Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Saliti dunque tutti questi gradini dell'umiltà, il monaco giungerà presto a quell'amore di Dio, che quando è perfetto, scaccia il timore.

Nei quarant'anni trascorsi dalla promulgazione della Sacrosanctum concilium gli autori non hanno mancato di rilevare la dipendenza della concezione di liturgia dall'enciclica Mediator Dei di Pio XII, che sedici anni prima l'aveva preparata, e le novità che da essa la distinguono (1).

Venerdì, 30 Settembre 2005 01:56

Il cantico di Maria (Elena Bosetti)

Il cantico di Maria
di Elena Bosetti

L'evangelista Luca inserisce il canto del Magnificat nel racconto della visita di Maria a Elisabetta, in risposta alle parole di lode che la cugina le rivolge.

Elisabetta scorge nella vergine di Nazaret ciò che lo Spirito, e non il semplice sguardo umano, le permette di vedere: una maternità che non ha precedenti. La riconosce madre di quel signore che anche lei accoglie nella fede: il «mio» Signore. L’arca della nuova alleanza è entrata nella sua casa e lei, come già David, si proclama indegna di tale visita:

Come potrà  A che debbo che
l'arca del Signore  la madre del mio Signore
venire da me?  venga a me?
(2 Sam 6,9) (Lc 1,43)

E come David, anche Elisabetta loda e benedice: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» (Lc 1,42). Inno di esultanza per la madre del Messia, gioia escatologica sperimentata anzitutto dal precursore: «Appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1,44).

La grandezza di Maria, proclama estatica la cugina, sta proprio nella sua fede, nella sua piena obbedienza al volere del Signore: «Beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). Così la madre del precursore è la prima a proclamare beata (makária) la madre del Messia, la prima a pronunciare una beatitudine destinata ad essere accolta e rilanciata da «tutte le generazioni» (Lc 1,48).

Magnificat

Maria fa eco alle parole della cugina, tuttavia non si rivolge a lei ma direttamente al Signore. E le sue parole, più ancora di quelle proferite da Elisabetta, hanno struttura e forma poetica.

Un testo poetico interpella non solo per quello che dice, ma per «come» lo dice. È importante sintonizzare l'animo e mettersi in ascolto profondo, e ciò non è facile come potrebbe sembrare. Le difficoltà aumentano se la poesia viene da lontano, come il Magnificat. Un cantico nato duemila anni fa è lontano anche per linguaggio e forma letteraria. Ragione in più per ascoltare con attenzione, come fosse la prima volta, cercando di coglierne le risonanze, il gioco dei contrasti, la forza delle immagini, il ritmo e la musicalità, così da godere dell'insieme poetico. Può essere di aiuto la seguente disposizione del testo, tradotto il più possibile letteralmente, senza tralasciare, anzi valorizzando, tutte le particelle di collegamento:

46 Magnifica l'anima mia il Signore
47 ed ha esultato il mio spirito in Dio mio salvatore
48 perché ha guardato la bassezza della sua serva.
Ecco perciò da ora mi diranno beata tutte le generazioni.
49 perché ha fatto per me grandi cose il Potente e Santo il nome suo,
50 e la sua misericordia per generazione e generazione su quelli che lo temono.
51 Ha fatto prodezze con il suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili;
53 gli affamati ha ricolmato di beni e i ricchi ha rimandato vuoti.
54 Ha soccorso Israele suo servo ricordandosi della misericordia
55 come parlò ai padri nostri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre.

Una doppia direttrice

Il cantico percorso da una doppia direttrice, una ascendente, l'altra orizzontale.

Il movimento ascendente ritrae Maria in rapporto al suo Signore (le forme verbali sono al singolare, vv. 46-50).

Il movimento orizzontale la colloca dentro un popolo di umili e credenti (le forme verbali sono al plurale, vv. 51-55).

Si potrebbe parlare di due strofe, ma così collegate che la seconda è piuttosto un prolungamento della prima. Solo nella prima strofa troviamo propriamente le «ragioni» del cantico, espresse da due «perché» (hóti: vv. 48 e 49).

Non si danno altri «perché» nel seguito del cantico. Sotto il profilo grammaticale non c'è alcuna particella di collegamento nel passaggio dalla prima alla seconda strofa (v. 51).

Come interpretare questo fatto? Indubbiamente chi si esprime in questo modo vede continuità tra l' evento posto in primo piano (la maternità di Maria) e il suo sfondo storico e comunitario (il soccorso a Israele). Maria legge l'opera di Dio in lei alla luce delle opere antiche, ma anche, viceversa, vede il futuro del popolo mutuato dall'opera che il Signore ha fatto in lei. Quest'opera costituisce il compimento delle promesse fatte ai padri. Non è quindi un' opera qualsiasi, che si inserisce nella scia delle tante, ma il loro compimento e culmine.

La serva e il suo Signore

Il cantico lascia totalmente nell'ombra Elisabetta, la casa, il marito, le vicine, ed ogni altro particolare. Al centro della scena c' è solo lei, la madre e serva del Signore, tutta protesa verso di Lui. Il suo canto sale verso il Potente che si è degnato di guardare alla sua serva rinnovando per lei le meraviglie dell'esodo.

Un movimento ascendente apre dunque il Magificat, un salire dell’anima e dello spirito. La psyché, l’animo di Maria, «fa grande» (magnifica) l’unico grande, il Signore. E il suo spirito pneuma trasale di gioia. Perché tanto giubilo? La ragione sta nel previo movimento discendenteda parte del Signore: egli «ha guardato giù» all'umiltà (letteralmente «alla bassezza») della sua serva. Sale il canto di Maria perché lo sguardo del Signore è disceso e l'ha innalzata. La vergine di Nazaret è centro di attenzione da parte di Dio, che ha guardato proprio a lei, e da parte dell'umanità, giacche afferma: «tutte le generazioni mi diranno beata». Ma il suo «stare al centro» risulta totalmente decentrato. Maria è lì per proclamare unicamente le meraviglia del Signore.

La serva tra i poveri del Signore

Ecco che la scena si allarga. Mentre le generazioni umane si levano a proclamarla beata, Maria sembra quasi scomparire all'interno di una moltitudine che si muove nella stessa sua direzione. Sono i timorati del Signore, sui quali si dispiega, come su di lei, la misericordia dell'Onnipotente. Schiere di piccoli e di poveri, un popolo di umili.

La scena si popola ulteriormente. Sul palcoscenico della storia, da un lato stanno i superbi, i potenti, i ricchi. Sul lato opposto stanno gli umili, gli affamati e indigenti, ossia quanti temono il solo Potente e si fidano di lui. Le grandi opere, compiute dal Signore a favore della sua serva, innalzata dalla tapeínōsis («bassezza», nel senso di povertà e umiltà) si ripetono con forza impressionante vantaggio di tutti i tapeinoí, i poveri e gli umili della terra. Questi sono la vera discendenza di Abramo. Il canto di Maria è anche il loro canto. Si loda e si danza insieme, come sulle rive del Mar Rosso.

Il paradigma dell'esodo

In effetti il Magnificat riecheggia il canto di un'altra Maria, la sorella di Mosè, la profetessa che danza e inneggia al Dio che «ha fatto» meraviglie, capovolgendo le parti e le situazioni. Al riguardo non può sfuggire la rilevanza del dato lessicale. Il verbo epoíesen, «ha fatto», compare due volte nel Magnificat: la prima in riferimento a Maria, «ha fatto per me grandi cose» (v. 49), la seconda in posizione enfatica all'inizio del v. 50 dove introduce il settenario di azioni a favore di Israele:

- «ha fatto prodezze

- ha disperso i superbi

- ha deposto i potenti

- ha esaltato gli umili

- ha colmato di beni gli affamati

- ha rimandato vuoti i ricchi

- ha soccorso Israele».

