Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Siamo chiamati ad elaborare
una nuova cultura di pace
di Massimo Toschi




Noi sappiamo che nel secolo XX la guerra è radicalmente cambiata. Dalla guerra di Spagna non c'è più lo scontro tra eserciti, ma il vero e sempre più crescente obiettivo diventa l'uccisione deliberata dei civili. Nelle guerre combattute dal 1945 ad oggi sono stati uccisi 25 milioni di civili. Negli ultimi dieci anni, su 100 morti nelle decine di guerre in atto, 7 sono militari e 93 civili, di cui 34 bambini. Sempre più le guerre non finiscono con la firma di un trattato, perché le mine anti-uomo continuano a ferire e a uccidere ben oltre gli armistizi, e l'inquinamento ambientale prodotto dalle bombe ha effetti devastanti sulla vita della popolazione civile sopravvissuta, com'è avvenuto nel caso dell'Iraq, nel caso Kosovo e probabilmente nella stessa vicenda dell'Afghanistan ancora in atto.

Il magistero di Giovanni XXIII

È questo orizzonte che spinge Giovanni XXIII nel 1963, con la Pacem in terris, non solo a porre fine alla teologia della guerra giusta, ma anche a rifiutare in radice ogni futura possibilità di guerra. Dice Roncalli, in quello che appare il suo testamento, che, scritto due mesi prima di morire, è la pienezza della sua parola per la chiesa e per il mondo: "Riesce impossibile pensare (alienum est a ratione) che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia". Egli comprende con assoluta chiarezza che l'era atomica cambia totalmente la qualità della guerra, non solamente nel senso che viene aumentata in senso geometrico la sua potenzialità distruttiva, ma che a causa di questo i civili e la loro uccisione diventano l'obiettivo primario dell'azione militare. Questo è stato vero a Hiroshima, ma anche in tutte le guerre successive, dove pure non è stata usata direttamente la bomba atomica. Questa intuizione porta papa Giovanni a spezzare definitivamente il legame tra guerra e giustizia: la guerra senza aggettivi, dunque ogni guerra.

Egli non contrappone dottrina a dottrina, ma, leggendo in profondità la storia, assume e fa proprio il grido muto delle vittime innocenti che la guerra sempre produce. È da qui che viene la sua consapevolezza della pace come parola assoluta e indivisibile, che contiene in sé l'unità e la radicalità di tutto il Vangelo. Questo grido diventa come il segno dei tempi che domanda alle chiese di convertirsi, di chiedere perdono per aver giustificato la guerra, di comprendere meglio il Vangelo della pace.

Oltre la dottrina sociale

Il Concilio è stato l'evento per mezzo del quale Giovanni XXIII ha rimesso il Vangelo al cuore della storia e ha chiesto alla Chiesa di vivere il servizio all'Evangelo, condividendo la sorte e il patire dei popoli, in particolare di quelli più piccoli e più poveri. Perciò la pace ha abbandonato per sempre i capitoli della teologia morale e della logora dottrina sociale, per tornare ad essere luogo decisivo della confessione della fede.

La Parola di Dio deve essere assunta come sostanza viva e vitale di tutto quello che la chiesa e i cristiani sono chiamati a dire sulla pace. Questo avviene quando le vittime hanno autorità sulla chiesa che legge la Scrittura.

Così si comprende con assoluta chiarezza che la pace è al cuore della cristologia, la pace è una persona, è Gesù nella totalità del suo mistero. Dunque la pace evangelica è coestensiva alla presenza del Messia povero e pacifico in tutta la storia degli uomini. In questo senso la centralità assoluta della pace diventa coestensiva alla centralità assoluta dell'Eucarestia. E la pace e l'Eucarestia diventano coestensive nel mistero della Vittima, che nella storia si rivela nel volto concreto delle vittime della violenza. E la loro voce che la chiesa deve assumere, è a partire dal loro grido che essa è chiamata a comprendere meglio il Vangelo della pace e a testimoniarlo in debolezza, senza appoggi e sostegni umani.

Nasce da qui il drammatico senso di responsabilità e di coerenza spirituale che non fa indietreggiare la chiesa e il credente di fronte alle conseguenze della fedeltà all'Evangelo, riletto dentro i conflitti della storia.

Se la guerra, ogni guerra è l’antivangelo, nessuna guerra può essere più giustificata dal punto di vista della fede, né quelle compiute contro il diritto internazionale, né quelle avvallate dalle organizzazioni internazionali, neanche quelle costruite con l'avvallo di una mozione dell'Onu. Questo significa percorrere altre vie per risolvere i conflitti internazionali, per piegare dittature e regimi violenti, per combattere il terrorismo. Arrendersi alla cultura della guerra come extrema ratio, significa fare della guerra la ratio di ogni politica. A maggior ragione con la guerra preventiva, quando essa diventa la prima ratio di ogni politica, e dunque il fallimento e la sconfitta della politica.

A tutto questo la chiesa e i cristiani partecipano, testimoniando l’alterità del Vangelo ad ogni guerra e ad ogni sua giustificazione. [……]

Uuna nuova cultura della pace

Elaborare una nuova cultura di pace è compito di molti. Ciascuno è chiamato a portare l'originalità del suo pensiero, la ricchezza della sua tradizione culturale e spirituale. Anche le chiese e i cristiani non possono sottrarsi a questa fatica. Ecco alcuni punti essenziali da cui partire:

1) il non uccidere

La parola biblica deve di nuovo assumere tutta la sua forza profetica. Si spezza davvero il circolo della violenza quando si decide di dare la vita per i nemici. Dunque il non uccidere i nemici ha il suo punto d'arrivo nel dare la vita per essi. Solo così la violenza non diventa più padrona della nostra vita. Quando si uccide, anche se questo avvenisse per un motivo giusto e nobile, si moltiplica l'odio e l'inimicizia nel mondo e dunque si rilancia la causa della violenza, di quella violenza che vorremmo colpire e reprimere.

2) il fare la pace con mezzi pacifici

Sta qui la grande questione della nonviolenza attiva. La pace non può essere costruita con qualunque mezzo: dev'essere costruita con mezzi coerenti con il suo fine. Tutto questo porta a rifiutare i mezzi violenti, le armi, a maggior ragione le armi con devastante potere distruttivo. Oggi, rispetto a cinquant’anni fa, si può dire che il regime sovietico, come diversi regimi autoritari in Asia e America latina sono caduti, senza uso delle armi o della guerra. Lo stesso muro di Berlino, che è stato il simbolo dell'inimicizia e del mondo diviso in due, è caduto a partire dalle manifestazioni nonviolente dei giovani evangelici della Germania Est. Il regime dell'apartheid in Sud Africa si è frantumato quando Mandela ha scelto la nonviolenza.

Tutto questo ci dice che sono possibili altre vie rispetto all’azione militare, alla violenza e alle armi. I regimi autoritari spesso sono rafforzati dalla guerra, mentre sono sempre destabilizzati dal dialogo della nonviolenza, che punta non a distruggere, ma a cambiare le coscienze. Se pensiamo per un attimo alla Palestina, è sempre più chiaro oggi che l'affermazione dei diritti dei palestinesi non passa attraverso il terrorismo o l'insurrezione militare. Il terreno delle armi e delle azioni militari sta sfigurando l'anima e il cuore d'Israele, ma la lotta violenta, promossa da molte organizzazioni politiche dei palestinesi, ha ottenuto l'unico risultato di distruggere la vita e la speranza di un popolo. …

3) stare nella storia dalla parte delle vittime

Quando si legge e interpreta la guerra dalla parte di un computer o di una sala ovale o dalla stanza dei bottoni o di una facoltà di teologia o di un palazzo di curia, è facile dimenticare che oggi la guerra significa, prima di tutto e innanzitutto, uccidere delle vittime innocenti, che sono l'obiettivo deliberato di ogni azione militare.

La guerra diventa impossibile se siamo capaci di guardare il volto dei bambini delle donne, degli anziani iracheni o afgani o di qualunque altra parte del mondo. Il loro volto e la loro sofferenza invocano pace non guerra. Il loro patire diventa il discernimento più grande sulla guerra e sulle sue apparenti e sofisticate ragioni.

