Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Quello che segue vuol essere un breve elenco di donne musulmane (arabe e non arabe) che si distinguono per il loro impegno personale o per responsabilità di governo nella difesa e promozione della condizione femminile.

Martedì, 28 Giugno 2005 22:25

Maria di Magdala (Carla Ricci)

Maria di Magdala
di Carla Ricci

 

Maria invece stava all'esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: "Donna, perché piangi?". Rispose loro: "Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto". Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: "Donna, perché piangi? Chi cerchi?". Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: "Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo". Gesù le disse: "Maria!". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbuni!", che significa: Maestro! Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli e di' loro: lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto. (Giovanni 20,11-18)

"Maria chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni" (Lc 8,2) è la prima donna del gruppo delle discepole itineranti con Gesù ad essere nominata nel Vangelo di Luca. Sempre prima la ritroviamo nella lista dei sinottici quando viene descritta la crocifissione e si nomina la presenza del gruppo delle donne, fedeli seguaci del Nazareno fin dalla predicazione sulle strade della Galilea, mentre assiste alla passione (Mc 15,40; Mt 27,56; Lc 23,49-55; 24,10).

Nel racconto giovanneo la troviamo menzionata sotto la croce con la "madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa" (Gv 19,25). Se nelle altre liste ha il privilegio di essere la prima, qui ha quello di essere associata al gruppo delle parenti strette. Già dalla lettura di questi primi testi biblici emergono elementi che indicano un primato di Maria di Magdala nel gruppo. Essa è il solo nome ad essere comune a tutte le liste: le altre donne ricordate cambiano, lei sola è presente in tutte le fonti. Che questi dati suppongano anche un rapporto particolare e privilegiato con Gesù è confermato dal seguito delle narrazioni evangeliche.

Discepola prediletta

Secondo i sinottici, dopo aver assistito alla sepoltura (Mc 15,47; Mt 27,62; Lc 23,55-56), il gruppo delle discepole si raccoglie attorno a Maria Maddalena e all'alba si reca al sepolcro (Lc 24,1-10; Mt 28,1; Mc 16,1-2); Giovanni invece narra di Maria di Magdala sola che va alla tomba "di buon mattino, quand'era ancora buio" (Gv 20,1).

L'intensa partecipazione della discepola prediletta al dramma della morte è ben espressa dall'ampia narrazione che segue. Molte delle annotazioni rimandano alla profondità del rapporto che Gesù aveva realizzato con lei. Ella non può attendere la luce del giorno e va al sepolcro quando è ancora notte, trovatolo vuoto corre da Simon Pietro e da Giovanni per condividere con loro quanto sta accadendo. La scomparsa del corpo del Signore la sconvolge e non può contenere in se le emozioni che la pervadono. Ritorna coi discepoli alla tomba, ma quelli, dopo aver constatato che è vuota, tornano a casa. Maria Maddalena, invece, non può allontanarsi dal posto che aveva accolto il corpo dell' Amato. Non va con loro per consolarsi insieme della perdita, ma resta vicina all'ultimo luogo dove è giaciuto il corpo di Gesù, non può allontanarsi e si abbandona al dolore e al pianto. Non sono lacrime momentanee, ma un pianto intenso e continuo tanto che sia gli angeli prima, sia Gesù poi, le chiedono il perché delle sue lacrime. La gravità della perdita, che dice la profondità del legame nei confronti del Maestro, spinge tutto il suo essere a cercare.

Il Risorto si lascia trovare, si lascia raggiungere, si lascia riconoscere e si manifesta a lei pronunciandone il nome: "Maria!" cui viene risposto prontamente: "Maestro mio!". Il lasciarsi i riconoscere dal Cristo nel dire il nome di Maria raccoglie una indicazione suggestiva della comunicazione esistente; nel sentirsi chiamata la donna trova insieme la voce che conosce, la voce dell'altro, e qui poi dell'Altro, e trova se stessa, la percezione, la consapevolezza del proprio essere profondo. La relazione, questo contemporaneo duplice incontro dell'altro e di se, in cui sono presenti alterità e identità, questa unità che comprende dualità, poteva essere tale compiutamente solo nella manifestazione del Risorto a una donna, in armonia con la creazione di Dio di un essere umano, l'adam dai due volti: l'uomo e la donna.

"Io ho qualcosa da dire ma nessuno a cui dirlo!"

È un antico ágraphon che sottolinea la sofferenza di Maria Maddalena come determinante per il rivelarsi del Risorto.

"lo (...) non sono apparso a te
finché non ho visto le tue lacrime e il tuo dolore (...) per me.
Getta via la tua tristezza
e compi questo servizio,
sii il mio messaggero per gli orf[ani] [sm]arriti.
Affrettati a gioire e va' dagli undici.
Li troverai riuniti sulla riva del Giordano.
Il traditore li ha pèrsuasi ad essere pescatori
come prima
e a gettare le loro reti,
con le quali conquistarono uomini alla vita.
Di’ loro: Su, andiamo, vostro fratello vi chiama.
Se disdegnano la mia fraternità,
di’ loro:
È il vostro maestro.
Se trascurano la mia autorità di maestro,
di’ loro: È il vostro Signore.
Usa ogni arte ed intelligenza
finché tu non abbia condotto il gregge al pastore.
Se vedrai che si sono turbati per te
prendi Simon Pietro con te;
digli: Ricorda cosa ho detto tra te e me.
Ricordati che cosa ho detto, tra te e me,
sul Monte degli Olivi;
lo ho qualcosa da dire,
ma non ho nessuno a cui dirlo!".

L'invio di Maria Maddalena ad annunciare la risurrezione è confermato dal seguito del racconto di Giovanni. "Gesù le disse: "... va' dai miei fratelli e di' loro: lo salgo al Padre mio e al Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto" (Gv 20,17-18). Forse l'ágraphon sopra riportato apre uno squarcio di maggior luce su quanto altro il Risorto "le aveva detto" e anche in quel testo, come in Giovanni, la risposta di Maria è descritta come pronta, totale e intensa. "Rabbi, mio maestro, io servirò il tuo comandamento nella gioia del mio cuore intero. Non darò riposo al mio cuore, non darò sonno ai miei occhi. Non darò riposo ai miei piedi finché non abbia portato il gregge all'ovile". È di grande rilevanza che in un tempo nel quale la testimonianza delle donne, e quindi la loro parola, non aveva valore giuridico, il Cristo affidi il messaggio di risurrezione a Maria di Magdala, facendo di lei la prima mediatrice della Parola, del Logos incarnato, rendendola apostola degli apostoli.

La "durezza di cuore" degli apostoli

È significativo rilevare come nell'antico testo copto venga attribuita a Gesù la sollecitazione a Maria di Magdala di ricordare a Pietro parole che già lei gli aveva rivolto: "lo ho qualcosa da dire ma non ho nessuno a cui dirlo!". Nessuno; cioè capace di riconoscere e accogliere il valore delle parole di una donna, nessuno capace di questo ascolto profondo al di là delle limitazioni culturali e giuridiche del tempo.

