Ecumene

Mercoledì, 24 Agosto 2005 02:20

Musulmani in Europa, difficile identità (Samir Khalil Samir)

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Credo che sia essenziale dare agli immigrati, e soprattutto ai giovani, la possibilità di vivere in mezzo alla gente del posto e di condividere la quotidianità; è la miglior maniera di costruire insieme un progetto comune e una comune cittadinanza.

Musulmani in Europa, difficile identità

di Samir Khalil Samir

 

Due anni fa, mentre tenevo a Parigi un corso di teologia comparata su islam e cristianesimo, una giovane studentessa, entrata in aula per curiosità, mi chiese perché non c'erano altre musulmane a quel corso, intendendo con questo ragazze maghrebine. Alla lezione seguente portò un'amica e poi un'altra. E dal momento che facevano molte domande, mi hanno chiesto di andare da loro, a Aubervilliers, per una serata. Così è cominciata l'amicizia, che continua da tre anni, con un gruppo di una quindicina di ragazzi e ragazze di origine maghrebina, che vivono a Parigi in situazione spesso illegale.

Le questioni sono molte e riguardano il rapporto tra l'islam e l'Occidente: il velo, il rapporto tra ragazzi e ragazze, il cibo halal o haràm (lecito o illecito), la civiltà occidentale, la secolarizzazione, come osservare le regole della preghiera, e così via... Quest'anno, il dibattito (che dura ogni volta circa tre ore) verteva intorno al senso di appartenenza: chi sono? Come mi definisco: marocchino o algerino o piuttosto come francese? E ancora, io mi definisco innanzitutto come musulmano? E che cosa significa per me questo? È la questione dell'identità che emerge. Anche quando sono nati in Francia, questi ragazzi hanno la tendenza a definirsi innanzitutto come maghrebini o musulmani. Perché? È una forma di rifiuto per l'Occidente? Per altro, questi ragazzi sono spesso più occidentali che arabi. Credo che in buona parte sia perché non trovano il loro posto nella società; non hanno un vero e proprio lavoro; se sono clandestini devono sempre fuggire la polizia; l'islam non dà loro le risposte che si attendono.

Una cosa mi ha colpito; sono poco integrati nella città e vivono piuttosto tra loro, nei quartieri degli immigrati che sono quasi dei ghetti. Hanno difficoltà a sviluppare la loro personalità e a pensare con la loro testa. Pensano ciò che gli altri pensano. È il gruppo che detta loro le opinioni e i comportamenti.

Fatima, nata in Francia, ripete con forza: «Sono marocchina». Le chiedo: «In cosa? Sei nata in Francia, la tua cultura è francese, i tuoi amici sono francesi... Il Marocco è il Paese dei tuoi genitori». Lei risponde: «Chieda a tutti gli altri che sono qui, le diranno la stessa cosa». Cerco di dirle che poco importa quello che pensano o dicono gli altri; deve essere lei decidere e fare le sue scelte. Fatima non sembra capire: la comunità pesa ancora molto. Ahmed, invece, vive in Francia da quattro anni. Alla domanda sull'identità, risponde: «Sono algerino, in via di diventare francese». Studia in una scuola ebraica per ottenere la maturità e lavora nella stessa scuola per pagarsi le tasse. Samia, di padre algerino e madre francese, cresce da sola i suoi due figli dal momento che il suo compagno l'ha abbandonata. Lei ha deciso di non essere credente. Gli altri le dicono che questo non ha senso: «Tu sei musulmana!». Lei ribadisce che non è credente. Ma gli altri non la capiscono. Forse, fa questa scelta per affermare la sua personalità ed essere libera di pensare con la propria testa. Laila, che ha l'aria di una francesina, risponde che è marocchina. Quando se ne va, un'amica dice: «Con noi dice che è marocchina, con i francesi dice che è francese». Chiedo perché: «Ha paura che la prendiamo per una che ha rinnegato le sue origini». Li provoco un po': «Dev'essere difficile vivere qui: i francesi sono sciovinisti». Uno solo dice che è vero, che sono razzisti e fanatici. Mohammad gli risponde: «Succede da quando hai lasciato crescere la tua barba, messo la jellaba e incominciato ad andare alla moschea!». «Sì - dice l'altro - e ho il diritto di farlo!». «Certo - ribatte Mohammad - ma facendolo volevi mostrare ai tuoi amici che eri diverso da loro. E loro hanno reagito separandosi da te».

Al termine della serata, ho chiesto se avevano l'intenzione di tornare nei loro Paesi. Tutti, salvo uno, hanno detto che volevano vivere in Francia. Allora ho suggerito loro: «Se questo è il vostro progetto, non sarebbe preferibile fare tutti gli sforzi possibili per integrarvi in un Paese che voi scegliete e cercare di sentirvi il più possibile a casa vostra?».

Credo che sia essenziale dare agli immigrati, e soprattutto ai giovani, la possibilità di vivere in mezzo alla gente del posto e di condividere la quotidianità; è la miglior maniera di costruire insieme un progetto comune e una comune cittadinanza.

(da Mondo e Missione, marzo 2005, p. 31)


Letto 2130 volte Ultima modifica il Mercoledì, 02 Giugno 2010 14:16
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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