4) il perdono e la riconciliazione

Solo una cultura del perdono e della riconciliazione può sanare le ferite dell'inimicizia e dell'odio. L'esperienza del Sudafrica con la “Commissione sulla verità e la riconciliazione” ha indicato una strada decisiva per fare la pace. Non la via della vendetta, che mai costruisce, ma quella del riconoscimento del dolore dell'altro, il confessare la propria colpa rispetto ad esso. Allora ci si accorge che la divisione non passa più tra bianchi e neri, ma all’interno del cuore di chiunque abbia condiviso la violenza contro il fratello. Questo apre un processo profondo dì ricomposizione del tessuto della vita comune, senza il quale l'odio non è sconfitto.

Una strada analoga dovrebbe essere con coraggio intrapresa nei Balcani, per spezzare il muro di separazione delle coscienze, ancora oggi molto evidente. Lo stesso accadrà tra israeliani e palestinesi, se davvero avranno il coraggio di scommettere sulla pace, che nasce dalla fiducia e non dal potere delle armi.

Sono quattro punti. Indicano la ”via stretta della pace” senza la quale non c'è futuro. Si legge nell'introduzione della Leggenda Maggiore, a proposito di Francesco d'Assisi: "Angelo della vera pace, anch'egli a imitazione del Precursore, fu predestinato da Dio a preparargli la strada nel deserto dell'altissima povertà e a predicare la penitenza con l'esempio e la parola".

Le chiese oggi sono chiamate ad essere angeli della vera pace, facendosi povere, ponendo la parola della conversione e imparando dalle vittime. Ci sono già cristiani che indicano, con la loro vita e con la loro morte martiriale, questa strada.

(in L’Angelo della Pace, Il Vangelo nel tempo della guerra, Brescia, Quaderni di Missione Oggi, Ottobre 2002, pp. 2-7)


Piccola introduzione
alla teologia dell'icona
di Olivier Clément




Nella tradizione "ortodossa", l'icona fa parte integrante della celebrazione. Si tratta di un'arte liturgica che non può essere isolata dal suo contesto ecclesiale: la Scrittura e il suo ampio commentario innografico, ricco di dottrina e di spiritualità.

Le immagini (icona, eikônin greco, significa immagine) sono apparse molto presto nel mondo cristiano: si conosce l'arte delle catacombe, arte funeraria piena della gioia della risurrezione. Ma quest'arte riprende la sua tecnica dall'arte romana o ellenistica del suo tempo e si limita a cristianizzarla tramite il gioco dei segni e dei simboli. A partite dal IV e dal V secolo appare l'icona che include i simboli nei volti, mentre la teologia trinitaria include l'essere nella comunione.

Tuttavia una corrente ostile alle immagini persiste nel cristianesimo, attinge argomenti di interdizione nell'Antico Testamento e nella paura (talvolta giustificata) dell'idolatria, spingendosi fino a uno spiritualismo dematerializzante: Altro argomento contro le immagini è il carattere pan-umano di Cristo, da cui l'impossibilità di rappresentarlo.

La crisi esplode intorno al 726 e va avanti fino all'843. Alcuni imperatori energici, strappando lo Stato dal caos che si era creato. ingaggiano una lotta contro il monachesimo il quale, di fatto, limita il loro potere e sembra compromettere la vita sociale. Profezia del Regno di Dio, testimonianza di un Signore crocifisso, l'ideale monastico si inscrive nell'icona. Un'ampia politica di secolarizzazione appoggiata dall'esercito e dai teologi spiritualisti diventa allora iconoclasmo.

La crisi ha permesso di fondare e di purificare la venerazione delle sacre immagini. Contro una concezione puramente speculativa della trascendenza, la Chiesa sottolinea che il Dio vivente trascende la sua stessa trascendenza per rivelarsi in un volto d'uomo. L'icona per eccellenza, quella di Cristo, si giustifica con l'Incarnazione, anche perché il Figlio non è solo la Parola, ma anche l'Immagine (consustanziale) del Padre, "fonte della divinità". «Nei tempi antichi - scrive san Giovanni Damasceno - Dio, incorporeo e senza forma, non poteva essere raffigurato sotto nessun aspetto; ma ora, poiché Dio è stato visto mediante la carne ed è vissuto in comunanza di vita con gli uomini, io raffiguro ciò che di Dio è stato visto» (Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. Discorsi apologetici contro coloro che calunniano le sacre immagini, I, 16, tr. it. di V. Fazzo, Roma 1983, p. 45). Perché, così come il Verbo si è fatto carne, la carne si è fatta Verbo. Il Damasceno respinge l'obiezione di chi considera la materia indegna e sottolinea che la grazia, in Cristo, ha penetrato la materia e ha liberato la sua potenziale sacramentalità. «Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, che è diventato materia a causa mia… Venero la materia attraverso la quale è avvenuta la mia salvezza, poiché essa è piena di potenza e di grazia divina» (Ibid. pp. 45-46).

Così, «quando colui che è immenso e sussistente nella forma di Dio si è invece ristretto alla misura e alla grandezza, dopo aver preso la forma di schiavo... riproduci la sua forma su di un quadro, ed esponi alla vista colui che ha accettato di essere visto. Di lui riproduci l'inesprimibile condiscendenza…» (Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. I, 8, ibid., p. 37).

Questo è l'argomento fondamentale da Dionigi l'Areopagita a Teodoro Studita: in Cristo l'invisibile si fa vedere perché il Segreto è anche Amore. Antinomia che doveva sistematizzare nel XIV secolo san Gregorio Palamas, per il quale Dio è totalmente inaccessibile - essenza o sovraessenza - eppure si rende totalmente partecipabile nelle sue "energie".

Da qui l'importanza nella teologia dell'icona del tema della trasfigurazione e dell'immagine "non fatta da mano d'uomo".

«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte» (la tradizione ha precisato che si trattava del Tabor). « E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce ». Una variante dice: «come la neve» (Mt 17,1-2). Luca precisa: «candida e sfolgorante» (9,29).

Quando un cristiano, monaco o laico non importa, accede al ministero di iconografo, il sacerdote recita su di lui l'essenziale dell'ufficio della Trasfigurazione. I teologi dell'icona non hanno cessato di commentare i testi evangelici consacrati a questo episodio. Dice Atanasio il Sinaita: «Cosa c'è di più sconvolgente di vedere Dio nella forma di un uomo, il volto risplendente, radiante più del sole?» (Omelia sulla Trasfigurazione, PG 84, 1376).

In Cristo, d'altra parte, il tempo è ricapitolato e l'icona implica memoria e anticipazione, una sorta di visione che guida la mano dell'artista. "Cristo stesso ha trasmesso la sua immagine alla Chiesa", scriveva all'inizio della crisi iconoclasta Giorgio di Cipro (Nouthesia, ed. Mélioniransky, p. XXIII). La memoria di questo volto - il Santo Volto - è evocata da due racconti significativi: in occidente, quella del velo con cui Veronica (da vera in latino e eikôn, "immagine", in greco) avrebbe asciugato il volto di Gesù durante la Via Crucis; in oriente, quella del Mandylion, un velo anch'esso, sul quale Gesù avrebbe volontariamente impresso la sua immagine rispondendo al desiderio del re Abgar di Edessa, ammalato. Effettivamente qualche cosa è stata scoperta ad Edessa nel VI secolo e trionfalmente portata a Costantinopoli nel 944, qualcosa che ha precisato fin nei particolari la rappresentazione di Cristo. Un sudario forse, di cui non si può dire esattamente che legame avesse con la Sindone di Torino, tanto studiata oggi. Più ampiamente il Volto di Cristo è detto acheropita, "non fatto da mano d'uomo", così come Maria concepisce in modo verginale, perché la mano dell'artista, se questi si è preparato con la preghiera e il digiuno, è guidata miracolosamente dallo Spirito (cfr Giorgio di Pisidia, Poemi, in «Studia Patristica et Byzantina», 1960, p, 91).

La proibizione di rappresentare Dio (nell'Esodo e nel Deuteronomio) non vale più non solo per Cristo. Non vale neanche per sua Madre, per i suoi amici, le membra dei suo Corpo sacramentale. L'uomo creato "ad immagine" di Dio è predestinato a diventare «conforme all'immagine del Figlio suo» (Rm 8,29), «trasformato in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18). Egli si deve rinnovare sempre «ll'immagine del suo Creatore» (Col 3,10). Fondata nell'incarnazione del Figlio eterno, l'icona si moltiplica tramite la santificazione degli uomini nello Spirito: le icone della Madre di Dio e del santi anticipano la trasfigurazione finale: «quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3,4).

