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Domenica, 13 Aprile 2025 09:19

I segni della risurrezione (Faustino Ferrari)

Un racconto. “Un uomo dell’Estremo Nord cerca una via di sfogo al proprio sentimento, non distrutto né del tutto avvelenato da decenni di vita alla Kolyma. L’uomo spedisce per via aerea un plico: non libri, fotografie o versi, ma un ramo di lance, un ramo morto della natura vivente. A Mosca mettono questo strano regalo – il ramo di un albero artico, colore marrone chiaro, secco, raffreddato dai venti della traversata aerea, avvizzito, strapazzato nel vagone postale, severo e scarno – nell’acqua. Lo mettono in un barattolo da conserva, riempito con la caustica acqua dorata e disinfettata dell’acquedotto di Mosca, un’acqua che, si direbbe, è ben contenta di far disseccare ogni cosa che vive: la morta acqua dei rubinetti di Mosca. (…) Passano tre giorni e tre notti e la padrona di casa viene svegliata da uno strano, vago odore di resina, debole, sottile, nuovo. Nella ruvida pelle legnosa si sono aperti e sono apparsi distintamente gli aghi – freschi, giovani e vitali, dal colore verde – i nuovi germogli”. (Varlam Šalamov, La resurrezione del larice)

Nei vangeli ritroviamo diversi racconti pasquali della risurrezione di Gesù. Ogni evangelista sviluppa una particolare prospettiva teologica e narrativa. Quello che qui cerchiamo di fare è di tratteggiare alcuni di questi elementi. In particolare, ci soffermiamo su alcuni segni utilizzati per parlare della risurrezione di Gesù attraverso le diverse narrazioni evangeliche.

L’evento della risurrezione non può essere descritto in se stesso. È un evento che si colloca oltre il tempo e lo spazio. I vangeli cercano di rappresentare le conseguenze di questo evento. Innanzi tutto, vengono tratteggiati gli scenari che si aprono a livello di esperienza come discepoli e discepole del Signore. In seguito, ci sarà, nelle Lettere e negli altri scritti neotestamentari, lo sviluppo teologico dell’evento-risurrezione. I vangeli contengono una variegata prospettiva di segni che ci presentano lo svelamento della risurrezione di Gesù.

Il primo segno che manifesta la risurrezione di Gesù è quello della tomba vuota. I quattro vangeli, seppure in modo differente, raccontano della scoperta da parte delle donne della tomba vuota. Esse si erano recate alla tomba di Gesù con olii aromatici per imbalsamarne il corpo, ma la trovano aperta e vuota. Tutti e quattro i vangeli riportano il segno della tomba vuota, con differenze tra le diverse narrazioni. Nel vangelo di Marco – quello più antico – è l’unico segno riportato nel testo originale (cioè il testo precedente alla redazione del “finale lungo”). Questo segno precede tutte le apparizioni di Gesù.

Il segno della tomba vuota si presta a molteplici interpretazioni. Perché la tomba è vuota? Il corpo di Gesù è stato rubato? I Vangeli stessi parlano di dicerie secondo cui il corpo di Gesù sarebbe stato trafugato dalla tomba. Sono i capi dei sacerdoti che suggeriscono ai soldati di guardia di affermare: “I suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo” (Mt 28,11-15).

L’Occidente non ama il “vuoto”, segno sempre di una mancanza, di una deficienza. E con l’espressione horror vacui (orrore del vuoto) si vuole indicare la necessità di riempire, ad esempio, la superficie di un’opera d’arte. “La natura rifugge il vuoto” (Aristotele) è una teoria che domina in gran parte della nostra cultura. Di solito la parola ed il concetto di vuoto hanno un significato negativo. Stomaco vuoto, mente vuota, vita vuota, senso di vuoto… Per fare qualche esempio. Ed anche l’idea di una tomba vuota, finisce con l’assumere un significato immediatamente negativo.