Sette azioni puntuali, indicative di un' azione piena e totalizzante. L'espressione iniziale, «ha fatto prodezze con il suo braccio», è chiaramente evocatrice dell'esodo, quando Jahweh manifestò la sua potenza contro l'arrogante prepotenza del Faraone. Inoltre, l'ultimo verbo della serie menziona Israele, oggetto di affettuosa misericordia da parte di Dio e da lui soccorso per fedeltà ad Abramo e alla promessa. L'orizzonte è quindi tracciato con nitidezza. Sulle rive del Mar Rosso l'unica Maria di cui parli l'AT inneggia alla vittoria del Signore:

«Cantate al Signore perche ha mirabilmente trionfato:
ha gettato in mare cavallo e cavaliere» 15,21).

Sul crinale del Nuovo Testamento le fa eco Maria di Nazaret celebrante gli eventi di cui è fatta protagonista:

«Magnifica il Signore la mia vita...
perché ha fatto per me cose grandi.
Ha fatto prodezze con il suo braccio,
ha disperso i superbi...
ha deposto i potenti e ha innalzato gli umili...».

Chi sono questi «potenti e ricchi» contro cui si dispiega il braccio, ossia la forza del Signore? Non sembrano presi di mira i potenti perché costituiti in autorità, o i ricchi perché ricchi. Piuttosto «potenti e ricchi» sono visti come concretizzazioni dei «superbi» che nel testo vengono menzionati al primo posto. Costoro pongono se stessi al posto di Dio, pretendono governare il mondo secondo i propri giudizi, senza alcun timore del Santo. Fanno e disfanno a piacimento, in base al proprio tornaconto. :Non si preoccupano dei miseri, della vedova e dell’orfano. Non si preoccupano di stabilire la giustizia, ma di rendere stabile il loro trono. Sono i faraoni. Pensano di potere tutto, anche ai comprare il cielo con la ricchezza e la potenza. Ma non è così. Illudono se stessi e la loro sorte è già segnata, come quella del ricco egoista nella parabola raccontata da Gesù. Il povero Lazzaro siede accanto ad Abramo sul trono di gloria mentre l' epulone, di cui neppure si dice il nome perché non merita memoria, precipita in mezzo ai tormenti (cf Lc 16,19-31).Dio è sempre dalla parte dell’oppresso contro l’oppressore, dalla parte di chi lo teme, del povero e dell’infelice contro i gaudenti chiusi nel proprio egoismo.

Il braccio potente del Signore farà dunque uscire dalla miseria i poveri della terra, come un tempo fece uscire Israele dall'Egitto. La sua opera di liberazione supererà l'ostacolo frapposto dai «potenti» di questo mondo che spesso siedono su un trono di violenza e di oppressione come l'antico Faraone. Così il cantico di Maria, come gli antichi inni biblici che esso evoca, è una potente esplosione di speranza messianica.

La luce della risurrezione

Quando Maria canta: «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili», sul trono degli ebrei c'e un re usurpatore che incute paura. Erode darà prova e a sua violenza ordinando la strage dei bimbi di Betlemme e dintorni (Mt 2,16), in linea di continuità con quanto fece il Faraone verso i primogeniti degli ebrei in Egitto. Cosa è mai, dunque, quel cantare: «i potenti liha deposti dai troni»? Illusione poetica? Ricordo estasiante degli eventi passati ? Vivo desiderio che sia così, che Dio faccia finalmente giustizia ai deboli, alle donne e ai poveri della terra? Come tradurre in definitiva questi verbi all'aoristo: con valore di passato o di futuro?

Per rispondere in modo soddisfacente è necessario fare attenzione all'orizzonte complessivo in cui si colloca il Magnificat. Da un lato, il paradigma dell'esodo; dall’altro lato, un evento che ha realizzato lo schema dell’esodo in maniera del tutto sorprendente e radicale, la risurrezione di Gesù. Intessuto su questi eventi decisivi di salvezza, il Magnificat si dischiude al non-ancora della speranza fino a proferire il giudizio critico sulla storia presente e futura.

Lette alla luce della risurrezione le parole del cantico suonano già compiute. Infatti, quando tutto sembrava per sempre finito, la morte si capovolse in vita e l’umile figlio di Maria fu innalzato nella gloria. I potenti restarono attoniti e increduli; tentarono di arginare l'evento, ma inutilmente (cf Mt 28,11-15).

Gesù è il povero innalzato dal suo volontario abbassamento. E così Maria. Non vi è forse un preludio di risurrezione nel suo grembo? Se già Elisabetta, la sterile che partorisce nella sua vecchiaia, evoca il prodigioso aprirsi del grembo sepolcrale, quanto più la vergine-madre che sperimenta in se una fecondità totalmente inedita! L'esaltazione di Gesù e dell'umile sua madre è preludio di gloria per tutti gli umili della terra, per tutti i poveri e i credenti nel Signore.

La storia della salvezza è coerente. Sappiamo come andrà a finire perché Dio ha reso noti i suoi gusti, i suoi pensieri. In tal senso il Magnificat può spostarsi liberamente sull’asse temporale e cantare il futuro con le azioni del passato. I credenti (nella fede) come andrà a finire e perciò inneggiano «ha deposto i potenti dai troni», anche se sull'asse storico-temporale non è ancora scoccata l'ora della detronizzazione.

La Chiesa canta il Magnificat nella liturgia vespertina, mentre si va incontro al tramonto e alla notte. Come a dire che ha il coraggio di affrontare l'oscurità e la notte con il cantico di Maria. Quel cantico garantisce infatti che viene la luce, che la misericordia del Signore è per sempre.

NOTA BIBLIOGRAFICA

La bibliografia sul Magnificat è molto vasta. Segnaliamo alcuni studi specifici che accostano il testo privilegiando l'analisi della composizione:

R. C. TANNEHILL, The Magnificat as Poem, in Journal of Biblical Literature 96 (1974), 263-275; J. DUPONT, Le Magnificat comme discours surDieu, in NRT 112 (1980),321-343; D. MINGUEZ, Poética generativa del Magnificat, in Biblica 61 (1980), 55-77 (metodo strutturale); A. VALENTINI, Il Magnificat. Genere letterario. Struttura. Esegesi (Supplementi alla Rivista Biblica 16), Bologna 1987. Sotto il profilo esegetico-spirituale si possono vedere con utilità i commenti di E. BIANCHi in: Magnificat, Benedictus, Nunc Dimittis, Edizioni Qiqajon, Magnano 1989, pp. 9-55 e di C. GHIDELLI, Magnificat. Il cantico di Maria, la donna che ha creduto, Edizioni Paoline, Milano 1990.

Abramo e Isacco:
modelli di amore e libertà
di Claudio Stercal




Nel Trattato dell'amore di Dio, pubblicato nel 1616, san Francesco di Sales (1567-1622) si propone di «ripresentare con semplicità e naturalezza, senza arte e ancor più senza finzioni, la storia della nascita, del progresso, della decadenza, delle operazioni, proprietà, vantaggi ed eccellenze dell'amore divino» (S. Francesco di Sales, Trattato dell'amore di Dio, prefazione).

A conclusione dell'opera offre Alcuni suggerimenti per il progresso dell'anima nel santo amore e tra questi una Esortazione al sacrificio del nostro libero arbitrio a Dio. Abramo «viva immagine dell'amore più forte e leale che si possa immaginare in qualsiasi creatura» (Ivi, 1, XII, c. X), è proposto tra i modelli più significativi di quel «santo amore». Il riferimento è, in particolare, ai suoi due grandi sacrifici: quello dei «più forti affetti naturali» (cf Gn 12,1-5) e la disponibilità al sacrificio del figlio Isacco (cf Gn 22).

Non senza l'intenzione di sorprendere il lettore, san Francesco di Sales mostra la sua ammirazione non solo per la «longanimità» di Abramo, ma anche e, forse, soprattutto, per la «magnanimità» del figlio Isacco: «È veramente una meraviglia, ma non così grande, vedere Abramo, già vecchio e molto sperimentato nella scienza di amare Dio, e fortificato dalla recente visione e parola divina, fare quest'ultimo sforzo di lealtà e di dilezione verso un Maestro, di cui aveva così spesso sentito e assaporato la soavità e la provvidenza; ma vedere Isacco, nella primavera della sua età, ancora novizio e principiante nell'arte di amare il suo Dio, offrirsi, sulla sola parola del padre, al coltello e al fuoco per diventare olocausto di obbedienza alla divina volontà, è cosa che sorpassa ogni ammirazione (Ivi).