È quanto riassunte meravigliosamente il ritornello liturgico (kontakion) della Domenica dell'Ortodossia, prima domenica di Quaresima in cui la Chiesa celebra solennemente il ristabilimento definitivo del culto delle sacre immagini nel 843: «L'incircoscrivibile Verbo del Padre, incarnandosi da te, Madre di Dio, è stato circoscritto, e, riportata all'antica forma l'immagine deturpata (cioè l'uomo), l'ha fusa con la divina bellezza» (tr. it. Anthologhion II. Roma 2000, p. 596).

I teologi dell'icona hanno chiaramente distinto l'icona dall'idolo, sottolineando che l'icona non pretende affatto di afferrare colui (o colei) che rappresenta: "immagine artificiale", l'icona non è in niente della stessa natura del suo modello. Non appartiene all'ordine magico del possesso, ma all'ordine propriamente cristiano della comunione. Non rientra nella categoria del sacramento in cui la maceria riceve una forza santificante, ma rimanda alla categoria della relazione, di un incontro interpersonale. Il prototipo, che è divino-umano (Cristo) oppure l'umano deificato (il santo) sfugge ad ogni opacità, separazione. Al contrario si rende presente e accogliente nell'immagine che rappresenta la sua "somiglianza". La presenza iconica è dunque una trasparenza personale, «secondo la somiglianza dell'ipostasi» (Teodoro Studita, Antirrheticus II, 3,1), cioè della persona allo stesso tempo unica e in comunione. L'icona permette l'incontro degli sguardi (da cui l'importanza della pupilla dell'occhio, [Strana coincidenza: Guillaume Apollinaire nella poesia "Zone" all'inizio della Raccolta Alcools scrive: «Pupilla, Cristo dell'occhio»] proprio come punto della trascendenza) in cui, più che guardare, sono io ad essere guardato. Sono guardato da uno sguardo di santità, uno sguardo al di là della morte che mi trascina verso questo aldilà. Uno sguardo da risorto che sveglia in me la mia resurrezione e l'immagine di Dio come una chiamata alla libertà e all'amore.

L'iscrizione del Nome sull'icona (épigraphé) sottolinea questa relazione con la persona rappresentata. Così san Teodoro Studita può affermare che l'icona di Cristo è Cristo, senza la minima confusione magica: «l'immagine di Cristo secondo la relazione» (Antirrheticus I, 11).

L'icona esige dunque un elemento ritrattistico, alcuni "caratteri" concreti che distinguono tale individuo «dagli altri individui della stessa specie» (Antirrheticus III,1,34). La circoscrizione, cioè la possibilità stessa di rappresentare, è «composta di alcune proprietà» (Antirrheticus III 1, 17). Il paradosso tipico della fede cristiana è che Cristo da una parte «ricapitola», racchiude in sé tutta l'umanità; eppure la sua umanità d'altra parte sussiste, si lascia vedere «in un individuo preciso» (atomos) (Antirrheticus II, 18). Ecco per ché, nelle icone, da una parte il bambino Gesù è rappresentato con una fronte alta, segno della Sapienza, e dall'altra l'ipostasi del Verbo è circoscritta nei tratti individuali di un volto d'uomo. L'arte dell'icona unisce realismo e astrazione per suggerire, con san Giovanni, l'identità dell'umiliazione e dell'elevazione, la morte in croce come vittoria sulla morte. Né dolorismo dunque, né trionfalismo secondo una concezione umana della gloria.

Nell'essenziale, questa teologia dell'icona ha trovato la sua sintesi nella definizione (l'horos) del Settimo Concilio Ecumenico, o Concilio di Nicea II (787). Il "modello rappresentato" deve accordarsi con il Vangelo e l'icona per eccellenza, quella di Cristo, «serve a confermate l'Incarnazione, reale e non illusoria, del Verbo di Dio». Così Scrittura e icona «rimandano l'una all'altra». Le immagini rinviano significativamente al mistero della Croce - sempre, contro l'idolo, questa identità della gloria e della Croce - e di tutto l'insieme del culto di cui l'icona, come abbiamo detto, fa parte integrante. I gesti e i segni che avvolgono l'icona - il bacio, l'inchino, la candela e l'incenso - non significano affatto adorazione, che «si deve solo alla divinità», ma sono i segni della stessa venerazione accordata alla Croce e al Vangelo. Per due volte l'horos, riprendendo una formula di san Basilio, ricorda che «coloro che guardano le icone sono guidati al ricordo e al desiderio dei prototipi» e che «l'onore reso all'icona riguarda il prototipo», di modo che «chi si inchina davanti all'icona lo fa davanti all'ipostasi (la persona) di colui che vi è rappresentato».

Attraverso la crisi iconoclasta, l'arte dell'icona si è dunque precisata e purificata per suggerire, nell'uomo e nel cosmo, la luce trasfigurante del Regno, quel Regno che è in noi e in mezzo a noi, dice Gesù. La santità anticipa questo regno di cui aspettiamo e prepariamo la piena manifestazione nella Gerusalemme nuova, la città cubica dalle mura di pietre preziose che uniscono la più alta densità e la luminosità più grande.

Questa luce è l'essenza della bellezza e la bellezza è un Nome divino, un' "energia" tramite la quale Dio si "estasia" nella sua creazione; offuscata dalla nostra cecità, è pienamente ritrovata, diffusa da Cristo, non solo sul Tabor, ma nella notte del Getsemani e del Golgota. Si conosce la leggenda della "scelta della fede" da parte di Vladimir, gran principe di Kyiev, alla fine del X secolo. Si convinse di aderire al cristianesimo di Bisanzio a causa di ciò che raccontarono i suoi inviati: avevano visto una liturgia nella chiesa di Santa Sofia, e davanti a tale bellezza non sapevano più - dicevano - se erano in cielo o sulla terra. Dunque la bellezza è criterio e prova della verità. Anche nel XX secolo, un grande scienziato e teologo russo, Pavel Florenskij, scriveva che la Trinità di Rubliev è prova dell'esistenza di Dio. Tale bellezza non è una categoria estetica ma ontologica, perché nella teologia orientale l'essere ha la sua fonte nella comunione, L'iconografo è tenuto quindi ad una grande responsabilità ed una grande sobrietà. Deve superare ogni soggettivismo, ritirarsi nella preghiera, nel digiuno, unire l'intelligenza e il cuore, favorire nel silenzio l'incontro con colui o colei che sta per rappresentare sull'icona. Regole precise determinano la composizione delle scene e permettono di riconoscere i volti. Il genio creatore, liberato dai fantasmi individuali, non perde niente: basta pensare alle opere straordinarie di un Teofane il Greco, o a quelle completamente differenti di un Mahmoud Zibawi, stili iconografici così diversi secondo la loro epoca e il loro luogo.

Tutto nell'atteggiamento e nell'espressione del personaggio rappresentato deve indicare la sua intima partecipazione alla "luce taborica". Il corpo, esageratamente lungo, non è che uno slancio verso il volto segreto, il volto interiore, aperto simultaneamente a Dio e al prossimo. E il volto stesso diventa «tutto sguardo» (Pseudo-Macario, Prima Omelia, 2). Il più delle volte la rappresentazione frontale, in segno di presenza e di accoglienza. Le rocce, come tanti piani, suggeriscono il deserto di questo mondo, ma per la grazia della santità questo deserto fiorisce in vegetazioni fantastiche. Gli animali sono stilizzati secondo la loro essenza paradisiaca come nell'arte celtica o in quella degli sciti. Le architetture, sempre in secondo piano, diventano un gioco surrealista, sfida evangelica alla pesantezza e alla potenza di questo mondo.

Certo, la rappresentazione della gloria non può che essere simbolica. Ma è l'originalità di quest'arte che il simbolo si incorpori al volto e che l'eternità si inserisca all'infinito nella comunione delle persone senza spersonalizzare. Il Concilio Quinisesto (692) riunitosi in oriente, ha proposto che i simboli della prima arte cristiana (l'Agnello ad esempio), venissero sostituiti da ciò che essi prefiguravano, ossia il volto umano di Cristo […].

