Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Un commento su Mt 22,15-22
Dio o Cesare?
 Il dovere della disobbedienza civile
di
François Vaillant



Se c'è una frase di Gesù citata per diritto e per rovescio nel corso dei secoli è la celeberrima: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Il più delle volte è stata interpretata come l'esistenza di una separazione fra due poteri: quello temporale e quello spirituale. «Date a Cesare quel che è di Cesare» dovrebbe implicate per ognuno l'obbedienza allo Stato, mentre «date a Dio ciò che è di Dio» dovrebbe consistere nella pratica religiosa senza alcuna interferenza che possa turbare l'integrità fra questi due poteri. Le parole di Gesù a proposito del tributo a Cesare assumono un significato completamente diverso se si ha l'onestà di non estrapolarle dal contesto in cui vennero pronunciate.

Siamo a Gerusalemme il lunedì successivo alla domenica delle Palme, Gesù ha appena scacciato i mercanti dal Tempio; … i farisei vanno e vengono in compagnia degli erodiani per tendere una nuova trappola al profeta di Galilea. Lo scopo dei farisei è sempre lo stesso: far cadere Gesù screditandolo agli occhi della folla. I partigiani della dinastia di Erode hanno come principale preoccupazione quella di adulare Cesare per poter vivere a loro agio in Palestina. I farisei superano qui la loro ripulsa nei confronti degli erodiani, il cui peccato di impurità è grande, perché sono dei collaboratori dell'occupante romano. Ma i farisei hanno un vantaggio immenso compromettendosi con questa gente una volta ogni tanto, perché se Gesù dicesse che non si deve pagare il tributo a Cesare, gli erodiani sarebbero nella posizione ideale per testimoniare davanti alle autorità romane sull'ostilità di Gesù nei confronti dell'imperatore. Se Gesù dice che bisogna pagare il tributo a Cesare i farisei sono ancora una volta vincenti, perché agli occhi del popolo Gesù apparirebbe come uno che accetta l'occupazione straniera e perderebbe ipso facto tutto il suo credito popolare. E ancora una volta la trappola tesa a Gesù sembra perfetta.

I farisei pongono a Gesù la seguente domanda: «Dicci il tuo parere. È lecito o no pagare il tributo a Cesare?» …. Gesù va dritto allo scopo per stabilire la verità: chiede di vedere il denaro del tributo, un fariseo si mette una mano in tasca e ne trae un denaro e presenta a Gesù questa moneta tenendola sul palmo della mano; Gesù la guarda senza toccarla … «Di chi è questa effigie e l’iscrizione?» chiede loro. «Di Cesare» rispondono in coro! Il denaro mostrato a Gesù reca l'effigie di Cesare con la seguente iscrizione: «Figlio del divino Augusto, pontefice massimo». Chi porta con sé questa moneta coopera di fatto al culto pagano reso al divino Cesare. …… Gesù non dice affatto ai farisei di pagare l'imposta, ma soltanto di rendere la moneta idolatra al legittimo proprietario. L'imposta è un contributo che si versa allo stato, non la restituzione di qualcosa … Gesù non prende posizione sul tributo da pagare o meno all'occupante romano; egli ordina soltanto ai farisei di smetterla di collaborare al culto del divino Cesare e il cessare questa collaborazione passa attraverso la restituzione di ciò che gli appartiene, vale a dire la sua moneta.

Avremmo torto se oggi interpretassimo quel «date a Cesare quel che è di Cesare» come un incitamento a pagare tutte le tasse, poiché aggiungendo nella medesima frase «date a Dio ciò che è di Dio» Gesù ci ordina di vivere compiendo azioni che onorano Dio. Poiché non è possibile onorare Dio compiendo degli atti che lo disonorano - a meno di essere ipocriti come gli scribi e i farisei -, il Vangelo costringe i cristiani a rompere certi legami con il mondo, e ciò vale soprattutto per il potere delle armi. I primi cristiani l'avevano capito perfettamente perché scelsero di essere obiettori di coscienza verso il servizio militare confermando in pieno la profezia di Isaia: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci: un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Is 2, 4).

Ieri come oggi il Vangelo invita gli uomini di buona volontà a non collaborare con lo stato quando questo ordina di compiere atti contrari alle esigenze morali del Regno di Dio. Se alcuni teologi hanno abusato della frase «date a Cesare quel che è di Cesare» per obbligare la gente ad obbedire allo stato in qualunque circostanza, non si può fare a meno di constatare che essi citavano una frase di Gesù in modo parziale, senza tener conto né del contesto «né dei limiti che l'autentico bene comune fissa per l'esercizio di qualsiasi autorità, né del dovere di disobbedienza che può rendersi necessario in alcuni casi per motivi di coscienza». Citiamo qui una frase di P. Grelot che ha scritto pagine fondamentali sulla questione del tributo a Cesare.

(…) Se lo stato chiede ai cristiani di obbedire a leggi che, in coscienza, essi giudichino ingiuste in quanto contrarie all'etica nonviolenta del Vangelo, devono disobbedire a tali leggi. Come potrebbero infatti continuare ad onorare il Dio vivente se altrove accettassero di fare il male che viene loro richiesto? Non è certo perché l'espressione «disobbedienza civile» viene associata a Gandhi che si può pensare che tale concetto sia assente nel Vangelo. Al contrario, proprio come strategia di lotta la disobbedienza civile è ben presente. Quando non è possibile obbedire contemporaneamente alle istituzioni umane e a Dio, «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29).

(tratto da François Vaillant, La Nonviolenza nel Vangelo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1994, pp. 46-49)

Martedì, 06 Settembre 2005 23:11

La meditazione cristiana (Lorena Bartoli)

Il 15 ottobre 1989, la Congre gazione per la Dottrina della Fede pubblicava un documento intitolato "Alcuni aspetti della meditazio ne cristiana" in cui venivano of ferte delle linee guida per una cor retta impostazione di "una giusta via della preghiera" .

Guerra e pace nell'Ebraismo
di Roberto Della Rocca
rabbino capo di Venezia

Guerra e pace sono da sempre temi che assillano l’ebraismo.

Basta dare un’occhiata alla Bibbia per convincersi che di tanto in tanto ed anche con troppa frequenza siamo stati coinvolti in qualche guerra.

Lo stesso ingresso del nostro popolo nella Terra di Israele con Giosuè è stato contrassegnato da grandi e continue battaglie.

In verità le testimonianze bibliche della storia ebraica vedono come eccezionali i periodi di pace. Spesso la Bibbia ci racconta che la "terra è stata in pace per quarant’anni" (Giudici, 3:11, 5:31) oppure per ottant’anni (3:30) e questi intermezzi tra guerre furono evidentemente degni di essere registrati.

Quello che è vero per il popolo ebraico al tempo dei regni, è del resto vero per tutta l’umanità: ovunque la pace è sempre stata una parentesi fra molte guerre.

Tuttavia le norme ebraiche relative alla guerra presentano molte restrizioni e riserve. Nella sua opera "Mishnè Torah" nel trattato relativo all’istituto monarchico. Maimonide dedica diversi capitoli alle norme da osservare in guerra e alla guerra stessa. In sostanza Maimonide raccomanda che una guerra deve avere una sua giustificazione morale che però non può essere una giustificazione arbitraria ma deve essere sancita da una decisione del Sinedrio e non demandata alla esclusiva volontà del re; inoltre devono essere prese strettissime misure atte ad assicurare un trattamento umano al nemico anche allo scopo di preservare la stessa umanità e moralità ebraica.

Ed ancora secondo Maimonide non si deve muovere guerra contro alcuno al mondo prima che venga fatta un’offerta di pace conformemente a quanto è detto nel Deutoronomio (20:10): "Quando ti avvicinerai ad una città per combattere contro di essa, prima le rivolgerai un appello di pace".

Aggiunge Maimonide che quando si cinge una città d’assedio per conquistarla non si dovrà circondarla da tutti o da quattro lati ma solo in tre direzioni, lasciando la possibilità alla popolazione assediata di fuggire e, per chi lo desidera di salvarsi la vita … non si dovranno abbattere gli alberi da frutta nell’area adiacente, né si priverà la popolazione dei flussi d’acqua come è detto "non distruggere alcun albero" (Deuteronomio 20:19) e ciò si applica non solo per un assedio ma in ogni circostanza.