Gli esempi di Abramo e Isacco sono, quindi, proposti per muovere non solo gli anziani, ma anche i giovani a donare a Dio non solo ciò che hanno, ma anche ciò che sono: «Signore Gesù, quando sarà mai che, dopo avervi sacrificato tutto quello che abbiamo, vi immoleremo tutto quello che siamo?», E con il linguaggio «sacrificale» e «immolazionista» - lontano dalla nostra sensibilità, ma ricco per i suoi riferimenti al sacrificio della croce e all'eucaristia - san Francesco precisa che per donare ciò che siamo dobbiamo donare la nostra libertà: «Quando vi offriremo in olocausto il nostro libero arbitrio, unico figlio del nostro spirito?». E proprio il dono dell'«unico figlio del nostro spirito» - bella espressione per indicare la nostra libertà -, lasciato «ardere» dall'amore per Gesù, ci consente di partecipare al suo sacrificio: «Quando lo legheremo [= il libero arbitrio] e stenderemo sul rogo della vostra Croce, delle vostre spine, della vostra lancia, affinché, come un agnellino, sia vittima gradita al vostro divino beneplacito, per morire e ardere a causa del fuoco e del col.tello del vostro santo amore?» (Ivi).

La simbologia «sacrificale» non deve impedire la lettura e la comprensione di questi testi. Il richiamo al sacrificio, infatti, non vuole proporre l'imitazione degli aspetti cruenti del dono di Isacco e di Gesù, ma vuole aiutare a coglierne e rinnovarne l'intenzione: un dono di amore, libero e totale.

In questa prospettiva si può comprendere anche il richiamo, certamente paradossale, ma significativo, alla schiavitù e alla morte: «II nostro libero arbitrio non è mai così libero come quando è schiavo della volontà di Dio, ne è mai così servo come quando serve alla nostra volontà: non ha mai tanta vita come quando muore a se stesso, ne mai tanta morte come quando vive per sé». L’obiettivo da perseguire non è, evidentemente, la ricerca della schiavitù e della morte, ma l'abbandono alla volontà e all'amore di Dio; solo questo renderà veramente vivi, liberi e felici, «più felici dei re»: «Rendiamoci schiavi della dilezione, i cui servi sono più felici dei re. E se mai la nostra anima volesse usare la propria libertà contro le nostre risoluzioni di servire Dio in eterno e senza riserve, allora, per amore di Dio, sacrifichiamo questo libero arbitrio e facciamolo morire a se, affinché viva in Dio» (Ivi).

Solo questa «schiavitù di amore» ci consentirà di «inabissare» il nostro libero arbitrio nel godimento della bontà di Dio e di superare, nella vita eterna, ogni tensione tra amore e libertà: la libertà sarà convertita in amore e l'amore in libertà, dolce e infinita. «Chi gli concederà [= al libero arbitrio] la libertà in questo mondo, l'avrà servo e schiavo nell'altro, e chi lo asservirà alla Croce in questo mondo, l'avrà libero nell'altro, dove, inabissato nel godimento della divina Bontà, la sua libertà si troverà convertita in amore e l'amore in libertà, ma libertà di dolcezza infinita; senza sforzo, senza fatica e senza alcuna ripugnanza, ameremo invariabilmente per sempre il Creatore e Salvatore delle nostre anime» (Ivi).


Martedì, 27 Settembre 2005 23:01

La prima eresia (Lorenzo Dattrino)

La prima eresia
di Lorenzo Dattrino

 

Il confronto, il dialogo, l’apertura ai fenomeni culturali è stata una coraggiosa iniziativa di uomini come Giustino. Ora, all’interno stesso del cristianesimo, sorgono varie correnti di pensiero (gnosticismo, marcionismo, montanismo) che minacciano la genuinità e l’unità della fede. Di fronte a queste correnti eterodosse ecco le reazioni dei pastori i quali condannanol’azione positiva: illuminare i fedeli intorno ai capisaldi della vera fede trasmessa dalla Tradizione. Tra questi teologi illuminati ricordiamo Ireneo, vescovo di Lione, il quale compone una trattazione completa (anche se non organica) della dottrina cristiana, una sorta di “catechismo“ per istruire coloro che si preparavano a ricevere i sacramenti dell’iniziazione cristiana: Adversus Haereses (Contro le eresie). La fragile “barca di Pietro“ rischia di cozzare contro quell’iceberg, lo gnosticismo, e di affondare. Ma non fu così! quelli che seminano zizzania. Però le condanne non bastano. Determinante risulta soprattutto

Per capire qualche cosa del complesso fenomeno culturale della gnosi bisogna saper distinguere fra “gnosticismo“ e “gnosi“. Col primo termine s’intende ordinariamente l’eresia che nei secoli II e III tentò di sostituire alla semplice fede una conoscenza del divino più elevata e perfetta, accessibile soltanto a pochi. Ne risultò un complesso di sistemi eterodossi professanti un “dualismo radicale“ fra il mondo degli spiriti e il mondo dei corpi. Gli gnostici fecero della conoscenza la condizione ineliminabile della salvezza. Gnosi, infatti, è la conoscenza dei misteri divini riservata ad una élite.

Ci fu una gnosi eterodossa e una gnosi cristiana.

La prima, la gnosi dello gnosticismo, era quella che implicava l’idea dell’identità del conoscente (lo gnostico ), del patrimonio conosciuto e del mezzo con cui si conosce ( la gnosi cioè come facoltà divina implicita, che deve essere risvegliata e attuata ). La gnosi cristiana invece comporta la conoscenza di Dio e dei suoi misteri fondata sulla fede e sulla tradizione della Chiesa, come pure dell’interpretazione spirituale della Scrittura, con la tendenza a distinguersi dalla interpretazione letterale della Scrittura, propria del semplice fedele. La gnosi cristiana avrà il suo massimo sviluppo e la sua sistemazione nel III secolo, soprattutto con Clemente di Alessandria e Origene.

Alla base della problematica gnostica, come postulato iniziale di tutto il sistema, c’è il dualismo, l’opposizione tra Dio e la materia, tra il divino e l’antidivino. Il silenzio dei testi gnostici riguardo alla Chiesa è quasi totale. Il loro ineresse è rivolto altrove. Preoccupati del Dio ignoto, e non di Colui che ne ha rivelato la volontà, gli gnostici preferiscono l’antropologia all’ecclesiologia. È questa anche una ragione del loro abbandono dell’Antico Testamento e della loro allegorizzazione del Nuovo. Anche se i diversi sistemi gnostici non costituiscono un blocco e un’entità indivisibile, spesso fonti o scuole, battezzate con nomi diversi, rappresentano una medesima ideologia.

Se lo gnosticismo ebbe il suo focolaio iniziale in qualche remota provincia dell’Asia Minore, ben presto si estese nei maggiori centri dell’impero, ad Alessandria in particolare, e poi a Roma. Il primo di questi maestri fu Basilide, che insegnò ad Alessandria, e visse al tempo di Adriano e di Antonino Pio, tra il 120 e il 160. Il problema che sta alla base delle sue ricerche è l’origine del male: “Donde viene il male e come è nato?“

Tutte le speculazione di Basilide furono riprese e sviluppate da colui che fu ritenuto il teologo più influente del III secolo: Valentino. Venuto a Roma, vi trascorse una trentina d’anni (136-165). Egli prometteva una conoscenza superiore (gnosi), cioè la comprensione di ciò che la chiesa proponeva semplicemente come oggetto di fede. Era una promessa assai gradita agli stessi intellettuali cristiani di formazione ellenica, i quali avevano imparato da Platone che la fede è una forma imperfetta di conoscenza. Questa gnosi – per rimanere in ambiente cristiano – si presentava come interpretazione della Scrittura accettata dalle chiese. Ma tale interpretazione, accessibile peraltro solo a pochi, risultava in netto contrasto con ciò che si insegnava nella predicazione o si professava al momento della iniziazione. Eppure, a chi faceva rilevare questo contrasto, Valentino e i suoi seguaci rispondevano che potevano raggiungere quella gnosi, leggendo la Scrittura in base a un principio interpretativo che Gesù Cristo aveva rivelato solo ad alcuni, con l’impegno di trasmetterlo ad altri segretamente. Si appellavano cioè ad una tradizione segreta, che consentiva loro di discernere la verità superiore sotto il velo del linguaggio figurativo dei testi sacri, se non addirittura di decidere quali Scritture, tra quelle che circolavano nelle chiese, meritassero fiducia, e quali no!