La Gerusalemme nuova, sulla quale si apre l'icona, «non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello» (Ap 21,23). Nell'icona, dunque, la luce non proviene da un punto preciso: è diffusa dappertutto senza creare ombre, come se tutto fosse interiormente illuminato dal sole. Spesso la prospettiva è rovesciata: le linee non convergono verso un punto di fuga, lì dove si chiude lo spazio decaduto che separa e imprigiona, ma si dilatano verso la luce, «di gloria in gloria».

Quando l'icona descrive una scena, contrae in una simultaneità liturgica vari momenti spesso lontani nel tempo. Nell'icona della Natività, ad esempio, si vede come in un'armonia gioiosa l'annuncio degli angeli ai pastori, la cavalcata dei re Magi, il Bambino nella grotta (anticipazione della discesa agli inferi del Sabato santo) e in braccio alle donne che lo lavano in un modo quasi battesimale.

L'icona non ha soltanto un valore pedagogico, ma anche "misterico", dischiude una benedizione della Chiesa. Si apre così alla teologia un altra prospettiva oltre a quella del concetto.

L'arte dell'icona non è affatto estranea alla tradizione occidentale, almeno fino al Trecento. Dopo, l'occidente che scopre esplora e libera l'umano, preferisce a quest'arte della trasfigurazione ciò che chiamerei un'arte dell'esodo in cui si esprimono le ricerche, le angosce, la sensualità, anche le intuizioni dell'umanità, intuizioni che a volte ritrovano spontaneamente lo spirito dell'icona, da Fra' Angelico a Rembrandt e Rouault. Oggi il fallimento a una certa arte "religiosa", sentimentalista e pietista, apre all'icona le chiese cattoliche e anche alcuni templi protestanti. L'icona allo stesso tempo corrisponde alla cultura dell'immagine e la esorcizza («guardare un icona è un digiuno degli occhi»). Apre alla teologia delle vie nuove, sostituendo il concetto che vuole possedere, con il volto che chiama alla comunione.


(da "Contacts" n. 181, 1998, pp. 25-32)


...il giusto mio servo giustificherà molti

Credo che sia essenziale dare agli immigrati, e soprattutto ai giovani, la possibilità di vivere in mezzo alla gente del posto e di condividere la quotidianità; è la miglior maniera di costruire insieme un progetto comune e una comune cittadinanza.

Mercoledì, 24 Agosto 2005 02:09

Donne che incontrano Gesù (Stefania Cantore)

Donne che incontrano Gesù
di Stefania Cantore

Nel momento in cui il centurione vedendo il modo di spirare di Gesù riconosce: «Veramente questo uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39), viene anche ricordata la presenza delle donne:

«C'erano anche alcune donne che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Joses, e Salome, che lo seguivano e servivano quando erano ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme» (Mc 15,40s).

Se, in Marco, la Buona Novella è sintetizzata nell'annuncio che l'uomo Gesù è il Cristo il Figlio di Dio (Mc 1,1), le donne mostrano di aver intuito fin dalla Galilea che quell'uomo era anche per loro (e non solo per gli uomini!) «buona novella», invito alla conversione, al ambio di mentalità per «vivere» nella sua luce (Mc 1,14s). Il loro seguire, servire Gesù, salire con lui a Gerusalemme ne sono il segno più chiaro proprio perché esse lo fanno, non su un imperativo-chiamata di Gesù, ma come conseguenza e risposta libera all'incontro con lui.

Infatti, alle donne Gesù non dice «seguimi» o «seguitemi», non chiede di servire ne lui ne altri, non dice esplicitamente come ai Dodici: «Saliamo a Gerusalemme» (Mc 10,32-34 e parr .), eppure le donne fanno tutto questo. Anche Luca nota la presenza di donne al seguito di Gesù:

« Egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni» (Lc 8,1-3).

Restate con Gesù fino alla sua morte, le donne sono le prime testimoni e annunciatrici del Risorto.

Come mai delle donne hanno seguito Gesù fino ad assistere alla sua morte? Come l'hanno incontrato?

Benché meno numerosi di quelli con uomini, i vangeli ci tramandano molti incontri di Gesù con donne. Vediamone alcuni in cui la donna serve, loda, ascolta e profetizza.

La suocera di Pietro (Mc 1,29-31)
Dalla malattia al servizio di colui che serve

Il primo incontro di Gesù con una donna, nel vangelo secondo Marco, avviene di sabato, in casa, nell'ambiente della vita e della «liturgia» familiare in cui la donna, secondo la tradizione, esplica la sua attività più appropriata.

Dopo la Sinagoga, dove il suo insegnamento con autorità e la liberazione di un uomo dallo spirito impuro avevano suscitato stupore e interrogativi sulla sua identità, Gesù si reca a casa di Simone (Mc 1,29-31 ). Ora, qui, il sabato, il giorno donato da Dio, è «velato»: la suocera di Simone è a letto con la febbre, e non può assumere il suo compito ordinario. Aveva potuto accendere la lampada? preparare i pasti da consumare nella gioia?

Sono gli uomini, i primi quattro «chiamati» alla sequela, ad informare subito Gesù della malattia della donna.

E Gesù le si fa vicino, la fa alzare prendendola per mano. Non più ostacolata dalla febbre che la lascia, la donna «risorta», di nuovo in piedi, si mette a servire gli ospiti.

Se nulla si era detto della nuova vita dell'uomo liberato dallo spirito impuro nella sinagoga, di quella della suocera liberata dalla malattia si dice espressamente che viene dedicata al servizio. La vicinanza di Gesù, il prenderla per mano permettendole di rimettersi in piedi, portano solo, anche se in modo straordinario, al ricupero dello stato di salute, col conseguente ritorno al servizio abituale? Certo la quotidianità della sua vita di donna rimane esternamente la stessa, ma è attraversata da una pienezza nuova: liberata da Gesù, il suo servire è comprensione e partecipazione al Regno di Dio, che in lui si è fatto vicino (Mc 1,14-15).

Non poter celebrare il sabato era un po' come tornare al tempo della schiavitù, in cui il Dio liberatore e creatore non può essere «riconosciuto» e servito nella lode. Celebrare il sabato invece la faceva collaborare alla venuta del Messia, che ripristina la situazione di armonia con Dio e rinnova la creazione secondo il piano originario. Una antica credenza, diffusa già nel primo secolo.

« afferma che se tutto Israele osservasse in modo perfetto due sabati consecutivi, la redenzione dell'umanità sarebbe immediatamente effettuata. È quanto dire che l'osservanza perfetta di due sabati equivarrebbe all'avvento del Regno di Dio. Se poi, incapace d'un tale sforzo, Israele riuscisse ad osservarne uno solo senza alcuna negligenza, ciò sarebbe sufficiente per la venuta del Messia, annunciatore del Regno ».

Gesù celebra il sabato «senza negligenza» e la donna entra nella sua celebrazione, nel suo Regno caratterizzato dall'essere liberi (liberati) per il servizio.

Servire l'altro sostituisce il dominare l'altro, tipico della situazione di peccato e della «solitudine» che ne consegue. La relazione di aiuto reciproco, su piano paritario, di ogni essere umano, esemplificata nella alterità gioiosa della coppia delle «origini», viene ricuperata sotto forma del farsi prossimo nel servizio. Nel deserto delle sue tentazioni, sono gli angeli a servire Gesù; nel «primo sabato» della sua vita pubblica è la suocera di Simone a servire lui e i suoi chiamati; durante tutto il cammino dalla Galilea a Gerusalemme sono le donne a servirlo. Se il rapporto di servizio mette in luce un operare in funzione del benessere dell'altro, considerato più importante di se, Gesù sceglie proprio di operare da servo, sceglie di porsi come gli ultimi perché nessuno «sfugga» al suo servizio.

«Voi sapete (i dodici) che coloro che sono ritenuti i capi delle nazioni le dominano, (...) chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,42-45).

In Marco, soggetti del servire sono solo gli angeli e le donne che servono Gesù (e coloro che stanno con lui) e Gesù stesso.

Entrare nel Regno di Dio fattosi presente in Gesù e portarne I'annuncio e la realtà, significa allora «servire» sia per coloro che già stanno servendo, sia per chi non è abituato a farlo. E servire significa veramente servire, fare qualcosa di utile per la vita dell'altro, un servire scelto non subito, un servire possibile solo da parte di chi è stato «liberato».