Ben diversa è invece la concezione Orientale del vuoto – che mantiene sempre un senso positivo. Qui nel suo significato più immediato esso viene ad indicare la condizione di possibilità di tutti gli eventi, di tutte le cose. Una casa sarebbe inutilizzabile senza il vuoto delle porte e delle finestre. Un vaso, un bicchiere, una bottiglia o un contenitore sarebbero sprovvisti di utilità senza il vuoto al loro interno. In questa concezione il vuoto non corrisponde con il non-esserci delle cose. Esso viene ad indicare l’origine e la condizione di possibilità della realtà. Il segno della tomba vuota si inscrive, quindi, non nella mancanza, ma nell’ordine delle possibilità.

Ma il tema della tomba vuota rimanda al qōdesh haqǒdāshīm, (“le cose sante tra le sante” - sancta sanctorum), la parte più interna del Tempio di Gerusalemme. Qui vi erano custodite le tavole della legge e l’arca dell’alleanza. Vi poteva entrare solamente il gran sacerdote una volta all’anno (nel giorno del kippur). Quando il generale Tito – figlio dell’imperatore romano Vespasiano e che alla morte del padre diventerà a sua volta imperatore – nel 70 d.C. conquista Gerusalemme dopo un lungo assedio ed una guerra durata cinque anni, egli vuole vedere cosa contiene la parte più sacra del Tempio, per la quale gli ebrei hanno combattuto così strenuamente e hanno dato la vita. Ormai circondato dalla distruzione e dalle fiamme, penetra nella cortina delimitata dalla tenda, ma rimane deluso e sconcertato: nella stanza più sacra non c’è nulla, non c’è nessun simulacro. La stanza del Dio d’Israele è vuota!

Come la presenza di Dio in mezzo al suo popolo è rappresentata da una stanza vuota così la nuova presenza del Cristo risorto in mezzo ai suoi discepoli è significata dalla tomba vuota!

Nel corso di questa narrazione alle donne viene rivelato da un messaggero (un giovane, un angelo, due uomini o due angeli, a seconda del vangelo) che Gesù è risuscitato. Bisogna tenere presente che a quei tempi esisteva una concezione restrittiva della donna. A tal proposito erano comuni detti come questi:

- una donna ha solo da imparare a servirsi del fuso;

- ciò che deve fare una donna è stare in casa;

- chiunque discorre molto con una donna, si fa del male;

- le parole della Legge vengano distrutte dal fuoco piuttosto che essere insegnate alle donne.

E nella preghiera mattutina ogni buon ebreo (maschio) lodava Dio per non essere nato pagano, donna e contadino (cioè incapace di osservare la Legge).

Tra le tante limitazioni a cui la donna era soggetta c'era anche quella relativa all'autorevolezza della sua parola. La testimonianza di una donna non aveva alcun valore giuridico. Nella concezione ebraica una testimonianza era valida se resa da almeno due testimoni che dicessero la stessa cosa (cfr. il racconto di Susanna in Daniele 13), ma i testimoni dovevano essere maschi. Nei racconti pasquali, le donne sono le prime testimoni della risurrezione di Gesù. Diventano quelle che portano il primo annuncio agli apostoli. Sono qui le apostole degli apostoli! È un paradosso. Quelle che non hanno alcun valore giuridico, la cui testimonianza non conta niente, diventano le prime messaggere della risurrezione. A loro viene fatto il primo annuncio della risurrezione e sono loro a portare il primo annuncio della risurrezione.

Abbiamo poi il segno del giardiniere (Gv 20,15). Maria Maddalena non riconosce lo sconosciuto nel giardino e lo scambia per il contadino che accudisce il campo. In realtà non si tratta di una distrazione della Maddalena. Gesù risorto è rappresentato come il giardiniere, il custode, del nuovo Eden – il giardino paradisiaco. Con l’evento della risurrezione si ha il ripristino della condizione originale. Non solo. Nella bibbia, soprattutto nei profeti, troviamo ricorrente l’immagine di Israele come vigna del Signore. “La vigna del Signore è la casa di Israele” (Is 5,7). L’immagine del contadino, ortolano che pianta e ha cura della vigna è ricorrente per descrivere il comportamento di Dio nei confronti del suo popolo. Il Cristo risorto appare alla Maddalena nelle vesti del Signore che ha cura del suo popolo. Soltanto dopo questa prima immagine il riconoscimento di Cristo si fa personale.