Nasceva così la divisione netta tra semplici credenti, che comprendevano la Bibbia secondo la tradizione pubblica, e gnostici, i quali la intendevano alla luce della tradizione segreta: due categorie di fedeli, nettamente separate. Dalla Bibbia così interpretata, essi ricavavano un sistema di pensiero caratterizzato da un netto dualismo. Stabilivano una precisa separazione fra il mondo superiore e celeste, e il mondo inferiore e terrestre: il primo ha come origine sua il Dio supremo e incomprensibile, da cui procedono, scandendo di grado in grado via via che si allontanano da lui, alcune entità (gli eoni). Essi costituiscono il mondo della perfezione, il Pleroma.

Il termine designava la sfera cosmica mediatrice tra l’assoluta realtà del principio ideale e divino, e l’assoluta irrealtà o vuotezza della materia. Il Pleroma era costituito insomma dal complesso degli Eoni. Per gli gnostici questo mondo non è buono e, come tale, non è in grado di accogliere la salvezza portata da Cristo. In particolare, tutta la realtà materiale non ha valore, né Cristo l’ha fatta propria (l’Incarnazione è pura apparenza!); né ha alcun valore la carne umana e tutto l’agire che da essa dipende. In tal modo si svuota il valore della libertà umana e dell’agire morale.

Ed ora solo una parola, sia pur brevissima, sulla scoperta (1945) della biblioteca di scritti in lingua copta, rinvenuta nei pressi di Nag Hammadi, in Egitto. Essa comprende dodici codici per un totale di cinquantadue trattati . Molte ipotesi sono state avanzate sull’origine e sulla natura della biblioteca. La collezione può essere stata la biblioteca di un gruppo o di una setta di gnostici o anche di un solo gnostico; o può aver costituito la documentazione raccolta da un polemista o da un eresiologo a scopo di confutazione; o, più semplicemente può rappresentare ciò che resta di una biblioteca più ampia. Grazie a questa scoperta possiamo vedere che le notizie relative alla gnosi trasmesseci da Ireneo non sono notizie ad usum delfini, ma sono del tutto obiettive. Il vescovo di Lione espone, (toglie il velo) le tesi gnostiche per confutarle alla luce della realtà storica dell’Incarnazione del Logos.

La riflessione patristica sulla gnosi è per noi oggi un patrimonio non trascurabile.

Nel contesto del primo grande arco del suo sviluppo cristiano – dal IV all’VIII secolo – la musica avvolge metodicamente l’intera superficie della parola celebrata.

Giovedì, 22 Settembre 2005 01:38

Vuoi l’acqua? Te la vendo (Marcelo Barros)

Vuoi l’acqua? Te la vendo

di Marcelo Barros



Dal 9 al 12 di questo mese di novembre (2004) si terrà a Porto Alegre, Brasile, un Forum internazionale sull’acqua, promosso da diversi organismi brasiliani e internazionali. L’obiettivo è quello di richiamare la società civile a una più matura responsabilità sul tema dell'acqua, indispensabile per la vita ma fortemente minacciata. Rappresentanti di ben 33 paesi hanno confermato la loro partecipazione. I vari movimenti che animeranno l'incontro lo vedono come parte integrante del processo del Forum sociale mondiale e come un ulteriore passo verso la creazione di un nuovo mondo possibile.

Quello dell'acqua è un problema grave e riguarda l'intera umanità. Più di un miliardo di persone vivono in una situazione considerata di "stress idrico", ovvero con meno di due litri di acqua potabile al giorno. Studi recenti rivelano che, negli ultimi 50 anni, le riserve di acqua dolce sono diminuite del 62%!

Secondo l'Onu, in 36 differenti punti del pianeta esistono conflitti in cui il principale motivo di tensione è dato proprio dall'approvvigionamento di acqua dolce. D'altra parte, nella guerra quotidiana mossa dal sistema economico neoliberale contro i poveri, la soluzione indicata è stata quella di dire che l'acqua "costa". Non la si chiama più, come una volta, semplicemente acqua: oggi si dice"risorse idriche"... e queste risorse - come tutte le altre - vanno sfruttate in modo moderno, secondo i dettami del liberismo imperante: vanno cioè privatizzate. Pensate: si vuole privatizzare un bene che la natura ci dona gratuitamente.

Già in questi giorni di vigilia, non è difficile prevedere che ci saranno tensioni durante il forum. Gli uni difendono a spada tratta la mercificazione dell'acqua. Gli altri ribattono: «L'acqua è un diritto universale e basilare di ogni essere vivente. La sua gratuità va garantita da tutti i governi del mondo».

Il diritto all'acqua non è soltanto un diritto "economico". È anche un diritto culturale e spirituale. Conosco una piccola comunità afro-brasiliana che si è rifiutata di costruire il proprio tempio di Candomblé nella periferia di una città e per una sola ragione: là dove tutti i fedeli hanno casa o baracca non c’è acqua, mentre la comunità ha bisogno di riunirsi attorno a una "fonte di Oxum".

Ho letto da qualche parte che, di recente, un gruppo dell'etnia dogon (Mali) era stato invitato a esibirsi in danze rituali in una città d'Italia. Parlando con il responsabile del gruppo etnico, uno degli organizzatori dell'evento si meravigliò che tra i danzatori non ci fosse una sola donna. Sorprendente fu la risposta del danzatore capo: «Le donne non hanno potuto venire perché sono il nostro acquedotto. Senza di loro, l'acqua non arriverebbe ai nostri villaggi».

Per molte culture africane e afro-americane l'acqua è il seme con cui Dio rende fertile la terra e la feconda. Altre descrivono la pioggia come "le lunghe dita di Dio». Insomma, l'acqua è una sorta di "sperma divino" e, come tale, ha la forza di "divinizzare" chiunque entra in comunione con essa.

In ogni tempo e a tutte le latitudini, l'acqua ha sempre accompagnato la vita degli esseri umani. È stata anche l'elemento più utilizzato negli antichi riti. È stato ed è uno strumento essenziale di igiene e salute. Ispira artisti e attrae poeti. Pertanto, difendere l'acqua come un diritto di ogni essere vivente e pretendere che non venga "venduta" è un modo di accogliere e fare propria la saggezza indigena e nera, come pure di vivere una spiritualità ecologica.

(da Nigrizia, novembre 2004, pag. 77)

ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)

(Passi scelti)

LA PREGHIERA


(I - 229b 230a)

Rabbi Yosè prese a dire: E scritto: “Servite il Signore con timore e gioite con tremore” (Sal. II, 1); ma è anche scritto: “Servite il Signore con gioia, presentatevi dinanzi a lui con giubilo” (Sal. C, 2). Considera dunque. Ogni uomo che venga a servire il Santo, che benedetto egli sia, deve servirlo al mattino ed alla sera. Al mattino, quando la luce si alza e v e il risveglio del mondo per mezzo della destra (di Dio), allora l'uomo deve legarsi alla destra del Santo, che benedetto egli sia, e prestargli il culto della preghiera. Infatti la preghiera conferisce forza al mondo superiore ed attira dalle profondità dell'eccelso le benedizioni per tutti i mondi; di là le benedizioni si diffondono ai mondi inferiori, sicché grazie al culto della preghiera vengono benedetti i mondi superiori e quelli inferiori. Il culto della preghiera deve essere prestato da parte dell'uomo al Santo, che benedetto egli sia, con gioia e giubilo, per comprendere in essa la comunità di Israele e successivamente per esaltare l'unità di Dio come si conviene, secondo quanto è scritto: “Riconoscete che il Signore è il vero Dio” (Sal. C, 3). Questo è il mistero dell'unità nel mistero della preghiera. L'uomo dunque deve servire il Santo, che benedetto egli sia, con gioia e mostrare giubilo nel suo culto. Le due preghiere, del mattino e della sera, sono in corrispondenza con i due sacrifici giornalieri, che a loro volta sono in corrispondenza con le due espressioni, “gioia” e “giubilo”: gioia al mattino e giubilo alla sera. Perciò è scritto: “Un agnello offrirai al mattino ed il secondo agnello verso sera” (Num. XXVIII, 4). La preghiera di notte è però facoltativa, perché in tale periodo (la Shekhinà) distribuisce l'alimento a tutte le sue schiere. Non è quindi un periodo per benedire, ma per dare alimento. Di giorno infatti essa benedice da due parti, al mattino ed alla sera attraverso la gioia ed il giubilo, mentre di notte distribuisce l'alimento, come si conviene, secondo quanto è scritto: “Si alza mentre è ancora notte e prepara il cibo per la sua famiglia” (Prov. XXXI, 15).