Ampia testimonianza riportano i Vangeli canonici della difficoltà degli apostoli a prestar fede a quanto riferito dalle discepole: "Alcune donne, delle nostre... son venute adirci..." (Lc 22,22): "Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse" (Lc 24,11).

Nella finale del Vangelo di Marco si racconta proprio di Maria di Magdala che andò ad annunziare ai suoi seguaci la risurrezione. "Ma essi, udito che (Gesù) era vivo ed era stato visto da lei non v-ollero credere" (Mc 16,11) e Gesù poi apparendo infine agli Undici, "li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore" (Mc 16,14).

Forse questa "incredulità e durezza di cuore", evidenziata dalle parole del Risorto, si è protratta nello sviluppo della comunità cristiana ed è divenuta nella storia dell'esegesi biblica un travisamento dell'identità di Maria di Magdala che, invece di emergere per la predilezione di discepola fedele e amata, è stata confusa con la peccatrice di cui il Vangelo di Luca racconta il pentimento e il perdono da parte di Gesù. È stata resa una prostituta e dopo secoli di omelie, raffigurazioni artistiche, letterature le più varie, il suo nome, o meglio il suo soprannome, Maddalena riferito alla città di provenienza, ha assunto il significato di donna traviata e penitente.

Quale distanza dalla scelta di Gesù che proprio del nome Maria fa la chiave di apertura per la rivelazione e il riconoscimento dell'essere risorto, dell'essere Alterità incarnata. Logos relazionante in se il divino e l'umano, Luogo di incontro di finito ed infinito, di morte e vita inesauribile.

Il travisamento esegetico di cui è stata vittima Maria di Magdala ha avuto tanto larga eco perché ha trovato fertile terreno in una millenaria concezione della donna limitata e schiacciata all'interno di una sovrapposizione della sua realtà con quella di una sessualità intesa per lo più negativamente.

La sordità e la "durezza di cuore", la incapacità di aprire la propria mente e il proprio animo le realtà più interiori ed autentiche del femminile, contrassegnano purtroppo ambiti di culture e tempi ben più ampi del discepolato di Gesù.

Restituire a Maria di Magdala la sua identità e riscoprire il significato profondo rapporto che Gesù aveva con lei porterà nuova luce nella ricerca della pienezza della verità.


Occorre smettere di costruire torri e torrioni inseguendo il vano sogno di una artificiosa umanità unitaria. Il pluralismo è alla radice delle cose; nessuna verità, ideologia o religione può avanzare una pretesa totale sull'Uomo, e le lingue sono state giustamente confuse

Occorre smettere di costruire torri e torrioni inseguendo il vano sogno di una artificiosa umanità unitaria. Il pluralismo è alla radice delle cose; nessuna verità, ideologia o religione può avanzare una pretesa totale sull'Uomo, e le lingue sono state giustamente confuse.

Occorre smettere di costruire torri e torrioni inseguendo il vano sogno di una artificiosa umanità unitaria. Il pluralismo è alla radice delle cose; nessuna verità, ideologia o religione può avanzare una pretesa totale sull'Uomo, e le lingue sono state giustamente confuse.

Lunedì, 27 Giugno 2005 21:06

Dialogo impossibile? (Giuseppe Scattolin)

Dialogo impossibile?
di Giuseppe Scattolin




Voi parlate tanto di dialogo con i musulmani ma finora io non ho visto nessun risultato concreto. Loro, intanto, tirano dritto per la loro strada, senza cercare di capire nè la nostra cultura né la nostra religione, e senza interessarsi tanto dei diritti degli altri. Io stesso ho sperimentato più volte che, aprendo con loro il dialogo nel campo della religione, non ho trovato che rifiuto, anzi ironia. Avete mai cercato di parlare con i musulmani di Gesù, dell'incarnazione, della Trinità, ecc...? Diranno che noi siamo fuoristrada. Condendo, magari, il tutto con tante battute ironiche, se non sarcastiche, su misteri che per noi sono fondamentali. Come si può, quindi fare dialogo con chi... non lo vuol fare?
(Giulio Casale - Venezia)


Fare dialogo - soprattutto dialogo interreligioso - non è facile. Forse, è la cosa più difficile, poiché tocca le nostre convinzioni più intime, e a nessuno piace essere messo in questione a questo livello. È molto più facile fare dialogo o scambiarsi idee in campi più neutri, quali lo sport, la moda, vari argomenti culturali, ecc... Lì nessuno si compromette davvero.

Questo, a mio parere, è molto farisaico, perché, così facendo, uno cerca di nascondere sé stesso sotto la patina delle "buone convenienze sociali". Se uno, però, è convinto che una vera convivenza fra i popoli non può essere fondata su simili superficialità, ma occorre rompere questi muri di incomunicabilità, pena il trovarsi di fronte a degli scontri di civiltà e di religioni dai risvolti troppo volte tragici, anzi molto tragici (qui non occorre giocare molto di fantasia per rendersene conto; basta ascoltare le notizie che ci arrivano da molte parti del nostro villaggio globalizzato), e se è consapevole che bisogna cambiare le mentalità di tutti, facendole passare da un'attitudine di ostilità verso l"'altro" a una di accettazione (anzi, di vera e sincera cooperazione con l'"altro"), allora farà ogni sforzo per creare relazioni "dialogiche" vere, per aprire mentalità ancora chiuse in un'autodifesa che può diventare facilmente aggressione contro l"'altro", il "diverso", ecc... Così, e soltanto così, uno può dire di operare veramente per la pace nel nostro mondo.

Ogni altra opera, nobile e bella quanto si vuole, ma che non porta a questa "nuova mentalità dialogica", resterà, in fondo, assai precaria e sarà presto messa in discussione, travolta anche dai demoni dei vari tribalismi culturali e religiosi ancora dilaganti in molti settori del nostro villaggio umano. In una parola: il dialogo non lo si trova bell'e fatto, occorre creano. Del dialogo dobbiamo dire ciò che Voltaire diceva di Dio: «Se non esistesse, bisognerebbe crearlo». Il problema, quindi, non è se fare dialogo o no (questo dovrebbe essere ormai scontato), ma come farlo.

Il signor Casale si meraviglia nel constatare che il dialogo teologico - quello, cioè, che si svolge a livello di verità teologiche - sia difficile, se non addirittura impossibile. E ha ragione! Va, comunque, anche detto che nessuno, con una benché minima esperienza in fatto di dialogo, partirebbe proprio da questo livello, che esige una preparazione e un'apertura particolari (frutto esse stesse di dialogo).

Da dove partire, quindi? Dalle questioni esistenziali, quelle cioè che toccano da vicino ogni essere umano: i diritti dell'essere umano, la dignità della persona in quanto tale, il problema (o mistero) del dolore, il senso della vita...