Un altro segno della risurrezione di Gesù lo abbiamo nel racconto dello sconosciuto che si accosta lungo la via a due discepoli confusi e delusi. Siamo di fronte ad una delle pagine più belle dei vangeli. Nel racconto dei due discepoli di Emmaus, Luca (cap. 24) mette in scena una delle manifestazioni del Gesù risorto. Conosciamo bene il racconto. Questi due discepoli avevano sperato… ma ora, sconfortati e sfiduciati, se ne ritornano a casa. La missione è finita. Tutto è ormai perduto. Nel dolore si fa loro compagno di viaggio uno sconosciuto. Ed iniziano a discutere delle Scritture. Un tratto di strada di poche miglia si fa lungo poiché essi giungono alla locanda che è già sera. Nel gesto dello spezzare il pane i due discepoli riconoscono il loro Maestro.

Nel segno del pane spezzato che rimane sulla tavola si manifesta il Signore risorto (che non è più fisicamente visibile per i due discepoli). Gesù è presente accanto ai discepoli finché resta sconosciuto, ma scompare nel momento in cui si rivela. Ancora una volta siamo di fronte ad un paradosso: la “presenza” resta sconosciuta mentre la “rivelazione” si comunica in un’“assenza”.

Ma il racconto va oltre. Accogliere uno sconosciuto lungo la via, invitarlo alla propria mensa, condividere il pane con lui, si trasforma nella possibilità di accogliere il Maestro. Questo antico racconto si rivela così essere sempre attuale. Nella parabola del giudizio finale l’evangelista Matteo esemplifica i modi nei quali i discepoli “riconoscono” (o no) il loro Maestro risorto. “Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito?” (Mt 25,37). Per i discepoli lo sconosciuto, il forestiero, l’altro, non è mai tale poiché diventa il segno della presenza del Cristo risorto.

Il vangelo di Giovanni mette in campo un altro racconto nel quale Gesù non è riconosciuto dai propri discepoli. Questo episodio si svolge sulle rive del lago di Genezaret e si parla di una pesca abbondante, miracolosa. I discepoli intenti a pescare riconoscono nello sconosciuto sulla riva il loro Maestro risorto. Ma il riconoscimento non avviene attraverso il senso della vista. Infatti, “nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore” (Gv 21,12). Lo svelamento del risorto avviene per mezzo della fede, nel rinnovo del pasto eucaristico.

Del segno delle ferite ne abbiamo già in un testo precedente a cui rimandiamo (link: i segni delle ferite). “Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” ” (Gv 20,25). Qui la fede nel risorto passa attraverso il riconoscimento della passione e della morte del Signore. Il discepolo Tommaso riconosce il suo Signore nelle ferite del corpo e della carne. Sono proprio le ferite del corpo a svelare la divinità del Cristo e a rappresentare il segno della sua risurrezione. Il Risorto si rivela a Tommaso come l’Uomo dei dolori e delle ferite.

L'angelo disse alle donne: “Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”” (Mt 28,5-7). Qui il segno della risurrezione è la Galilea delle genti. È là che i discepoli potranno vedere il Risorto.

La Galilea delle genti. Galilea significa propriamente “distretto delle genti”. Le genti – i gentili – erano i pagani: non appartenevano al popolo ebraico. Era un crocevia di lingue e etnie diverse. Una società meticcia, un mescolamento di culture e tradizioni. E tuttavia: “il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata” (Mt 4,16). È qui che Gesù ha iniziato il suo ministero. Ed è qui che i discepoli possono incontrare il Cristo risorto. Il vangelo di Matteo offre una nuova chiave di lettura: il Risorto di svela nella missione dei discepoli. Anzi. L’immagine trasmessa è che Cristo precede la missione dei discepoli. Egli è sempre un po’ più in là. “Non è qui”. È in Galilea. Ora.

