I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Claude Geffré è unteologo francese, docente emerito di teologia fondamentale dell'Institute Catholique di Parigi.

Perché una teologia pluralista in Asia
di Tissa Balasuriya








(...) Cristologia esclusivista

La teologia tradizionale cristiana su Gesù Cristo può essere chiamata cristologia esclusivista, poiché limita la salvezza ai cristiani, considerandola possibile soltanto per mezzo di Gesù Cristo, il necessario, unico e universale salvatore di tutta l'umanità. Una teologia esclusivista normalmente afferma che le altre religioni, per quanto possano presentare alcuni elementi di verità, non mostrano “la verità", né mostrano una verità capace di condurre alla salvezza i propri seguaci.

Per varie ragioni, questa cristologia esclusivista non è una teologia accettabile per la grande popolazione asiatica, che presenta molti e riconosciuti profeti e santi, una lunga tradizione storica, Scritture sacre e una cultura religiosa sulla stessa linea degli insegnamenti di Gesù, come pure il messaggio ispiratore e il servizio di santi missionari cristiani (. . .). In ogni caso, per il momento, solo il 3-4% degli asiatici ha accettato il cristianesimo.

1 - Il cristianesimo è debitore di una antropologia religiosa discriminatoria, combinata con una soteriologia (insegnamento sulla salvezza) esclusivista. (...)

2 - L'interpretazione della vita, del messaggio e della morte di Gesù, mediante la quale è stata data soddisfazione a Dio Padre per i peccati dell'umanità, devia l'attenzione dal messaggio di Gesù di amore e giustizia in una società ingiusta che lo ha condannato a morire in croce. Questa cristologia interpreta generalmente la salvezza per mezzo di Gesù come quella di un Dio-Uomo che paga il prezzo per l'ira di Dio-Padre. Questo sembrerebbe contraddire il tema centrale del “Dio è amore" e dell'“ama Dio e il prossimo come criterio di salvezza” attribuito a Gesù dai vangeli (...).

3 - Dopo la vita e la morte di Gesù, solo una piccola percentuale di asiatici è appartenuta alla chiesa. Gli asiatici avevano religioni molto sviluppate, molto prima dell'arrivo del cristianesimo con le sue formulazioni teologiche esclusiviste (...). Una teologia che discrimina negativamente la maggior parte degli esseri umani del mondo non può venire da un Dio trascendente, che le religioni asiatiche, nel loro migliore e più ispirato pensiero, contemplano come un Dio di bontà e di giustizia per tutti. Questo è un criterio ad extra della credibilità di questo modello cristologico esclusivista. Il modello implicherebbe l'esclusione della grande maggioranza dell'umanità mondiale - prima e anche dopo Cristo - dalla grazia salvifica che, si diceva, viene solo da Cristo.

4 - La visione o il mito in base a cui Dio o una “Realtà trascendente ultima" avrebbe condannato tutti gli esseri umani ad essere peccatori per secoli prima della nascita di Cristo è impensabile nel nostro contesto spirituale religioso asiatico (...). Tanto l'induismo come il buddismo non sono capaci di concepire un inferno eterno disegnato da Dio per la maggior parte dell'umanità. Il castigo eterno per qualunque essere umano è impensabile e non è né umano né divino.

5 - Se l'insegnamento e la pratica esclusivisti della Chiesa hanno ispirato un immenso esempio di bontà attraverso le sue missioni in tutto il mondo, allo stesso tempo hanno giustificato le peggiori spoliazioni di terra e di ricchezze, registrate per quattro secoli a partire dal 1492. Ciò è in relazione con il maggiore genocidio conosciuto, fin dove arrivano i registri della storia. Intere civiltà sono state sterminate dai cristiani nel Nord e nel Sud dell'America. Allo stesso modo è stata giustificata la schiavitù fino al XVIII secolo.

6 - L'ingiusto sistema mondiale è stato costruito principalmente dai cristiani, con gli europei che hanno preso possesso di gran parte della terra abitabile del mondo. (...) Questo disordine mondiale è perpetuato dall'incubo della legalità internazionale, dalla forza delle armi, dal dominio della manipolazione finanziaria e culturale, soprattutto da gente che si definisce cristiana.

7 - La Chiesa non ha mai richiesto ai cristiani una compensazione per lo sfruttamento dei popoli che hanno colonizzato (...). I cristiani santi per la loro carità non sono stati campioni di giustizia mondiale e sociale, come si vede nell'enciclica Deus Caritas est di benedetto XVI.

8 - La cristologia esclusivista ha avuto un impatto negativo su quanti gestiscono il potere nella Chiesa. Le loro interpretazioni hanno condotto ad atteggiamenti di profonda arroganza e intolleranza delle potenti Chiese cristiane. Sono state utilizzate per legittimare l'inquisizione, le invasioni coloniali, il multisecolare colonialismo. I papi hanno incoraggiato i capi di Stato europei a invadere, conquistare e convertire al cristianesimo tutta la gente di altri Continenti perché si salvasse l'anima.

L'incongruenza tra il cuore del messaggio cristiano di un Dio amore e le esperienze vissute dai popoli oppressi sotto i dominatori cristiani durante mille anni di schiavitù, crociate, intolleranza nei confronti degli altri, invasioni coloniali e guerre implica un'interpretazione gravemente errata degli insegnamenti di Gesù di Nazareth (...). La cristologia tradizionale esclusivista non può venir riconosciuta come una teologia che abbia a che vedere realmente con Gesù Cristo, per il danno causato alla maggior parte dell’umanità per 1.500 anni. (...)

Cristologia inclusivista

(...) Alcuni teologi hanno tentato di trovare un cammino per la salvezza della maggior parte dell'umanità, che nella prospettiva esclusivista sembra essere condannata. Hanno creduto di intravedere una specie di porta di servizio perché i non cristiani possano entrare nel cielo cristiano: dicono che le persone non cristiane che conducono vite improntate al bene sono “cristiani anonimi". (...) Ma ad altre religioni sembra che questa forma di teologia riservi loro una specie di trattamento di seconda classe, una concessione cristiana (...).

Le teologie esclusivista e inclusivista pretendono che Dio sia parziale e stia dalla parte dei cristiani, ridimensionando il potenziale di rivelazione e salvezza delle altre religioni. La teoria esclusivista e anche quella inclusivista provengono da una distorsione del messaggio centrale di Gesù, facendo dipendere la salvezza dal rito sacramentale del battesimo e dall'appartenenza alla Chiesa. Questo è un ostacolo per una corretta e fedele comprensione del discepolato di Gesù, che intende la vita secondo i valori dell'amore, della verità, della giustizia, della condivisione, del perdono e della pace che Gesù ha mostrato e messo in pratica fino alla sua morte.

Di fronte a tali considerazioni, le chiese cristiane devono cercare di capire come e perché hanno potuto sbagliare per tanti secoli su temi fondamentali come quelli della condizione umana, della natura divina e del destino ultimo degli esseri umani (...). Si può dire che con li dogma del peccato originale non c'è possibilità per la teologia cristiana di elaborate un'interpretazione che non offenda gli “altri” che sono fuori dalla Chiesa, le altre religioni. Tale teologia poteva risultare accettabile solo all'interno di comunità e culture stabilite dai cristiani, giacché pone a loro disposizione un cammino magico di salvezza attraverso il battesimo dei bambini.

Solo una comprensione pluralista delle rivelazioni può essere accettabile per l'umanità in un mondo nel quale la maggior parte degli esseri umani non è cristiana. Questa può essere la base di un dialogo interreligioso e di una convivenza pacifica globale.

Verso una Teologia pluralista nella sfida della realtà asiatica

(...) In Asia il problema intellettuale pratico è cercate di conciliare gli apparenti opposti per analizzare la realtà. Se l'approccio razionale dell'Occidente si orienta più verso una epistemologia di "o questo o quello", dell'aut aut , si dice che l'Oriente sia più incline al questo e quello, all'et et . Così, il cristianesimo occidentale è arrivato a definizioni esclusiviste dogmatiche mediante la condanna, l'affossamento o la scomunica degli avversati (anatema), mentre le religioni e le culture asiatiche tendono a lasciare più spazio all'altro, al diverso, al dissidente, specialmente per quanto concerne la speculazione sulla Realtà Ultima (Dio) (...). In generale, l'ambiente percepito è di tolleranza e accettazione dell'altro, come hanno insegnato Lao Tse, il Budda, le Upanishad, Gitanjah o Rabindranath Tagore. Forse il Mahatma Gandhi è stato il miglior seguace pratico e teorico della nonviolenza di Gesù nella sua vita politica pubblica, più di qualunque altro santo cristiano, teologo o leader della Chiesa.

Una prospettiva pluralista delle religioni

Una cristologia pluralista deve porsi all'interno di una prospettiva pluralista del religioso. Alcune considerazioni:

Tutte le religioni del mondo hanno un corpo di buoni insegnamenti e di pratiche per una vita morale. Se non fosse così gli esseri umani non le avrebbero seguite per millenni. Le religioni si interrogano sul mistero della vita e sul suo significato ultimo. Tutte possono essere aperte al mistero, ma nessuna ha il monopolio su di esso, perché il mistero è infinito.

Nessuna religione può avere la pienezza della verità sulla Realtà Ultima Assoluta, perché ciò è al di là della capacità umana. Nessuna religione ha il monopolio della conoscenza di Dio, della Realtà Ultima o della salvezza umana e della vita dopo la morte. Tutte le religioni devono essere disposte ad apprendere dalle altre, ad apprendere anche dalla società laica e persino dall'evoluzione del mondo e dal suo progresso.