Gesù stesso ce ne ha dato l'esempio. Non ha cominciato la sua missione annunciando dogmi astratti di fede, ma predicando il Regno di Dio. Ha parlato innanzitutto della vera giustizia, della volontà di Dio, del comandamento fondamentale della legge, dell'amore e della misericordia di Dio... Questo è l'inizio del vangelo. A questo livello è possibile trovare un vasto terreno per uno scambio e un dialogo tra le varie religioni. Solo in un secondo momento Gesù ha introdotto i suoi nel mistero della sua persona.

La catechesi della chiesa segue fondamentalmente la stessa linea. Il documento conciliare Nostra Aetate (1965), infatti, apre il discorso sul dialogo interreligioso, mettendo in primo piano le domande esistenziali fondamentali che toccano l'umana esistenza e a cui le varie religioni intendono dare una risposta. Solo quando uno s’è messo, in seguito alla conversione radicale richiesta dal vangelo, sulla strada della giustizia del Regno, della ricerca della volontà di Dio, del suo amore e della sua misericordia, gli si potrà parlare dei misteri più profondi della fede.

È necessario tenere presente quanto diceva San Paolo ai Corinzi: «La vostra fede non è fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (I Cor 2,5). E ancora: «Nessuno può dire "Gesù è Signore", Se non sotto l'azione dello Spirito Santo» (ib. 12,3). L'annuncio va fatto, non nell'arroganza della sapienza umana, ma nell'umiltà della nostra nullità umana. Poiché annunciamo non il frutto della nostra intelligenza, ma il dono assolutamente gratuito di Dio, che sorpassa ogni capacità umana. La nostra opera - e, quindi, anche il dialogo – è solo una preparazione al dono che Dio fa di sé stesso in modo del tutto libero.

(da Nigrizia, febbraio 2005)

Il dogma dell'Immacolata Concezione non trova molto spazio nella circolazione delle idee ecumeniche del nostro paese. Occorrerà perciò tenere presente le interpretazioni maturate prima del Concilio Vaticano II...

Che cosa significa essere un musulmano nel 2005 in una società laica? Islam e modernità sono incompatibili?

Forse a volte ci è accaduto di vedere una persona con il volto sfigurato, deturpato da un incidente o devastato dalle manifestazioni di una grave malattia o reso distante e assente dall'alienazione mentale. E può esserci avvenuto di aver istintivamente rivolto altrove il nostro sguardo, di esserci sottratti all'incontro con lo sguardo di quel volto sofferente.

Il cuore nella spiritualità russa
di Tomàs Spidlìk

L 'importanza del cuore

"La nozione del cuore - scrive un teologo russo, B. Vyseslavcev - occupa il posto centrale nella mistica, nella religione e nella poesia di tutti i popoli". Nella misura in cui ci si allontana dalla vita nel cuore, ci si allontana da se stessi e dalla religione. Dello stesso parere è il suo coetaneo P. Ivanov: "Cercare il nutrimento per il cuore significa tornare a Dio, perché Dio stesso, è un cuore che abbraccia tutto". "Essere senza cuore" (bezserdecnost) è uno stato che caratterizza l'ateo, dato che il contatto reale con la divinità è possibile, dice ancora Vyseslavcev, soltanto "nella profondità del mio io, nella profondità del cuore, perché Dio, come dice Pascal, "è sensibile al cuore; là soltanto è possibile una vera esperienza religiosa, fuori di essa non vi è né religione né etica". Questa insistenza sul cuore che è specifica degli autori spirituali russi, soprattutto del secolo scorso, diventa per loro una specie di professione di fede ortodossa contro "il razionalismo" di cui scoprono il pericolo nelle tendenze occidentali.

E’ una tesi che è spesso difesa nei manuali teologici. Così per esempio, per Th. S. Ornatsky la fede è "una disposizione immediata del cuore". N. Malinovsky scrive: "La fede si comprende soltanto come un sentimento religioso". Per P. Sokolov la fede ha il suo "motivo nel sentimento". "Essa nasce nella sfera del sentimento - scrive J. Nikolin - e deve essere riscaldata e nutrita per mezzo del sentimento".

Questa insistenza sui sentimenti del cuore sorprende e non raramente insospettisce chi è abituato a una diversa terminologia. Per capire il giusto senso di queste espressioni bisogna sapere trasportarsi nell'ambiente dove furono pronunciate. Non vale un rinvio superficiale al "sentimentalismo slavo", perché così si rischierebbe di ridurre alla banalità ciò che gli autori classici e profondi hanno sostenuto con molta persuasione. In altri scritti abbiamo analizzato più in particolare questo termine complesso che è il serdtse (cuore) nella spiritualità slava. Lo scopo del presente articolo è piuttosto mostrare le sue radici, i motivi perché proprio questo termine è divenuto così significativo per la mentalità russa.

La prima ragione è storica. La Chiesa russa è figlia di Bisanzio, la sua spiritualità è "orientale". E qui il concetto di cuore ha già messo le sue radici sin dall'antichità. Vi si parla ripetutamente della custodia del cuore, dell'attenzione al cuore, della purezza del cuore, della preghiera del cuore, della presenza divina nel cuore, ecc. Basta gettare lo sguardo sugli Indici (alla voce: kardia) della famosa Filocalia, un ampio florilegio di brani più significativi sulla vita di preghiera tratti dai Padri e dagli scrittori bizantini. Ancora più impressionante è l'abbondanza del termine serdtse nella piccola antologia russa Dialoghi sulla preghiera a Gesù.

Ma l'amore per il termine "cuore" non può essere spiegato con il solo peso dell'eredità antica. Vi sono certi tratti del carattere slavo, che favoriscono il ricorso a questa voce piuttosto che ad altre. Il pensiero filosofico russo, come dimostra N. O. Losski, si differenzia dall'astrattivismo e oggettivismo della filosofia occidentale. Le sue caratteristiche sono al contrario: l'intuitività, l'ideale di una conoscenza integrale, il carattere tipicamente religioso di ogni problema sociale, filosofico e anche scientifico. Abbiamo dimostrato in un altro articolo come questi tratti hanno ispirato i pensatori russi a questa sostituzione: laddove gli occidentali usano la voce mente o ragione o intelletto, i russi sostituiscono spontaneamente il cuore.

Nelle righe che seguono, desideriamo restare nell'ambiente più ristretto degli autori spirituali (citando soprattutto Teofano Recluso, che può essere considerato sotto quest'aspetto classico. Studi recenti hanno messo in rilievo certi tratti tipici per la spiritualità dell'Oriente cristiano: è la sua indole antropologica, escatologica, ecclesiale, cosmica, contemplativa.

È proprio quando consideriamo queste caratteristiche tradizionali, ci rendiamo conto che il termine "cuore" è l'unico che serve in modo migliore ad esprimere ciò che gli autori spirituali desideravano insegnare e realizzare come scopo della vita cristiana.