Il segno della Galilea obbliga ad uscire da noi stessi. Dai posti dove siamo soliti vivere e che conosciamo bene. Il Risorto ci sta aspettando in un altrove che non è questo, per camminare con noi. Non è qui che dobbiamo cercare il Risorto. Egli attende, sotto una veste inattesa, proprio là ove non ce lo aspettiamo. Non in strade nuove, ma che non abbiamo ancora avuto il coraggio di percorrere...

Il segno della croce. E veniamo al segno più paradossale della risurrezione di Gesù. Lo troviamo in particolare nel vangelo di Giovanni. “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire” (Gv 12,32-33). L’Innalzato è, nel medesimo momento, il Risorto ed il Crocifisso. Perché unico è il mistero e l’evento della passione e risurrezione di Gesù. Il momento della morte è anche il momento della risurrezione! Ed anche da risorto le ferite restano ben visibili.

La crocifissione di Gesù è un innalzamento. Egli viene esposto ben in vista per diventare per tutti salvezza e benedizione. La croce è momento di gloria poiché è gloria d’amore. Qui Dio non si rivela nella potenza, ma nella debolezza della morte. "Attrarre" (in greco elko) significa "attirare con forza". È l’attrazione di una calamita. Ma questo avviene senza violenza, bensì per mezzo di una forza interiore, affascinando. Come la croce attrae mostrandosi, così il risorto si rivela attraverso il compimento della sua morte.

Anche per il vangelo di Marco il momento della morte di Gesù è momento rivelativo: “Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Tutto il vangelo di Marco è intessuto intorno a domande relative a chi fosse Gesù. Chi è costui? Perché parla in questo modo? Come può compiere prodigi? Ecc. Domande che restano a lungo sospese. Esse sono intramezzate da due professioni di fede. La prima è quella di Pietro (8,27-38). La seconda è questa del centurione pagano nel momento della morte. Dalla bocca del centurione risuona la testimonianza di fede in Gesù che nel momento della morte si rivela anche come il Risorto. Morte e risurrezione sono un unico evento di fede.

Molti sono i segni della risurrezione di Gesù. Ma tutti sono momenti della fede della comunità dei/lle discepoli/e del Signore.

Il terzo giorno…

Due che se ne vanno verso la campagna

Tre che comprano oli aromatici

Sette che si mettono a pescare durante la notte

Undici che se ne stanno rinchiusi per paura

Il dito da mettere nella ferita

Le vesti abbandonate in un angolo

Una pietra ritrovata fuori posto

Quelle che portano con sé profumi e unguenti

Altri che pensano siano soltanto vaneggiamenti

Quella che era stata liberata dai suoi mali

Quelle che tenevano il volto chinato a terra

Quelli che erano fuggiti

Quello che era nudo

Un giovane vestito d’una bianca veste

Due che corrono verso una tomba

Due che abbandonano in fretta il sepolcro

Quelle che si domandano il senso di tutto questo

Quelle che ricordano tutte le parole

Quello scambiato per un giardiniere…

 

Faustino Ferrari

 

 

Pubblicato in Bailamme
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Domenica, 06 Aprile 2025 09:15

I segni delle ferite (Faustino Ferrari)

Una storia. Lei è in cucina e sta preparando da mangiare per i suoi due bambini. Le sue mani impastano il pane, che metterà poi a cuocere nel forno. Il suo cuore è greve. Un muto dolore l’accompagna da giorni e giorni. Le pareti della casa sono adorne di miseria e povertà. Una povertà sempre più dura, con il marito che da troppo tempo non trova lavoro ed ora si vergogna anche solo a levare lo sguardo da terra.
La donna non s’avvede che, mentre impasta il pane, le sue lacrime scendono copiose sulle guance, andando a mescolarsi nell’impasto.
La mamma non sa dire ai figli, al momento del pranzo, cosa ci sia di particolare nel pane a renderlo così buono – gustoso come non mai.