Le religioni devono accettare che vi siano modi diversi di "descrivere" la Realtà Ultima. Ogni religione può essere fedele alle proprie interpretazioni del divino senza rivendicare il controllo del divino. Allo stesso modo, rispetto all'origine o alla vita dopo la morte, nessuna religione può rivendicare una conoscenza assoluta di quello che è avvenuto prima o di quello che avverrà dopo la morte di una persona. Le religioni possono avere presentazioni diverse della propria comprensione del divino, espresse in una diversità di linguaggi, forme d'arte, contesto culturale, riti di culto, organizzazione comunitaria e sistema educativo. Più in là e più in qua di tutto questo, possono unirsi in un servizio genuino e disinteressato alla comunità umana. Qui si trovano il messaggio e la mistica più profondi della maggior parte delle religioni.

Le religioni possono pensarsi complementari per il bene comune spirituale di tutti, invece di considerarsi in competizione le une con le altre. Le religioni mondiali hanno un insieme di valori centrali rispetto a cui possono essere d'accordo e cooperare per la vita sociale pratica.

Le religioni sono i movimenti sociali mondiali più antichi e diffusi del mondo. Ricevono l’adesione leale di masse di popolazione e sono radicate in gruppi locali, comunità nazionali e reti mondiali. Insieme possono contribuire a sviluppare un ordine mondiale di condivisione, giustizia e pace. Possono promuovere i diritti umani a diversi livelli e lottare insieme per l'uguaglianza tra i popoli, per il rispetto verso ogni persona senza distinzione di sesso, età, classe sociale o casta, o a favore del commercio equo, della pace mondiale, del controllo delle armi, del disarmo nucleare, della cura per il pianeta Terra. Insieme possono essere i maggiori benefattori dell'umanità.

1. Tutte le religioni sono di fatto condizionate nei loro pensieri, espressioni e azioni dall'ordine sociale dominante e dalla loro eredità culturale. Tutte le religioni hanno bisogno di autocritica, autocorrezione e pentimento per i propri errori, per esempio quello di aver favorito la superiorità maschile e l'indifferenza per la giustizia di genere. Tutte le religioni meritano rispetto e accettazione per il bene che ispirano e realizzano.

2. Il compito più importante delle religioni dovrebbe essere quello di contribuire al miglioramento spirituale dei propri membri e della società in generale. Dovrebbero essere meno preoccupate dai problemi esteriori, come i riti del culto, la costruzione dei templi e delle chiese, l'organizzazione legale della comunità, la rivalità interreligiosa in termini di potere e di quantità di membri e anche dalle formulazioni filosofiche delle teorie e dei dogmi.

Le campane del tempio e delle chiese sono diverse, possono suonare a ore diverse e chiamare i fedeli a diversi servizi condotti da diversi sacerdoti. Ma il tono, la musica sono gli stessi; la canzone liberatrice del Divino ci ricorda a tutti la stessa verità eterna: che tutti siamo figli e figlie di Dio...

"Quello che manca in questo momento storico è passare dalla religione alla spiritualità... Mantenendo l'identità delle nostre religioni, dobbiamo andare al cuore del messaggio centrale di ognuna di esse e calare i temi dell'amore, della verità, della giustizia, dell'uguaglianza nelle circostanze reali della nostra vita. Questo può spianare il cammino verso una condizione di solidarietà spirituale. Potrebbe offrirci la chiave per aprire le porte delle nostre rispettive prigioni. La dipende da noi uscire e forgiare una nuova solidarietà spirituale che tocchi e trasformi la nostra società e fissi l'agenda per un mondo nuovo e di speranza" (Swami Agnivesh).

Verso una cristologia pluralista

(...) a) Dovremmo cercare di presentare il cuore del messaggio di Gesù di Nazareth a partire dalle sue parole e dalle sue azioni, principalmente quelle che proclamano che Dio è amore e che ciò a cui siamo chiamati è ad amare Dio e ad amare il prossimo come noi stessi. Possiamo cercare di articolare i valori che Egli proclamò, vivendo e morendo per essi (…).

b) Il cammino che Gesù mostra per la salvezza umana e universale (Mt 25,34-46). “Avevo fame e mi avete dato da mangiare". Tutti gli esseri umani possono seguire questo cammino, dentro o fuori della (Chiesa. Gesù non ha alcun monopolio sul cammino per la salvezza umana. Prima che Gesù nascesse già era operante la salvezza umana. Gesù ha mostrato un cammino, ma non lo ha iniziato ne lo ha aperto all'umanità.

c) Gesù non dovrebbe essere presentato come l'unico e universale salvatore di tutta l'umanità per la caduta dell'umanità nel peccato originale. Egli presenta un unico cammino di salvezza che è aperto a tutti gli esseri umani di tutti i tempi e che può essere anche mostrato dai leader di altre religioni, forse con parole diverse. Questo cammino di amore per tutti porterebbe il Regno di Dio sulla terra, e porterebbe anche la salvezza a tutti, con o senza filiazione religiosa.

d) Quello che è importante per i discepoli è seguire gli insegnamenti di Gesù sulla vita morale pratica, più che cercare di definirlo intellettualmente secondo le categorie della filosofia greca, come sostanza, persona e natura (…).

Gesù ha bisogno di essere liberato dalla cattività che soffre sotto la cristologia tradizionale esclusivista (...). Egli mostra un cammino verso una maggiore comprensione pluralista tra comunità di diverse religioni, per entrate in un dialogo di vita e azione per un'umanità diversa, libera dall'oppressione.

Vi sono molti figli e figlie di Dio nella stessa missione di Gesù, che cercano di spianare un cammino di amore e di servizio per tutti, al di là dell'egoismo personale o di gruppo. Riconoscere queste molte persone non sminuisce in nulla la filiazione divina di Gesù; è, semplicemente, un modo diverso di pensare alla comunione dei santi. Lasciamo che una cristologia pluralista purifichi la teologia e la vita cristiana e le renda più chiaramente simili a Gesù e a Cristo. Lasciamo che Gesù sia Gesù, il messaggero dell'amore di Dio, il liberatore dell'oppresso e il compagno nella costruzione di una Nuova Umanità. Lasciamo che Dio sia Dio, un Dio che ama e si preoccupa di tutti al di là di tutte le barriere costruite dagli esseri umani.




(da Adista , n. 86, 02.12.2006, pp. 8-10)

Il corpo del cristiano tempio dello Spirito(1 Cor 6,12-20)

di Michele Ciccarelli








In questo passo Paolo proclama quella libertà cristiana che Cristo ci ha ottenuto: una libertà che non è indiscriminata né senza orientamenti e non conduce di nuovo ad alcuna schiavitù. Con queste premesse l' Apostolo affronta la problematica della dissolutezza morale diffusa nella città di Corinto. La comunità cristiana, che egli stesso ha fondato, deve fare i conti con una società multietnica e multireligiosa, complessa e corrotta dal punto di vista morale: di fronte a queste sfide Paolo non si scoraggia, ma con decisione e chiarezza verbale tratta le diverse questioni che essa presenta.

Il fulcro teologico e la chiave di lettura del suo discorso è la risurrezione di Cristo. In quanto associato a Cristo risorto, il cristiano viene abilitato a una comunione particolare con il suo Signore, mediante la quale viene informata ogni sua azione. A partire dalla risurrezione, Paolo elabora una teologia del corpo che costituisce la novità provocatoria per la società di Corinto e del mondo pagano in generale, e impegna, in modo esigente, la comunità cristiana ivi residente.

Il rapporto corpo-Signore (vv.12-14)

Dopo le premesse espresse al v. 12, nei vv. 13-14 Paolo affronta lo stretto rapporto tra corpo e Signore. Paolo, in effetti, con frasi brevi e pregnanti, aggredisce, per così dire, in modo diretto e violento, la problematica dei disordini sessuali praticati a Corinto. Dalla veemenza del linguaggio dovremmo forse dedurre che la comunità cristiana di Corinto fosse già incorsa in tali pratiche.

AI v. 12 il termine panta ( «tutto» ) introduce la legge di libertà tanto cara a Paolo e viene ripetuto altre due volte nello stesso versetto. La legge della libertà è lo statuto del cristiano liberato da Cristo con il suo sacrificio. Non c'è, quindi, nessuna schiavitù. «Tutto mi è lecito» viene ripetuto due volte e ogni volta viene accompagnata da una frase avversativa introdotta da «ma». La prima volta si precisa che «non tutto mi giova»; la seconda si dice che «non sarò dominato da niente». Paolo mette in campo il criterio di utilità, ben noto all'etica stoica, che, di fatto, limita la facoltà di azione del cristiano. In seguito, a proposito delle carni, Paolo utilizzerà lo stesso criterio per il bene di chi è ancora debole nella fede (cf. 1 Cor 8, 9-13). Il secondo criterio è un po' più sottile: la libertà non deve generare schiavitù. Sembrerebbe, infatti, che una completa libertà por- ti a una schiavitù. Paolo si prepara a spiegare la caratteristica di questa schiavitù, ma per fare questo ha bisogno di un'altra categoria: quella di «corpo».

Il v. 13 presenta il rapporto tra cibi e ventre, un rapporto stretto (i cibi per il ventre e il ventre per i cibi), tanto che subiranno l'identica sorte: la distruzione da parte di Dio. In questo rapporto non viene evidenziato alcun apprezzamento morale e la distruzione non è certamente vista come una punizione, ma, piuttosto, come un esito predeterminato a motivo della caducità dei due elementi. Nella seconda parte del versetto Paolo pone il termine «corpo» in antitesi agli elementi sopra indicati. Il fatto suscita un po' di perplessità, considerando che il ventre è una parte del corpo. Ma forse questo è un dettaglio trascurabile rispetto alla valenza che Paolo vuole dare al termine «corpo». Egli intende «corpo» in quanto organismo vivente e, per di più, come vedremo in seguito, è santuario dello Spirito. Viene, quindi, distinto il corpo come organismo vivente e il corpo come insieme di organi. In questa visione, Paolo non ha difficoltà a considerare il ventre come destinato alla distruzione, mentre dice che il corpo è per il Signore.