Secondo Maimonide il divieto include non solo gli alberi ma non si potranno rompere gli utensili, gli abiti, non si potrà gli edifici, chiudere i pozzi o distruggere il cibo (Hilchòt Melachim 6:7-10).

Queste norme, che vanno sotto il nome di "bal tashchìt", vietano appunto le distruzioni indiscriminate gli sprechi di risorse e l’inquinamento esse mostrano l’orientamento delle leggi ebraiche finalizzate ad evitare che la guerra ci svilisca e che quando siamo coinvolti nella violenza perdiamo la nostra umanità infliggendo ad altri forme di brutalità che nemmeno la guerra può giustificare.

Altra importante norma ebraica è quella che non bisogna mai godere della sconfitta dei nostri nemici. Nella celebrazione di Pesach quando ricordiamo la vittoria sui crudeli oppressori egiziani, in tutti i nostri canti non vi è una sola parola di gioia per la distruzione del nemico. Al contrario negli ultimi sei giorni della festività recitiamo solo metà Hallel (Salmi, 113-118) perché il Signore disse agli angeli: "… Le mie creature stanno annegando nel Mar Rosso e voi intonate canti di lode?"

Gli egiziani ci perseguitarono, essi furono nemici mortali eppure anche le loro vite erano preziose vite umane. Per quanto odioso sia un nemico, non si ha mai il diritto di gioire per la sua caduta. "Non gioire quando il tuo nemico cade" (Proverbi, 24:17). Per la stessa ragione quando nel Seder di Pesach enumeriamo le dieci piaghe inflitte agli egiziani, versiamo una goccia di vino fuori dai nostri bicchieri per mitigare la nostra allegria con la triste constatazione che la nostra liberazione è costata la sofferenza da altri esseri umani.

Il nostro bicchiere di felicità non può essere stracolmo, se la nostra libertà ha comportato una tragedia per altri, siano essi pure nostri acerrimi nemici.

Quindi la guerra non è mai stata vista come prima o desiderabile soluzione ai conflitti umani. A David, re di Israele, Dio non consentì la costruzione del Tempio, rimandata al figlio Salomone: "… Tu non costruirai il Mio Tempio, una Casa per il Mio Nome poiché tu sei un uomo di guerra e hai sparso sangue…" (Cronache, 22:8; 28:3). Le guerre condotte da David furono certo guerre giuste ma per quanto giusta sia una guerra chiunque vi sia rimasto coinvolto non è qualificato per costruire un tempio a Dio, poiché il Tempio è simbolo di pace.

La pace è il supremo ideale ebraico: nella visione profetica il centro focale di tutte le nostre speranze messianiche risiede nella pace universale.

In ebraico si dice "shalom". La parola si rifà alla radice "shalem" che dà l’idea di completezza e di interezza. Non vi è completezza in n mondo lacerato dalla guerra e dall’intolleranza.

Per la pace, dicono i Maestri (Trattato Derech Eretz Zutà cap. 9) si può anche mentire e secondo Rabban Shimon ben Gamliel, il mondo si regge su tre cose: la verità, il giudizio e la pace (Trattato di Avòt, 1:18). La verità e il giudizio sono i requisiti essenziali e la più sicura salvaguardia per il mantenimento della pace. La massima sopraccitata di Rabban Shimon ben Gamliel viene così commentata nel talmud: "…Le tre cose in realtà sono una sola: se il giudizio è eseguito, la verità è rivendicata e ne risulta la pace…".

Nessuna benedizione può essere tale se non vi è la pace che la completi e la attui pienamente.

Nella tradizione ebraica dunque la pace è un punto centrale dell’esistenza umana; ogni sforzo deve essere teso al suo raggiungimento, nulla va tralasciato per scongiurare la guerra. La guerra è il male più grande che può toccare l’uomo perché lo sminuisce e lo disumanizza, cancellando la sua componente divina. Ogni ebreo al termine della Amidà, parte principale delle tre preghiere quotidiane, recita la formula: "… Concedi una pace buona su di noi…". La pace non è tale se solamente tacciono i cannoni, perché sia completa dovrà essere buona. Se tacciono i cannoni è già un gran successo, ma è solo il punto di partenza verso la buona pace, che sarà prima di tutto rispetto per ogni persona.

Sempre presente dunque è nella mente dell’ebreo il concetto di pace come bene supremo, dono di Dio, emanazione diretta dell’Eterno tanto che la parola "shalom" pace è divenuta il saluto abituale dell’ebreo quale espressione di buon augurio, conformemente a quella massima rabbinica che cita: "… Sii tu il primo a porgere lo shalom a qualsiasi persona… " (Trattato di Avòt, 4:15).

Tratto dal sito www.morasha.it


Martedì, 06 Settembre 2005 22:37

Come si è formata la Bibbia? (Gaetano Castello)

Come si è formata la Bibbia?
di Gaetano Castello

Grazie al crescente interesse per la Bibbia, sviluppatosi tra i cattolici soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II è ormai comunemente noto che essa si presenta, dal punto di vista letterario, più come una biblioteca che come un unico libro. Ciò è vero dal punto di vista storico e letterario senza nulla togliere all’unità della Sacra Scrittura come Parola di Dio, al principio unificante, che i credenti riconoscono nell’Inspirazione divina.

E in realtà i 73 libri che compongono la Bibbia, dalla Genesi fino all’Apocalisse, dalla creazione alla fine del tempo, sono stati composti in epoche molto diverse gli uni dagli altri, lungo un arco storico che copre oltre un millennio (dal X sec. a.C. al II d.C.).

La storia salvifica, prima ancora di essere scritta in libri, costituì la vita stessa del popolo di Israele prima, della chiesa poi. In Israele i fatti accaduti venivano raccontati all’interno della famiglia, del clan. Le regole di culto e i ricordi storici ad esse collegati venivano tramandati nel contesto del tempio, soprattutto da parte dei sacerdoti. Le gesta di eroi popolari, dei grandi condottieri, dei re, venivano ricostruite epicamente e trasmesse in forma orale. È quanto implicitamente afferma la Dei Verbum:

«nel suo grande amore Dio, progettando e preparando con sollecitudine la salvezza di tutto il genere umano, si scelse con singolare disegno un popolo... egli si rivelò con parole ed azione al popolo, che s’era acquistato, come l’unico Dio vero e vivo, così che Israele sperimentasse quali fossero le vie divine con gli uomini e, parlando Dio per bocca dei profeti, le comprendesse con sempre maggiore profondità e chiarezza e le facesse conoscere con maggiore ampiezza fra le genti (...). l’economia della salvezza preannunziata, narrata e spiegata dai sacri autori, si trova come vera parola di Dio nei libri dell’Antico Testamento...» (n.14).

Un lungo processo formativo

La formazione della prima parte della Bibbia, il Pentateuco, è stata lungamente indagata da quando si è abbandonata la semplice idea che suo unico autore fosse Mosè, il grande profeta e legislatore di Israele sotto la cui guida il popolo fu liberato dalla schiavitù egiziana. Probabilmente Mosè mise per iscritto, come è verosimile nel mondo dell’Oriente antico, la legge del Sinai, alla quale Israele si obbligava attraverso il patto, l’Alleanza. Ma la stesura del Pentateuco, così come ci è giunto, fu molto più laboriosa.

Sul processo di formazione scritta del Pentateuco il parere degli autori è tutt’altro che concorde. Il grande contributo offerto dalla teoria cosiddetta di Graf-Wellhausen è variamente discusso ai nostri giorni. Secondo i due studiosi, che alla fine del secolo scorso svilupparono idee in parte già elaborate prima di loro, il Pentateuco è frutto di un grande sforzo redazionale attraverso cui vennero fusi insieme documenti scritti sulla storia delle origini, sui patriarchi e sull’esodo dall’Egitto. Il lavoro finale venne compiuto dal cosiddetto autore «Sacerdotale», uno o più autorevoli personaggi appartenenti alla cerchia dei sacerdoti esiliati in Babilonia alla metà del VI secolo a.C.. Il «Sacerdotale» fu autore di una storia delle origini di Israele e del mondo che integrò con analoghi sforzi teologici compiuti già da altri israeliti. Raccolse così quanto gli mettevano a disposizione altri documenti composti molto tempo prima; il cosiddetto «Deuteronomista», l'«Elohista» e prima ancoralo «Jahvista».