Non siamo dei cloni. Né per quanto riguarda il nostro corpo né spiritualmente. Non siamo le copie – più o meno riuscite – di qualcun altro. “Diffidate delle persone che puzzano di perfezione, che la vita è fatta di sbagli e ferite” (Anna Magnani - attrice). E noi siamo quello che siamo grazie al nostro corpo – anche grazie alle rughe che accumuliamo e alle cicatrici impresse nella pelle e nell’anima. Grazie alle ferite subite e alle disgrazie patite. Ma anche grazie alla bellezza e alla gioia che sperimentiamo. Grazie alla felicità che c’è data di gustare in certi momenti. Grazie all’amore. Se non fossimo nati, se non ci fosse stato donato d’incarnarci nel nostro corpo, non avremmo conosciuto l’amore.

È vero. Nella vita non c’è dato di gustare solamente bei tramonti o cieli stellati, le meraviglie della natura ed il piacere d’amare e d’essere amati. Non conosciamo soltanto prestigio, riconoscimento e considerazione. Non siamo sempre circondati da stima ed apprezzamenti. La vita, lo sappiamo bene, è fatta anche d’abbandoni e di violenze subite, di torti e di conflitti, d’atti ingiusti e di risentimenti. Ci sono malattie inguaribili che minano il nostro corpo. Ci sono sofferenze che ci accompagnano. Dobbiamo fare i conti con conflitti che segnano la nostra vita. A volte sono conflitti con i familiari. Altre volte con colleghi di lavoro, con vicini di casa, con persone che conosciamo.

La televisione e gli altri mass media ci trasmettono immagini di catastrofi naturali, di guerre, di violenze. In ogni momento siamo raggiunti da cattive notizie. Notizie che ci fanno sentire ancora più fragili, più esposti agli eventi. Le conoscenze odierne ci hanno rivelato che siamo ben più fragili di quando, nel passato, ci si avvertiva consegnati alla balia d'eventi cosmici e di fenomeni naturali sconosciuti. Anzi, un tremendo potenziale distruttivo è ora consegnato alle nostre stesse mani. Basterebbe il dito premuto su di un bottone da parte di un presidente o di un generale folle ad innescare la furia distruttiva di una guerra nucleare. Questa nostra società, nella sua piena efficienza tecnologica, si mostra così contraddittoria e così vulnerabile…

Ci sentiamo, a volte, estranei al nostro stesso io, avvertiamo una perdita di senso in quello che facciamo. Abbiamo difficoltà a fare i conti con la fragilità del nostro corpo, con lo scorrere del tempo e con le occasioni mancate. Possiamo ritrovarci in ambienti che ci sono ostili e ci disprezzano – senza che ne capiamo la ragione. C’è la violenza e la brutalità che colpiscono le persone che ci sono più care. E c’è un male – gratuito ed iniquo – che s’accanisce con vittime innocenti fino a farci esclamare: “Dov’è Dio?”. Ci sono momenti in cui sembra che la speranza termini e ci sia posto soltanto per il dolore. E possiamo anche sentirci abbandonati non solo dagli uomini, ma anche da Dio…

E poi, l’esperienza dell’ospite indesiderata. Non attesa. Non voluta. E che giunge – all’improvviso o dopo lunga malattia. La morte che coglie tutti impreparati. Nel profondo del mare o nell’alto dei cieli. In terra deserta o tra le foreste. Con la peste e con l’uragano. Una tegola in testa mentre si passeggia per la via o travolti dall’auto all’uscita di scuola. Sull’asfalto della strada e nel gorgo di un torrente in piena. Tra i campi di grano, mentre si semina o si raccoglie e negli altiforni di una fonderia. Tra gli ingranaggi di una pressa o sotto le ruote di un muletto. Un ictus o un infarto al cuore. Una febbre repentina, una malattia perniciosa, una meningite…