Rabbi Chizkiyà prese a dire: “Ti sia la mia preghiera gradita come l’incenso ed il mio sollevare a te le mie palme come l'offerta del pomeriggio” (Sal. CXLI, 2). Perché “l'offerta del pomeriggio” e non la preghiera del mattino. Perché non è scritto: “Ti sia la mia preghiera gradita al mattino”? Ma così il problema va chiarito: “Ti sia la mia preghiera gradita come l'incenso”: l'incenso accompagna sempre la gioia, secondo quanto è scritto: “l'olio profumato e l'incenso fanno gioire il cuore” (Prov. XXVII, 9). Perciò il sacerdote, quando accendeva le lampade, ardeva l'incenso come e detto: “Ogni mattina quando acconcerà le lampade, farà ardere l'incenso. Così pure alla sera quando Aronne accenderà le lampade” (Es. XXX,7-8). Al mattino lo accendeva per la gioia, in quanto quel momento ne era la causa, alla sera invece lo accendeva per far gioire la sinistra (di Dio), e così si conveniva. Infatti l'incenso accompagna sempre la gioia. Considera dunque. L'incenso allaccia i legami e procura la gioia al mondo superiore ed a quello inferiore, sicché ne vengono allontanate la morte, l'accusa e l'ira, che non possono più dominare nel mondo. Infatti è scritto: “Mosè disse ad Aronne: “Prendi l'incensiere, mettici sopra del fuoco dell'altare, e portalo presto presso la congrega poiché è uscita l'ira del Signore. Il flagello e incominciato. Aronne prese quanto aveva detto Mosè e corse in mezzo alla comunità, ed ecco il flagello era cominciato nel popolo. Egli mise dell'incenso ed espiò per il popolo. Si pose fra i morti ed i vivi ed il flagello si arrestò” (Num. XVII, 11-13); ciò poiché tutte le forze del male e gli accusatori non possono resistere dinanzi all'incenso. Perciò esso costituisce la gioia ed il legame di tutto.

Al momento della preghiera pomeridiana, quando il giudizio divino si esercita sul mondo, alludeva David, pronunciando la preghiera che inizia: “Ti sia la mia preghiera gradita come l'incenso ed il mio sollevare a te le mie palme come l'offerta del pomeriggio” (Sal. CXLI, 2). Questa preghiera, innalzandosi, allontana l'ira della punizione divina, che domina in quel momento, come l'incenso che scacciava dal mondo ogni ira ed ogni accusa. Perciò è scritto “come offerta del pomeriggio”, cioè del momento in cui il giudizio divino è sospeso sul mondo. Considera dunque. Quando fu distrutto il Tempio di Gerusalemme, nel momento in cui il Santuario fu dato alle fiamme, era il tempo della preghiera pomeridiana. Perciò è scritto: “Poveri noi! il giorno declina; già si allungano le ombre della sera” (Ger. VI, 5). Cosa sono le “ombre della sera”? Sono quegli accusatori del mondoe l'ira delle punizioni, predisposte in quel momento. Perciò abbiamo appreso che l'uomo deve porre intenzione (kawwanà) nella preghiera pomeridiana. In ogni preghiera l'uomo deve porre intenzione, ma particolarmente nella preghiera pomeridiana, perché in quei momento la punizione divina è sospesa sul mondo. Abbiamo anche appreso che il periodo per la recitazione della preghiera pomeridiana fu stabilito da Isacco.


(II - 138b)

E scritto: “E tu, o Signore, non ti allontanare; o mia gazzella, affrettati a soccorrermi” (Sal. XXII, 20). Re David pronunciò queste parole quando stava disponendo ed ordinando le lodi al Re eccelso, per unire il sole alla luna. Dato che stava disponendo ed ordinando le sue lodi per esaltarne l'unità, disse: “Tu, o Signore, non ti allontanare”. “Tu, o Signore”: questo è il mistero dell'unità senza separazione. “Non ti allontanare”. Infatti la Shekhinà risale per incoronarsi nel suo Signore, e tutto ciò nel mondo superiore; e di là, il Santo, che benedetto egli sia, tende a risalire verso l'En Soph, che collega ed unisce le sephiroth in alto. Perciò è detto: “Non ti allontanare”, non allontanarti da noi, abbandonandoci.

Perciò quando i figli di Israele si dispongono a lodare Dio, debbono dal mondo inferiore meditare con tutta la loro persona sull'unità ed aderire alle sephiroth. Cosicché, se la gloria di Dio volesse allontanarsi, ecco che i figli di Israele nel mondo inferiore la afferrerebbero, tenendola saldamente e non lasciandola allontanarsi da loro. Perciò ha particolare valore la preghiera a bassa voce, perché l'uomo che prega così, è simile a chi parla in segreto con il re. E fintantoché il re se ne sta in segreto con lui, non si allontanerà di certo.

“O mia gazzella”. Come la gazzella ed il cervo corrono e si allontanano, ma subito dopo ritornano al luogo dove si trovavano, così il Santo, che benedetto egli sia, nonostante che si allontani in alto nell'En Soph, subito dopo ritorna al luogo dove si trovava. E tutto questo perché? Perché i figli di Israele nel mondo inferiore si afferrano a lui e non lo lasciano andare, in modo che non si allontani da loro. Perciò è scritto: “O mia gazzella, affrettati a soccorrermi”. Quindi dobbiamo tenerci saldi al Santo, che benedetto egli sia, affinché egli ci afferri, come chi tira dall'alto verso il basso, e l'uomo non sia abbandonato da lui neppure per un solo momento... Perciò è scritto: “Voi che siete attaccati al Signore vostro Dio, siete oggi tutti vivi” (Deut. IV, 4), “Beato il popolo la cui sorte è tale; beato il popolo il cui Dio è il Signore” (Sal. CXLIV, 15).

(II - 63a - 63b)

Rabbi Chizkiyà prese a dire: “Canto dei gradini. Dalle profondità ti invoco o Signore” (Sal. CXXX, 1). È detto semplicemente “Canto dei gradini” e non è spiegato chi lo pronunciasse. Infatti la semplice indicazione “Canto dei gradini” vuole sottolineare che in futuro saranno tutte le genti del mondo a pronunciarlo e che questo canto sarà destinato ad essere recitato dalle generazioni in eterno.

Che significa: “dalle profondità ti invoco”? Così è stato spiegato. Chi rivolge una preghiera al Santo Re, deve chiedergli il permesso e pregarlo dalla profondità del proprio cuore, affinché il cuore sia in armonia con il Santo, che benedetto egli sia, ed a lui siano indirizzate la sua intenzione (kawwanà) e la sua aspirazione. Ma come può David avere pronunciato tali parole quando altrove egli ha detto: “Con tutto il mio cuore ti ricerco” (Sal. CXXIX, 10). Tale espressione è sufficiente e che necessità c'è quindi di usare l'espressione “dalle profondità”? Ma così è stato insegnato. L'uomo che presenta la sua richiesta davanti al Re, deve indirizzare la propria conoscenza e la propria aspirazione alla radice di tutte le radici, per attingere le benedizioni dalla profondità del pozzo per trarre le benedizioni dalla fonte di tutto. Che cosa si indica con la profondità del pozzo”? Si allude a quel luogo, dal quale esce un fiume che vi trae il proprio motivo di essere, come è scritto: “Dall'Eden usciva un fiume” (Gen. II, 10), ed inoltre: “il fiume ed i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio”(Sal. CLVI, 5).Questa è la spiegazione dell'espressione “dalle profondità”, cioè la profondità di tutto, la profondità del pozzo dal quale scaturiscono le fonti che trasmettono in abbondanza le benedizioni per tutti. Così si inizia l'azione di attirare le benedizioni dall'alto verso il basso.