Senza entrare nei dettagli di questa teoria, bisogna dire che la proposta appariva convincente per la capacità di chiarire molti di quei dubbi che avevano da sempre accompagnato la lettura e lo studio del Pentateuco: perché due racconti della creazione (Gn 2 e 3), perché ripetizioni ed incoerenze nel racconto del Diluvio (Gn 6-8), ripetizioni ed incongruenze nelle storie patriarcali (Gn 12-36)? C'è da dire che proprio a partire da queste domande la ricerca biblica mosse i suoi primi passi verso lo studio della formazione della Bibbia. Ciò spiega il consenso quasi universale che la teoria, a cui si è fatto cenno, trovò tra gli studiosi della Sacra Scrittura.

Lo sforzo è continuato e tutt'ora si cerca di correggere o integrare la teoria Graf-Wellhausen con nuove e più soddisfacenti prospettive.

Analoghe osservazioni vennero fatte, naturalmente, anche sugli altri libri biblici. Già da tempo si parla, ad esempio, di un primo, secondo e terzo Isaia, indicando sommariamente il fatto che il libro del grande profeta è in realtà frutto di almeno tre diverse composizioni risalenti la prima al profeta stesso, VIII sec. a.C. (capp. 1-39), la seconda dell'epoca esilica, VI sec. a.C. (capp. 40-55), la terza dell' epoca post-esilica, VI - V sec. a.C. (capp. 56-66).

E, d'altra parte, è facile intuire che tutti i libri profetici nacquero come risultato di uno sforzo compositivo più o meno lungo e complesso. I profeti infatti ebbero il compito di parlare a Israele, non di scrivere per Israele. Così pure per le riflessioni sulla vita, il dolore, la gioia, la morte, argomenti della lunga e continua riflessione sapienziale di cui libri come Giobbe, Proverbi, Sapienza, sono il risultato finale.

La formazione dei Vangeli

Non meno interessante è la storia della formazione del Nuovo Testamento avvenuta certamente in tempi più brevi ma non senza del periodi di elaborazione e di rimaneggiamento degli scritti.

Limitando le nostre brevi osservazioni ai Vangeli, è stata soprattutto la cosiddetta scuola della «storia delle forme» nata in Germania all'inizio del nostro secolo, a studiare il lavoro di composizione letteraria che dovette precedere l'ultima redazione dei Vangeli, quella che consegnò alla storia e alla fede i nostri testi attuali. Le osservazioni fatte da alcuni studiosi più attenti al ruolo che ebbero nella composizione le personalità proprie dei singoli evangelisti (storia della redazione) e da altri sul ruolo che ebbero le tradizioni orali che precedettero le stesure scritteci permettono oggi di considerare i diversi aspetti di quel processo compositivo.

Subito dopo la morte/risurrezione di Gesù, i discepoli, illuminati dal grande evento della Risurrezione che permetteva loro una rilettura teologica dei fatti e delle parole del Maestro, trasmisero in più forme e diversi contesti le parole, i gesti miracolosi, le storie legate alla sua vita. Ciò avveniva regolarmente nelle prime liturgie battesimali, in cui si richiamavano specifiche espressioni del Maestro, nonché racconti come il battesimo di Gesù, per chiarire il senso del sacramento. Così pure la celebrazione della Cena Eucaristica.

Le riunioni venivano accompagnate con inni e confessioni di fede in Gesù Messia e Figlio di Dio.

L' annuncio cristiano all'esterno (kérygma) avveniva attraverso la proposta essenziale della fede, espressioni concise sulla passione-morte-risurrezione di Gesù, il Messia atteso. La catechesi per la preparazione al Battesimo e per la vita della comunità riprendeva episodi illuminanti della vita di Gesù, letti, naturalmente, a partire dalla comprensione più profonda dei fatti all'indomani della Risurrezione. Tutto ciò costituiva la vita stessa della comunità cristiana, la sua prassi liturgica e catechetica. Furono questi elementi a costituire, nella loro forma orale e nelle prime stesure per iscritto, il materiale di partenza a disposizione degli evangelisti.

Il primo racconto esteso sulla vicenda di Gesù fu quello della passione-morte-risurrezione, come approfondimento teologico dell'annuncio kerygmatico della fede, tanto più necessario quanto più scandaloso appariva a giudei e pagani la notizia di un Messia, Figlio di Dio crocifisso. Se Marco partì da questi elementi primitivi per scrivere il suo Vangelo, il primo, Matteo e Luca poterono utilizzare la composizione marciana e le altre fonti a loro disposizione, tra cui una fonte in cui vennero raccolti i «detti» di Gesù.

Ad un simile processo di formazione accenna,. pur senza entrare nelle problematiche scientifiche, il Concilio Vaticano Il al n. 19 della Dei Verbum:

«... Gli apostoli poi, dopo l'ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dalla luce dello Spirito di verità, godevano. Egli autori sacri scrissero i quattro vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte tramandate a voce o già per iscritto, redigendo una sintesi delle altre o spiegandole con riguardo alla situazione delle chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere. Essi, infatti, attingendo sia dalla propria memoria e dai propri ricordi sia dalla testimonianza di coloro che "fin dal principio furono testimoni oculari e ministri della parola", scrissero con l'intenzione di farci conoscere la "verità" (cf Lc 1,2-4 ) degli insegnamenti sui quali siamo stati istruiti».

Anche per i Vangeli dunque, benché in un tempo molto più breve (dal 30 al 90 d.C;), il processo formativo è articolato.

Gli scritti che noi oggi abbiamo a disposizione, per l'Antico come per il Nuovo Testamento, sono perciò frutto di un lavoro che ha coinvolto uomini e generazioni impegnati in un cammino di fede in cui seppero distinguere tra gli avvenimenti della storia e le vicende della loro vita, la voce stessa di Dio. La rivelazione di Dio in «parole e gesti» coinvolse non primariamente degli scrittori, ma la vita e la storia di Israele, come quella dei discepoli di Gesù. La fissazione della rivelazione in libri scritti attraversò dunque un processo di formazione lungo e articolato, finalizzato, nella volontà divina, a conservare nel tempo l'efficacia della sua Parola.

Tutto ciò lungi dal diminuire il carattere della Bibbia come Parola di Dio, fa riflettere sul «come» Dio entra in rapporto con l'uomo: non al di sopra della storia umana ma nei fatti e nelle situazioni della vita. Non consegnando all'uomo un «Libro Sacro» da lui confezionato; ma imprimendo un movimento che da fatti e parole giungerà a cristallizzarsi nella Sacra Scrittura, «luogo» privilegiato della divina rivelazione. Una conseguenza ulteriore, su cui rifletteremo in un approfondimento successivo, è il rapporto originario tra Sacra Scrittura e Tradizione che va considerato a partire dalla formazione stessa della Bibbia.

Martedì, 06 Settembre 2005 22:28

Siamo corpi (Faustino Ferrari)

Dio per comunicare il suo amore per noi si è fatto carne.

Il dodicesimo gradino si ha quando il monaco non solo nel cuore, ma anche con lo stesso atteggiamento del corpo, manifesta sempre l’umiltà a chi lo vede.

Mercoledì, 31 Agosto 2005 21:29

5. Quadro dei libri biblici (Rinaldo Fabris)

La raccolta dei libri che attualmente formano la Bibbia ebraica e cristiana - Antico e Nuovo Testamento - si possono distribuire in grandi blocchi sulla base di alcuni criteri di carattere storico-cronologico, letterario e teologico.

Mercoledì, 31 Agosto 2005 21:03

Conclusione (Renzo Bertalot)

L’ecumenismo è ormai “irreversibile”; oggi si trova rafforzato da una metodologia robusta che favorisce sia il confronto sia le convergenze. Dio ci ha fatto dono del dialogo, nella sua qualità di strumento, affinché chiunque crede intenda.