L’immagine del cuore ferito diventa la metafora con la quale cerchiamo di esprimere i nostri insuccessi e la nostra fragilità, come anche le ferite e le cicatrici che accumuliamo nel corso dei giorni. Cose di cui nessuno di noi ne resta indenne. Avvertiamo, infatti, di avere un cuore ferito per causa d’alcune vicende della vita. Dai vari avvenimenti che hanno prodotto in noi amarezze, sconforto, dolori, sconfitte…

Quando in campo religioso e spirituale si parla di cuore, lo sappiamo bene, non bisogna semplicemente pensare all’organo racchiuso nel torace. A livello fisico è l’organo essenziale per la vita: è una pompa incessante che fa circolare il sangue nel corpo umano, perché ogni cellula riceva ossigeno e nutrimento. Il suo ritmo permea il nostro corpo, con caratteristiche proprie alla nostra personalità. Esso reagisce al nostro stato psicosomatico, accelerando o diminuendo i battiti.

Che cos’è il cuore – e cosa rappresenta – a livello simbolico? Il sentimento, l’unità, l’amore, l’unione, la carità, il legame, la sensibilità, l’umanità, la compassione, la bontà, la generosità, la pietà, la verità… Ma anche la sensualità, la passione, l’impulso, il coraggio… Senza dimenticare la sua dimensione sacrale, quale intimo luogo dell’incontro con Dio. Il cuore identifica il centro della persona. Ne diviene l'elemento rappresentativo. Si parla anche d’occhio del cuore e d’intelligenza del cuore, per indicare una comprensione spirituale più profonda. Come il sole è al centro del sistema solare, così è il cuore nel corpo umano, con le immagini del calore e della vita e nelle raffigurazioni con i raggi luminosi o con le fiamme.

Il cuore è l'organo centrale dei sensi interiori, il senso dei sensi, poiché ne è la radice. E se la radice è santa, lo saranno anche i rami” (Isacco di Ninive). Edith Stein ha scritto che “il cuore partecipa con più forza a ciò che sta accadendo nel profondo dell'anima, perché si sente il legame tra corpo e anima più chiaramente di qualsiasi altra parte”. Nel cuore, dunque, si collocano i nostri sentimenti più vivi e più profondi. È nel cuore che li percepiamo. Per Teresa d'Avila il luogo in cui dimora Dio è la settima stanza e questa stanza la si ritrova nella parte più profonda del cuore umano.

Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” ” ( Giovanni 20,25). Il segno dei chiodi, il costato ferito dalla lancia. Tommaso offre la prima descrizione delle ferite di Cristo.

La quaresima, cammino verso la Pasqua, ci conduce a meditare sul mistero della passione e della morte di Cristo. Sulle sofferenze che ha subito e sulle ferite che ha patito. I vangeli descrivono alcune di queste violenze. La tradizione cristiana parla di cinque piaghe – cinque ferite. Le prime due ferite corrispondono ai punti dove i chiodi furono infissi: le mani e i piedi. La terza ferita è quella del costato, inferta dal colpo di lancia del soldato romano, per verificare che Gesù fosse effettivamente morto. La quarta ferita è rappresentata da quelle riportate sul capo dalla corona delle spine. Mentre i colpi di frusta hanno causato le ferite della quinta piaga

Nel nostro immaginario religioso l’apostolo Tommaso è identificato come il discepolo incredulo. Possiamo sprecare tutti gli aggettivi che vogliamo: è il dubbioso, lo scettico, il diffidente, l’incerto… Non gli basta l’annuncio di aver visto il Signore risorto da parte dei suoi compagni. In fondo, attraverso il veicolo di quest’immagine, è, tra i discepoli, quello che forse avvertiamo più vicino a noi. Anche noi siamo nutriti di dubbi e d’incertezze riguardo alla fede. Nel nostro cuore alberga una parte di non credente e ci riconosciamo nelle parole di Tommaso: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi…” (Gv 20, 25.). C’è un vedere a cui non basta vedere poiché deve essere pure accompagnato da un toccare.