A differenza del rapporto naturale che c'è tra il ventre e i cibi, Paolo nega

qualsiasi rapporto tra il corpo e la porneia. Per porneia è da intendersi qui l'unione sessuale considerata illegittima dalla tradizione ebraica e, almeno in parte, condannata anche dalla società greco-romana. Il riferimento alla pornê (prostituta) ai vv. 15-16 farebbe intendere che Paolo si concentra sull'unione con la prostituta, tenendo presente, soprattutto, la diffusione della prostituzione sacra, già così duramente condannata dalla Bibbia. Il termine porneia ha, comunque, un significato più ampio ed è generalmente tradotto con il termine «impudicizia» e sta a indicare un disordine sessuale. Infatti, se prescindiamo dal libro dell' Apocalisse, dove il termine porneia ha il significato di «apostasia dalla fede», gli altri testi del Nuovo Testamento si riferiscono sempre a un disordine sessuale.

È da ricordare che le immoralità sessuali nell' Antico Testamento riguardavano oltre l' adulterio, anche l' incesto per diversi gradi di parentela, l'omosessualità, l'unione con animali e il vedere le nudità di colo.: ro che sono legati con particolari vincoli di parentela (Lv 20,9-21).

Paolo si ricollega a questa tradizione biblica e arricchisce le sue argomentazioni con la riflessione sul kerigma cristiano che vede il corpo dei cristiani, e quindi l'esercizio della sessualità ad esso legata, in stretta relazione con il corpo di Cristo risuscitato.

Nella 1 Cor Paolo tratta l'argomento della sessualità umana soprattutto ai cc. 5-7. In 1 Cor 5,1-5.9-11 egli affronta un problema di convivenza con la propria matrigna, dunque di incesto, situazione condannata, tra l'altro, dagli stessi greci. Paolo non solo dice che questo è duramente condannato (v. 5: «questo individuo sia abbandonato a satana»), ma fa riferimento anche a un'altra lettera precedentemente scritta ai corinzi, e a noi non pervenuta, dove dice già che essi non devono «mescolarsi con gli impudichi» (vv. 9-11), per quanto questi si trovassero all'interno della comunità dei fratelli e che bisognava persino sottrarsi alla comunione di mensa con loro (v. 11). Il fatto che il problema dell'impudicizia era già stato trattato in un altro scritto a noi sconosciuto, ci spinge a pensare che la problematica era tutt' altro che marginale nella società di Corinto e che Paolo attribuiva un'importanza notevole alla sua soluzione. In 1 Cor 7,1-6, poi, egli parla del matrimonio cristiano visto come remedium concupiscentiae, vale adire come mezzo per non cadere nei lacci dell' «impudicizia», tracciando le linee della morale matrimoniale.

In 1 Cor 6,9, dopo aver detto che alcune categorie di persone - vi compaiono anche impudichi (pornoi), adulteri, effeminati e sodomiti - non erediteranno il regno di Dio, ai vv. 12-20 Paolo dà le motivazioni teologiche per la condanna di tali abusi sessuali. Anche in 2 Cor 12,20-21, Paolo, dettata una lista di peccati di diverso genere, ritorna sul tema dell'impudicizia, segno che le avvertenze fatte in 1 Cor non erano state del tutto seguite, e che la situazione era veramente grave.

In 1 Cor 6,12-20, allora, Paolo sviluppa le ragioni di questa vocazione del corpo alla santità, evidenziando un rapporto stretto con il Signore. Dicendo, infatti, al v. 13b che «il corpo non è per l'impudicizia, ma per il Signore e il Signore è per il corpo», egli si contrappone a ogni spiritualismo che discredita il corpo. È qui uno dei cardini della teologia paolina. Non si può essere uniti al Signore se non lo si è anche con la dimensione corporale. La particella «per» (espressa in greco con il dativo del termine di riferimento), non proietta la vita del cristiano in un tempo da venire o in una dimensione ancora da acquisire, ma la contempla nel presente nella sua imprescindibile unità con il Signore. Le espressioni prive di predicato verbale risultano ancora più perentorie e i termini in questione più saldati tra loro. Infatti, viene espressa la negazione del rapporto «corpo-impudicizia», affermando, per due volte l'unità del corpo con il Signore ( «corpo-Signore» e «Signore-corpo» ).

L'unità corpo-Signore sembra una premessa indispensabile affinché «Dio che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza» (6,14). Ma la risurrezione futura del cristiano non è l'unica ragione per la quale il corpo non deve abbandonarsi all'impudicizia. In realtà, ciò che segue fa capire bene che la situazione del corpo obbedisce a uno statuto di comunione già presente tra la persona del cristiano e la persona del Signore Gesù.

I corpi dei cristiani sono la «la memoria di Cristo» (vv. 15-18)

Questa comunione è espressa mediante la metafora delle membra e del corpo. Si passa così dalla realtà del corpo fisico del cristiano alla realtà «sacramentale» del corpo di Cristo, cioè la Chiesa. Paolo afferma in 1 Cor 6,15: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo». Cronologicamente è la prima volta che Paolo ne parla nelle sue lettere.

Le membra sono viste come suscettibili di essere utilizzate per il peccato o per Dio. In Rm 6,13.19, infatti, Paolo dice che le membra del corpo non devono servire al peccato, ma alla «giustizia per la santificazione» (v. 19). Anche in Col 3,5 il termine «membra» è unito all'aggettivo «terrene» e dice che devono essere fatte morire, elencando, poi, una serie di peccati: «fornicazione, impurità, libidine, desideri sfrenati e l' avidità di guadagno, che è poi idolatria» !

Se i corpi costituiscono le membra di Cristo, allora tutti i corpi dei cristiani formano il corpo di Cristo, che non può entrare in contatto con il corpo di una meretrice: «Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di meretrice? Non sia mai!» (v. 15). L'unione con la prostituta da parte di coloro che sono già membra di Cristo compromette il rapporto di intima unione delle stesse membra con il corpo di Cristo. Come si può vedere, Paolo fa capire che un rapporto sessuale implica un livello di comunione e di unità profondo. I cristiani, quindi, non possono rinunciare a essere membra di Cristo per diventare membra di una prostituta. Il messaggio è chiaro e forte. Ma Paolo sviluppa ulteriormente il suo pensiero. Al v. 15 aveva incominciato ad argomentare mediante domande retoriche: «Non sapete...», «Prenderò dunque le membra...». Come risposta a queste due domande c'era stato un secco: «Non sia mai!». All'inizio del v. 16 e del v. 19 egli pone un' altra domanda retorica alla quale dà delle risposte più articolate. Al v. 16a continuando il discorso precedente dice: «O non sapete che chi si unisce a una meretrice forma un corpo solo». Paolo, a questo punto, pensa di rafforzare il suo pensiero con una citazione da Gn 2.

L' autore biblico, ragionando sulle parole di Adamo che, dopo la creazione della donna, afferma: «Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne! Costei si chiamerà donna perchè dall'uomo fu tratta» (Gn 2,23), aggiunge come commento: «Per questo l'uomo abbandona suo padre e sua madre e si unisce alla sua donna e i due saranno una sola carne» (Gn 2,24). Paolo al v. 16b cita il testo di Genesi solo nell'ultima parte: «I due saranno una sola carne», interpretandolo nel senso di unione sessuale. L'espressione «una sola carne» e «un solo corpo» è interscambiabile; ma Paolo parla di un «solo corpo» con la meretrice perchè, con la menzione delle «membra», è questa l'immagine sottesa che emerge più naturale.

Si deve rilevare, a questo punto, che nel ragionamento di Paolo c'è uno slittamento di contesto: dal contesto di un'unione sessuale già di per se illegittima come l'unione con una prostituta, si passa a parlare dell'unione sessuale dell'uomo e della donna così come previsto dal piano di Dio stesso. Per un momento Paolo abbandona il punto di vista morale e si concentra sull'unione sessuale in quanto tale e sul suo profondo significato relazionale.

Proprio perchè l'unione sessuale è così intima e profonda, e tende a fare dei due «una sola carne» o «un solo corpo», essa non può avvenire con una prostituta, rischiando di trasformare, come prima si era detto, le membra di cristo in membra di prostituta. In seguito, in 1 Cor 7, Paolo tratterà del matrimonio cristiano, che non è messo in contrapposizione all'unione con Cristo; ma, al contrario, l'attività sessuale all'interno del matrimonio è vista come un modo per evitare proprio il pericolo di porneia.

Dopo aver parlato dell'unione dei cristiani con il Signore in quanto sue membra, adesso Paolo sottrae questa unione a una visione materialistica, non per privarla di realismo, ma per riconoscerle uno statuto più alto: quello spirituale. Al v. 17, infatti, Paolo dice: «Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito».

È degno di nota che non compaia nel nostro testo l'espressione «corpo di Cristo», anche se, indubbiamente, se ne sottintende il concetto. Forse Paolo evita il termine proprio perchè vuole sottolineare questo livello di unità particolare: l'unità in un solo spirito.

Al v. 18, infine, dopo un'esortazione a «fuggire l'impudicizia» aggiunge: «Qualsiasi peccato l'uomo commetta, sta fuori del corpo; ma chi commette impudicizia pecca contro il proprio corpo!». Sembra che Paolo ammetta come peccato contro il proprio corpo solo il peccato di impudicizia o di immoralità sessuale. Forse è per ragioni oratorie che egli si concentra solo su questo tipo di peccato o forse perchè riconosce al corpo, proprio a partire dal testo della Genesi che egli cita, quella speciale capacità di creare comunione profonda, fondendo due persone in un unico essere.