Disse Rabbi Chizchiyà: Quando l'antico, il mistero di tutti i misteri, vuole predisporre le benedizioni per i mondi, egli versa e fa confluire tutto in questa profondità eccelsa. Ad essa attinge in abbondanza il fiume dei ruscelli, ed altre fonti a loro volta scaturiscono abbondanti e traggono la loro essenza da questo. Chi rivolge la preghiera a Dio, deve indirizzare la propria intenzione e la propria aspirazione ad attingere le benedizioni da quella che è la profondità di tutto. Così la preghiera sarà accolta e sarà fatta la sua volontà.

(III - 195a)

Ràbbi Abbà prese a dire “Preghiera di un povero che langue e dinanzi al Signore versa il suo lamento” (Sal. CII, 1). A tre personaggi è riferito il termine “preghiera”: il primo è Mosè, il secondo è David, il terzo è il povero, che è posto insieme ed è accomunato ai primi due.E la cosa è già stata spiegata. Se tu obbiettassi che anche a proposito di Chabaquq è scritto: “Preghiera del profeta Chabaquq” (Cha. III, 1) e che quindi i personaggi sono quattro, ti rispondo che quella di Chabaquq non fu una vera e propria preghiera, anche se le viene riferito il termine “preghiera”. Infatti quella che egli pronunciò fu la lode ed il ringraziamento al Santo, che benedetto egli sia, che lo aveva riportato alla vita ed aveva compiuto nei suoi confronti prodigi e miracoli. Egli infatti era figlio della Sunamita. Ma a proposito di quei primi tre personaggi si ha la vera e propria preghiera: “Preghiera di Mosè, uomo di Dio” (Sal. XC, 1) - nessun uomo pronunziò mai una preghiera simile a questa; “Preghiera di David” (Sal. LXXXVI, 1) - nessun re pronunziò mai una preghiera simile a questa; “Preghiera di un povero”(Sal. CII, 11) - è la preghiera per eccellenza.

Di queste tre preghiere quale è la più importante? t la preghiera del povero, che precede sia la preghiera di Mosè che quella di David e tutte le altre preghiere del mondo. E ciò per quale motivo? Perché il povero ha il cuore affranto, ed è scritto: “Il Signore è vicino a chi ha il cuore affranto e salva gli umili di spirito” (Sal. XXXIV, 19). Il povero rivolge sempre le sue lamentele al Santo, che benedetto egli sia, che porge orecchio ed ascolta le sue parole. Quando il povero prega apre tutte le finestre dei firmamenti e sospinge da parte le altre preghiere che salgono al cielo. Egli fa un fardello di tutte le preghiere del mondo ed esse non entrano nei cieli finché la sua preghiera non è entrata. Il Santo, che benedetto egli sia, dice: “Si raggruppino da parte tutte le preghiere del mondo, e questa preghiera sia ammessa al mio cospetto. Non è necessario qui un tribunale che giudichi tra me ed il povero; dinanzi a me stiano le sue lamentele ed io e lui si rimanga da soli”. Il Santo, che benedetto egli sia, si apparta da solo con le lamentele del povero, che si trovano nella sua preghiera, secondo quanto è scritto: “Dinanzi al Signore versa il suo lamento” (Sal. CII, 1), “Dinanzi al Signore” e basta. Tutte le schiere celesti si chiedono l'un l'altra: “Il Santo, che benedetto egli sia, di che cosa si sta occupando; cosa cerca?”. E rispondono: “Egli con gradimento si è appartato con le sue creature sofferenti”. Nessuno sa cosa avvenga delle preghiere del povero e di tutte le sue lamentele, ma è certo che il povero non ha altro desiderio che di versare le sue lagrime e le sue lamentele dinanzi al santo Re e che, a sua volta, il Santo, che benedetto egli sia, non ha altro desiderio che di accogliere tali lamenti, quando vengono versati dinanzi a lui. Questa è la preghiera del povero, che fa un fardello di tutte le altre preghiere del mondo.

Mosè rivolse la sua preghiera ed indugiò molti giorni in essa David vide che tutte le porte e le finestre del cielo erano pronte ad aprirsi al povero e che non esistevano altre preghiere nel mondo cui il Santo, che benedetto egli sia, porgesse orecchio come a quelle del povero. Dopo aver considerato ciò, egli stesso si fece povero e misero; si tolse di dosso le vesti regali e sedette per terra come un povero e pronunziò la preghiera che così inizia: “Preghiera di David. Tendi o Signore il tuo orecchio, poiché povero e misero io sono” (Sal. LXXXVI, 1). Il Santo, che benedetto egli sia, così gli rispose: “David, non sei tu forse re e dominatore di potenti monarchi? Perché dunque ti fai povero e misero”. Subito David trasformò la propria preghiera e mise da parte le parole del povero e del misero: “Abbi cura della mia anima poiché io sono devoto; salva il tuo servo che fida in te, o tu Dio mio” (Sal. LXXXVI, 2).

Così nella preghiera di David si trovarono tutte le varie espressioni

Disse Rabbi Eliezer a Rabbi Abbà: “Hai detto bene. Perciò l'uomo che rivolge la propria preghiera, deve fare se stesso povero, affinché la sua preghiera possa entrare nel novero di quelle dei poveri. Infatti i custodi delle porte celesti non lasciano entrare le altre preghiere, come fanno per quelle dei poveri, che entrano senza permesso. Se l'uomo fa se stesso povero, assumendo i desideri e le aspirazioni dei poveri, la sua preghiera sale ed, incontrando quelle dei poveri, si unisce ad esse ed insieme ad esse si innalza. Perciò entra nei cieli nel novero delle preghiere dei poveri ed è accolta con gradimento dinanzi al Santo, che benedetto egli sia”.

(III - 68a)

Abbiamo appreso che un culto completo l'uomo deve prestare al Santo, che benedetto egli sia, come è scritto: “Tu amerai il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue facoltà” (Deut. VI, 5); cioè l'uomo deve amare il Santo, che benedetto egli sia, proprio con l'amore di tutta l'anima. Ed in ciò consiste l'amore perfetto; nell'amore dell'anima e dello spirito. Come l'anima e lo spirito sono attaccati al corpo ed il corpo li ama, così l'uomo deve aderire a Dio, amando il Santo, che benedetto egli sia, con l'amore della sua anima e del suo spirito, in modo da potere aderire a Lui. Così è scritto infatti: “Con la mia anima ti desidero nella notte” (Is. XXVI, 9), proprio con la mia anima; “Anche con il mio spirito nel mio intimo ti ricerco” (ib.) per aderire a te con intenso amore. E scritto: “nella notte”, perché l'uomo, per amore del Santo, che benedetto egli sia, deve alzarsi ogni notte per occuparsi del suo culto, finché non sorge il mattino ed egli attiri su di sé il raggio della grazia divina. Così è stato insegnato: felice il destino dell'uomo che ama il Santo, che benedetto egli sia, di tale amore. Grazie a quei giusti veritieri, che amano in questo modo il Santo, che benedetto egli sia, il mondo si mantiene; ed essi dominano su tutte le sentenze sfavorevoli del mondo superiore e di quello inferiore.

Così è stato insegnato: il giusto che aderisce con la sua anima ed il suo spirito al santo Re, che è in alto, con amore, come si conviene, domina sulla terra in basso; e tutto ciò che decide per il mondo, si realizza. Da dove lo sappiamo? Da Elia, a proposito del quale è scritto: “Come è vivo il Signore, Dio di Israele, di fronte al quale io sto, in questi anni non vi sarà né rugiada né pioggia, se non lo dirò io” (1Re, XVII, 1).