La vista, infatti, può anche subire il traviamento dell’abbaglio. L’inganno di un singolo senso può essere maggiormente limitato se associato anche ad altri sensi e, in primo luogo, a quello maggiormente concreto: il tatto. Per coloro che sono privi di vista il tatto è, infatti, il senso che permette di compensare una parte del deficit visivo. Attraverso il toccare è possibile riconoscere il mondo circostante: le cose, gli oggetti, i volti… Ma è in ognuno di noi che esiste il bisogno di una concretezza, di una materialità, a cui non si può sfuggire. Quando nasciamo è il tatto a comunicarci l’amore e l’affetto, la cura e l’accudimento, il calore e la protezione… Sono le nostre prime esperienze – mediate dal tatto – e ci accompagnano per tutta la vita. Noi siamo anche il nostro corpo. Anche in quanto credenti.

Ma nella richiesta di toccare la carne ferita del Cristo siamo posti di fronte a ben altro che allo scetticismo di una persona nutrita dal dubbio. Perché la professione di fede di Tommaso, quel “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20, 28) non può più essere disgiunta dal riconoscimento della passione e della morte del Signore. Tommaso riconosce il suo Signore, ferito nel corpo e nella carne. Sono proprio le ferite del corpo a svelare la divinità del Cristo! Il Risorto si rivela a Tommaso come l’Uomo dei dolori e delle ferite.

La tentazione per un cristianesimo spiritualizzato, fatto di immagini – spesso sdolcinate e edulcorate – e dimentico di fisicità e corporeità, non ha fondamento. La grazia dei sacramenti ci viene comunicata sempre attraverso segni molto concreti: l’acqua, il vino, il pane, l’olio, l’imposizione delle mani… L’episodio vissuto dall’apostolo Tommaso ci consegna il valore di una fede estremamente tangibile. Ed anche se il discepolo non ha più bisogno di toccare le ferite del Risorto, nella sua vicenda esemplare ci viene trasmessa l’istanza originaria: il nostro comune, scandaloso bisogno di concretezza per credere. Il riconoscimento del Cristo glorioso per Tommaso passa attraverso i segni impressi nella carne del corpo. Questo racconto pasquale ci arricchisce così con un’ulteriore specificazione del mistero di una Parola che si è fatta carne. Nei segni delle ferite sta il nostro riconoscere il Risorto.

Non dobbiamo qui metterci nella prospettiva di una mistica del dolore o della sofferenza personale – che hanno avuto ampio sviluppo nella spiritualità cristiana occidentale, manifestandosi nel desiderio di tante persone devote a vivere partecipando alle sofferenze del Cristo. Nel chinarsi sulle ferite dell’anonimo viandante da parte del Samaritano della parabola (Lc 10, 29-37) ci viene mostrata la prospettiva per comprendere la dimensione della prassi cristiana. Il prendersi cura delle ferite dei fratelli e delle sorelle diviene, infatti, il segno più evidente del nostro riconoscere il Signore come il Risorto. I discepoli di tutte le generazioni, per credere non hanno più bisogno di vedere le ferite del Risorto perché è loro consegnata la cura delle ferite del prossimo che è accanto. Nel segno di queste ferite possiamo riconoscere la manifestazione divina – che è fragile poiché ci si consegna nella fragilità umana.

Una considerazione si muove dal racconto della Passione nel Vangelo di Giovanni, là ove alla testimonianza di chi ha assistito alla morte di Gesù in croce viene aggiunta quella della scrittura: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37). Gesù è colui che ha il cuore colpito, non solo metaforicamente, ma realmente. L’azione salvifica è comunicata attraverso lo sguardo che si volge a questo cuore trafitto, dal quale sgorgano sangue ed acqua, elementi simbolici del sacrificio dell’Agnello e della fecondità spirituale donata dallo Spirito. C’è un futuro che chiama in causa ogni generazione – anche noi – e non solo chi era presente in quel momento. Il testo greco invita a volgere lo sguardo dentro (eiς) il trafitto. Si tratta di un vedere che richiede d’entrare nell’interiorità di colui che è stato colpito dalla lancia. Si potrebbe dire: dentro il suo cuore. Siamo invitati a soggiornare nel cuore ferito di Cristo.