Il corpo, infatti, non è inteso come un involucro dell'anima; viceversa, l'uomo stesso è compreso nella sua inscindibile unità psicofisica e spirituale; e in tale unità egli entra in un'intima relazione con il Signore. Potremmo affermare, allora, che l'immoralità sessuale è considerata come un peccato contro il proprio corpo in quanto tende a distruggere l'unità psicofisica della persona. Il corpo, infatti, nelle sue relazioni non può non coinvolgere anche la psiche e la dimensione spirituale. La libertà di azione dell'uomo, in definitiva, non deve mai portare alla dissociazione tra vita fisica evita psico-spirituale.

Il corpo dei cristiani è tempio dello Spirito (vv. 19-20)

Ai vv. 19-20, una frase interrogativa e un'altra affermativa sono accostate tra loro in modo chiastico:

A Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo presente in voi,

B che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?

B’ Infatti, siete stati comprati con un prezzo.

A’ Glorificate quindi Dio nel vostro corpo

Come si può vedere, gli elementi interni (B e B’) parlano dei cristiani che non appartengono a loro stessi, perchè comprati con il prezzo della redenzione di Cristo. Gli elementi esterni della struttura (A e A'), invece, si riferiscono all' importanza del corpo, inteso come tempio dello Spirito Santo e strumento di glorificazione di Dio.

Già in 1 Cor 3, Paolo aveva parlato dei cristiani come «tempio di Dio»: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi ?» ( 1 Cor 3,16). Il testo di 1 Cor 6,19, allora, sviluppa questo concetto di sacralità del corpo. Il corpo è sacro e intoccabile perchè è il tempio di Dio e chi lo danneggia o lo distrugge, si attirerà da Dio stesso la distruzione (cf. 1 Cor 3,17: «Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui, perchè santo è proprio il tempio di Dio che siete voi» ). Questa affermazione del c. 3 getta una luce per la comprensione del nostro testo: il corpo del cristiano è il tempio di Dio e partecipa della sua santità. Di conseguenza, se viene meno la santità con pratiche sessuali immorali è come se si distruggesse lo stesso tempio.

È forse in questa prospettiva che Paolo parla di peccato contro il proprio corpo. Facciamo notare, a riguardo, che la versione della Traduzione Interconfessionale in lingua corrente, scostandosi da una traduzione letterale, interpreta il nostro testo forse proprio alla luce di 1 Cor 3,17, traducendo in questo modo: «Chi si dà all'immoralità distrugge fondamentalmente se stesso». L'ultimo versetto serve, infine, a Paolo per esortare i suoi cristiani a glorificare Dio con il proprio corpo. Il motivo di questa glorificazione è I' opera redentrice di Cristo espressa in termini di acquisto. Cristo possiede il cristiano. All' interno di questo possesso bisogna intendere la libertà cristiana. Una libertà che porta fuori da questo dominio di Cristo è una libertà che non porta al bene integrale della persona e, spesso, porta alla schiavitù.

È I' esercizio di una libertà senza criteri che si trasforma in dominio, blocca la potenzialità umana di fare il bene e porta l'uomo a far perdere il bene di quella comunione di amore che egli ha con il Signore.

Conclusioni

Il grido finale di glorificare Dio con il proprio corpo è basato su quel debito di riconoscenza che il cristiano sente di avere verso colui che ha immolato il suo corpo per amore e, con la sua risurrezione, ha dato la possibilità di essere sue membra mediante la comunione in lui di un solo spirito (cf. 1 Cor 6,15-16).

Vediamo che già dai primi scritti paolini, all'inizio degli anni 50, Paolo delinea chiaramente il fulcro della sua riflessione teologica: comunione intima e imprescindibile di Cristo con il

cristiano in virtù del ruolo fondamentale giocato dalla risurrezione dei corpi.

È proprio la risurrezione di Cristo nel suo corpo e la futura risurrezione dei corpi dei cristiani che offre a Paolo l' occasione di una riflessione profonda sul senso del vivere nel corpo.

Il corpo che è possesso di Dio e nel quale abita il suo Spirito come in un tempio richiede rispetto al fine di salvaguardare la sua funzione relazionale improntata alla santità. Conservare, infatti, questa santità, ottenuta dall' opera di Cristo (cf. 1 Cor 6,11), serve a rimanere in quella fondamentale unione con il Signore risorto.

(da Parole di vita , 2, 2002 )

«Chi si vanta si vanti nel Signore»

 (2Cor 10,12-11,6)
di Giuseppe De Virgilio




Nell'introdurci all'analisi della pericope riguardante la difesa di Paolo al cospetto della comunità corinzia, evochiamo il contesto dell' apologia paolina e l' articolazione del testo nella parte finale della lettera canonica (cf. 2Cor 10-13). Paolo è chiamato a rispondere all'accusa di debolezza mossagli dai suoi avversari, i quali hanno sfidato manifestamente la sua autorità apostolica e hanno tentato di delegittimare con sottili insinuazioni il suo operato, sostenendo che «le lettere sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la sua parola dimessa» (2Cor 10,10). I cc. 10-13 costituiscono, quindi, una «seconda difesa dell'apostolo», che già in 2Cor 2,14-7,4 aveva dovuto assumere una posizione severa a motivo di un grave insulto ricevuto da un rappresentante della Chiesa corinzia (2Cor 2,6), la cui vicenda ha avuto esito salutare per l'intera comunità (2Cor 7,8-13). Dopo aver segnalato per quanto possibile il profilo degli avversari dell' apostolo così come emerge dal dialogo epistolare, fermeremo la nostra attenzione sulla risposta paolina di fronte all' accusa di ambizione (10,12-18) e sul successivo tema del «vanto apostolico» (11,1-6).

Gli avversari di Paolo in 2Cor 10-13

Le problematiche e le argomentazioni contenute in 2Cor rivelano I' evoluzione di un conflitto che ha come oggetto la persona di Paolo e la credibilità del suo ministero. Infatti il fronte degli oppositori, abbozzato in 2Cor 1-9, viene riportato in piena luce nei cc. 10-13, dai quali si evincono con maggiore chiarezza le opinioni sostenute dagli avversari dell'apostolo e le ragioni del confronto.

Chi sono gli avversari e quali accuse muovono nei riguardi dell'apostolo? Si tratta di un rilevante gruppo di predicatori giunti a Corinto da altre comunità (2Cor 11,4-5) con «lettere di raccomandazione» (2Cor 3,1), forti della buona accoglienza riservata alloro messaggio (2Cor 11,4.20). Questi tali, nella pretesa di sostituirsi alla predicazione paolina, legittimavano variamente il proprio ministero in contrapposizione a Paolo e all'immagine debole che veniva fatta passare in sua assenza. P. W. Barnett riassume il quadro delle pretese antipaoline di questi «falsi fratelli»: «Nel loro viaggio missionario a Corinto essi sono giunti percorrendo una distanza maggiore, Paolo una minore (2Cor 10,13- 14), hanno "lettere di raccomandazione" (da Gerusalemme?), Paolo non ne ha alcuna (2Cor 3,1-3); sono all'altezza del proprio compito, figure trionfanti, Paolo è inadeguato, una figura meschina che avanza vacillando di sconfitta in sconfitta (2Cor 2,14-3,5; 4,1.16) [...] sono uomini dai poteri divini ("fuori di senno": 2Cor 5,13), "rapiti [...] fuori del corpo [...] in paradiso" dove essi hanno "visioni" e odono "rivelazioni" di ciò che è "indicibile" (2Cor 12,1-5), mentre Paolo vive "nella carne", è un ministro senza poteri e debole (2Cor 10,3-6; 12,1-10; cf. 2Cor 5,12-13). Con ogni probabilità, essi compivano "i segni del vero apostolo" (2Cor 12,12), mentre, sostenevano, Paolo non li compiva. Essi sono versati nell' arte del parlare (2Cor 11,5-6) e nella sapienza, mentre egli nel parlare è "un profano" e in generale un "pazzo" (2Cor 11,5). In tutto inferiore (cf. 2Cor 11,5), mentre essi sono superiori, "migliori" (hyper: 2Cor 11,23)».

Questa situazione conflittuale fotografa i termini del confronto a distanza tra l'apostolo e i suoi oppositori. Ricevute le notizie sull'aggravamento della situazione, a tal punto da sembrare che i giudaizzanti avessero il sopravvento, Paolo ne fu profondamente contrariato ed elaborò una decisa risposta in sua difesa, movendo inevitabilmente a sua volta forti accuse e rimproveri contro i «falsi apostoli».

Possiamo individuare in 1Cor 10-13 una successione di argomentazioni articolata in quattro principali motivi:

1) la risposta all'accusa di debolezza (10,1-11);

2) la risposta all'accusa di ambizione (10,12-18);

3) il tema del «vanto apostolico» (11,1-12,18);

4) le apprensioni e le inquietudini dell'apostolo in vista di una prossima visita (12,19-13,10; i vv. 11-13 costituiscono la conclusione epistolare).

Pur avendo presente il quadro complessivo dell'apologia, la nostra analisi si limita alla pericope 10,12-11,6 e focalizza due motivi paolini che emergono dal testo: la risposta all'accusa di ambizione (10,12-18) e il tema del «vanto apostolico» (11,1-6).

La risposta all’accusa di ambizione (10,12-18)

Per contestualizzare e comprendere i vv. 12-18, consideriamo brevemente il messaggio della pericope precedente (vv. 1-11) che riguarda la presentazione dell' apostolo e la credibilità del proprio ministero a Corinto.

La credibilità del ministero paolino (vv. 1-11)

Nei vv. 1-11 Paolo sollecita i credenti a ristabilire un giusto ed equilibrato clima di fiducia e di verità, fondato su motivazioni spirituali e mosso da spirito di fede e obbedienza a Cristo. Egli si appella al giudizio di tutta la comunità e la invita a una attento discernimento di fronte alle critiche di debolezza che gli erano state mosse; così facendo prende le distanze dall' autocompiacimento di coloro che a Corinto pretendevano essere forti e di avere in loro stessi «la persuasione di appartenere a Cristo» (v. 7). Il vero vanto di Paolo non sta nell' esaltazione delle sue qualità, bensì nel dono elargitogli dal Signore di esercitare l'autorità per l' edificazione degli stessi corinzi. Sono proprio loro che devono aprire gli occhi e non lasciarsi ingannare! Infine, con tono deciso, egli rivendica la legittimità del proprio ministero e conferma la sua linea di comportamento ferma e coerente, sia a parole che per lettera (v. 11).