La misericordia e il sacrificio
di Giovanni Vannucci

Le parole: "Voglio la misericordia, non il sacrificio" (Mt 9,13) segnano un importante passo in avanti della coscienza umana, di cui purtroppo pochissimi, anche dopo duemila anni, si sono resi conto: il passaggio dalla religione del Padre a quella del Figlio. Il Padre sentito come il Sovrano assoluto, il Giudice inappellabile, che promuove i buoni e, demonizza i peccatori. La coscienza bisognosa di sacrifici espiatori, di capri sui quali riversare i peccati propri e quelli comunitari, la coscienza solare, creatrice e apportatrice di vita. L'albero da frutto dona con trasporto i suoi frutti, e la sua gioia aumenta con l'accrescersi dell'abbondanza dei frutti; non demonizza gli animali e gli uomini che ne mangiano, il suo compito è di sostentare le creature che abbisognano dei suoi doni. Così il seguace della religione del Figlio vive per distribuire la misericordia, non per innalzare altari su cui immolare delle vittime.

L'esperienza cristiana è nel faticoso e laborioso cammino che va dalla religione del Padre, del Rigore, del Giudizio irreformabile, alla religione del Figlio, che non giudica, non condanna, non colpevolizza nessuna creatura, ma con mano generosa distribuisce amore e misericordia, non spenge la fiammella che fumiga, non spezza la canna incrinata. Mosè aveva dichiarato che l'uomo è l'immagine di Dio nel creato, Cristo ci dice che il Figlio e i figli dell'uomo son chiamati a spogliarsi dal timore e dal tremore dei servi, e dischiudersi alla gioia vitale di sentirsi figli di Dio. Il volto del Padre che Gesù ci rivela riunisce armoniosamente il Rigore e la Misericordia, il rigore inteso non nel senso di una instaurazione di processi e di tribunali per eliminare il male, ma come l'intransigente ricerca di aprirsi all'infinita misericordia divina.

L'uomo che consapevolmente vive la sua missione di immagine di Dio, comincia a muoversi verso il raggiungimento della perfezione divina: "Siate perfetti e misericordiosi come il Padre vostro che è nei cieli" (Mt 5,48). "Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui cui il Figlio ha voluto rivelarlo" (Mt 11,27), cioè colui che ha raggiunto la coscienza propria della religione del Figlio. Gesù si manifesta non come il Re dalla tremenda maestà, come la nostra mente avida di potere e impaurita ama rappresentarselo, ma come l'umile e il mansueto. È Gesù mansueto e umile? Se mansuetudine e umiltà dovessero significare servilismo e vigliaccheria, certo Gesù non lo é. Il mondo, in genere, intende così l'umiltà e la mansuetudine. Per Gesù la mansuetudine è uno stato spontaneo di misericordia, per cui si è incapaci di serbar rancore per cosa alcuna, o di scandalizzarsi ipocritamente di qualche cosa. La mansuetudine è per Gesù la natura del leone, non quella dell'agnello; è mansueto colui che ha in sé la capacità di non poterlo essere: il libero, non lo schiavo; il forte, non il debole; l'audace e non il pavido; Gesù in questo senso è mansueto. Ogni volta che s'incontrerà nel peccatore avvilito e disprezzato, Egli lo rialzerà.

Cosa significa l'umiltà per Gesù? L'umiltà è per Lui la coscienza dei propri limiti; è l'offerta di se stessi perché la volontà divina sia fatta nell'uomo e attraverso l'uomo; è la serena dedizione al servizio umano, sempre grande, sempre nobile, comunque sia esercitato. "Chi di voi vuole essere il primo sia l'ultimo e il servo di tutti" (Mc 10,44). L'umiltà non è che il riconoscimento della propria posizione di creatura di fronte al Creatore e alle altre creature. Di creatura, non di giudice o sacrificatore, e la misericordia è il traboccamento di riconoscenza di quanto Dio e la vita ci hanno dato.

(Da: Giovanni Vannucci, Il Risveglio della coscienza, già Edizioni Cens, ora Servitium Città aperta edizioni srl / Associazione Emmaus via Conte Ruggero, 73 - 94018 Troina (En) tel. 0935.653530 - Fax 0935.650234; e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.; internet: www.servitium.it)


Come Paolo abbandonò
la legge di Mosè
di Jérôme Murphy O’Connor *


Il modo in cui Paolo concepiva la Legge di Mosè non era senza contraddizioni e il suo atteggiamento nei confronti di questa è cambiato a più riprese. Si possono distinguere nell’evoluzione del pensiero almeno quattro periodi al termine dei quali egli abbandonò la Legge di Mosè: la giovinezza a Tarso; il soggiorno a Gerusalemme da fariseo; i primi anni da missionario cristiano quando rappresentava Antiochia e infine l’ultima parte della sua vita, dopo la rottura con Antiochia.

Studi recenti hanno mostrato che Paolo era un maestro della retorica classica. Rifiutava di ricorrere a queste competenze nella sua predicazione per ragioni di principio: «perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1 Cor 2,5). Argomenti logici non potrebbero in realtà per lui costituire il fondamento della fede, ancorato nell’esperienza personale della grazia divina. Ma quando Paolo si accora, come in 2 Corinzi 10-13, la sua padronanza prudente si espande e le sue competenze appaiono alla luce del giorno: egli allora imita perfettamente le convenzioni della retorica! È chiaro che Paolo era un letterato. Non è impossibile che abbia seguito lunghi studi a Gerusalemme, ma più probabilmente li ha completati nella celebre scuola di Tarso. Paolo era dunque un ebreo che viveva in due universi distinti, appartenendo sia alla comunità ebraica, sia alla città pagana. Adolescente, il suo atteggiamento di fronte alla Legge era forse ambiguo. Alcuni elementi della Legge, in particolare le prescrizioni alimentari, avevano lo scopo di rendere difficile, se non impossibile, lo scambio con i Gentili, cioè con i pagani. In questa prospettiva, egli considerava forse la Legge come un peso. I suoi genitori erano prigionieri di guerra giunti dalla Galilea a Tarso, che avevano acquisito cittadinanza romana dopo essere stati emancipati dal loro status di schiavi. Questa situazione ha potuto rafforzare il loro impegno di obbedienza alla Legge per resistere all'assimilazione. L'osservanza conferiva loro un profondo senso di identità: essi facevano parte del popolo di Dio.

A Gerusalemme, una scrupolosa conoscenza dei comandamenti della Torà

L'impegno di Paolo di fronte alla Legge divenne più profondo e personale quando si unì ai farisei a Gerusalemme (Fil 3,5). I farisei superavano tutti gli altri ebrei nella conoscenza scrupolosa dei comandamenti (At 22,3; 26,5; G. Flavio, Antichità 17,41; Guerra 1,110; Vita 191 A), la sola via per loro della perfetta obbedienza. Paolo si adattò perfettamente al suo nuovo ambiente. «Superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,14). Il tono di questa dichiarazione riflette la sufficienza di un vincente. Paolo aveva imbrigliato la sua feroce energia a favore di uno studio intenso della Legge, scritta e orale, ed eccelleva nel grado e qualità della sua osservanza. Certo, in teoria, l’elezione della grazia rimaneva preponderante, ma, in pratica, l'attenzione era tutta puntata su un’osservanza meticolosa di ciò che i farisei consideravano l'esatta interpretazione della Legge. Durante questo periodo, che durò più di dieci anni, Paolo era dunque un legalista ad oltranza. Nulla indica che egli abbia potuto in quel tempo sentirsi tormentato da qualche impossibilità a osservare la Legge.

L'incontro con i Gentili

La terza tappa della relazione di Paolo con la Legge si colloca tra la sua conversione e la sua discussione con Pietro ad Antiochia. Le parole seguenti traducono bene il suo atteggiamento durante questi vent'anni (circa 33-52 d.C.): «Mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei. […] Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge […] per guadagnare coloro che sono senza legge» (1Cor 9,20-21). In compagnia degli ebrei, egli osservava le usanze ebraiche, come ad esempio le prescrizioni alimentari: ma tra i Gentili ignorava queste prescrizioni e mangiava liberamente come i Gentili. In altre parole, la Legge perdeva importanza. Paolo non si sentiva più legato dalle proibizioni che essa imponeva.

