 2004 15:18

LA GESTIONE DELLE RISORSE SCARSE

I paesi "in via di sviluppo" ed i paesi "ricchi" sono indubbiamente due facce di una stessa unica enorme medaglia che è l'economia mondiale attuale. Ciò è tanto più evidente, quanto più si rammenta che lo svantaggio dei primi è stato il prezzo pagato dal pianeta per costruire il vantaggio dei secondi.

Tutto ciò per il semplice principio fisico in base al quale la Terra è un sistema chiuso, ovvero dotato di una quantità finita di risorse, da cui deriva -di pari passo con la comparsa e lo sviluppo dell'uomo sul pianeta- la nascita e lo sviluppo di un sistema organizzato di regole sociali per la gestione di tali risorse limitate, ovvero l'economia. Se un soggetto incrementa il proprio paniere di beni, quindi, necessariamente uno o più altri soggetti vedranno decrementare il proprio.

Ciò premesso, non si può prescindere -nel considerare un ipotesi di sviluppo dei paesi poveri- dal considerare questo banale assioma. Non è possibile ipotizzare, dunque, uno sviluppo di colossi demografici come India e Cina (che all'incirca costituiscono un terzo della popolazione mondiale) su un modello economico di tipo occidentale, sviluppatosi in modo apparentemente (ed illusoriamente) sostenibile solo perchè riguardante un'esigua minoranza.

Europa e Stati Uniti sono le potenze economiche che sono, grazie ad una politica secolare basata sul colonialismo e sullo sfruttamento intensivo delle risorse. Un pianeta di 5 continenti che ne serve 1 e 1/2.
E ciò in base ad una cultura dominante dei consumi che (soprattutto nell'ultimo secolo) si è sempre più distaccata da una semplice necessità soddisfazione dei bisogni primari dell'uomo, ma che si è via via uniformata ad un modello ideale di consumo basato sull'appagamento di bisogni indotti, assolutamente secondari. E mentre Europa e Usa soddisfano i loro desideri gerarchicamente più elevati, il resto del modo fa fatica a trovare conforto dei bisogni più elementari.

Non è concepibile un idea di sviluppo basata sull'elevazione di gran parte della popolazione mondiale al livello dei più ricchi. Uno dei problemi immediati che si riveleranno in maniera drammatica nei prossimi decenni è quello energetico: se è provato che la gestione attuale delle risorse ambientali ed energetiche -al servizio del famoso 20%- non è in alcun modo sostenibile, come si può pensare di utilizzare allo stesso modo insostenibile risorse relativamente ancor più scarse per servire il 50% e oltre del mondo (con l'ingresso, appunto, di India e Cina nella società dei consumi)? Pensiamo solo all'ipotesi che ogni famiglia Indiana o Cinese voglia possedere un automobile o voglia avere la luce elettrica in casa.

Il modello della tassazione "ambientale" proporzionata al consumo reale di risorse, sulla base della teoria economica del recupero delle esternalità, sarebbe un modo per garantire una più equa gestione delle risorse. Ogni impiego o modificazione più o meno permanente di beni pubblici (aria, acqua, vegetazione, ma anche temperatura, rumore, elettromagnetismo, etc.) potrebbe essere considerata come un costo "aziendale" in piena regola (calcolato sulla base del costo necessario alla loro rigenerazione) e non più come una attività del tutto priva di oneri. I "protocolli" ambientali degli ultimi decenni sembrano avvicinarsi lentamente a questa idea.

Il problema, però, diventa ancor più grave per i paesi in via di sviluppo, che non possono permettersi una crescita completamente sostenibile. Ed è per questo che non è ipotizzabile un obiettivo di sviluppo globale incentrato sul raggiungimento degli standard occidentali. La soluzione delle disparità tra "Nord e Sud" del mondo e la gestione delle risorse ambientali sono temi da trattare come un unico grande problema, ipotizzando necessariamente per entrambi una soluzione intermedia: una distribuzione più omogenea delle risorse scarse ed allo stesso tempo un ridimensionamento degli standard di benessere ad un livello sostenibile per tutti.

Per questo motivo non è assolutamente pensabile lasciare l'intera questione in balia della "mano invisibile". E' fuor di dubbio che le "economie di comando" siano tra le maggiori responsabili del sottosviluppo dei paesi poveri, ma è anche per questo motivo che la liberalizzazione totale dei mercati, in economie e culture fortemente arretrate, non può che essere una soluzione molto rischiosa. Pensare che ogni soggetto, perseguendo il proprio interesse egoistico, contribuisca all'interesse collettivo, è pura teoria.