Il criterio dell'autentico apostolato (vv. 12-18)

Nei vv. 12-18 il confronto con gli avversari si tematizza sull'accusa di ambizione: viene contestato a Paolo il suo «diritto» di apostolo sulla comunità. La domanda che si coglie tra le righe del testo è la seguente: sulla base di quale «misura normativa» (kànon) si esercita il ministero apostolico a Corinto? Chi può rivendicare la legittimità (la delimitazione geografica?) dell'apostolato paolino e arrogarsi il diritto/dovere di darne un giudizio? Paolo espone la sua difesa mettendo a confronto il comportamento arrogante dei suoi accusatori così diverso dallo stile pastorale della sua condotta, ispirata alla regola datagli dal Signore. La sferzante ironia sviluppata nella risposta paolina, permette di cogliere la consistenza degli atteggiamenti pretestuosi e arroganti dei suoi avversari: appellandosi alle loro presunte capacità carismatiche, essi ritenevano Paolo un predicatore privo di qualsiasi credenziale, non potendo egli vantare per se alcuno statuto canonico o normativo di apostolo. Il brano apologetico segue verosimilmente un procedimento letterario di tipo chiastico; il tono generale è vorticoso, emotivo, insieme dimostrativo e accusatorio, tipico del temperamento dell' Apostolo.

La mappa concettuale può essere così espressa:

A Non osiamo paragonarci a coloro che si raccomandano e pretendono di essere «misura» di se stessi...


B
Noi non ci vanteremo oltre misura, ma secondo l’ «unità di misura» che Dio ci ha assegnato...

A’ Non chi si raccomanda da sé è approvato ma colui che il Signore raccomanda...


B’
Abbiamo la speranza della crescita della vostra considerazione secondo la nostra «misura», senza vantarci...

Osserviamo le corrispondenze letterarie e tematiche del testo.

In A (v. 12) viene presentata la posizione degli oppositori, i quali pretendono di essere «norma a se stessi», rifiutando con il loro atteggiamento arrogante e autoreferenziale, di commisurarsi alla norma divina. In questa linea va compreso l' accenno alle «lettere si raccomandazione» usate dai suoi avversari a Corinto, per le quali già precedentemente egli ha avuto parole di riprovazione (cf. 2Cor 3,1; 5,12 cf. At 18,27).

In corrispondenza chiastica si pone A' (v. 18), che riprendendo il tema del raccomandarsi (synistêsin) in risposta agli oppositori, afferma che è il Signore (ho kyrios) l'unico protagonista e garante di ogni apostolato. Al centro della struttura si trovano dialetticamente B (vv. 13-15a) e B' (vv. 15b-17).

In B Paolo incalza i falsi apostoli tacciandoli di presunzione. La descrizione è pungente e sarcastica: essi ostentano sicurezza, reputano di essere «misura a se stessi» e si vantano «oltre misura», con atteggiamenti di arrogante sazietà e presunta perfezione. A questa posizione Paolo contrappone il suo stile missionario (si noti in v. 13 l'uso enfatico di «noi» che mira a coinvolgere l'intera comunità dei credenti) basato sull'azione divina manifesta nella sua attività evangelizzatrice: egli ha fondato la Chiesa che è a Corinto secondo «l'unità di misura» che Dio gli ha assegnato come «norma». Per tale ragione i Corinzi possono riconoscere che il diritto apostolico di Paolo è ben motivato e in virtù dell' efficacia della predicazione evangelica, la sua pretesa missionaria non risulta intrusiva, ne il suo vanto pretestuoso. Corinto è, dunque, il suo legittimo campo di lavoro, mentre i suoi oppositori pretendono di appropriarsi delle «fatiche altrui» e vantarsi di un opera apostolica che non appartiene loro (cf. Rm IS,20s).

Al gioco di contrasti e di ironie elaborato nei vv. 13-1Sa si contrappongono in B’ i contenuti autentici e le attese della missione assegnata da Dio a Paolo secondo la sua «misura». Egli auspica anzitutto per i credenti di Corinto il pieno riconoscimento della legittimità della predicazione evangelica svolta da lui nella città achea, ma nel contempo egli desidera estendere la sua attività missionaria molto più in là della Grecia, verso quei territori occidentali (Italia, Spagna?) non ancora raggiunti dal vangelo. Nel brano si segnalano tre affermazioni che fanno emergere la grandezza e la passione apostolica di Paolo: egli non intende paragonarsi a coloro che si raccomandano da se stessi, i quali mancano di comprensione, ma ha scelto di vivere lo stile apostolico sul modello voluto da Dio; inoltre, non vuole vantarsi delle fatiche di altri evangelizzatori, ne vuole appropriarsi di meriti altrui (è chiaro l'intento polemico contro gli avversari); egli, infine, desidera presentarsi ai corinzi in tutta umiltà e sincerità per far crescere la loro fede e la loro considerazione, in vista dell'annuncio del vangelo alle regioni più lontane. In definitiva, da queste rapide battute emerge tutto l' animo pastorale di Paolo, la sua preoccupazione ecclesiale e soprattutto la lungimiranza della prospettiva missionaria.

Il vanto di essere e di vivere come apostolo (11,1-6)

Uno dei motivi centrali dalla pagina paolina è quello del «vantarsi». Nella sua difesa egli ha ironizzato sul vanto dei giudaizzanti (10,12.15.16) facendo culminare la requisitoria al v. 17 con la citazione di Ger 9,22-23. A differenza dei suoi oppositori che ostentano vanagloria, l'apostolo sostiene che l'unico vanto possibile consiste nel gloriarsi nel Signore. Avendo come sfondo questo motivo, Paolo assume ora un tono sorprendentemente ironico e «drammatico». Egli si presenta come attore in una scena, «vantando se stesso» e impersonando il ruolo del «folle», quasi rapito da uno «sdegno divino» che lo spinge a «mettersi la maschera» per smascherare i suoi avversari. Del singolare discorso di 2Cor 11,1-12,18 intendiamo mettere a fuoco solo il primo movimento che è circoscritto nei vv. 1-6, i quali si articolano in tre piccole unità (vv. 1-2; vv. 3-4; vv. 5-6), introdotte rispettivamente da tre verbi (sopportare, temere, ritenere).

«Sopportate un po' di pazzia»! (vv. 1-2)

L'esordio del «discorso del folle» è costituito dall'invito rivolto ai corinzi a sopportare un poco della sua pazzia. Infatti, è vera pazzia vantarsi di se stessi! Tuttavia poiché la comunità è disposta a tollerare (e ad approvare) i vanti dei falsi apostoli che hanno riscosso tanto successo, anche Paolo sceglie di parlare loro da «insensato» per mostrare il vero volto di simili dissimulatori. Se egli è costretto a scendere su questo terreno, è per impedire che i corinzi si lascino traviare dai giudaizzanti. Al v. 2 segue un'efficace metafora con cui l' apostolo presenta il proprio ministero e introduce l' idea della comunità come «sposa di Cristo». Per la missione ricevuta da Dio Paolo assume il ruolo dell' «amico dello sposo» (paraninfo), il quale, come è consuetudine tradizione matrimoniale giudaica, viene incaricato di vigilare sulla fedeltà della «sposa» e di condurla pura e casta al giorno delle nozze (così per il Battista: cf. Gv 3,29-30). Qui non per un rapporto di possesso, ma di autentico servizio, egli si mostra «geloso» della sua comunità, in quanto essa appartiene a Dio e il suo compito apostolico non potrà considerarsi concluso fino al giorno in cui si realizzerà l' «unione sponsale» . Nella linea teologica veterotestamentaria l'immagine impiegata presuppone anche l'idea escatologica delle nozze messianiche, conferendo all'applicazione paolina la prospettiva del compimento futuro in attesa della parusia. L'efficacia della metafora impiegata ci fa capire quanto Paolo amasse la sua Chiesa da lui fondata e, nello stesso tempo, quale fosse lo stile pastorale del suo ministero a Corinto: servire la comunità non come luogo di auto affermazione della propria persona o dei propri interessi, bensì mettendo al centro delle sue preoccupazioni e del suo lavoro il bene dei cristiani e l'integrità de loro cammino verso Dio.

Un cristianesimo in crisi (vv. 3-4).

Tuttavia l' apostolo teme che la Chiesa di Corinto rompa la sua relazione sponsale con Dio. L'espressione del timore posta enfaticamente all'inizio del v. 3, rivela il pericolo dell'infedeltà dovuto alI' opera di seduzione (phtharê: essere corrotto) da parte dei predicatori eretici. Il contesto polemico spinge l' apostolo a collegare l' opera dei falsi apostoli con quella del serpente che sedusse Eva (cf. Gn 3), inducendola a peccare contro la semplicità e la purezza, secondo una reinterpretazione rabbinica. Paolo vuole dire che è in atto a Corinto un processo di seduzione diabolica (cf. 11,14-15) che sta conducendo i cristiani fuori dal progetto di Dio. Tuttavia, ciò che sembra incredibile è il fatto che la comunità, succube del «primo venuto» (v. 4), è pronta ad accettare la predicazione di un «altro Gesù», a ricevere un «altro spirito» e ad accogliere un «vangelo diverso» da quello di cui fu lui stesso proclamatore. Le sue parole ammonitrici sono fin troppo eloquenti: la crisi di Corinto investe la natura stessa del cristianesimo. In questa vicenda non è in discussione solo l' apostolato paolino, bensì la realtà stessa della Chiesa e del suo futuro in quelle regioni. La preoccupazione pastorale di Paolo trasuda da questi versetti: egli richiede ai corinzi un supplemento di corresponsabilità al fine di evitare la dispersione e il fallimento; per questo è ora disposto a fare tutto il possibile per ridare autorevolezza all'annuncio evangelico che quei cristiani stavano perdendo irreparabilmente.