Le Chiese dell'oriente cristiano
VII. La Chiesa Ortodossa Eritrea
di Mervyn Duffy


 

Il cristianesimo in Eritrea, regione situata lungo il litorale di sud-ovest del Mar Rosso, data almeno dal quarto secolo  periodo in cui fiorì  il regno cristiano antico di Aksum.  Questo regno cominciò a declinare  nel settimo secolo come conseguenza delle invasioni musulmane, ed il nuovo regno si stabilì e si consolidò all’interno, nell’altipiano etiopico.  La regione tuttavia mantenne una certa indipendenza finchè cadde sotto la dominazione musulmana  nel sedicesimo secolo. L’Eritrea  fu  una colonia italiana da 1890 a 1941, quando questa fu presa dagli Inglesi. Ha formato una federazione con l'Etiopia nel 1952 ed è stata annessa come provincia etiopica  nel 1962.  La lunga lotta per l’autogoverno culminò con la dichiarazione di indipendenza il 24 maggio 1993.  In quel tempo la popolazione ortodossa del paese  era, come circoscrizione religiosa, all'interno della chiesa ortodossa etiopica.

Nel mese di luglio del 1993, con il supporto del governo, i vescovi della regione chiesero al Papa Shenouda III della Chiesa Ortodossa Copta  la separazione dalla Chiesa Ortodossa Etiopica ed il riconoscimento dello status di autocefalia.  Il 28 settembre 1993  il Santo Sinodo Copto rispose favorevolmente alla richiesta ed autorizzò la formazione, nei monasteri copti, di circa dieci vescovi per l’Eritrea. Il 19 giugno 1994 il Papa Shenouda, al Cairo ne ordinò cinque come nuovi vescovi.

Il processo di costituzione di una Chiesa Ortodossa Eritrea si è avviato e stabilizzato in accordo con la Chiesa Ortodossa Etiopica

 All'inizio di settembre del 1993  il patriarca etiopico Paulos  ed l’arcivescovo Philippos di Asmara, vescovo dell’Eritrea,  firmarono l’accordo che sanzionava  la separazione delle loro chiese, mentre  affermava  il loro desiderio di lavorare sempre  e  molto attentamente insieme. Il 28 settembre 1993. Nel febbraio del 1994  le due Chiese, eritrea ed etiopica, hanno firmato ad Addis Ababa  un  accordo che  riafferma lo status di autocefalia  per entrambe le chiese e riconosce alla Chiesa Copta un Primato di Onore fra le chiese ortodosse orientali in Africa.

Dopo  intense discussioni tra il governo civile ed i capi della Chiesa eritrea nel mese di aprile del 1998  l’Arcivescovo di Asmara  Philippos è stato scelto come  primo patriarca della Chiesa Ortodossa  Eritrea. È stato installato come patriarca dal papa Shenouda III al Cairo il giorno 8  maggio del 1998.  Un protocollo fu firmato in tale occasione tra i due Santi Sonodi, eritreo ed etiopico.

In  esso si prevede una stretta collaborazione tra le due Chiese, la memoria dei due Patriarchi nella liturgia di entrambe le chiese, la convocazione, almeno ogni tre anni, di un Sinodo generale comune, la formazione di una comune commissione teologica per il dialogo con le altre Chiese, l'istituzione di un comitato permanente dei due sinodi per promuovere la cooperazione in  alcuni settori come la formazione teological, i servizi sociali ed i progetti di sviluppo.

 Su una popolazione di circa  3.500.000 gli ortodossi  sono circa il 40% , il 50% sono musulmani  sunniti, il  5%  sono cattolici ed i protestanti il 2%. La maggior parte  degli ortodossi sono membri del gruppo etnico di Tigrinya che risiede per la maggior parte sugli altopiani centrali e del sud. Oggi la chiesa ortodossa di Eritrea ha circa 1.500 chiesa, 22 monasteri e 15.000 preti.

I fedeli ortodossi  eritrei in Gran Bretagna sono sotto la cura pastorale del  vescovo Markos, che ha responsabilità della diaspora. Il vescovo Bishop Makarios un eritreo etnico e membro del Santo Sinodo Copto, è responsabile dei fedeli eritrei ortodossi  negli Stati Uniti.

 


TERRITORIO: Eritrea e diaspora
GUIDA: Patriarca Antonios I ( eletto nel 2004)
TITOLO: Patriarca dell’ Eritrea
RESIDENZA: Asmara, Eritrea
INSIEME DEI MEMBRI: 1.400.000

La musica e la morte
Commento a Blok
di Vladimir Zelinskij

I

La presenza di Blok dentro di me prende le mosse da una fortuita nota puškiniana, dall'eco di un “nome lieto” (1) o dal ritmo che casualmente si ridesta nella memoria e nel respiro. L'armonia, in ciò che ha di fondamentale, sembra essere elastica e inscindibile, e ciò che in essa è più arcano è sempre ciò che è poi più vicino. Il destino e il motivo di un poeta possono rifrangersi nelle risonanze di un altro, come se riemergessero dalle profondità dell'armonia. Spesso tento di sorprenderli in qualche motivo che mi investe.

“Non voglia Iddio ch'io perda la ragione.
No, meglio la bisaccia ed il bordone,
la fatica e la fame.
Non perch'io faccia un alto apprezzamento
della ragione e non sarei contento
di spezzarne il legame:
se mi lasciasser libero, sarei
così vivo e felice: me ne andrei
nella nera foresta!
E canterei quel mondo affascinante
di sogni che in delirio fiammeggiante turbina nella testa.
Oppure presterei ascolto all'onda
e volgerei lo sguardo alla profonda
e vuota volta del cielo.
Libero e forte come l'uragano
sarei che investe i boschi e scuote il piano
portando lo sfacelo.
Ma, ahi, se un dì perdessi la ragione,
come la peste orribile, in prigione
sarei, stolto, rinchiuso,
e a guardarmi verrebbero, attraverso
la grata, come belva, e a farmi il verso
e a ridermi sul muso.
E non udrei dell'usignolo il lieto
gorgheggio nella notte e del querceto
il brusio sordo e iene,
ma il grido disperato degli insani
miei compagni e le ingiurie dei guardiani
e il suon delle catene”. (2)

Nella poesia di Puškin e forse solo in essa sussiste questa compiuta, indivisibile armonia degli elementi che l'hanno generata. Tra quella regione dove i versi permangono ancora allo stadio di magma, non ancora dischiusi, e quella dove essi s'incarnano nel fluire della parola, dove l'arte li erige perché si cementino nella cultura, non solo non ci sono opposizioni, ma neppure crepe e connessure. Non si ritroveranno qui dei limiti che conducono all'intangibile, o all'opera di mano umana; e, ovunque si vada, al cosmo o al logos, incontreremo piuttosto ciò che si chiama armonia e che è segno dell'umanità incarnata. Nel pensiero di Blok l'armonia raccoglie in sé elementi eterogenei - parole e suoni - che solo per un miracolo possono fondersi totalmente. Ma il miracolo resta comunque un fatto unico; più spesso le onde sonore non trovano le parole giuste, alle parole manca la linfa sonora, pare che radici e significati non sappiano attingere alla corrente sotterranea della musica; la loro stessa perfezione risulta tediosa e muta. In Blok non è così: i suoi versi sono ancora fin troppo aderenti al “fiammeggiante delirio”, sembra non si siano ancora del tutto staccati da quella musica che li ha condotti alla parola; portano ancora incrostate inflessioni di un linguaggio non terreno, sono popolati da quegli esseri nebbiosi-palustri-antelucani che così strani appaiono nel mondo umano. Cukovskij, nel Libro su Aleksandr Blok, dice: “Il suo verso non fu un macigno ma la scorrevole fluidità di vocali”. E lo stesso critico non può che riprendere le parole di Shakespeare: i versi “son di quella stessa materia di cui son fatti i sogni”.

Questi sogni sono fissati dal poeta nell'istante della loro massima luminosità, quando è assoluto il loro potere sull'anima. Essi vengono svelati ed espressi nel verso, in questo asilo della lingua russa la cui protezione ci siamo ormai abituati a utilizzare, casualmente, sentimentalmente, senza il benché minimo pensiero di ringraziamento. La stessa vita del poeta è uno di questi asili, reso abitabile, così, alla buona, nella fantasia dei vari lettori. La vita e la poesia di Blok stanno spalancate di fronte a noi:

“Qui il ristorante è chiaro come i templi,
e il tempio è aperto come un ristorante”. (3)

La vita di ogni poesia è sempre accessibile e nello stesso tempo inattingibile, “come il mistero di una porta socchiusa, nel tempio di un sogno dorato”(4). Tentiamo, seguendo gli sfaccendati, i pellegrini, i solerti impiegati dei musei poetici, di accostarci ancora una volta a questo mistero, di trovare i suoi riflessi nella parola puškiniana...