La spiritualità antropologica

La spiritualità orientale - si dice spesso - dimostra un carattere essenzialmente antropologico. Parte dalla conoscenza di se stesso e s'impegna a sviluppare tutto ciò che Dio ha infuso nella intera natura umana: la sua immagine e rassomiglianza. O piuttosto, secondo il modo di parlare dei greci, dopo Origene: sviluppare l'"immagine" dinamica, con la quale siamo stati creati, affinché diventassimo "rassomiglianza" attraverso gli sforzi fatti durante la nostra vita.

In questa situazione non ci sorprende che ci furono all'inizio numerose discussioni e che furono date le risposte più svariate alla domanda fondamentale: in che consiste l'immagine di Dio nell'uomo? La quantità di opinioni dipende dai diversi punti di vista e dai diversi modi in cui il problema fu posto. Eppure tutte partono da una base comune, magistralmente esposta da san Cirillo Alessandrino: ciò che nell'uomo veramente rassomiglia a Dio può essere solo quell'elemento della nostra costituzione che è divino e spirituale nel vero senso della parola: lo Spirito Santo.

Un occidentale potrebbe essere sorpreso da questa constatazione: considerare lo Spirito Santo come un elemento costituente della persona umana. L'Oriente, al contrario, è stato sempre fedele alla "trichotomia" esposta da sant'Ireneo contro gli gnostici: "L'unione dell'anima e della carne, che assume lo Spirito Santo, costituisce l'uomo spirituale".

È il merito degli antichi filosofi greci che hanno vinto il materialismo stabilendo una distinzione netta fra il corpo e l'anima, l'elemento materiale e immateriale. I cristiani, a loro volta hanno superato una confusione più sottile: la falsa identificazione fra la realtà "spirituale" nel vero senso, e "l'immateriale" creato (quale è l'anima umana e le sue attività tipiche).

Gli autori russi, seguaci dei Padri greci, non raramente sospettano che l'Occidente sarebbe ricaduto nel vecchio gnosticismo a causa del suo razionalismo. Insistono quindi con un accento speciale sull'affermazione che la vita "spirituale" non è la vita "dell'anima" solo, ma il suo scopo è la partecipazione sempre più perfetta alla pienezza dello Spirito Santo. Egli è come se fosse "l'anima della nostra anima". La crescita nella rassomiglianza con Dio consiste quindi nella "spiritualizzazione progressiva" dell'anima, del corpo, di tutte le forze umane, e per mezzo dell'uomo, nella spiritualizzazione di tutto il mondo.

"La forza dello Spirito Santo - scrive Teofano Recluso - dà nascita alla vita spirituale e la stessa forza la sostiene e conduce alla perfezione: da Lui procede ogni movimento, ogni trasformazione nella vita spirituale. Senza l'anima il corpo è senza vita. Così anche senza lo Spirito di Dio l'anima è senza la vita spirituale".

Il paragone dello Spirito con l'anima è senza dubbio molto suggestivo. Eppure si tratta di una metafora, perché il contatto fra Dio e l'uomo è nascosto nella profondità del mistero. La teologia scolastica ha sollevato modestamente il problema de sede gratiae. La risposta che si dà normalmente, è che la grazia illumina direttamente l'anima e per mezzo dell'anima anche il corpo. Questa risposta sembra troppo generica ai mistici di tutti i tempi che furono sempre alla ricerca del "luogo" in cui lo Spirito risiede e tocca l'anima da vicino. Non credevano che si trattasse dell'anima intera, ma piuttosto del suo "fondo''.

Anche questa parola è simbolica e il simbolismo può essere anche inverso. Gli antichi filosofi greci erano persuasi che il mondo divino, simbolicamente collocato in "alto", si raggiungesse con quella parte della nostra anima che è la più "elevata": Non il "fondo", ma la "cima", la mente (il greco nous) che per natura sua è facoltà divina. Se i pellegrini del popolo salivano ai santuari sulle colline e sui monti, i saggi ellenici dissero che possiamo elevarci a Dio soltanto con la mente. Negli scritti dei Padri greci rimase a lungo questa terminologia antica. Passò quindi nel linguaggio cristiano nella definizione classica della preghiera come "l'elevazione della mente a Dio"

Dall'inizio però i cristiani si rendevano conto della problematica connessa con questa terminologia. Se la mente umana restasse sola, sarebbe certamente incapace di superare l'abisso che la separa da Dio. Nessuna idea, nessun concetto umano esprime l'essenza di Dio. Neanche Mosè che salì sulla cima del monte Sinai vi trovò il volto del Signore; così si formò l'immagine del mistico cristiano che ha sorpassato tutte le categorie della mente e che pur tuttavia crede di essere agli inizi della sua "elevazione a Dio". L'unico risultato di questo sforzo è il vivo senso della sua "ignoranza" e il desiderio ardente di esser rapito, sollevato dallo Spirito. L'ultima tappa, dalla cima in su, come dicono i mistici, seguendo san Gregorio di Nissa, si effettua con le "ali della carità diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo.

E' ovvio che la carità non è una virtù che può essere limitata alla sola ''mente'', a una sola ''facoltà'' umana, anche se suprema. Suppone al contrario la pienezza della vita, l'uomo intero, in tutto il suo essere e nella sua attività. Quindi, di conseguenza, lo Spirito Santo trova immediatamente l'uomo in quel "luogo" dove sono concentrate tutte le forze umane, dove si trova il centro e il cardine della persona: gli autori spirituali russi sono d'accordo che questo centro del nostro "io" ha un nome tradizionale; è il cuore (serdtse).

Il cuore, nel senso materiale come organo del corpo, è il centro della vita corporea: preso nel senso spirituale conserva la stessa funzione ora applicata alla vita dell'anima e dello spirito. Questo significato è del resto conforme alla Scrittura.

P. Florenskij fa derivare la parola serdtse dal serdo, centro.

Per Teofano Recluso tutte le facoltà e tutte le forme dell'uomo trovano nel cuore il loro campo naturale di azione. Perciò la preghiera, la fede, le azioni morali ecc., tutto deve uscire dal cuore. Per illustrare questa verità l'autore si serve di una metafora prestata dal teatro: quando un attore recita la sua parte fuori della scena, la sua interpretazione perde molto di efficacia. Così accade, quando si tratta di una facoltà umana che agisce isolatamente. Ma anche questo paragone sembra indebolire la funzione del cuore, perciò Teofano aggiunge l'interpretazione: "Infatti (il cuore) non soltanto è come una scena sulla quale gli attori recitano la loro parte, ma esso stesso prende parte alla interpretazione; per mezzo della loro attività tutte le forze (dell'anima) hanno una ripercussione in esso e, allo stesso modo, esso si ripercuote in esse. Quindi il cuore è considerato come la radice della sostanza umana, il focolare di tutte le forze umane, cioè: quelle dello Spirito, dell'anima e del corpo".

In coerenza con la trichotomia dei Padri orientali, quindi lo Spirito Santo fa parte della persona umana, egli risiede nel cuore. Come può quindi esserci altro scopo della vita spirituale che far del proprio cuore il degno "trono dello Spirito Santo"? "Nel cuore si concentra tutta l'attività spirituale dell'uomo: le verità vi ricevono la loro impronta, le buone disposizioni vi hanno la loro radice". Al contrario, se il cuore e lo Spirito sono "divisi fra di loro, l'uomo non è più buono a niente". In termini moderni si direbbe: egli ha frustrato la sua personalità umana.