In che modo? Tutto ciò che si sa, è che la conversione ha convinto Paolo ad essere l'apostolo presso i Gentili di una missione liberata dalla Legge. Se essi non avevano bisogno di osservare la Legge per essere salvi, la Legge non costituiva un passaggio essenziale sulla via della salvezza. Accettando questa libertà, Paolo facilitò i contatti con i Gentili che egli voleva accostare a Cristo.

Ormai, la Legge aveva perduto per Paolo la sua importanza in termini di salvezza, ma continuava a riconoscervi un quadro di riferimento per l'identità ebraica. Perché, dopo tutto, gli ebrei formavano un popolo. Per questo permetteva agli ebrei convertiti delle sue diverse comunità di circoncidere i loro figli e di conservare le loro prescrizioni alimentari. Agli occhi di Paolo, si trattava in tal caso di costumanze puramente etniche, senza alcun valore religioso. Non vi era dunque alcun motivo per i Gentili di osservarle. Il fatto che due gruppi così diversi siano accostati nel seno di una medesima Chiesa richiedeva naturalmente molto tatto per garantire alla comunità un'unità effettiva. Condividendo un pasto con degli ebrei, i Gentili dovevano sottomettersi alle prescrizioni kasher; analogamente, quando erano invitati dai Gentili, gli ebrei dovevano affidarsi ai Gentili per quanto riguarda i pasti kasher serviti. Se Paolo sottolineò che la maggior parte delle concessioni spettava ai Gentili, non vi vide probabilmente che un'espressione della carità. I cristiani dovevano amare il prossimo, la norma essendo il sacrificio che Dio aveva fatto della sua persona (2Cor 5,15).

La questione di Antiochia

L'incidente di Antiochia mise fine a questa tolleranza e segnò l'inizio della quarta e ultima fase dell'atteggiamento di Paolo di fronte alla Legge. Giacomo era d'accordo con Paolo sul fatto che i Gentili non avessero bisogno di essere circoncisi (Gal 2,6): riconosceva che non era il momento di diluire l'identità ebraica circoncidendo i Gentili che non mostravano alcun interesse verso il giudaismo. L'antisemitismo guadagnava terreno ed era importante che ogni vero ebreo fosse solidale. Ed ogni abbandono di elementi dell'identità ebraica era in quel momento sentito come un tradimento... È il motivo per cui Giacomo insistette perché i giudeo-cristiani di Antiochia mostrassero un'osservanza molto più stretta verso la Legge ebraica (Gal 2,12). Questa posizione era gravida di conseguenze per i Gentili di Antiochia. Per mantenere l'unità della comunità, avrebbero dovuto veramente diventare ebrei. Avrebbero perduto allora la libertà del vangelo, garantita dall'Assemblea degli Apostoli e degli Anziani di Gerusalemme (Gal 2,10). Qui Paolo si vide obbligato a riconoscere che non si poteva più accettare il significato della Legge all'interno della comunità cristiana. Se si accordava il minimo diritto di cittadinanza alla Legge, ne sarebbe risultato inevitabilmente un formalismo che, in modo inesorabile, avrebbe allontanato sempre più Cristo dalla vita dei credenti. La sua esperienza personale di fariseo gli permetteva di comprendere fino a che punto la richiesta di un'osservanza perfetta poteva prevalere su ogni altra considerazione. Per la prima volta, Paolo vide nella Legge una pericolosa rivale per il Cristo. Da qui la sua trasformazione in «antinomico» (oppositore della Legge) radicale (Gal 5,1-12). Luca ha perfettamente ragione quando fa dire a Giacomo: «Tu [Paolo] vai insegnando a tutti i Giudei sparsi fra i pagani che abbandonino [la legge di] Mosè, dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le nostre consuetudini» (At 21,21).

Questa illuminazione portava Paolo a rimettere in discussione il valore della Legge di Mosè. Nella pratica della vita ebraica, questa Legge non era «la legge di Dio» che per il suo nome (Rm 7,22). In realtà, essa era «la legge del Peccato» (Rm 7,23 e 25). Paolo voleva dire così che il Peccato, cioè un falso sistema di valori sociali, si era impadronito e controllava la Legge. Un esempio ne era l'esagerata importanza attribuita alla Legge: se si pretendeva che fosse osservata da Dio stesso, che potevano allora offrire gli ebrei se non un'obbedienza totale e cieca («La giornata ha dodici ore; durante le prime tre, l'Onnipotente, benedetto sia il suo nome, si dedica alla Torà», B. Aboda Zara 3b)? La «pratica della Legge» (Gal 2,16), cioè i gesti richiesti dalla Legge, prevaleva su tutto. Ma, invece di guadagnare il favore di Dio, tutto ciò che si richiamava alla pratica della Legge incorreva in una maledizione (Gal 3,10).

L'antitesi della «Legge del Peccato» è la «Legge di Cristo» (Gal 6,2), la Legge come è assunta da Cristo Tutti questi molteplici precetti della «Legge del Peccato» (Gal 5,3) si trovano ridotti, nella Legge di Cristo, ad un solo comandamento che «enuncia» (logos e non entolê): «Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14, citazione da Lv 19,18). Ma che cos'è il vero amore? Per Paolo si tratta dello stesso amore di cui Cristo avevo dato l'esempio sacrificando se stesso per la salvezza di ognuno: «Il Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La Legge è diventata il Cristo nel senso in cui è lui che articola, nel suo agire, la domanda fondamentale dell'amore. I comandamenti della Legge sono divenuti caduchi. Ne deriva che «Cristo è il termine della Legge» (Rm 10,4). Non è più la Legge che parla in nome di Dio, ma soltanto Cristo. Seguire Cristo obbliga ad un impegno totale che i precetti discrezionali della Legge, anche seguiti uno ad uno, non saprebbero mai chiedere.

L'opposizione di Paolo alla Legge andava ben oltre la semplice affermazione che essa era al gli fuori degli obiettivi dei cristiani. Ai suoi occhi, nessun precetto che obbligasse, qualunque fosse, non aveva spazio nella comunità cristiana. Paolo non richiama mai l'obbedienza alla legge, ai comandamenti o anche alla volontà di Dio. Egli cita due comandamenti di Cristo, uno che proibisce il divorzio (1Cor 7,10) e l'altra che obbliga i sacerdoti ad accettare un sostegno materiale della comunità (1Conr 9,14). Ora, egli ammette un divorzio (1Cor 7,15) ed insistette per guadagnarsi la vita con le sue mani (1Cor 9,15-18). Si sentiva libero di fare esattamente l'opposto di quello che domandava Gesù, rivelando in questo modo che i credenti non dovevano prendere alla lettera ciò che aveva l’apparenza di un comandamento. Se Paolo rifiutava di accordare alla Legge e ai comandamenti di Cristo una autorità coercitiva, non avrebbe potuto dare una forza coercitiva alle sue personali direttive. Egli scriveva a Filemone: «Pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità» (Fm 8-9). Perché Paolo «prega» invece di «comandare»? Risponde: «Non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo» (14; cf 2Cor 9,7). L'opposizione tra costrizione e libertà è assoluta. Una stessa azione non può essere allo stesso tempo volontaria e obbligata.

Paolo non dà dunque mai un precetto imperativo in materia morale. Se gli capita di scivolare in un tono imperioso, si corregge subito: «Non lo dico come un ordine» (1Cor 7,6; 2Cor 8,8). Lt stia tecnica consiste nello spiegare ai suoi convertiti quello che egli farebbe in una data situazione e poi a lasciarli trovare da soli una risposta autentica sotto la direzione dello Spirito Santo. Se la Legge è il Cristo (Gal 6,2), Paolo, in ultima analisi, può soltanto dire: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1).

* Scuola biblica e archeologica di Gerusalemme

(da Il mondo della Bibbia n. 53)