Il Blok che più mi è caro non è assolutamente il Blok mistico, ricercato, pietroburghese, il Blok dei ristoranti e dei violini o, come diceva Bunin, il Blok “col volto statuario del bell'uomo e del poeta”, ma quello che sembra ormai trapassato: “il Blok che ha dimenticato come si scrive in versi”, che ha già scritto tutto quello che era essenziale, che ha già capito ogni cosa, il Blok condannato, stordito, incatenato alla “assurdità delle riunioni”, “imprigionato in una ragnatela” (come affermano i testimoni oculari), il Blok che desidera soltanto la morte e che ha esitato di fronte a essa solo per potersi liberamente accomiatare, alla fine, dall'arte, da Puškin, dalla Russia e da se stesso.

Ed è proprio con questo famoso addio che vogliamo iniziare il nostro cammino verso Blok.

II

Il suo discorso su “La missione del poeta”, che venne pronunciato nell'ultimo anno di vita e fu dedicato a Puškin, è evidentemente pieno di nostalgia. Già tempo addietro Blok aveva presentito la rovina del suo universo patrio. Questo presentimento si avvera: in lui va ormai morendo la sua patria sonora. Sempre gli stessi abissi e gli stessi spettri sono evocati da questo discorso (il caos, il cosmo, l'anarchica nebbia, l'ordinata armonia) e ancora la stessa aspra schiettezza blokiana nel modo di raccontare. Ma Blok non è più là. Egli vede il proprio mondo come se stesse già su un'altra riva, per contrasto con ciò che ormai e abbandonato. E le sue parole sono chiare e coraggiose.

“Nelle profondità insondabili dello spirito, là dove l'uomo cessa d'essere uomo, nelle profondità inaccessibili allo stato e alla società, creati dalla civiltà, si susseguono le onde dei suoni, simili alle onde dell'etere che abbracciano l'universo; si succedono ritmiche oscillazioni, simili ai processi che formano le montagne, i venti, le correnti marine, il mondo vegetale e animale.

“Questa profondità dello spirito è nascosta dai fenomeni del mondo esterno. Puškin dice che, forse, più che agli altri uomini è nascosta al poeta [...]. (5)

E ora questa profondità è nascosta anche a lui.

“Una pessima fisica, ma che audace poesia”, dice Puškin: “essa ha le sue scaturigini proprio in quelle onde che abbracciano l'universo, innalzano i monti, governano la vita del mondo che “consiste in una incessante creazione di nuove specie, di nuove razze [...]”. (6)

“Il poeta è figlio dell'armonia; e gli è stato assegnato un ruolo particolare nella cultura mondiale. A lui sono affidati tre compiti: anzitutto liberare i suoni dalla nativa anarchia degli elementi in cui sono immersi; in secondo luogo condurre quei suoni all'armonia, dar loro forma; in terzo luogo, portare quell'armonia nel mondo esterno.” (7)

Nel suo primo compito il poeta è un medium, un veggente;
nel secondo è l'artista, l'artigiano del proprio talento;
nel terzo è il letterato, circondato dalla plebe.

La plebe infatti domina questo mondo esterno nel quale si inserisce l'armonia. Essa, come è ovvio, si preoccupa solo di ciò che è utile. Raramente il discorso sulla poesia può esser fatto salvo dagli insulti contro una certa plebe. Essa viene disprezzata secondo lo spirito del classicismo: il poeta suona distrattamente sulla propria lira, ma l'ottuso volgo pretende da lui solo ciò che gli può essere utile e può fargli da ammaestramento. Essa è sprezzata dal punto di vista romantico: l'anima, affascinata dalle stelle, non desidera sapere quello che tutt'intorno “sull'auro o sul pane gridano possenti le masse”(8). Essa ancora viene sferzata da un punto di vista sociologico e morale, e per Blok, che segue ormai una tradizione democratica ben collaudata e disinteressata, qualsiasi plebe è necessariamente “mondana”: è fatta a esempio di “buontemponi coi tubini”, di “stalloni della guardia”, di burocrati di un qualche organo poliziesco censorio. Ma comunque veda il poeta la sua plebe e dovunque la collochi, egli la intende sempre come qualcosa di opposto alla poesia. Il mondo esterno, nel quale il poeta, in base ai compiti che gli sono affidati dalla plebe, deve “illuminare i cuori dei confratelli” o “spazzare le strade” (9), è sempre infinitamente lontano dall'anarchico “caos nativo” dal quale gli vengono le onde sonore...

“se mi lasciasser libero, sarei
così vivo e felice: me ne andrei
nella nera foresta!” (10)

Ma il poeta non si limita allo struggente progetto di una fuga simbolica dalla plebe e non sempre si strappa via da essa. Di quando in quando, quando monta l'ebbrezza della terra, quando si scatenano le razze, quando le ritmiche oscillazioni, che vengono dalle viscere oscure, si trasmettono alla società e allo stato, al poeta sembra che dalle profondità del caos sia zampillata la poesia stessa. E allora, tra l'orrore degli amici e di chi era iniziato al mistero della sua arte anteriore, egli fraternizza inaspettatamente con la plebe e cerca di condividere con essa i suoi tre compiti fondamentali. Adesso i visibili interpreti delle forze della natura non sono né il bosco né il vento che batte le pianure, ma le strade che la tormenta ha sepolto sotto la neve e gli uomini che le percorrono. Da qui il poeta attinge suoni e parole per trasformarli in armonia.

“L'armonia è accordo delle forze del mondo, ordine della vita del mondo”(11). Per far nascere l'armonia è necessario “racchiudere il suono, estraneo al mondo esterno e suscitato dal profondo, nella forma tangibile e salda della parola”. (12)

Poi l'ebbrezza scema., e il poeta, in modo ancor più netto di prima, comincia a staccarsi dalla plebe che lo circonda. Ma l'armonia, creata in un momento di breve e inebriante fraternità con le forze della natura, resta.

Conosce forse il poeta una qualche misura comune tra la vita delle forze naturali, i suoni che vengono dal profondo e il discorso umano plasmato dall'arte? È proprio un'armonia, un rivestire di carne, con parole, con suoni, con tinte di qualcosa di caotico che ci viene dalla profondità delle onde? Abbiamo il diritto di supporre, seguendo le meditazioni di Blok, che l'orecchio del poeta possa discernere, in queste recondite forze dell'universo, un sistema musicale da noi percepibile e rivolto al mondo umano, e inoltre un qualche progetto che è racchiuso in queste forze della natura e che forse fa loro da guida. Probabilmente, un uomo con il cuore meno musicale, più solidamente preservato dall'influsso delle forze naturali, ma maggiormente sensibile al progetto da loro dettato, sarebbe più preoccupato della sua veridicità, della sua conformità all'Archetipo di ogni senso, ma il poeta è interamente assorbito dalla “tensione dell'ascolto”, dalla sua mediazione tra il caos e il cosmo da esso scaturito. La forza d'attrazione del caos è ineluttabile, il suo potere musicale affascinante, e a chi l'ha provato dentro di sé non deve essere estranea neppure la tentazione di restare con esso per sempre, di dissolversi nelle beate forze della natura, nascosto agli occhi della plebe grazie ai “fenomeni del mondo esterno”.

“E canterei quel mondo affascinante
di sogni che in delirio fiammeggiante
turbina nella testa.” (13)

Il poeta è pronto a riconoscere la seducente lontananza del delirio come proprio paese. La tentazione di tornare là per sempre non lo abbandona mai. Perché solo là egli può pienamente realizzare la sua vocazione. Qui, invece, essa è raggiunta il più delle volte a dispetto della plebe, attraverso la rinunzia alla mediocrità del mondo umano con la sua “utilità” e con la sua volgarità, ed è raggiunta segretamente.