La spiritualità escatologica

"La Russia - scrive Berdiaev - è una rivolta apocalittica contro l'antichità, come disse Spengler. Ciò significa che il popolo russo, per sua natura e per sua vocazione nel mondo, è un popolo della fine dei tempi... Nel nostro pensiero, il problema escatologico occupa un posto infinitamente più grande che nell'Occidente: ciò si deve alla stessa struttura della coscienza russa, poco capace e poco disposta ad attenersi alle forme limitate di una qualche cultura intermedia".

Del carattere "escatologico" della Chiesa orientale e in particolar modo di quella russa si è parlato più di una volta, ma nelle discussioni sull'argomento non sempre si sono evitati equivoci.

Esiste un escatologismo popolare, che caratterizza i predicatori nei tempi dell'attesa di un cataclisma. L'Occidente ha avuto il suo "millenarismo". La Russia medievale numerava gli anni dalla creazione del mondo e aspettava la fine quando il numero doveva salire ai 7000. Progettata nella vita di ogni giorno, l'attesa escatologica di questo tipo dimostra un disinteresse per la vita presente, priva di ogni senso.

L'escatologismo però dei monaci contemplativi dell'Oriente è assai diverso. La vita eterna (in greco zoè), non comincia dopo la morte o dopo la fine del mondo, ma deve essere vissuta già nella vita presenta (in greco bios). Già nell'antica filosofia greca Parmenide fu profondamente impressionato dalla visione della vera realtà, eterna e immutabile, sotto le apparenze esterne e i mutamenti visibili. Lo scopo della "contemplazione naturale" (theoria physiké) dei monaci dovrebbe essere simile: scoprire sotto le apparenze visibili e sensibili del mondo creato il volto della sapienza divina creatrice e conservatrice del mondo. Ma non soltanto la natura intorno a noi, anche l'uomo stesso deve essere visto nella medesima prospettiva. La Bibbia ci mette spesso in guardia a non giudicare gli uomini secondo le apparenze ma secondo il cuore. Certamente è spiacevole l'espressione di Feuerbach: l'uomo è ciò che mangia. Ma infatti l'uomo non è neanche ciò che pensa e ciò che, in un momento determinato, vuole. I suoi pensieri, le sue decisioni sorgono dalla profondità del suo ''io'' misterioso e nascosto: "Non pensare a fondare la tua santità sull'agire - scrive Eckhart - bisogna che il suo fondamento sia l'essere; non sono le opere che ci santificano, ma siamo noi che dobbiamo santificare le opere". Non è certo opportuno minimizzare il valore delle buone azioni, ma la perfezione non può consistere in questi atti isolati, bensì nella disposizione stabile del cuore da cui provengono. Non è neanche puro caso che i manuali della morale occidentale - per natura pratica - analizzano con precisione estrema la perfezione o l'imperfezione degli atti morali. Ciò che ha preoccupato gli asceti orientali contemplativi fu al contrario lo stato (katastasis), le disposizioni stabili del cuore.

''La scala del paradiso, una icona del monte Sinai, illustra bene lo sforzo dei padri spirituali dell'Oriente a partecipare sempre di più all'eterna vita divina, in modo stabile e sicuro. Rappresenta i monaci che salgono la scala: sui gradini inferiori sono ancora agitati e si muovono dappertutto, ma più arrivano in alto, più diventano immobili e fissano i loro occhi nell'eternità.

Teofano Recluso interpreta la stessa esperienza spirituale in questi termini. Gli atti morali sono sotto il dominio della nostra volontà libera; ne consegue la piena responsabilità per tutto ciò che facciamo. A causa di questa libertà che però può cambiare da un momento all'altro, siamo continuamente esposti al pericolo del peccato, che è possibile nella libertà imperfetta, mutabile, instabile. La santità e le virtù debbono quindi diventare una disposizione permanente del cuore, "un sentimento del cuore"; l'espressione presa fuori dal suo contesto potrebbe apparire strana, ma Teofano si rende conto del suo vero significato e cerca di giustificarlo anche dal punto di vista psicologico: "Sappiamo bene che quando l'uomo è penetrato da un sentimento, questo lo rende in un certo modo stabile: egli è disposto a dirigere ogni sforzo verso tutto ciò a cui lo spinge questo sentimento".

Va da sé quindi che non possono mostrare questo carattere stabile i sentimenti labili del corpo e dell'anima. Duraturo è soltanto il sentimento "spirituale", quando il cuore umano batte all'unisono con lo Spirito che ivi risiede. Soltanto allora possiamo avere una certa sicurezza della salvezza, che è una prelibazione, anche se mai assoluta, dell'eternità nelle vicende della nostra vita che sfugge. Sembra strano: "Vi è forse un organo più fragile del cuore? Eppure nulla è più stabile di ciò che esce dal cuore; quando i comandamenti (di Dio) sono fissi nel cuore, il loro adempimento è sicuro".

La spiritualità ecclesiale

Il cuore indica l'unità delle facoltà e delle forze umane, in esso l'uomo riunisce in qualche modo le sue azioni disperse nel tempo, nel corso della sua vita terrena. Ma, si può considerare l'uomo come veramente unito, se rimane isolato in se stesso, separato dagli altri? Un tale isolamento condurrebbe alla distruzione della sua propria unità personale. Questo è il pensiero caro a molti pensatori russi.

Un concetto è divenuto caratteristico della teologia russa degli ultimi secoli: la sobornost, il senso della Chiesa, la devozione per la Chiesa, la "collegialità" (nel senso approssimativo), con diverse sfumature di interpretazione teologica, il cui fondo comune è la ferma persuasione che la vita spirituale di ognuno si può svolgere soltanto in unione con gli altri, nella Chiesa.

Alla domanda: Che cosa sia la Chiesa, le risposte diverse manifestano gli aspetti molteplici dell'unione dei fedeli. I russi insistono volentieri sull'affermazione che la Chiesa deve apparire in primo luogo come "unità di cuori". Ma per valutare giustamente la loro tesi, consideriamo i suoi presupposti "antropologici".

Nella composizione tricotomica dell'uomo spirituale, lo Spirito Santo, "l'anima della nostra anima" è insieme ''un' anima comune'' a tutti i credenti: quindi, essi costituiscono un solo corpo, vivono la loro vita spirituale nella loro unione inseparabile. Ma siccome lo Spirito risiede nei cuori dei singoli, ne consegue inevitabilmente la conclusione: l'unità dei fedeli si manifesta in primo luogo nei loro cuori. Quante volte viene interpretato in questo senso, dopo san Basilio questo versetto degli At 4, 32: La comunità dei fedeli (a Gerusalemme) aveva un solo cuore e un'anima sola. "Una via particolare conduce all'unione degli uomini - scrive Teofano - è il cuore. Uno spirito esercita la sua influenza sull'altro facendo intervenire il sentimento".