Specularmente, però, è altrettanto impensabile continuare a pensare ai paesi in via di sviluppo in modo assistenzialistico. Da un lato perché questo contribuisce a giustificare il protrarsi della loro situazione di svantaggio, quando -ad esempio- con una mano si danno gli aiuti umanitari e con l'altra si creano barriere all'entrata dei beni prodotti in questi paesi nei mercati internazionali. Dall'altro, perché in effetti così facendo questi paesi non avranno mai la possibilità di risollevarsi, non avendo di fatto l'opportunità di costruire e/o riformare in modo autonomo al loro interno quelle strutture istituzionali, sociali, politiche ed economiche che sono alla base dello sviluppo, attraverso un percorso di auto-coscienza possibile solo in un contesto di completa libertà da vincoli imposti dall'esterno.

Il discorso del Debito Internazionale, poi, merita una riflessione ulteriore. E' vero che se i paesi poveri sono costretti a pagare più interessi sul debito di quanto non investono per lo sviluppo, non potranno mai uscire da questa spirale, ma è altrettanto vero che sarebbe assurdo pensare ad una cancellazione totale di questo debito. Una soluzione praticabile -a mio avviso- sarebbe quella di "congelare" i pagamenti dei debiti contratti in passato per un certo periodo di tempo e sospendere l'erogazione di enormi prestiti dalle istituzioni internazionali verso i governi locali, per destinare le stesse risorse a progetti medio-piccoli estremamente mirati e centrati sulle necessità di sviluppo infrastrutturale, individuati dai governi stessi e dalla popolazione, ma gestiti da istituzioni garanti del buon esito dei progetti. Non aiuti umanitari "generici", non immense somme di denaro che si perdono nelle tasche di governanti o imprenditori senza scrupoli, non interventi macro-strutturali che scavalchino le necessità locali, ma interventi di "credito etico" a breve scadenza e facilmente monitorabili. Questi micro-crediti, poi, potrebbero essere recuperati dopo un certo intervallo di tempo a condizioni non speculative dagli enti che li hanno erogati, successivamente alla creazione di una struttura economica in grado di generare quel surplus in grado di ripagarli. I vecchi debiti, in seguito, potrebbero eventualmente ricominciare ad essere restituiti potendo contare su una economia ormai sufficientemente matura per sostenerli.
Tutto ciò è sicuramente (almeno astrattamente) possibile, in quanto la sensibilità e la razionalità propria delle culture delle popolazioni del "sud del mondo" sono sicuramente un terreno fertile dove innestare un processo di sviluppo eticamente sostenibile. Basti pensare come viene vissuto il rapporto con le banche da un cittadino medio africano o sudamericano rispetto ad un cittadino europeo o statunitense: il contadino del Rwanda vorrà sapere nei particolari dove è finito il suo dollaro che ha messo in banca, chi ha finanziato e per cosa è stato utilizzato, mentre l'impiegato italiano difficilmente avrà lo scrupolo di andare a vedere che giri hanno fatto i suoi 10.000 euro investiti in obbligazioni. Le società emergenti dei paesi in via di sviluppo -se ne avranno la possibilità- ci daranno probabilmente una grossa lezione in termini di gestione delle risorse.

La questione di fondo, però, è a chi affidare il perseguimento degli obiettivi di re-distribuzione delle risorse (prima ancora che delle ricchezze) e di revisione degli standard di sviluppo. Non si può a tutt'oggi pensare ancora che le grandi istituzioni internazionali siano in grado di agire per il benessere dell'umanità in modo disinteressato, fintanto che queste saranno controllate in larga misura da chi non ha interesse a che lo status-quo venga modificato. E questo interesse sarà tanto più forte, quanto più si continuerà ad ignorare il fatto che le risorse a disposizione non solo sono mal distribuite, ma che sono troppo scarse per essere gestite nel modo attuale.

Purtroppo, stante la situazione attuale, soltanto nel momento in cui le risorse saranno talmente insufficienti -rispetto alla popolazione mondiale che ne richiederà la disponibilità- da rendere evidente il problema in tutta la sua drammaticità (basti pensare che il petrolio non si rinnova allo stesso ritmo in cui viene consumato), sarà inevitabile un ripensamento a livello globale della loro distribuzione e del loro livello ottimale di utilizzo.

Emanuele Iannuzzi
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Mercoledì, 16 Giugno 2004 10:23

UNA MERCHANT BANK ETICA

La tendenza al proliferare dei termini specialistici, la maggior parte delle volte anglofili, spesso induce i sovventori in errore - è tutt'oggi uno degli strumenti preferiti per garantire l'asimmetria informativa - e li porta a pensare che il movimento della finanza etica non abbia considerato tra le sue attività di riferimento quello dei servizi di accompagnamento alle imprese responsabili e sottocapitalizzate ... cioè che non sia possibile un merchant banking sociale.

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Mercoledì, 09 Giugno 2004 13:15

COMMERCIO ITALIANO DI ARMI: A TUTTI, DI PIÙ

In un periodo in cui non si fa che parlare di recessione economica e di declino, è significativo che l’unico settore industriale che non conosce argine alla propria espansione sia quello del commercio delle armi. Lo conferma la relazione annuale presentata all’inizio di aprile dal governo al Parlamento.

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