Il vanto dell'apostolato (vv. 5-6)

Ripartire dall'autorità del suo apostolato, riscoprire la paternità del suo ministero, dare fiducia, sicurezza e speranza a quanti si erano lasciati convincere dai giudaizzanti: ecco l'obiettivo primario che Paolo si pone in questo ulteriore passaggio. Dopo aver descritto lo stato in cui versa la Chiesa corinzia minacciata dall'eresia. nel v. 5 egli dichiara a apertamente la legittimità di essere «apostolo», non inferiore ai suoi oppositori, che definisce ironicamente «superapostoli» .Al confronto con le doti e l' operato dei predicatori eretici, Paolo riconosce di non possedere come loro l'arte dell'eloquenza, ma ribadisce che questa dote è di minore importanza rispetto alla priorità della conoscenza di Dio, che comporta l'interiorizzazione del vangelo e presuppone il dono dello Spirito (cf. 1Cor 2,1-5). Di questa «conoscenza», intesa come esperienza profonda del mistero della rivelazione di Dio, l' apostolo ha dato ampiamente prova a tutti e in ogni occasione, come è testimoniato dalla missione apostolica svolta a Corinto. «In breve, non la retorica, bensì la nuda predicazione del crocifisso qualifica la missione di un vero apostolo».

Conclusione

Le linee che emergono dalla rapida lettura proposta tratteggiano la figura dell' apostolato paolino in tre prospettive, che risultano di straordinaria attualità per l'oggi della Chiesa. Una prima prospettiva è data natura stessa del suo ministero pastorale. Annunciare il vangelo in un «mondo che cambia» come quello di Corinto, implica un persistente atteggiamento di ascolto e di interpretazione delle vere domande che emergono dalla vita quotidiana e dalle sue sfide. Una seconda prospettiva è rappresentata dalla dimensione «agonica» dell'apostolato. Corinto diviene un esempio della «lotta per il vangelo» (cf. Rm 15,30-32), che vede Paolo protagonista di uno scontro giocato non solo sul piano della credibilità personale, ma su quello della dimensione ecclesiale: questa crisi ha conseguenze vitali per la diffusione del vangelo in tutte le Chiese. Una ultima prospettiva concerne la spiritualità missionaria dell'apostolo. Nella foga apologetica Paolo mai dimentica il riferimento alla «misura» data da Dio. Criterio decisivo di ogni ministero è Dio stesso, la sua misteriosa presenza, di cui l'apostolo ha fatto esperienza diretta nel corso della sua vita (cf. 2Cor 12,2-4). Non la retorica, ne il consenso delle masse egli ha bramato, ma solo Dio! Comprendiamo quanto affermerà subito dopo: quella «debolezza» in Cristo decantata da Paolo, diventa prezioso seme che feconda la Chiesa, unico motivo di vanto che «dalla polvere» umana si" eleva verso Dio.

(da Parole di vita, 6, 2002)

Un documento sottoscritto da personalità islamiche di 47 diversi Paesi alla fine del Ramadan 2007, l’affermazione della centralità dell’amore di Dio e del prossimo per entrambe le religioni.

Al momento della sua pubblicazione, il documento dei 138 musulmani A Common Word è stato accolto dai media nostrani con espressioni di circostanza e timidi consensi, salvo finire archiviato, ben presto, alla stregua di una un’iniziativa curiosa, quasi eccentrica.

Giovedì, 03 Luglio 2008 01:22

Elogio della sconfitta (Romano Martinelli)

Qualche riflessione per il discepolo: quando per fedeltà al maestro si trova a vivere la situazione di chi ha perso tutto (almeno così pare), il passato non c'è più, il presente lo punisce senza che il futuro abbia prospettive.

Per tutte le religioni il concetto di rivelazione è la comunicazione intelligibile trasmessa dalla divinità all’uomo. Questo concetto è un elemento costitutivo della religione che la distingue dalla filosofia. Il termine usato di “comunicazione intelligibile” include la visione, l’ascolto o altre esperienze sensibili portatrici di significato.

La grazia di un incontro forzato

di Maria Cristina Bartolomei









Gesù all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora, gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più». (Giovanni 8,2-11)

Come ogni racconto evangelico, l'episodio dell'adultera (Gv 8,1-11) ci porta dinanzi a una rivelazione di Dio in Gesù: non si può dunque attribuirgli una particolare intenzione di esplicitazione dell'atteggiamento di Gesù verso le donne, non più di quanto si possa attribuirgli l'adulterio come tema. Sarebbe un fraintendimento leggerlo in tali ottiche; sarebbe una piccineria ritagliare questi elementi come cascami, concentrandovi l'attenzione come su elementi laterali al tema o ai temi centrali. Questo criterio, valido in generale, è particolarmente efficace nel nostro caso.

Proprio e soltanto la sottolineatura del carattere di rivelazione teologica e cristologica di questa pericope consente di cogliere il significato salvifico e di rivelazione che è in esso sotteso.

Lettura teologica

Nell'intenzione del narratore o del redattore, dichiarata con la precisazione: «Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo» (8,6), l'episodio è uno dei casi in cui gli avversari di Gesù cercano di tendergli una trappola, ponendogli quesiti astrusi o concrete questioni, anche drammatiche, tesi a mettere Gesù di fronte all'alternativa di violare la Legge mosaica (o di proporne una interpretazione condannabile) oppure la legge dei romani e, più radicalmente, di tradire il proprio messaggio. Sono i casi, ad esempio, dei quesiti circa la destinazione coniugale ultraterrena della donna rimasta per sette volte vedova o il problema ricorrente della liceità di guarire in giorno di sabato, o quello del tributo a Cesare.

Anche nel caso della adultera, colta in flagrante e condotta da lui, Gesù viene chiamato ad esprimersi nel confronto con la Legge di Mosè che «ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (8,5): probabilmente i Romani avèvano infatti già tolto al Sinedrio il diritto di emettere sentenze capitali.

L'episodio può, e correttamente, venir letto su questa linea, cogliendo, come in altri casi, la sovversiva fedeltà della interpretazione della Legge praticata da Gesù; la autorevolezza da lui dimostrata nel proporsi come nuovo criterio del rapporto tra uomo e Dio. Si può sottolineare lo smascheramento della ipocrisia della condanna degli altri; il richiamo al peccato di ognuno, non meno grave anche se più occulto. Si può leggerlo come un'esemplare rivelazione della «filantropia e benignità di Dio» (Tt 3,4), della centralità e preminenza su ogni legge assegnata da Dio all'essere umano, al vivente; del suo essere il «Signore amante della vita» (Sap 11,26) e non della morte; del suo solidarizzare con le vittime.

Tuttavia limitandosi ad una simile lettura, si trascura di cogliere, un elemento di non piccola portata giacché tutto quanto evidenziato più sopra viene rivelato nell'incontro con una donna e una donna adultera, nell'Israele patriarcale del tempo, sotto una Legge che ne prevedeva la morte. Tale specificità non è casuale. L'incarnazione è la regola e il criterio della rivelazione di Dio. Ciò significa che solo mettendo a fuoco anche e centralmente la peculiarità legata a questa situazione precisa, di una donna colpevole di un particolare peccato, e seguendo a questa luce ciò che viene messo in scena nell'evento narrato, possiamo attingere meno lacunosamente il contenuto rivelatorio cristologico e teologico che qui ci viene offerto.

Lettura cristologica

Una donna viene condotta da Gesù. Questo è l'unico caso di qualcuno portato da Gesù non per essere salvato, bensì condannato. Con il proposito di far perire, possibilmente, anche Gesù e con la stessa forma di esecuzione. Il capitolo ottavo, che si apre col quesito circa la lapidazione dell'adultera, si chiude con la stessa minaccia per Gesù: «Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio» (8,59), tema che ritorna poco dopo quando di nuovo vengono portate delle pietre per lapidarlo come bestemmiatore: «Ma egli sfuggì alle loro mani» (10,31-39).

La donna è una adultera. Un peccato non esclusivamente ma del tutto peculiarmente femminile, legato alla condizione di «moglie-di », di «proprietà di un uomo». Peccato sociale innanzitutto, rottura dell'ordine patriarcale a garanzia del quale ci si appella all'ordine divino. Adultero è infatti anche l'uomo se e in quanto si unisce alla moglie di un altro . Non era considerato adulterio il caso di un marito che avesse relazioni con donne non sposate ne fidanzate (vi era colpa nel violare una vergine non fidanzata in quanto si disonorava il padre di lei, al quale essa apparteneva ancora «in proprietà» ). L'adulterio, commesso dalla donna o da un altro uomo, è socialmente un peccato unidirezionale, un peccato contro il diritto di proprietà dell'uomo sulla donna. Perciò stesso in quel contesto (e molto oltre e molto dopo di esso) esso è visto, per così dire «per direttissima», come peccato contro Dio. Chi viola il diritto unilaterale dell'uomo maschio sulla donna viola il diritto divino. La donna era allora in questa condizione; anche il suo rapporto con Dio e il suo stesso peccare contro Dio passavano per la sua subordinazione all'uomo. Per lei, concretamente, in quella situazione religiosa e sociale, la Legge di Dio e la «legge del maschio» erano conglomerate in un blocco unico, benché la prima in non pochi casi e sensi avesse certamente attenuato e limitato più che certificato la seconda, che restava peraltro dominante, avendo anche la esclusiva della interpretazione ed applicazione di quella divina.