Quando parlano del ruolo del cuore nella vita sociale, i russi si esprimono talvolta in modo radicale. Ascoltiamo Vyseslavcev: "E' falso pretendere che esiste qualche "cordialità" senza religione, che si chiamerà solidarietà, coscienza sociale, ecc. Nel nome di questa solidarietà sono stati già commessi i più grandi crimini giustificandoli con le declamazioni sull'amore dell'umanità, con una retorica nello spirito di Rousseau o di un Robespierre. Prima di tutto bisogna dire che questi uomini non hanno avuto cuore e, di conseguenza hanno perduto ogni relazione mistica con il prossimo e con Dio: hanno perduto, infine, il loro vero "io", l'hanno dimenticato non sospettando neanche la sua esistenza".

Chi vive più "nel cuore" è il popolo semplice. Perciò, secondo gli slavofili la vera garanzia dell'unità della Chiesa è l'esperienza religiosa del popolo ecclesiale, il quale sente e conserva intatti i tesori del cristianesimo, spesso perduti e contaminati dal razionalismo delle classi che si chiamano intelligenti. I teologi che si allontanano dalla fede del popolo, rischiano di perdere la verità divina, anche se le loro riflessioni appaiono essere ingegnose.

"La verità spirituale - scrive A. S. Chomiakov - non si limita e non può limitarsi solo alla sfera della dogmatica. La fede ha in sé la forza di abbracciare necessariamente tutta la vita: il riconoscimento del popolo ecclesiale come custode della verità, come qualcosa di integro e spiritualmente vivente".

Di conseguenza anche l'autorità ecclesiale deve avere la sua base nella fede del popolo semplice. "I vescovi, i Padri dei concili - secondo A. A. Kireev - non sono legislatori indipendenti, ma solo testimoni della fede dei loro figli spirituali, delle loro Chiese". Non vogliamo entrare nei problemi teologici sollevati dalle riflessioni degli slavofili, insistiamo piuttosto di nuovo sul loro fondamento comune: "Se il centro della persona umana è il cuore, allora è con il cuore che l'uomo entra in relazione con tutto ciò che esiste", ed esso è quella "via particolare che conduce all'unione degli uomini".

La spiritualità cosmica

L'unità dell'uomo con tutto il mondo è un tema ben conosciuto nella tradizione orientale. I primi Padri della Chiesa nutrivano una grande ammirazione per il cosmos, l'universo creato. Esprimono le loro riflessioni spesso nella terminologia stoica. I filosofi del Portico professavano un logos unico che penetra tutte le cose e predicavano un dogma dell'unità del mondo nel pneuma, spirito divino.

I cristiani rifiutano l'unità panteistica dei pagani e professano il carattere trascendente del pneuma divino. Ma nello stesso tempo credono che Dio creò tutto il mondo per mezzo del suo Verbo e che in ogni cosa creata risiedono le tracce della divina sapienza. Lo scopo della contemplazione cristiana non è altro che vedere queste tracce divine sotto la superficie degli esseri, vedere Dio nelle creature che lo rivelano.

Origene esorta alla ricerca dei logoi dispersi nel mondo, san Basilio vi scopre la sophia, gli autori russi recenti parlano della sophiologia. Le icone russe dipingono la saggezza divina come un angelo di colore rosso che siede sul trono di questo mondo e gli conferisce unità e bellezza, qualità che ci invitano a essere ammirate e contemplate in ogni cosa creata; entriamo così consapevolmente nella salvezza cosmica, universale.

Nonostante il loro senso artistico e i loro numerosi trattati intitolati "Sulla natura", gli antichi greci non avevano una sensibilità romantica per le bellezze naturali, furono troppo speculativi. Fra gli asceti cristiani della loro generazione leggiamo forse soltanto di san Nilo di Grottaferrata che si permetteva una passeggiata per ammirare Dio nelle bellezze della campagna romana. Assai differenti ci si presentano, sotto questo punto di vista, i famosi "pellegrini russi". "Tutto ciò che mi circondava - scrive un pellegrino mi sembrava ammirevole: gli alberi, l'erba, gli uccelli, la terra, la luce, l'aria, sembrava che tutto sottolineasse la sua esistenza per l'uomo, tutto testimoniava l'amore di Dio per gli uomini, tutto pregava e cantava la gloria di Dio ".

I russi avevano sempre un grande senso della bellezza, nelle chiese, nelle icone, nel canto, in tutto ciò che appartiene al culto divino e alla preghiera. Secondo la narrazione del cronista di Kiev, questo motivo fu decisivo per la loro conversione al cristianesimo. Il principe Vladimiro avrebbe voluto decidere fra le diverse religioni dall'osservazione dei rispettivi riti. Provò un orrore vivissimo davanti al culto ebraico, per le cerimonie latine non sentì alcun trasporto, mentre il rito bizantino produsse su di lui e i suoi un impressione grandissima: "Quando siamo giunti in Grecia e quando i greci ci hanno condotto nell'edificio in cui si teneva il loro culto a Dio, non sapevamo se eravamo sulla terra o in cielo, perché sulla terra non ci può essere un tal splendore né una simile bellezza quali non siamo in grado di descrivere. Sappiamo soltanto che qui Iddio vive tra gli uomini e che le loro cerimonie sono le più nobili fra tutte le nazioni, non possiamo dimenticare la loro bellezza. Ogni uomo che ha provato il dolce, non vuole più gustare l'amaro.

La bellezza delle chiese e dei riti si considerava come ottimo metodo missionario per la conversione degli eterodossi. Il principe Andrea Bogoljubskij (+1174) aveva l'abitudine di condurre ogni mercante che dall'estero veniva da lui nei portici della chiesa, affinché "vedesse il vero cristianesimo e si convertisse". Anche le piccole chiesine di legno dei villaggi russi, dice Bulgakov, cercano di produrre la stessa impressione di santa Sofia a Costantinopoli, cioè il riflesso della sapienza divina in terra nel suo splendore di bellezza.

Non è però facile dire come venga considerata la bellezza dall'uno o dall'altro. Gli autori spirituali sottolineano che si deve trattare della "bellezza spirituale", non quella carnale; ciò è ancora più difficile a interpretare con le parole. E' però interessante che già san Basilio, quando parla della "bellezza" delle opere divine che ci introduce nella contemplazione, intendendola come armonia, ordine, l'unità degli esseri in Dio.

Il filosofo religioso Paul Florenskij, interpreta il vecchio assioma scolastico: unum, verum, bonum in questa forma: "La verità, la bontà, la bellezza - triade metafisica - non sono tre principi differenti, ma uno solo. Si tratta di un'unica vita spirituale contemplata sotto aspetti diversi. Non ci sfugge che il termine bellezza sostituisce quello di unità; vedere le cose come belle significherebbe l'esperienza vitale e il senso profondo della loro armonia, dell'unione di tutto ciò che esiste.