È il cambio di mentalità richiesto per entrare nel Regno. La suocera di Simone, servendo, lo accetta evi entra. È il servizio di sempre? Sì, ma è proprio quello che ora «serve» per la celebrazione del sabato definitivo iniziato da Gesù. Come donna libera, in piedi, essa offre tutto quello che può e sa fare, il suo servizio per la celebrazione di questo sabato.

La donna curva (Lc 13,10-17)
Dal ripiegamento alla lode di Dio

Siamo di sabato, in una sinagoga, durante il viaggio di salita verso Gerusalemme. Gesù sta insegnando. Tra i presenti alla preghiera vi è anche una donna venuta alla sinagoga benché malata da molti anni: è curva, piegata in due, nella assoluta impossibilità di assumere-ricuperare la posizione eretta (ha uno spirito di infermità). Nessuno, ne la donna, ne gli altri, ne il capo della sinagoga, fanno notare la limitazione che grava su questa persona.

Lo sguardo di Gesù raggiunge la donna e apre l'incontro.

Avendola vista, Gesù interrompe - o completa? - il suo insegnamento, col chiamarla a se, dirle «Donna, sei liberata dalla tua infermità» e imporle le mani. La donna è subito raddrizzata.

Ormai diritta, la donna è di nuovo in grado di entrare in relazione con gli altri nella posizione propria della persona umana. La donna, che vive in se stessa la ri-creazione del suo essere, lo legge come opera di Dio e risponde a Dio con la lode: pubblicamente, nella sinagoga «glorificava Dio».

Il capo della sinagoga, però, non legge affatto a sua volta l'avvenimento come opera di Dio, ma lo critica come contrario alla «realtà» del giorno di sabato. La donna, la guarigione, il cantico nuovo che da lei si leva a Dio proprio di sabato, non lo «toccano».

La reazione ufficiale a questo suo «incontro» con la donna è per Gesù l'occasione di proseguire il suo insegnamento, chiarendo qual è il modo giusto di vedere insieme e quella donna malata e il sabato. Nel giorno in cui si ricorda la liberazione del popolo dalla schiavitù, ha senso lasciare la donna «legata da satana», dimenticando così di considerarla come parte del popolo, nella sua dignità di «figlia di Abramo»?.

La donna fa parte di un popolo che nella storia ha il compito di testimoniare la realtà del Dio unico, del Dio liberatore dalla schiavitù: il popolo di Israele, i figli di Abramo, attualizzano la liberazione cessando da ogni lavoro per ricordare per sempre nella lode le grandi opere del Signore.

«lo sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione servile. (...) Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore tuo Dio ti ha comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno ne tu, ne tuo figlio, ne (...). Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato» (Dt 5,6.12-15).

Se ricordare è rendere «presente» la propria situazione di schiavi resi liberi, la liberazione della donna dai legami di «satana» è la visibilità nell'oggi della forza liberante del Dio dell'esodo di cui si sta facendo memoria.

L 'insegnamento di Gesù nell'ambito della liturgia sinagogale del sabato, sfocia in una liberazione nuova in cui le parole sono la mano possente e il braccio di Dio. In Gesù le meraviglie dell'esodo si compiono di nuovo. Egli vede la donna curva nella sua vocazione profonda e originaria di figlia di Abramo e nella sua realtà attuale di persona fisicamente «ridotta», dove il limite fisico è legame schiavizzante, distorsione e opposizione al disegno creativo di Dio. Gesù libera la donna e la restituisce alla sua vocazione di figlia di Abramo. In lei «raddrizzata» la liturgia sinagogale di lode riacquista verità: è il segno vivente e visibile dell'operare di Dio in favore dell'oppresso. In lei, è veramente presente il popolo dei figli di Abramo che, cosciente della propria impossibilità a liberarsi, riconosce l'irrompere di Dio nella sua vita e lo loda per sempre. Ora, mentre gli avversari di Gesù si vergognano, tutti gli altri riconoscono con gioia «le meraviglie da lui compiute» (Lc 13,17).

La donna curva che di nulla può vantarsi, come donna e come inferma, diventa lode pura e continuata del Signore.

Maria di Betania (Lc e Gv)
Donna rimproverata, discepola e profetessa

Maria, con Marta sua sorella, è ricordata nel vangelo di Luca (10,38-42) e di Giovanni (11,1-12,11). Non si sa come le due sorelle abbiano incontrato per la prima volta Gesù e nessun tipo di guarigione è indicato all'inizio della loro conoscenza. In entrambi i vangeli, Marta e Maria appartengono già alla cerchia dei conoscenti-amici di Gesù.

In Luca, durante il cammino verso Gerusalemme Gesù viene accolto da Marta nella sua casa. In questa occasione, Maria sedendosi ai piedi di Gesù, si mette ad ascoltare la sua parola (Lc 10,38s).

Con la parabola del seminatore Gesù aveva già in precedenza invitato ad ascoltare «la parola con cuore buono e perfetto», a custodirla e produrre frutto, a fare attenzione al modo di ascoltare (Lc 8,15.18; cf Mt 7,24; Mc 6,47-49). Aveva anche dichiarato che il legame creato dall'ascolto era più importante del legame naturale: «Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21).

In questa linea correggerà il «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte» con «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc Il,27s).

Gesù appartiene al popolo dell'ascolto, «Ascolta, Israele» (Dt 6,4ss), al popolo che si impegna a tradurre in azione la parola ascoltata: «Quanto il Signore nostro Dio ti avrà detto, noi lo ascolteremo e lo faremo» (Dt 5,27). L 'attenzione amorosa verso I 'unico Dio, verso la sua parola ascoltata, messa in pratica, ripetuta di generazione in generazione, tramandata da maestro a discepolo è propria del credente israelita. La donna entrava in questa catena rendendola possibile (col mettere al mondo i figli), col curarne la sussistenza (degli adulti e dei piccoli) con il suo lavoro casalingo ed anche con l'introdurre alla fede i figli piccoli (la trasmissione della fede era poi affidata al padre e ai maestri).

Marta, accogliendo Gesù, si inserisce in questa catena secondo il modello abituale dell'azione casalinga della donna. Inoltre, riconoscendo probabilmente in Gesù un ospite di particolare importanza, si preoccupa di presentargli molte cose.

Maria, invece, ha un atteggiamento insolito che non si accorda con la tradizione. «Ricevendo» Gesù in modo nuovo, Maria mostra di vedere in lui un rabbi diverso dagli altri, con una parola sua. Per lei questo rabbi, con la sua parola, rinnova «l'ascolta, Israele» e, allora, sceglie di ascoltare la sua parola ed agire secondo questa parola-persona nuova. Maria, sedendosi ai suoi piedi, è consapevole di assumere liberamente nei confronti di Gesù la posizione e il compito di discepola.

La novità di Gesù crea la novità di Maria discepola. ..e la sostiene!

Marta, però, non approva affatto la sorella, ma rivolge la protesta non a lei, bensì a Gesù. Il rimprovero, a modo di leggero ricatto affettivo, è molto chiaro: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti» (Lc 10,40). Gesù è il «colpevole» che non si rende conto ne che la sua presenza comporta un gran lavoro supplementare, ne che Maria non compie il suo doveroso compito di donna ospitale. Secondo l'imperativo di Marta, Gesù dovrebbe autorevolmente rimettere Maria «al suo posto».

Maria non dice nulla: resta seduta ad ascoltare la parola di Gesù. Lascia al «Signore» la valutazione del suo agire e del rimprovero che le giunge indirettamente. Gesù non la «difende» in senso proprio. Nella risposta a Marta, egli dà la lettura giusta di ciò che sta avvenendo: con la sua venuta nella «nostra casa», una cosa sola è necessaria e «rimane»: ascoltarlo; non sono più necessarie molte cose, anzi queste sono dispersive, portano solo agitazione senza costruire, non servono più, appartengono al passato. La risposta rinvia chiaramente a una presa di posizione nei suoi confronti: ospitandolo ci si chiede quale sia la pietanza da lui preferita? chi si vuol servire servendo lui?

Maria sceglie un'unica cosa, il Signore, l'ascolto della sua parola, e si pone con tutta se stessa ai suoi piedi, al suo servizio senza disperdersi in altro/i.