Gesù a cui è posta davanti quella donna è perciò stesso posto di fronte alla coalescenza tra l'originario comandamento divino di serbarsi reciprocamente fedeli nell'amore coniugale e una inculturazione patriarcale che comanda la fedeltà ad una donna che non ha scelta alcuna, in particolare riguardo alle nozze (neppure la miseranda «scelta» del successivo ripudio); tra l' originaria finalizzazione della Legge all'uomo ed una attuazione tradottasi in violenta subordinazione dell'uomo «al sabato». È posto davanti ad un soggetto, la donna, che in quella situazione riassumeva in se ogni forma di estraneità all'area della giustizia, del diritto, della forza; tutta la assegnazione all'area della costrizione, della subordinazione, della identificazione nel mero ruolo sessuale e insieme della sessualizzazione colpevolizzata, della empietà e lontananza da Dio. La messa a fuoco della specificità femminile è resa nitida dalla assenza dell'altro colpevole, dell'adultero, che non è neppure menzionato.

I comportamenti di Gesù sono pienamente significativi e rivelatori in una simile situazione.

Lettura antropologica

Anche se tutto è macchinato per prendere in trappola anche Gesù, la donna gli è comunque condotta a forza perché trovi in lui la sua condanna in nome di Dio.

Essa viene «fatta stare in piedi, nel mezzo» (8,3). In realtà essa è più che mai in catene ed in ginocchio e più che stare nel mezzo è «presa in mezzo». Presa in mezzo da chi l'ha colta e trascinata lì, dagli uomini che la attorniano, dalle maglie della loro interpretazione della Legge, forse prima anche dai due uomini della sua vicenda, il marito e l'amante; tra poco lo sarà dalle pietre. Per lei , la sua soggettività, il suo libero muoversi, la sua parola, i suoi sentimenti, la sua coscienza, la sua colpevolezza, il suo pentimento eventuale, non c'è nessuno spazio. Persino il suo trovarsi n, drammatico ed aperto ad un esito tragico, è solo un pretesto, una occasione per un' altra questione: quella appunto nei riguardi di Gesù.

Il movimento che vediamo svilupparsi, rivelatorio e salvifico, compie proprio questo prodigio. Alla fine, prodottosi il vuoto intorno, la donna è sola con Gesù, messa ora davvero «al centro», non più «posta» ma da se «stante» in piedi. Nella buona solitudine di questo vuoto essa è ora al centro della attenzione di Gesù, ed è in questo stesso movimento posta nel suo proprio centro, rimessa a contatto con il suo vero essere, con la sua sorgente divina. È sola con l'altro; quell'Altro radicale e altrettanto radicalmente interno, che offre e svela la relazione in cui e da cui ogni «se» è costituito. La donna qui è promossa e chiamata a specchiarsi al pari dell'uomo, faccia a faccia, in Dio. Sola con Dio, nel profondo, sorgivo spazio della propria identità e libertà. Come una nuova creazione, come una risurrezione. Essere una donna è, non meno e non diversamente da quanto accade per l'uomo, evento di libertà, di relazione col divino, garantite da uno spazio di inviolabile solitudine, fasciate dal vuoto della «occupazione» da parte del soggetto-uomo.

Dio dà, ridà alla donna il suo spazio, uno spazio in cui viene ristabilita la peculiare relazione tra lei e il divino. Al principio c'è questa relazione fontale che costituisce e non insidia la propria identità e libertà. La Legge viene ricollocata a questa fonte, riacquista qui il suo senso. Il «va' e non peccare più» non è l'aggiunta di un gravame, ma la dichiarazione di una liberazione; non un comando ma una assicurazione e una promessa; non un dovere ma il dono di una possibilità. «lo non ti condanno»: proprio per questo puoi ora non peccare più. E all'iniziale forzoso esser portata, corrisponde specularmente il liberante «va'».

Sullo sfondo remoto si sente una eco di quell'«alzati, amica mia» del Cantico dei cantici (2,10) che si conclude con un verbo, abitualmente tradotto con «e vieni!» ma che più propriamente si dovrebbe tradurre con «e va'!»: «va' verso te stessa» , come propone la traduzione di Andre Chouraqui.

La scrittura di Gesù

Il passaggio a questo punto d'arrivo comporta il farsi di un denso vuoto, operato dalla perentorietà delle parole di Gesù «chi è senza peccato...», contrapposte come la vera pietra della vera Legge, enfatizzate da quell'unicum enigmatico rappresentato da Gesù che scrive coI dito per terra, nella sabbia e che è un caso emblematico della irresolubilità, della «opacità per sovrabbondanza» del simbolo che «ci dà da pensare», secondo la felice formulazione di Paul Ricoeur.

Gesù scrive col dito nella sabbia: per mostrare la sua estraneità a tutto il groviglio di presupposti che stava dietro la domanda-trappola; per prendere distanza da tutta la istruzione del processo, prima ancora che dalla sanguinosa conclusione propostagli! Queste e altre plausibili ipotesi si possono fare. Ad esse non è illecito far seguire, secondo il modello di interpretazione rabbinica della Scrittura, la sempre possibile «altra spiegazione». Nel nostro caso, una spiegazione che tiene conto della peculiarità della situazione e della funzione in essa di tale gesto. «L'unica volta che Gesù ha scritto, ha scritto nella sabbia!», si sono rammaricati non pochi: «Che peccato che si sia trattato di una scrittura così labile, e che non si sia neppure serbata memoria dei segni tracciati».

Ma la labilità della scrittura nella sabbia non è qui un elemento accidentale. È essenziale, invece. Gesù infatti non sta scrivendo ma, più propriamente, cancellando . Sta cancellando una immagine di Dio, una immagine della Legge, una immagine della colpa, della punizione, della giustizia, dei rapporti tra essere umano e altro essere umano e anche dei rapporti specifici tra uomo e donna. Sta cancellando su quella sabbia che sembra rappresentare simbolicamente, insieme, la polverizzazione della pietra e delle pietre da lui operata nello stesso gesto e la inconsistenza agli occhi di Dio di quelli che per gli occhi umani appaiono criteri di giudizio indiscussi, indiscutibili e solidi come la roccia.

Da un lato abbiamo la Legge scolpita nella pietra, pietra che - interpretata e applicata dal cuore umano - sta per essere usata per schiacciare Gesù così come per lapidare la donna. Dall'altro lato abbiamo la vivente incarnazione della parola divina, che spirava nella Legge, nella persona di Gesù. La scrittura di essa nella pietra è ora superata dalla scrittura nella carne e nella vita. Essa entra in contatto con la terra e l'umanità con delicatezza, rispetto, tenerezza. Con non più violenza e perentorietà di un lieve scrivere nella sabbia; ma quel dito che scrive umilmente e lievemente per terra, al tempo stesso, con quel gesto leggero, cancella tutto ciò che sembrava così duro, così potente, così invincibile, così definitivo, agganciato per sicurezza ad un malcompreso divino. Lo cancella con la forza del «dito di Dio» tale da ridurre in polvere con un solo tocco quella che sembrava una schiacciante montagna.

Quando Gesù ha finito di scrivere nella sabbia ha finito di cancellare le sbarre socioreligiose che imprigionavano la donna e insieme imprigionavano Dio in una immagine di tradizione fatta da uomini (cf Mc 7,8-13).

Gesù è chino, non si presenta agli aspiranti lapidatori. Quando essi si allontanano, Gesù «si alza», entra in colloquio con la donna, le si manifesta. E con ciò decide di rivelarsi a tutti gli aspiranti lapidatori di tutti i tempi come «colui che si è rivelato nell'incontro con la donna adultera». La finale rivelazione che viene offerta da accogliere include questo rapporto di Dio con la donna; con la donna presa nella duplice tenaglia del peccato, di quel peccato in specie, e della condanna.

Epilogo

La conclusione assomiglia al risveglio da un incubo. «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?»: il forzato trovarsi posta dinanzi a Gesù come ad un ultimo, definitivo giustiziere, viene trasformato nella grazia dell' incontro col Dio vivente, che fa svanire tutti i fantasmi oppressivi della «religione del maschio». Fa svanire con ciò anche il rischio di restare imprigionata nella mera ribellione a tale «religione del maschio», nell' atteggiamento reattivo, del pan per focaccia, che può essere una potente spinta, tra l'altro, anche all'adulterio, in concomitanza col motivo, a quell' epoca addirittura tipico, dell'assenza dell' amore nel matrimonio.

Invece della reattività coatta, la rivoluzione della libertà: «Va', e non peccare più».

Lieto fine? Fino ad un certo punto. Certo buona notizia, ma non senza contraddizione. Dove sarà mai potuta andare quella donna sfuggita alla morte? Sarebbe aspettativa «miracolistica» pensare che essa abbia poi potuto essere riaccolta dal marito (o accolta nella casa dello sposo: se, come è verosimile, l'adulterio era avvenuto nel tempo tra la conclusione degli sponsali e l'inizio della coabitazione) che restava per allora la modalità d'essere accettata nella vita sociale e nella comunità religiosa.

No, la sua vita era segnata, cambiata per sempre. Quella non era stata una rianimazione, una rivivificazione, ma una vera risurrezione. Quella donna era stata restituita a se stessa oltre una morte. Non più alla stessa vita di prima, in nessun senso. E, come sempre, non solo per se stessa era stata salvata, non solo per se stessa viveva, non solo per lei era quella grazia. Dove sia andata coi suoi piedi di carne, come sia vissuta non ci è dato immaginare. Ma il «va' » rivoltole ha tutta la pregnanza di un ben diverso invito. Al di là dei successivi accadimenti della sua vita, da quel momento in poi la sua vicenda e figura stanno andando: a portare questo sconvolgente annuncio su Dio. Buon e salvifico annuncio destinato in primo luogo a quanti allora lasciarono cadere le pietre.