Forse la stessa parola slava per indicare la verità può servire come testimonianza di questo senso per indicare la realtà nella sua totalità. La voce istina ha la stessa radice del latino est, ciò che esiste, e ancora coll' asthmi sanscrito, che dice spirare. Cercare la verità vuol dire comprendere l'universo animato da una vita che vi "spira". Non sorprende quindi che la filosofia russa dimostra sempre una forte tendenza "esistenzialista", ma si tratta di un esistenzialismo che preferiamo chiamare cosmico, non individuale. La persona umana che è in continuo ascolto delle voci e dell'armonia cosmica desidera inserire se stessa in questa grande "liturgia cosmica".

L'ideale dell'arte iconografica fu proprio questo: la visione spirituale dell'universo pieno di bellezza, nel quale si deve trovare un posto per noi. "L'amore - dice ancora Florenskij - esige necessariamente che si sorpassino le frontiere del mio io per poter entrare in una nuova realtà dove tutto porta il sigillo della bellezza".

La fuga del mondo praticata dagli asceti con tanto rigore sarebbe allora contraria a questo ideale? Florenskij non è di questo parere. Per lui "l'ascetismo non crea una personalità buona, ma bella: il tratto particolare caratteristico dei grandi santi non è la bontà del cuore, la quale è comune fra gli uomini carnali e persino fra i grandi peccatori, ma piuttosto la bellezza spirituale, la splendida bellezza della persona, bellezza che acceca e illumina, che non può essere raggiunta dall'uomo carnale". Indispensabile è quindi per l'ascesi un grande senso di moderazione.

Quando si tratta quindi di stabilire a quale organo è riservato di percepire questa bellezza-unità, gli autori russi non hanno alcun dubbio che questo può essere soltanto il cuore, centro della nostra propria unità personale. Per distinguere il vero dal falso abbiamo una facoltà speciale - la ragione: similmente per decidere a fare il bene abbiamo la volontà libera. Ma per valutare la bellezza - scrive Teofano Recluso - non basterebbe qualche facoltà speciale, deve intervenire il cuore che "ritorna a se stesso, alla sua propria grazia", che percepisce la sua propria unità e finalità.

Di conseguenza, se il centro dell'essere umano è il cuore, per mezzo del cuore l'uomo entra in relazione con tutto ciò che esiste. Stabilito una volta questo doppio nesso, si può definire la doppia funzione del cuore: essere centro delle forze e servire come base per stabilire "il contatto con tutto ciò che esiste al di fuori di noi". Poiché la realtà creata da Dio è bella, di fronte ad essa nascono nel cuore i "sentimenti estetici".

Nello stesso senso, scrive P. Ivanov: "E' soltanto per mezzo del cuore che si può afferrare il segreto dell'universo, ciò che Kant chiama la cosa in se stessa. E' il cuore quindi che percepisce Dio, gli uomini, gli animali, la natura. Il cuore solo può perciò dare pace allo spirito". Questa affermazione è del resto, la conseguenza della dottrina orientale sulla divinizzazione del mondo per mezzo dello Spirito Santo: il medesimo Spirito risiede nel cuore e vivifica l'universo; quindi è il cuore che percepisce la vita del cosmo.

Anche i greci avevano un grande senso dell'unità del cosmo. Ma si può dire che per i russi questo "senso cosmico' è meno speculativo, è più "sentito". L'ideale sarebbe ciò che dice Dostojevskij: "sentire con tutto ciò che esiste".

L’attenzione al cuore

La conclusione morale dalle precedenti considerazioni fu per gli asceti, sempre evidente. "Nel cuore si concentra tutta l'attività spirituale dell'uomo... Per questo motivo la formazione del cuore ha dall'inizio una grande importanza". Questa formazione del cuore ha, nella spiritualità orientale, nomi tipici: la custodia del cuore (phylaké kardias), la sobrietà (nepsis) interiore, o semplicemente l'attenzione (prosochè), vigilanza, sorveglianza (episkopé) del cuore. Ma anch'essa dimostra diversi aspetti.

Possiamo schematizzarli in tre punti: il primo si può chiamare "negativo" a differenza dell'altro "positivo", ed infine il terzo "contemplativo".

L'attenzione negativa concentra gli sforzi umani nella purezza del cuore, e questa, nelle esortazioni degli asceti, occupa il posto più ampio. Il peccato ha dissipato le forze che dovrebbero essere concentrate nel cuore in un'armonia perfetta. L'attenzione alla purezza del cuore significa quindi lo sforzo a restaurare l'unità della persona umana, escludere ciò che gli è estraneo; i peccati, le passioni e anche i loro semi - pensieri malvagi (logismoi, in slavo: pomysly).

Teofano paragona il cuore umano con un cavallo che dovrebbe rimanere tranquillo nei pascoli spirituali. Purtroppo il diavolo cerca di continuo di salire su di lui e condurlo sulle sue vie, di attrarlo a sé per mezzo dei "pensieri". Riprendendo l'insegnamento degli esicasti, l'autore distingue i seguenti gradi o stadi attraverso i quali un pensiero penetra nel nostro cuore:

1) la suggestione (prilog),

2) l'attenzione a quello che è suggerito (vnimanie),

3) compiacimento nel pensiero proposto (slazdenie),

4) desiderio della cosa proposta (zelanie),

5) risoluzione (resimost),

6) esecuzione dell'opera (delo).

Non è nelle nostre possibilità essere liberi dalle prime suggestioni al male. D'altra parte il vero peccato, nel senso formale, appare soltanto nel quarto stadio. Ma la perfezione consiste nel non ammettere neanche il secondo grado, cioè non prestare attenzione al pensiero malvagio. Nel linguaggio degli asceti si dice: mettere il Cherubino con la spada davanti alla porta del cuore, non dare un minimo accesso al serpente a penetrare nel nostro paradiso interiore

Questa attenzione negativa, difensiva è immediatamente seguita dall'attenzione positiva: al coltivare le virtù nel giardino del cuore. Fra queste la regina di tutte è la carità. Il cuore stesso, essendo centro di tutte le forze e aspirazioni umane ha per sua natura un ardente desiderio di Dio (cf. il famoso eros divino di Platone). Per mezzo dello Spirito Santo che vi risiede diventa anche sorgente dell'agape, amore cristiano nel vero e pieno senso della parola. Lo Spirito Santo è, come dicono i Padri, cristiforme, trasforma l'uomo nell'immagine di Cristo, fa sì che il nostro cuore batta all'unisono con quello del Salvatore. Teofano fa sue le parole di Crisostomo, il quale interpreta l'apostolo Pietro (Fil 1,8): "Vi amo nelle viscere di Gesù Cristo, ciò vuol dire per mezzo della sua grazia, per mezzo del suo cuore... Non dice (l'Apostolo) per mezzo dell'amore, ma parla in modo più espressivo, più forte: per mezzo del cuore di Cristo". L'effetto dell'attenzione positiva al cuore è quindi la santificazione, l'identificazione con la persona di Gesù, con il suo cuore.