“Segretamente anela alla morte il cuore, vola via, cuore leggero [...]. (14)

Perché “segretamente”? Perché ciò che è più segreto e ineffabile e questo evidentemente il poeta non può non ammetterlo e cioè le forze naturali dei sogni, dei “fiammeggiante delirio”, delle “onde sonore” che si gettano l'una sull'altra, dell'anarchico “caos nativo”, sono forze fatali che attraggono non solo con la musica ma anche con la morte e che inoltre rendono sia l'una che l'altra, la musica e la morte, ugualmente responsabili della nascita dell'armonia...

III

Ogni poeta si volge e guata incessantemente a ciò che fa. Blok, con tutta la sua medianica predisposizione alla percezione delle luci e dei suoni che vengono “di là” (15) (da un paese che per ora resta non detto), era più di ogni altro affascinato dalla fonte della propria poesia. La più precisa, ripetuta e persistente indicazione a proposito di questa fonte fu, nel suo vocabolario, la parola “musica”.

“La musica è la più perfetta di tutte le arti perché essa sa meglio esprimere e riflettere il progetto dell'Architetto[...] Ogni momento orchestrale è la rappresentazione del sistema dei sistemi stellari, con tutta la sua istantanea e fluente varietà [...]

“La musica crea il mondo. Essa è il corpo spirituale del mondo [...] Raggiungendo il proprio culmine, la poesia, probabilmente, si perde nella musica.”

Questi pensieri vennero suscitati dalle riflessioni su un melodramma di Wagner. Un'annotazione del Diario (1909) comincia con le parole: “Wagner a Näuheim: qualcosa di assolutamente indicibile: ricorda l'anamnésis”.

Anamnesis è la parola con cui Platone indica la reminiscenza della verità, di cui un tempo l'uomo era partecipe ma che ha poi perduto. La reminiscenza è data dalla morte, ma può essere data anche dalla filosofia, il cui compito è appunto quello di insegnare a morire. Proprio ciò che Platone intese per filosofia è vicino a quello che noi intendiamo per poesia. Egli annovera la filosofia tra le “arti delle Muse” e nel Fedone chiama i filosofi “baccanti”. La verità si manifesta definitivamente solo nella morte e perciò morire e abbandonarsi alla reminiscenza e alla conoscenza - nella sua sorgente “musica” e musicale - non sono forse una sola e identica cosa?

Una reminiscenza musicale è sottesa dai versi di molte poesie di Blok. Il ritmo che vi è insito raggiunge a pieno la sua forza ammaliante perché porta sino a noi la voce delle forze naturali che ci circondano e che non sono percepite dal nostro udito ma sono sparse dovunque nello spazio. Il poeta, sottomettendovisi, ci mette in comunicazione con loro. Ed è proprio questa sottomissione che crea una benedetta volontà, la sua “segreta libertà”.Egli riveste il “corpo spirituale del mondo” con una armonia tangibile, visibile, sonora. Solo nella “segreta libertà”, (16) che esprime contemporaneamente tanto la sottomissione alle oscure forze naturali quanto la benedetta attuazione dei “progetti dell'Architetto”, si realizza quello che è il suo primo misterioso compito, lo scioglimento dei veli e la liberazione dei suoni, Il disegno ritmico della poesia, quindi, predetermina anche la maturazione dei significati. Il ritmo e il significato in Blok sono i due poli di un unico campo sonoro. Ogni poesia, per lui, dice il Mos'ulskij, “è un velo gettato sulle lame di alcune parole. Queste parole brillano come stelle. Proprio per esse esiste la poesia. Tanto più essa è oscura, tanto più queste parole sono lontane dal testo. Nella poesia più oscura non brillano queste oscure parole, essa non ne è imbevuta, ma è nutrita e saziata da una musica oscura”. (17)

Ma anche là dove le parole sono luminose, dove i loro significati sono solidi e trasparenti, dove essi sono fortificati dalla forza delle realtà terrene, anche là, dietro il testo visibile della poesia, si fa sentire la vicina risacca della “musica oscura”, delle “deliranti” forze della natura, e lo stesso testo e l'opera diffondono le sue onde. E questo non è semplicemente un significato recondito, è quell'intimo sistema sonoro - anamnesis - che ricaccia in superficie i suoi significati, le sue immagini o costringe, inquietamente e imperiosamente, a riconoscerli. Le ispirazioni di Blok, sia quelle che passano di sfuggita, sia quelle che sono portate da qualcuno, pare che chiamino alla luce una remota e segreta musica del mondo, liberandola dalle catene, in modo da esprimere il subitaneo passaggio dal caos all'armonia, e dall'armonia alla catastrofe nel grembo nativo... Ed è proprio per questo che nei versi di Blok il movimento non si inaridisce mai, non tacciono i venti, non scemano le tormente, e nei suoi ristoranti

“i violini, struggendosi e infiacchendosi,
si abbandonano ai furiosi archetti”, (18)

Anche nella lontananza storica - di fronte alla reminiscenza della battaglia contro i tatari sul campo di Kulikovo, reminiscenza che prende lo spunto dal fiume che si distende lentamente e dai tristi pagliai - dal flusso ritmico, dai recessi musicali della poesia scaturisce improvvisamente, balenando fra il sangue e la polvere, “la giumenta delle steppe”(19), e questa sua antica fuga trasmette tutta l'inquietudine, tutto il sistema e lo spirito della memoria sonora blokiana...

Sul campo di Kulikovo Blok è portato dalla memoria musicale della Russia. Ma nel contatto con la storia essa diventa profetica, poiché è rivolta al futuro. Nella battaglia, il cui fragore si è perso nel passato, egli ode l'eco della futura battaglia. Ma già là, nella “Russia lontana” (20), nel profondo della memoria, comincia per Blok a sdoppiarsi l'immagine della Russia, e le sue due diverse voci ora si soffocano a vicenda, ora si fondono in una sola. La patria lo chiama dalla lontananza, “oltre il fiume nebbioso”(21), ma “la freccia tatara dell'antica libertà” (22) ha trapassato la sua anima ed essa soffre per la singolare forza dell'incendio e della catastrofe. Musica e morte, un fuoco opaco e la preghiera si confondono nei suoi versi, e l'urlo dell'“angoscia secolare” (23) soffoca la chiara voce della “lontananza”. Dice Fedotov: “II poeta ha già solidamente unito lo spirito dell'agitazione e della rivolta alle forze tatare. Contro di ciò egli lancia il suo ultimo esorcismo: "Mettiti a pregare! ". Ma sino alla fine resta oscuro: quando giunge l'ora dell'ultima battaglia [...] quale sarà il suo campo, quello russo o quello tataro?”. (24)

Ma ecco un'altra Russia e un altro paesaggio, brutalmente prosastico. I sobborghi di Pietroburgo, l'ippodromo, “la turba delle dame e dei perdigiorno” (25) e, nei loro occhi, l'improvvisa morte del fantino. Un altro ritmo, un altro stile, un'altra corsa, ma lo spirito della musica, l'eco nella memoria del poeta sono gli stessi di prima, antichi. La contiguità di significato tra libertà e morte, la comprensione ritmica delle forze della natura e della catastrofe, la loro unione musicale.

“E’ così bello e facile morire.
Tutta la vita aveva corso, sempre
ansioso di passar primo la meta.
Nel galoppo affannoso la cavalla
era inciampata, senza ormai più forza
di reggere la sella: le leggere
staffe avevan tremato, ed il fantino
rimbalzò nella scarica dell'urto.
La nuca stramazzò sulla nativa,
primaverile ed accogliente terra:
nel cervello in un attimo passarono
gli unici indispensabili pensieri,
poi con gli occhi si spensero. È così bello e facile.”(26).

Blok non guarda a questa morte come uno spettatore disinteressato. Egli vi si sente misteriosamente e appassionatamente coinvolto. Comincia a vedervi l'improvvisa conquista del ritmo che aveva sempre cercato, quel ritmo cui aveva anelato per tutta la vita, e vi vede ancora la luce benedetta portata dalla verità - l'anamnesis - e la repentina fine. E si intuisce - anche se attraverso pensieri sobri e versi misurati - come lo attiri questo abisso che si infiamma per un istante e subito si spegne, come il morirvi musicalmente possa essere “così bello e facile”. E i repentini pensieri, gli “unici indispensabili”, sono forse per Blok il pegno e l'ispirazione della sua ultima poesia, la poesia-morte. E tuttavia, per ora, egli è solo spettatore, sognatore, poeta. La morte-musica fugge via da qualche parte. Egli può solo guardarla da lontano con un “savio sorriso” (27). Finché non sia giunto il tempo, egli può solo aspirare nostalgicamente a essa, vagare e sorridendo struggersi nelle sue prossimità poetiche, “e sciogliere canti! Ed ascoltare il vento nella quiete!” (28)

“Libero e forte come l'uragano
sarei che investe i boschi e scuote il piano [...]” (29)

“Io amo soltanto l'arte, i bambini e la morte”, dice Blok in una lettera alla madre del 1909.