La comunità credente certamente l'ha accettata, anche se ha fatto fatica a lasciarla andare troppo liberamente in giro portando con se un simile evangelo, non sapeva bene dove collocarla, ha dovuto trovarle un posticino di risulta, come ci istruiscono le vicende testuali della pericope. E forse, pur consentendo a lei di circolare, non ha però fatto circolare dentro di sé tutta la portata di questa rivelazione di Dio. Ma essa non cessa di venirci incontro dal Vangelo secondo Giovanni , con la mitezza della potenza del «dito di Dio» leggero sulla sabbia, con la grazia spaurita dei sandali di quella donna, che su quella sabbia si muovono andando a portare tale annuncio di pace.

La condizione della donna

nel cristianesimo primitivo

di Clementina Mazzucco







La donna ha tratto vantaggio o svantaggio dall'avvento del cristianesimo? La risposta non è affatto scontata e ancora oggi suscita discussioni.

Per tentare un approccio critico e storico alla questione dobbiamo innanzitutto tener conto del contesto sociale e culturale in cui il cristianesimo nasce e si diffonde. Il mondo greco e romano è dominato da una pesante struttura patriarcale che esclude la donna dagli affari pubblici e dall'istruzione, la rinchiude in casa, la tiene sotto tutela, non le concede parità nel diritto e neanche nel matrimonio (ad esempio, di fronte all'adulterio e al divorzio). Fenomeni di emancipazione che si verificano in età ellenistica (per il mondo greco) e sotto l'impero (nel mondo romano) restano limitati ad alcune sfere sociali e non incidono sostanzialmente sulle istituzioni e sulla mentalità: la misoginia non l'hanno certo inventata i Padri della Chiesa, ma ha alle spalle una tradizione molto antica e costante.

L’atteggiamento di Gesù, quale ci viene trasmesso dai Vangeli, spicca, su questo sfondo, perché risulta in forte contrasto col costume e con la cultura del tempo, anche con la tradizione religiosa ebraica, che, in più, faceva gravare sulla donna tutta una serie di pregiudizi derivanti dalle norme di purità. Gesù mostra di riconoscere l'uguaglianza dei sessi nel matrimonio, non considera l'adulterio colpa infamante solo per la parte femminile, non relega la donna al ruolo domestico (come si evince dall'episodio di Marta e Maria), non esalta la donna, neppure sua madre, esclusivamente in quanto madre, non rifiuta di avere donne come interlocutrici e discepole e affida ad alcune (la Samaritana, Maria, ecc.) messaggi fondamentali: addirittura a un gruppo di loro dà il compito di testimoniare, per prime, la sua risurrezione.

Rispetto alla posizione di Gesù la tradizione cristiana successiva (ma già i discepoli stessi) mostra qualche difficoltà di comprensione e accettazione, col risultato che si assiste ad orientamenti contraddittori. Già in Paolo riconosciamo questa duplicità: accanto ad affermazioni molto nette a favore dell'uguaglianza tra maschio e femmina e della parità tra marito e moglie, troviamo nelle sue lettere (sue o attribuite a lui) precetti che suonano discriminanti e mortificanti per la donna (l'imposizione del velo e del silenzio in chiesa, l'invito alla sottomissione della moglie al marito, ecc.). E nella prima lettera di Pietro si riaffaccia il vieto pregiudizio della naturale debolezza femminile.

È un fatto che soprattutto le affermazioni paoline negative (insieme ai princìpi diffusi nell'ambiente) eserciteranno influenza sugli intellettuali e pastori cristiani: sarà sempre più frequentemente ripetuta l'opinione che alle donne non spetta di insegnare, specialmente insegnare a uomini, che le donne non possono battezzare né svolgere ministeri ecclesiastici negli ordini sacri, che la moglie deve obbedienza al marito, e così via. D'altra parte, però, i Padri non potranno neppure dimenticare che, sul piano etico e spirituale, ma non solo, i due sessi erano stati riconosciuti perfettamente uguali, in Cristo, e non mancheranno di ricordarlo. Il tema della parità tra marito e moglie nei confronti dell'obbligo della fedeltà coniugale, dell'adulterio, del ripudio, tema che rappresenta un'assoluta novità rispetto alle consuetudini della società pagana, diventa un luogo comune nei loro scritti e un obiettivo vigorosamente difeso contro le sempre rinascenti tendenze maschiliste dei mariti, anche dei mariti cristiani.

Non di rado l'atteggiamento critico di molti Padri è intensificato dalla polemica contro alcuni movimenti ereticali, nei quali le donne avevano invece ruoli rilevanti, arrivando a ricoprire incarichi missionari e a celebrare i sacramenti. Tuttavia si può ammettere che in generale il fenomeno di una consistente e vivace presenza femminile nelle comunità cristiane dei primi secoli è molto più ampio di quanto le fonti stesse, tutte o quasi tutte «di parte maschile», mostrino esplicitamente. E si può ipotizzare che le reazioni sempre più restrittive da parte della gerarchia ecclesiastica fossero provocate da quella che appariva una sorta di «invadenza» femminile. Del resto, non erano solo le autorità maschili cristiane a sentirsene preoccupate: anche gli avversari pagani ne avevano una forte impressione e, per denigrare la fede cristiana, ne parlavano sarcasticamente come di una religione «di donnette». Donnette che non dovevano svolgere solo compiti subordinati e passivi se Porfirio, un filosofo pagano della seconda metà del III secolo, ironizzava sul «dominio» che matrone e donne esercitavano di fatto nella Chiesa influendo perfino sulle nomine sacerdotali.

In effetti, gli indizi, spesso indiretti e secondari, che si possono raccogliere dalla documentazione pervenuta, mostrano che il cristianesimo, soprattutto quello dei primi tre secoli, ha offerto alle donne una grande occasione per prendere coscienza di se come persone pari in dignità agli uomini, per ricoprire ruoli nuovi e impegnativi e per modificare profondamente anche i ruoli tradizionali.

Già le comunità paoline conoscono donne profetesse, donne diacono, donne apostole, anche se per lo più non è facile capire quali fossero le funzioni attribuite alle varie cariche. E, se rimane sporadica la menzione di una donna «apostolo« (ma sono numerose le figure femminili che «collaborano» in modo significativo alla missione di apostoli, come chiaramente fa capire Paolo), di profetesse si ha notizia anche in seguito e diaconesse erano istituite sicuramente nel III e IV secolo, almeno in Oriente. Nelle lettere più tarde del Nuovo Testamento e in scritti patristici successivi si segnala la costituzione di un ordine di vedove con prerogative e mansioni di grande rilievo nella comunità, tanto da essere messe talora sullo stesso piano dei vescovi. Quasi subito anche la scelta della verginità divenne un elemento di distinzione e di prestigio, che poi crebbe sempre di più arrivando a prevalere sul ruolo delle vedove, a partire soprattutto dal IV secolo. E si vede bene che sono soprattutto le donne a fare questa scelta, una scelta che conferiva autorevolezza, libertà e spesso una vera e propria forma di emancipazione (autonomia decisionale, disponibilità finanziarie, possibilità di dedicarsi agli studi, ad attività sociali, ecc.). La stessa cosa avveniva per le vedove, talora oggetto di brusche reprimende e imposizioni per i presunti abusi della loro condizione. Sia nel caso della vedovanza sia della verginità, così come si configurano nel mondo cristiano, si tratta di istituzioni che erano sconosciute alle società pagana ed ebraica.

Ma è soprattutto la letteratura martirologica che mostra la grande rivoluzione in senso egualitario che doveva essersi realizzata nelle prime comunità cristiane: in questi documenti, che si presentano come prodotti delle comunità stesse, la presenza femminile tra i cristiani che vengono arrestati, confessano la loro fede, subiscono torture e vengono giustiziati, è un fenomeno comune che suscita stupore solo da parte degli spettatori e torturatori pagani. Talora, anzi, alcune figure di donne svolgono ruoli da protagoniste, ne si tratta solo di persone di condizione sociale elevata: a Cartagine, accanto a Perpetua, giovane madre di buona famiglia, c'è l'umile Felicita; a Lione, ad accentrare su di se tutti gli sguardi è la schiava Blandina. E non sembra possa essere un caso che, proprio nel contesto del cristianesimo primitivo e dell'esperienza del martirio sia nato uno dei carissimi documenti scritti da mano di donna che l'antichità ci abbia trasmesso: è il diario redatto da Perpetua in carcere poco dopo il 200 e poi fatto inserire dalla comunità all'interno del racconto del suo martirio, destinato ad essere diffuso in tutta la Chiesa. Ancora lei IV e nel V secolo, in Africa, veniva letto e commentato nelle assemblee liturgiche.

Ma anche all'interno della famiglia l'adesione delle donne alla fede cristiana non è senza conseguenze rinnovatrici. Fin dagli inizi (già con Paolo) si ha il problema dei matrimoni misti perché sono specialmente, e in misura maggiore, le mogli a convertirsi; anche in seguito sono spesso le donne le più mature e impegnate sul piano morale e religioso e quelle che esercitano la più forte influenza sull'educazione religiosa dei figli. Questo fatto produce profonde incrinature nelle inveterate teorie di una obbligatoria e naturale sottomissione della moglie al marito, di un ruolo femminile concentrato nella generazione di figli e nell'amministrazione della casa. Pur restando prevalenti i compiti domestici e familiari, è altamente valutato il ruolo di educatrice, nei confronti dei figli, e di collaboratrice, nei confronti del marito, anche sul piano morale e spirituale, e in più le viene aperto tutto un ampio settore di attività caritativa ed assistenziale al di fuori della famiglia. Per la donna cristiana, anche per la donna sposata, non può più essere il massimo elogio quello che fu inciso su un epitafio per una matrona romana:

«Domi mansit, lanam fecit, rimase a casa, lavorò la lana ».