La santità, perciò, e specialmente la carità è "la porta della contemplazione". Il cuore puro è quindi organo e insieme oggetto della contemplazione.

Spiritualità contemplativa

L'Occidente fu spesso paragonato a Marta, e l'Oriente a Maria (cf. Lc 10, 42) a causa del suo carattere contemplativo e il suo ideale di "vedere Dio in ogni cosa". Che "il cuore puro" vede Dio (cf. Mt 5, 8), che sia proprio esso l'organo della contemplazione, di questa verità fondamentale non si è mai dubitato in Oriente. Ragionare di Dio, dice Evagrio, possono anche gli empi, ma lo "vedono" solo quelli che sono puri.

La contemplazione, theoria (letteralmente: visione) è una "intuizione". Il termine slavo per la contemplazione sozertsanie rende perfettamente questa sfumatura. Sorprende che il termine si usa relativamente poco, se non nelle traduzioni dal greco. Come spiegare ciò?

La "contemplazione" è un termine spirituale, ma preso in prestito alla conoscenza sensibile, perché anch'essa è immediata. E' senza dubbio tipico che fra i cinque sensi del corpo la tradizione ellenica, di natura "visiva', abbia sempre creduto che il contatto più sicuro e intimo con la realtà si realizzi soltanto per mezzo della vista. Gli slavi, sembra, si fidino un po' meno degli occhi, specialmente quando si tratti di persone. Il loro vero valore non si "vede", ma piuttosto si sente". Dobbiamo quindi meravigliarci che gli autori spirituali si esprimono analogicamente in questa linea? Sono meno attirati dalla "visione di Dio", ma desiderano ardentemente sentire la sua presenza. Dato che è ovvio che il "vedere" spirituale si colloca nella mente - "occhio spirituale" - così è ugualmente spontaneo che l'organo del "sentire sia il cuore. Se presso i Padri greci il termine mente ha sostituito il cuore, i russi ritornano volentieri alla parola antica.

Questo ritorno alla kardia appare già nella cosiddetta spiritualità "del sentimento", presso i greci e i bizantini. Perciò nella Filokalia greca, ambedue i termini, la mente e il cuore, coesistono pacificamente con lo stesso significato. Nella lingua russa, tuttavia, la parola um, mente, dà sempre di più l'impressione di una facoltà discorsiva, non intuitiva, perciò viene sempre più radicalmente sostituita dal serdtse, cuore.

In questo processo non c'è niente che contraddice la tradizione. La terminologia divenne equivoca quando gli autori recenti ricevettero la divisione tripartita dalla psicologia sperimentale moderna: la conoscenza, la volontà, il sentimento. Allora gli autori occidentali, mossi dalla paura che l'insistenza sui sentimenti del cuore" potesse degenerare in qualche sentimentalismo banale, nell'irrazionalismo e nel "modernismo", sollevarono obiezioni contro la terminologia russa.

E' vero pertanto che Teofano Recluso vuole a ogni costo sfuggire non soltanto i pericoli di un "sentimentalismo", ma anche del "razionalismo" e distingue con cura, secondo la tradizionale tricotomia orientale, tre zone nella persona umana: il corpo, l'anima e lo Spirito. Quindi anche tre specie di "sentimenti": del corpo, dell'anima e quelli "spirituali" che non sono altro che la voce dello Spirito, unita al desiderio fondamentale di tutta la natura umana e quindi un'autentica sorgente della rivelazione.

Spostati nella sfera dello Spirito Divino, i "sentimenti del cuore", come li intendono i russi, non si possono, avverte N. Losski, neanche comparare con "l'intuitivismo" dei filosofi europei recenti. L'autore è persuaso che, in Occidente, il termine intuizione sia ancora sospettato di soggettivismo psicologico ed è quindi giudicata di secondario valore epistemologico dinanzi alla rigida conoscenza logica concettuale. Al contrario, "la fiducia dei filosofi russi riguardo all'intuizione" si spiega dalla circostanza che è proprio l'intuizione che "fa conoscere i principi metalogici". Traducendo questo linguaggio complicato nei termini degli autori spirituali possiamo dire: esiste una intuizione" puramente umana, che si cerca normalmente di giustificare con un ragionamento logico. L'intuizione che è la voce dello Spirito Santo, è evidentemente "metalogica", superiore a ogni giustificazione per mezzo dei ragionamenti umani, non è la voce della "ragione", ma della "carità", che diventa essa stessa conoscenza. Dio Padre che è la carità (1 Gv 4, 8.16) si conosce per mezzo della carità.

Tutti i maestri spirituali ortodossi hanno insistito fortemente sulla necessità della carità per la contemplazione spirituale. L'invocazione, che nel rito bizantino precede immediatamente la recita del credo, si considera come tipica di questa mentalità: "Amiamoci gli uni gli altri affinché possiamo con unanimità professare: Credo in un solo Dio Padre...". Aggiungiamo anche la spiegazione di Vyseslavcev: "E' profetica per ogni intellettualismo recente l'espressione di Leonardo da Vinci: "Un Grande amore è figlio di una grande conoscenza". Noi, cristiani dell'Oriente, possiamo dire il contrario: Una grande conoscenza è figlia del grande amore".

Teofano giudica questa voce della carità infusa nei cuori mediante lo Spirito di Dio indispensabile per la vita spirituale: "Se vi è qualcuno che non conosce per propria esperienza l'azione della grazia dello Spirito Santo nel suo cuore, bisogna dubitare della sua salvezza. In questo senso il cuore serve da "barometro" della vita spirituale: far penetrare le verità religiose nel cuore (ciò che si fa nella contemplazione, nelle meditazioni) significa conoscere la verità così "come essa lo esige".

Anche la famosa "preghiera di Gesù" diffusa ed elogiata negli ambienti monastici russi, praticata talvolta con l'aiuto di metodi "psicofisici" (per mezzo della respirazione, della posizione del corpo, concentrazione sul cuore), non ha altro scopo che introdurre la preghiera e tutta la vita spirituale, tutti i nostri pensieri "dalla testa nel cuore", nel loro fondo naturale, affinché le voci ossia le esigenze umane del nostro corpo e della nostra anima si uniscano con "lo Spirito nel cuore, il quale metterà fine al disordine che regna nei pensieri e darà la forza a dirigere tutti i movimenti dell'anima".

In linea generale, dicono i contemplativi, ogni cosa può e deve condurci all'unione con il Creatore. Di fatto, però ci troviamo di fronte alle diverse mentalità dei popoli. I greci cercarono Dio e lo scoprirono nell'ordine del cosmos, gli ebrei nella storia. Gli autori spirituali russi lo ricercano nel cuore e ivi godono della sua presenza.

Concludiamo quindi con un testo caratteristico: "Figlio mio, dammi il tuo cuore! Dice il Signore nei Pro 23, 26; perché nel cuore c'è l'origine di ogni bene e anche di ogni male. Quale sei nel cuore, tale sei davanti al volto del Signore".

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