Maria è riconosciuta, accettata e confermata «discepola» dal Maestro stesso e, quindi, autorizzata a vivere e trasmettere la parola ascoltata, il «messaggio» da lui ricevuto.

In Giovanni, Marta e Maria sono sorelle di Lazzaro di Betania, l'amico di Gesù (Gv 11,1). Marta, sapendo dell'arrivo di Gesù, si muove per andargli incontro. Ella è convinta che Gesù sarebbe stato in grado di guarire Lazzaro malato, «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,21), ma, nonostante la fede in lui, «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo» (Gv 11,27), non «vede-spera» come egli possa ora farlo tornare in vita. Infatti, di fronte al comando di togliere la pietra del sepolcro di Lazzaro, Marta, molto realisticamente, avvertirà Gesù: «Signore, già manda cattivo odore, poi che è di quattro giorni» (Gv 11,38-39).

Maria, invece, anche se informata dell'arrivo di Gesù, non si muove, resta «seduta» in casa. Quando, però, la sorella le viene a dire che il Maestro la chiama, si alza in fretta per andare da lui. E a lui esprime la stessa convinzione di Marta, «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,32). Ora, però, le parole escono cariche di lacrime da Maria che si è gettata ai piedi di Gesù.

Maria non chiede nulla, ma, piangendo, rende palpabile quanto sia per lei dolorosa la morte di Lazzaro. Con se stessa, pone tutta la propria sofferenza ai piedi di Gesù... è qui che ha ascoltato, è qui che parla, è qui il riferimento ultimo del suo essere.

«Gesù allora quando la vide piangere...» (Gv 11,33): il pianto di Maria, e il pianto di coloro che sono con lei, provoca Gesù che si commuove e piange a sua volta. «Paradossalmente», Maria induce Gesù ad attuare ciò che egli aveva già previsto, che la malattia fosse per la gloria di Dio e per la fede in lui (cf Gv 11,4.15). Ed ecco che Gesù, mostrando la gloria di Dio che in lui porta la vita anche nella morte, ridona la vita a Lazzaro... e toglie il motivo delle lacrime.

Il pianto, che mette in evidenza l'amore e il grido contro la distruzione e il distacco provocati dalla morte, non ha, dunque, l'ultima parola, bensì la vita e la mensa comune che la celebra.

Gesù torna a Betania, dove i suoi amici, con Lazzaro e le sorelle, offrono una cena a lui e ai suoi discepoli. Marta si dedica ancora al servizio, ma senza .preoccuparsi, dando così il suo apporto alla riuscita dell'incontro (Gv 12,1-2).

Maria coglie l'occasione della cena per esprimere la sua riconoscenza amorosa che diventa atto profetico. Maria non chiede nulla; con l'ungere di profumo i piedi del suo Signore, mostra in modo femminile la sua adesione piena, non contata, a colui che non calcolerà il dono di sé.

Ma il modo di agire di Maria ancora una volta sconvolge. Che Maria si avvicini a Gesù, che lo tocchi per bagnargli i piedi, che poi gli asciughi i piedi con i suoi stessi capelli (sciolti? !) non sembra creare difficoltà, ma che, per fare questo, usi un olio prezioso e, per di più, in grande quantità, questo, sì, crea scandalo!

Nel vangelo di Giovanni si fa interprete del disappunto proprio Giuda, il futuro traditore, «Perché quest'olio profumato non si è venduto per trecento danari per poi darli ai poveri?» (Gv 12,5; cf Mt 26,6-13; Mc 14,3-9).

Maria non giustifica il proprio atto. È Gesù che la sostiene contro chi la critica: «Lasciala fare» (12,7). È di nuovo Gesù che mette in luce il valore profetico del gesto di Maria che, nello spirito del servizio-dono per amore, rimanda al dono della sua vita, alla sua morte e sepoltura. Come il profumo versato da Maria in grande quantità riempie tutta la casa, così il profumo della salvezza, «versato» da Gesù, invaderà la casa-mondo.

Non ha alcun senso di fronte a Gesù fare un calcolo di che cosa valga o no la pena di dargli; non ha alcun senso mettere la sua persona a confronto coi poveri in una gerarchia di precedenza di persone da «aiutare». Quando l'amore verso Gesù non viene mai manifestato in un dono eccezionale, probabilmente Gesù non è riconosciuto e amato come Signore e potrà essere lasciato ed anche tradito.

Maria riconduce tutto, a Gesù: lo ascolta, si muove secondo la sua chiamata, gli si apre nel dolore, gli offre tutto il prezioso profumo del suo amore. Come nel tempio la vedova aveva dato tutto a Dio (cf Mc 12,41-44), così Maria dà il suo tutto perché tutto in lei è rivolto a Gesù.

Col suo dono ricco (nardo) e umile insieme (ai suoi piedi) Maria è segno che rimanda a Gesù, amato e riconosciuto come Signore.

Aldilà del pianto
Annunciatrici del Vivente

«Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto» (Gv 20,13) è la risposta di Maria di Magdala agli angeli che, dall'interno del sepolcro di Gesù, le chiedono «Donna, perché piangi?» (Gv 20,13). L 'assenza del suo Signore lascia nel pianto Maria di Magdala che, liberata da ogni sua malattia, aveva accompagnato Gesù dalla Galilea a Gerusalemme (cf Lc 8,1-3).

Nel «giardino» è la donna ora che vuol sapere dove è il suo Signore che «si nasconde». Maria rivela nel pianto il suo amore verso colui che è entrato come Signore nella sua vita: nulla può arrestare il suo pianto se non il Signore stesso, nulla e nessuno può ormai sostituire il Signore nonostante sia stato deposto. La donna non se ne va, non nasconde il suo dolore... e Gesù la chiama per nome... e nel giardino non c'è più ragione di piangere. Maria è di fronte al Signore e vorrebbe rimanere con lui: lo ama. Nel giardino, dalla terra che ha ricevuto il Signore della vita, dalle lacrime della donna, rinasce la vita.

Ma quel giardino « dell 'incontro » si deve allargare: «Va' dai miei fratelli» (Gv 20,17). Non c'è ombra di indugio in Maria: colei che, testimone del Risorto, può annunziare «lo ho visto il Signore», va subito a comunicare ai discepoli il compimento della salita di Gesù al Padre suo e loro (Gv 20,18).

La donna (le donne) che annunzia che il Signore è vivo, risorto, è colei che è stata vista e accolta come donna dal Signore stesso. Come persona malata o impura è stata guarita, come bimba morta è stata restituita alla vita di adulta, come vedova è stata consolata, come peccatrice è stata perdonata, ...come donna è stata accolta tra i servi del Regno, come donna è stata accolta tra i discepoli, come donna è stata accolta nelle sue espressioni d'amore.

Ri-creata, persona libera, porta Gesù ai fratelli come solo lei può portarlo, come donna.

(da Parole di Vita)

La globalizzazione è un fattore multidimensionale. La sua prima e, oggigiorno, principale sfera d'azione è l'economia. Tuttavia, unitamente a questa sfera, o a partire da essa, assumono via via rilievo altre dimensioni.

ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)

(Passi scelti)

LA PRESENZA DIVINA (SHEKHINÀ)

(I - la)

Rabbi Chizkiya inizio a dire: “Come rosa tra le spine, così è la mia amica tra le fanciulle” (Cant. II, 2). Chi è la rosa? E' la comunità di Israele. Come la rosa, che si trova tra le spine, ha in sé i colori rosso e bianco, così la comunità di Israele ha in sé il giudizio e la pietà. Come la rosa ha tredici petali, così la comunità di Israele ha tredici attributi di pietà, che la circondano da ogni parte. Anche Dio dal momento che fu ricordato per la prima volta fece scaturire tredici parole che ricordassero le comunità di Israele e la proteggessero: poi fu ricordato per la seconda volta. Perché il nome di Dio fu ricordato per la seconda volta? Per far scaturire le cinque foglie forti che circondano la rosa, che sono chiamate salvezze e costituiscono cinque porte. Di tale mistero è scritto: “Solleverò il calice delle salvezze”(Sal. CXVI, 13). Questo è il calice della benedizione, che deve essere poggiato sulle cinque dita, e non di più, come la rosa che si trova sulle cinque foglie forti, paragonate alle cinque dita. La rosa è dunque il calice della benedizione.