Due anni prima egli scriveva ad Andrej Belyj, dopo il loro mancato duello: “Il dramma della mia concezione del mondo (non sono arrivato fino alla tragedia) sta nel fatto che io sono un lirico. Essere lirico è piacevole e terribile insieme. Dietro l'orrore e la gioia si nasconde un abisso, nel quale si può precipitare senza lasciar traccia. La gioia e l'orrore sono come un velo di sonno. Se non portassi sugli occhi questo velo, non sarei guidato dal Terribile Ignoto, da cui solo mi salva la mia anima, non avrei scritto neppure una poesia di quelle che a voi sembrano valide”.

IV

La critica blokiana raramente ha gettato uno sguardo nell'abisso del poeta: pare che in campo critico non si usi arrischiarsi a viaggi del genere. Ma se, facendo nostra l'ipotesi di Paolo sull'uomo, cercassimo di discernere anche nella produzione artistica un corpo, un'anima e uno spirito, ci accorgeremmo che i nostri comuni giudizi raramente vanno al di là dell'aspetto corporeo dell'opera, al di là della sua carne. Quanto al resto, di solito riusciamo a esprimere, in modo circostanziato o lapidario che sia, solo una verità risaputa, anche se non ancora sbiadita, e cioè che l'anima altrui è tenebra. Sullo spirito, poi, non osiamo neppure azzardare un giudizio, mai. Questa indecisione, però, non esclude certo che si sia liricamente pronti a perdersi in pure chiacchiere su temi mistici, facendo ricorso a tutto l'armamentario del soprannaturale: demoni, serafini ecc. Ma noi, di regola, ci scherniamo di fronte alle parole che implicano una responsabilità, quelle che definiscono in modo preciso la sostanza spirituale delle opere d'arte, e il loro rapporto con la realtà che sta al di là di esse e le supera.

Ecco perché suonano così ardite e graffianti le parole di colui che “ha il potere” di discernere gli spiriti. Ed è questo ciò che risentiamo nella conferenza di padre Pavel Florenskij su Blok, pubblicata in tempi relativamente recenti (30) in forma un po' improvvisata. Nella sostanza questa conferenza è stata un primo tentativo, e quanto radicale, di quella che potremmo definire “teologia dell'arte” applicata a un terreno russo. Ma in questo caso parlare di teologia significa parlare di giudizio. Il sacerdote giudica il poeta, l'uomo di cultura a partire dal culto. E il suo è un giudizio equo, rapido e impietoso. Il suo presupposto è semplice e inflessibile: la cultura può essere rettamente intesa solo nell'ambito di un sistema rigorosamente monistico, competente a valutare la cultura stessa. “Il mondo è scisso dal principio religioso: l'antitesi al marxismo è solo il cristianesimo (cioè l'ortodossia), alla religione dell'uomo-dio si contrappone la religione della divinoumanità.”

Dal punto di vista ortodosso la fonte dei temi culturali va rintracciata nella tematica del culto, cioè nella liturgia. “La creazione di una cultura distaccata dal culto è sostanzialmente parodistica.

“La parodisticità presuppone un mutamento di segni, ferma restando l'identità dei temi.”

“Parodia” dunque: ecco la parola che farà da chiave a tutta la poesia di Blok. Blok è un grande poeta in quanto mistico autentico, giacché è della realtà autentica che egli parla. Perché anche chi “di parole sacrileghe è creatore” è un poeta di valore, giacché le parole sacrileghe sono la non-verità detta a proposito della Verità; il “sacrilegio serio” obbliga a partecipare della profondità, presuppone un radicamento nelle profondità sataniche.

Non resta quindi che scegliere gli esempi.

“C'è nelle tue segrete melodie
un'infausta notizia di rovina.
C'è l'anatema dei precetti sacri,
c'è l'oltraggio della felicità.” (31)

Ciò che un tempo poteva apparire una rivelazione, oggi si riduce spontaneamente quasi a un luogo comune. Così la poesia “Alla Musa” era giudicata condannabile anche nell'articolo di Naum Koržavin “Gioco col diavolo” (32). Ma s'intuisce qui, al di là di un processo in cui si dà la parola al solo pubblico ministero, un'interna lite: tu, sembra dire, mi hai insegnato il male, e io ero giovane, nei dolci suoni bevevo il contenuto venefico. Del resto, in fin dei conti, ogni poeta, per diventare se stesso, deve liberarsi dalla magia dell'altro. E lo può anche fare in modo brusco, ma restano pur sempre anche “le ragioni del cuore”. La condanna di Koržavin è quasi stizzosa, quella di Florenskij quasi gelida. Blok sarebbe l'ambasciatore del diavolo nella poesia russa.

Ma non fu lui stesso a parlare del “nero inferno dell'arte”(33), della “lirica agile, maligna, infida”? (34) Non fu lui a subire gli accessi “di un riso snervante, che inizia con un diabolico, beffardo sorriso provocatore, per finire nella violenza e nel sacrilegio”? (35) Non fu lui a percepire in sé il “trasfondersi di quelle forze demoniache che spiano il poeta per scagliarsi improvvise contro di lui”? (36) E non è forse per questo che è irrealizzabile il sogno di fuggire dall'arte, e di rinunciare del tutto a ogni guadagno letterario? “No, meglio la fatica e la fame [...]”

La condanna, stizzosa o gelida che sia, è dunque giusta al fondo? E la musica che si percepisce nelle abissali profondità dello spirito non sarebbe che una volontà di morte trasformata in armonia? E le onde sonore non portano allora che tentazioni? E la profondità “dove l'uomo cessa d'essere uomo” non sarebbe che un abisso satanico, dove il poeta che sfugge la plebe sprofonda? E lo “spirito della musica”, che con così insolita tenacia Blok invocava negli ultimi anni di vita, non sarebbe che il semplice demone della poesia? Non possiamo trascurare queste considerazioni nel riflettere a fondo sulle idee di padre Florenskij. “Al mondo tutto è ordinato perché è pari.” Il poeta è il sovvertitore del culto, l'istrione, il profanatore. Il messaggero degli inferi. E nient'altro.

La teologia cerca la comprensione dell'uomo e di tutto l'umano alla luce del pensiero religioso, della “preghiera dell'intelligenza”, la teologia pensa secondo le parole di Paolo: “Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l'intelligenza”(1 Cor. 14, 15); la teologia, ancora, rintraccia la giusta parola su Dio a partire da quanto Egli ha creato, a partire dalla Parola di Dio sugli uomini e le loro opere.

Questo era anche il modo di vedere di Pavel Florenskij. Come mistico ha ragione, e la sua visione e nitida. La cultura è nata dal culto, e il sacerdote, il prete-pensatore aveva non solo il diritto, ma anche la missione di giudicare i frutti della cultura. Tuttavia, nella sua comprensione di Blok, nella sua condanna, ci sono due sostanziali omissioni. Al suo sistema (giacché, nonostante la frammentarietà, la conferenza offre uno sviluppo sistematico del pensiero di padre Pavel) sono sfuggite soprattutto la natura specifica della poesia, e in parte anche la natura degli spiriti cui la poesia blokiana permette piena espressione. Ed è per questo che, per descrivere il fenomeno e persino in parte la sostanza della poesia di Blok, egli ricorre a una citazione di san Massimo:

“Quando lo spirito malvagio della seduzione si accosta all'uomo, disturba la sua mente rendendola selvaggia, inasprisce il suo cuore e lo oscura, ispira timore, paura, orgoglio, corrompe gli occhi, agita il cervello, dà trepidazione a tutto il corpo, pone dinanzi agli occhi una luce illusoria non luminosa e pura ma rosseggiante, rende la mente frenetica e ossessa, le labbra proferiscono parole ribelli e blasfeme”.

Dove e come può sottrarsi alla sfera di queste parole la poesia di Blok, con la sua musica di morte, con la sua vocazione alla rovina? E queste parole avranno almeno pietà di noi, lettori di Blok?

8, 44). Il male, fino a che non è forte abbastanza, si copre con l'inganno. E questa non è una forma ma la sostanza sua stessa. La menzogna e il pathos omicida sono fino a oggi inconfondibile segno della diabolicità. Per questo, dunque, veridico e demoniaco non possono assolutamente convivere tranquillamente nella stessa anima. Come potrebbe infatti un'anima che sfiora i tizzoni infernali conservare in sé la comune onestà e la schiettezza umane?

“Sembra che egli veda il mondo e se stesso in una nudità e semplicità tragiche. Sincerità e semplicità sono per sempre legate in me al ricordo di Blok.” (37) Il tratto fondamentale della sua personalità era uno straordinario coraggio della verità”, dice C'ukovskij. E le testimonianze di questo tipo non si contano.

Non basta: dietro al coraggio pienamente umano si nascondeva dell'altro: ciò che potremmo definire “integrità della parola”, la sincerità del suo stesso linguaggio. La parola blokiana, sia in prosa sia in poesia, non è astuta né teatrale né piena di fronzoli. Essa è estranea persino a quel gioco disinvolto che è tanto naturale nei poeti, soprattutto nei poeti della sua generazione. Scriveva di maschere, ma non nascose mai il proprio volto. Oggi può sembrar strano che un tempo lo si sia definito un decadente anzi, il corifeo dei decadenti: infatti manca in lui ogni stortura decadente. C'era qualcosa di distorto nel periodo blokiano, ma non in Blok stesso. E se i suoi versi ci sono incomprensibili, significa che siamo al di fuori dell'esperienza che narrano. Ma possiamo esser certi che si tratta di un'esperienza autentica, non surrogata da qualche ingenua simulazione mistica o poetica. In un'epoca tanto ricca di finzioni e sostituzioni d'ogni tipo, Blok rimase fedele alla verità che gli perveniva attraverso la musica. Mai ci fu in lui la più innocente bugia, la minima concessione al pittorico.

Alla superficie della vita noi tutti percepiamo le cose in modo distinto: il poeta, il politico, il mistico, l'innamorato. Ma nel profondo sono tutt'uno. Uno “straordinario coraggio della verità” non può fondersi nello stesso cuore né con la falsità poetica né con la malizia artistica. Questo coraggio è inscindibile dalla sincerità e dal coraggio d'ogni singola parola che fa parte della poesia, è inscindibile dall'autenticità di ciò che il poeta serve, dalla veridicità di questo stesso servizio. Il poeta è “l'uomo che chiama tutto per nome”, poiché i nomi veri delle cose sembrano esser celati a noi; è colui che “sottrae l'aroma al vivo fiore” poiché deve trasfonderlo nella. parola e renderlo così eternamente fragrante. Il “coraggio della verità”, la non-malizia della parola, l'autenticità dei nomi di cui il poeta fa dono: tutto ciò è indivisibile e musicale, fragrante e ineguagliabilmente unito.

“[...] forse solo il genio dice il vero; e solo la verità, pur nella sua grevità, è lieve, un "dolce giogo"” (dal Diario).

Questo è il dolce giogo che la poesia blokiana si è assunta; la sua musica è dolce, la sua verità musicale. Solo con la verità e un cuore inerme il poeta può rispondere al giudizio teologico, e a ogni altro giudizio umano. “Restituire la verità, che va scomparendo dalla vita russa, questo è il nostro compito”, annota Blok nello stesso Diario. Questo compito costituisce appunto la sua vocazione, e compone nell'unità lo “scioglimento dei veli”, “l'accoglimento dei suoni nell'anima”, “l'introduzione dell'armonia nel mondo”. Ricondurre la verità al mondo: questa è la missione del poeta.


(continua)


 

1) L'espressione “nome lieto” si trova nella prima frase del discorso di Blok “La missione del poeta”, pronunciato nel febbraio del 1921 in occasione dell' LXXXIVanniversario della morte di Puškin: “La nostra memoria serba fin dalla prima infanzia un nome lieto: Puškin” (tr. it. in A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, Adelphi, Milano 1978, p. 151).

2) A. Puškin, “Non voglia Iddio ch'io perda la ragione” (1833) (tr. it. in A. Puškin, Lirica, Sansoni, Firenze 1968, pp. 417-418).

3) A. Blok, “Guardi negli occhi i limpidi crepuscoli” (1906), poesia del ciclo “Gorod” (La città) (tr. it. in A. Blok, Poesie, Guanda, 1975, pp. 146-147).

4) A. Blok, “Anima mia! Quando ti stancherai di credere?” (1908), poesia del ciclo “Arfy i skripki” (Arpe e violini).

5) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 155.

6) Ibid., p. 153.

7) Ibid.

8) A. Blok, “Tace l'anima. Nel freddo cielo” (1901), poesia del ciclo “Stichi o Prekrasnoj Dame” (Versi sulla Bellissima Dama).

9) “La plebe esige che il poeta serva ciò che essa stessa serve: il mondo esterno; esige da lui "l'utilità", come dice, semplicemente, Puškin; esige che il poeta “spazzi le strade", "illumini i cuori dei confratelli" ecc.” (A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 157).

10) Cfr. n. 2.

11) A. Blok, L’intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 152.

12) Ibid., p. 156

13) Cfr. n. 2.

14) A. Blok, “La maschera di neve” (1907).

15) “Ed all’anima stanca insegna, mentre lento
s'impossessa del sangue il brivido del gelo,
che non le serve a nulla questo pianeta spento,
perché i raggi vengono dal cielo.”
Questi versi di Blok si trovano nella poesia “Tutto muore al mondo, madre e giovinezza” (1909), inserita nel ciclo “Arfy i skripki” (Arpe e violini) (tr. it. in R. Poggioli, Il fiore del verso russo, Mondadori, Milano 1968, p. 334; l'espressione che il Poggioli traduce con “cielo” (ottuda), è stata da noi resa con “di là” per mantenere l'indefinitezza su cui insiste Zelinskij). Ndt

16) “Segreta libertà” è una delle espressioni chiave dell'ultimo vocabolario blokiano, presa a prestito da Puškin:
“Amore e segreta libertà
al cuore dettano un inno schietto”.
(Cfr. A. Blok, L’intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p 159).

17) K. Mos'ulskij, Aleksandr Blok.

18) A. Blok, “Là dove echeggia nelle lunghe sale” (1910) (tr. it. in A. Blok, Poesie, ed. cit., pp. 302-303).

19) A. Blok, “Sul campo di Kulikovo” (1908) (tr. it. in A. Blok, Poesie, ed. cit. pp. 190-191, ecc.).

20) Ibid., pp. 196-197.

21) Ibid.

22) Ibid., pp. 190-191.

23) Ibid., pp. 196-197.

24) G. Fedotov, Na pole Kulikovom (Sul campo di Kulikovo).

25) A Block, “Morte”, poesia del ciclo “Vol'nye mysli” (Liberi pensieri) (tr. it. in R. Poggioli, op. cit., p. 299).

26) Ibid., pp. 300-301.

27) Ibid., pp. 299.

28) Ibid., p. 303.

29) Cfr. n. 2.

30) “Vestnik russkogo christianskogo dviženija” (Messaggero del movimento cristiano russo), n. 114, Parigi.

31) A. Blok, “Alla Musa” (1912) (tr. it. in A. Blok, Poesie, ed. cit., pp. 346-347).

32) N. Koržavin, “Igra s d'javolom”, in “Grani” (Confini).

33) A. Blok, “O sovremennom sostojanii russkogo simvolizma” (Lo stato attuale del simbolismo russo) (1910).

34) A. Blok, “O drame” (Il dramma).

35) A. Blok, “Ironija” (L'ironia).

36) A. Blok, “Sud'ba Apollona Grigor'eva” (Il destino di Apollon Grigor'ev) (1915).

37) V. F. Chodasevi…, Nekropol’.


(Questo testo è stato pubblicato in Russia Cristiana, VI, 1981, 2 (176), pp. 18-33)

 

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