(I - 221a)

Rabbi Shim'on iniziò a dire: “Io sono il giglio dello Sharon, la rosa delle valli profonde” (Cant. II, 1). Come è cara la comunità di Israele al Santo, che benedetto egli sia, perché egli sempre la loda ed essa loda lui. Beato il possesso di Israele, che essi tengono in lui, nello speciale santo retaggio, come è scritto: “Poiché possesso del Signore è il suo popolo, Giacobbe è il suo speciale retaggio” (Deut. XXXII, 9).

“Io sono il giglio dello Sharon”. Questa è la comunità di Israele che sta come bellezza ed ornamento nel giardino dell'Eden. “Dello Sharon”, perché canta e loda il re eccelso.

Un'altra interpretazione dell'espressione “Io sono il giglio dello Sharon”. La comunità di Israele è il giglio che vuole abbeverarsi alle acque del torrente profondo, sorgente dei torrenti, come è scritto: “Ed il luogo arido diverrà un lago” (Is. XXXV, 7), “La rosa delle valli profonde”, perché si trova nel luogo più profondo di tutti. Cosa sono i luoghi profondi? E ciò che è detto a proposito del verso: “Dalle profondità io ti invoco, o Signore” (Sal. CXXX, 1). “Il giglio dello Sharon” è il giglio di quel luogo irrigato, dal quale sgorgano i torrenti che non interrompono mai il loro flusso. “La rosa delle valli profonde” è la rosa di quel luogo che è chiamato il luogo più profondo di tutti ed è chiuso da ogni lato.

Considera dunque. All'inizio essa è verde come il giglio, che ha le foglie verdi. Poi è “rosa”, cioè rossa con tonalità bianche; è “rosa” con sei foglie; è “rosa” che si trasforma di colore in colore e muta i propri colori. “Rosa” - all'inizio è giglio, cioè quando desidera unirsi al re; quando poi si è unita al re, mediante il bacio, si chiama rosa, secondo ciò che è scritto: “le sue labbra sono rose” (Cant. V, 13). “Rosa delle valli profonde”, perché muta i propri colori, talvolta per il bene, talvolta per il male; talvolta per la pietà, talvolta per il giudizio.

(I - 103b)

Rabbi Shim'on disse: “Considerato nelle porte della città è suo marito” (Prov. XXXI, 23). Cosa sono le porte? E quel che è scritto: “Sollevate i vostri stipiti, o porte, e sollevatevi voi stesse, o porte eterne, in modo che il Re glorioso possa entrare”(Sal. XXIV, 7). Attraverso quelle porte, che sono gli attributi superiori, il Santo, che benedetto egli sia, si fa conoscere. Altrimenti non si può raggiungere l'adesione a Dio (debequth).

Considera dunque. L'anima dell'uomo non c'è chi possa conoscerla, se non attraverso le membra del corpo, che costituiscono gli strumenti che compiono il lavoro dell'anima. Perciò l'anima si conosce e non si conosce. Così anche il Santo, che benedetto egli sia, si conosce e non si conosce; egli è infatti l'anima dell'anima, lo spirito dello spirito, nascosto e segreto a tutti. Però attraverso quelle porte, che sono le porte dell'anima, egli si fa conoscere. Considera dunque. Esiste una porta della porta ed un attributo dell'attributo ed attraverso di essi si conosce la gloria del Santo, che benedetto egli sia. “L’ingresso della tenda” (Gen. XVIII, 10) - questa è la porta della giustizia; secondo quanto è detto: “Apritemi le porte della giustizia, entrerò per esse, celebrerò il Signore. Questa è la porta del Signore, per cui entrano i giusti” (Sal. XVIII, 19-20).

Questa è la prima porta per la quale si entra ed in essa appaiono tutte le altre porte superiori. Chi riesce a giungere ad essa, ottiene di conoscerla insieme alle altre porte, che tutte dipendono da questa. Ma adesso, che questa porta non si fa più conoscere, perché il popolo di Israele è in esilio, tutte le altre porte si sono allontanate da essa. L'uomo non può più conoscerla né raggiungere l'adesione a Dio (debequth). Però, quando il popolo di Israele ritornerà dall'esilio, tutti gli attributi superiori torneranno a dipendere da essa, come si conviene. Allora la gente del mondo conoscerà la sapienza eccelsa e sommamente valida, che non conoscevano precedentemente, come è scritto: “Si poserà su di lui lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di discernimento, spirito di consiglio e di potenza, spirito di conoscenza e di timor di Dio” (Is. XI, 2). Tutte quelle porte allora dipenderanno da quella prima porta inferiore, che costituisce “l'ingresso della tenda”. Infine esse sono destinate a dipendere dal re, il messia, affinché giudichi il mondo, secondo quanto è scritto: “Egli giudicherà con giustizia z mtseri, e deciderà con dirittura a favore degli umili della terra, colpirà la terra con la verga della sua bocca e con il soffio delle sue labbra farà morire l'empio. Sarà la giustizia cintura dei suoi lombi e la rettitudine cintura dei suoi fianchi” (Is. XI, 4-5).

(I - 210a - 210b)

Rabbi Chiyà cominciò a dire: “Rallegratevi con Gerusalemme e giubilate in essa, o voi tutti che per essa avete fatto lutto” (Is. LXVI, 10). Considera dunque. Quando fu distrutto il Tempio di Gerusalemme a causa dei peccati ed il popolo di Israele se ne andò in esilio, il Santo, che benedetto egli sia, si allontanò sempre più in alto e non volle guardare la rovina del Tempio ed il suo popolo che se ne andava in esilio. Allora la presenza di Dio (Shekhinà) andò in esilio insieme ad esso. Quando il Santo, che benedetto egli sia, ridiscese, guardò il suo Santuario ed era stato incendiato; andò in cerca del suo popolo ed era andato in esilio; ricercò la Shekhinà ed era anch'essa andata in esilio. Allora subito: “Chiamò il Signore Dio delle schiere in quel giorno al pianto ed al lutto, alla rasatura ed a cingere il sacco” (Is. XXII, 12). E quanto ad essa, cos'è scritto 16? “Gemi come vergine, vestita di sacco, per la morte del marito della sua giovinezza” (Gioel. I, 8), come è detto: “poiché egli non c'è più” (Ger. XXXI, 14). Egli infatti si è allontanato da lei e si è prodotta una separazione. Anche il cielo e la terra, insieme fecero lutto come è scritto: “Rivesto i cieli di bruno e dò loro per vestito il sacco” (Is. L, III). Gli angeli superiori fecero tutti lutto per lei, come è scritto: “Ecco i loro prodi gridano fuori, i messaggeri di pace amaramente piangono” (Is. XXXIII, 7). Il sole e la luna fecero lutto e si oscurò la loro luce, secondo quanto è scritto: “Si oscurò il sole nel suo sorgere e la luna non fece risplendere il proprio chiarore”(Is. XIII, 7). I mondi superiori e quelli inferiori piansero per essa e fecero lutto. E tutto questo perché? Perché su di essa, sulla terra santa, dominava adesso il male.

(III - 42a - 42b)

Rabbi Eliezer prese a dire: “Sopra il mio letto, durante la notte, cercai colui che l'anima mia ama, lo cercai e non lo trovai” (Cant. III; 1). “Sopra il mio letto”? Avrebbe dovuto invece dire “nel mio letto”. Allora “sopra il mio letto” che vuol dire? Invero la comunità di Israele parlò dinanzi al Santo, che benedetto egli sia, chiedendogli dall'esilio, perché essa se ne stava con i suoi figli presso altri popoli e giaceva nella polvere. Proprio perché giaceva in terra straniera e impura, così disse: “Sopra il mio letto” io cerco, perché io giaccio in esilio. Perciò, “cercai colui che l'anima mia ama affinché mi traesse dall'esilio”. “Lo cercai e non lo trovai”, perché egli non è solito unirsi a me, se non nel suo Santuario. “Lo chiamai ma non mi rispose” (Cant. V, 6), perché io me ne sto in mezzo ad altri popoli, mentre la sua voce non si fa udire se non ai suoi figli, come è scritto: “ha mai sentito un popolo la voce di Dio che parlava in mezzo al fuoco, come hai sentito tu?”(Deut. IV, 33).

Rabbi Izchaq disse: “Sopra il mio letto, durante la notte”. Disse la comunità di Israele: Sul mio letto gemevo dinanzi a lui, affinché si unisse a me per farmi gioire e per benedirmi con completa allegrezza. Infatti abbiamo appreso che quando il re si unisce alla comunità di Israele, i giusti ricevono in eredità il santo retaggio e le benedizioni si realizzano nel mondo.

(I - 202b - 203a)

Rabbi Chizkiyà prese a dire: “Profezia sulla valle della visione. Che cosa hai dunque, che sei salita tutta sui tetti” (Is. XXII, 1). Considera dunque. Hanno interpretato questo verso riferendolo al tempo in cui fu distrutto il Tempio di Gerusalemme e venne arso nel fuoco. Allora tutti i sacerdoti salirono sui tetti del santuario con le chiavi del Tempio nelle loro mani e dissero: Fino a questo momento noi siamo stati i tuoi tesorieri ma d'ora in poi prendi ciò che è tuo.

Considera dunque. La “valle della visione” è la presenza divina (Shekhinà), che si trovava nel Tempio di Gerusalemme e dalla quale tutta la gente del mondo suggeva il succo della profezia. Infatti nonostante che tutti i profeti profetizzassero da un altro luogo, era dall'interno di essa che suggevano la loro profezia. Perciò la Shekhinà è chiamata “valle della visione”. “Visione”. Abbiamo già spiegato che si tratta della visione delle immagini superiori.

“Che cosa hai dunque che sei salita tutta sui tetti”. Infatti quando fu distrutto il Tempio, la Shekhinà risalì a quei luoghi dove aveva soggiornato all'inizio, piangendo sulla sua dimora, sul popolo di Israele che se ne andava in esilio e su tutti quei giusti e quei pii che si erano trovati laggiù e che erano periti. Da dove lo sappiamo? Dal verso: “Così dice il Signore: s'ode una voce da Ramà, un lamento, un pianto amaro: Rachele piange per i suoi figli”(Ger. XXXI, 14). Allora il Santo, che benedetto egli sia, chiese alla Shekhinà: “Che cosa hai dunque, che sei salita tutta sui tetti?”. Che significa “tutta”? Una volta che ha detto “che sei salita” che senso ha il termine “tutta”? Per accomunare ad essa tutte le schiere celesti e gli altri carri divini che piansero insieme per la distruzione del Tempio di Gerusalemme.

Perciò: “Che cosa hai dunque”. La Shekhinà disse al Signore: i miei figli sono andati in esilio ed il Santuario è stato incendiato, ed io che rimango a fare qui? Infatti tu hai detto: “O piena di grida città allegra; i tuoi caduti non son caduti per la spada, né morti per la guerra” (Is. XXII, 2); “perciò io ho detto: distogliete lo sguardo da me, mi amareggerò nel pianto, non insistete a consolarmi, per la cattura della figlia del mio popolo” (Is. XXII, 4). Allora il Santo, che benedetto egli sia, così le rispose: “Così dice il Signore: Trattieni la tua voce dal pianto ed i tuoi occhi dal versar lagrime, perché le tue pene saranno ricompensate, dice il Signore, essi torneranno dalla terra del nemico” (Ger. XXXI, 15).

Considera dunque. Dal giorno in cui fu distrutto il Tempio di Gerusalemme non vi fu giorno, senza che si verificassero delle maledizioni. Infatti quando il Tempio di Gerusalemme era in piedi i figli di Israele vi prestavano il loro culto e sacrificavano olocausti ed altri sacrifici, la Shekhinà aleggiava su di essi nel Tempio, come una madre coricata presso i suoi figli. Tutti i volti erano illuminati, sicché la benedizione si trovava in alto ed in basso e non passava giorno, senza che in esso non si verificassero benedizioni e gioie. I figli di Israele risiedevano in pace nella loro terra e tutto il mondo riceveva alimento in grazia loro. Ora invece che il Tempio è stato distrutto e la Shekhinà è andata in esilio insieme ai figli di Israele, non c'è giorno in cui non si verifichino maledizioni, il mondo viene maledetto, e la gioia non si trova in alto ed in basso. Ma in futuro il Santo, che benedetto egli sia, risolleverà dalla polvere la comunità di Israele e rallegrerà il mondo di ogni bene, come è detto: “Io li farò venire al monte a me consacrato, li rallegrerò nella casa in cui mi rivolgono le preghiere” (Is. XLVI, 7).

E scritto: “Verranno piangendo ed io li condurrò consolandoli” (Ger. XXXI, 8). Come, riguardo alla situazione precedente, è scritto: “La notte non fa che piangere e le lagrime scorrono sulle sue guance” (Tr. I, 2), così anche successivamente, ritorneranno piangendo, come è scritto: “Verranno piangendo ed io li condurrò consolandoli”.

Ireneo difende l'integrità della rivelazione perché avverte la gravità del pericolo di isolare elementi del messaggio evangelico o della Scrittura in genere, e di elaborare sulla parzialità qualche dottrina che alla fine non ha più niente di cristiano riguardo all'insieme della salvezza.

Una terapia d'amore
per una terra sofferente
di Marcelo Barros

L'ONU ha stabilito il 22 aprile come Giorno della Terra. E' il compleanno della Terra. La Terra "nacque" da una esplosione cosmica 4,45 milioni di anni fa. Allora, perché dedichiamo un giorno di venerazione in questi tempi? Perché il nostro pianeta soffre. Proprio l'ONU è garante di questa situazione: se la gente continua a vivere in questo modo da predatori, la vita sulla terra nei prossimi 25 anni sarà sotto rischio. Tutto indica che saranno solo alcuni animali molto resistenti a restare con vita.

E' questo il tempo di salvare la Terra? Come? Prima di tutto conviene curare l'essere più a rischio: l'uomo. In questi ultimi anni, Brasile che aveva 32 milioni di persone sotto il livello della povertà, adesso ha 52 milioni di affamati. Come possiamo preservare la vita se i poveri vedono la loro vita a repentaglio, sotto il peso della fame e della sofferenza provocate dalla miseria?

Certo che di fronte a quest'argomento un indigeno reagirebbe spaventato: "Per amare la Terra, curare le piante, gli animali, non è necessario fare un appello di dovere. La civilizzazione occidentale è arrivata ad un punto in cui per stabilire un rapporto di rispetto con la Terra, c'è bisogno di minacciare! Se uccidete la Terra morirete anche voi! L'umanità dovrebbe curare la natura solo per piacere e per amore. Forse è vero che in campagna un bocciolo non ci commuove ? Forse non ci motiva un bell'albero fiorito piuttosto che degli arbusti secchi! Quand'è stata l'ultima volta che ci siamo fermato davanti ad un fiore, ad un campagna fiorita, ad un cielo stellato, ad un tramonto?

Per la religione degli indigeni e degli afro-brasiliani, ogni essere dell'universo ha una sua particolare energia ed è segno di presenza di Dio. Perciò tutto è sacro, merita rispetto e deve essere trattato con venerazione e con amore. Gli indigeni dicono: tutto ha uno spirito. Gli afro-brasialiani: tutto ha anima.

Chi crede trova Dio in un rapporto amorevole che, come dice la Biblia, Lui fece e si mantiene nel potere della Sua Parola (Eb 1, 1-3). Il salmo 19 canta: "I cieli cantano la presenza di Dio. L'universo esplicita che è stato Dio il suo creatore". Quando si dice che Dio ha creato il mondo si riconosce che Lui è all'inizio di tutto è il principio, il fondamento primogenito, presente in ogni essere dell'universo, in ogni momento della storia. Nell'intimo di ogni essere c'è l'energia creativa come atto d'amore sempre in vigore. Il giudaismo ed il cristianesimo affermano che l'essere umano è stato creato per sorvegliare la Terra e per dare testimonianza di questa presenza amorosa di Dio: nella bellezza dei fiori ad esempio, nei ruscelli, nel suono del vento, ma soprattutto nel volto delle persone, fatto ad immagine e somiglianza divina.

Un documento cristiano del secondo secolo dice: cogli una pietra e lì sotto c'è Dio. Guarda gli altri come fratelli. Lì stai guardando Dio!

Il Signore disse a Caino: «Dov'è Abele, tuo fratello ?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse io il guardiano di mio fratello?». Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gn. 4, 9-10)

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