Padre Jean Claude Colin: “Ci disse anche di tenerci nel cuore di Nostro Signore e di trarre ogni nostra forza da questa dimora”. (Entretiens Spirituels 39,33).

Molte sono le cause che possono produrre in noi delle ferite. Ma l’esperienza di fede ci può svelare il volto amorevole di Dio come di Colui che guarisce i nostri cuori feriti. La missione del profeta Isaia testimonia questa intenzione. Dio, infatti, lo ha inviato “per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato” (61,1). L’intera Bibbia può essere letta come una storia d’amore e di cura da parte di Dio, quale guaritore dei nostri cuori affranti. “Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio” (Dt 32,10). “E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non ci sarà più la morte, né cordoglio né grido né fatica, perché le cose di prima son passate” (Ap 21,4.). Tra la memoria dei giorni antichi e l’attesa del compimento delle promesse di Cristo si distendono le nostre esistenze. La consapevolezza di avere un cuore ferito si manifesta nel nostro consegnarsi a Lui, per essere risanati poiché questa nostra esperienza di Dio che ci guarisce trasforma la nostra esistenza.

Un’antica preghiera

Cristo non ha mezzi
ha soltanto il nostro aiuto
per condurre gli uomini a sé. (…)
Noi siamo l'unica Bibbia
che i popoli leggono ancora.
Siamo l'ultimo messaggio di Dio
scritto in opere e parole”
.

Dio si rivela come colui che è capace di guarire le nostre ferite, anche le più nascoste. Ma ciò avviene grazie anche a ciò che siamo in grado di mettere in campo nei confronti dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Attraverso la relazione, la solidarietà, la cura, la comprensione… Chi soffre si ritrova solo. Ma il messaggio evangelico sollecita la nostra sensibilità alla solidarietà con tutte le persone che sperimentano in sé angoscia e sofferenza. È un’esperienza che permette di comprendere e d’avvicinarsi all’esperienza di tanti altri. Ricordiamo le parole iniziali della Gaudium et Spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”.

Non c’è nulla di genuinamente umano che non trova eco nel cuore dei discepoli di Cristo. Il cuore di cui ci parlano gli autori spirituali è un cuore che si apre all’azione misericordiosa di Dio, al suo amore fecondo. Ed il segno più efficace di questa apertura si manifesta nelle opere: “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?” (Gc 2,14). Un cuore toccato dalla grazia (caris) divina non resta chiuso in se stesso, ma si apre, condividendo l’amore sperimentato in Dio con quello verso i fratelli e le sorelle (caritas), soprattutto i/le feriti/e dalle vicende della vita.

Meditare sulla passione di Cristo non è soltanto considerare i segni delle ferite e delle piaghe che egli ha subito. “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), ricorda il vangelo. È una ferita che attraversa le nostre ferite. Questo nostro sguardo, oggi, non può restare unicamente fisso al Crocifisso. È uno sguardo che è chiamato a farsi capace di abbracciare anche i tanti altri crocifissi della storia: i tanti cuori feriti che possiamo incontrare nel nostro cammino verso la Pasqua.

Faustino Ferrari

 

 

 



Pubblicato in Bailamme
Domenica, 09 Marzo 2025 10:16

È possibile convertirsi? (Faustino Ferrari)

Una piccola storia. Colpito dalla sventura un ebreo della Polonia aveva deciso di fuggire. Si era disfatto dei suoi pochi averi, aveva preso commiato da parenti e amici e si era recato dal rabbino per riceverne l'ultima benedizione e una parola di conforto.
“Così la vostra scelta è fatta?”, chiese il buon rabbino. E dopo un poco: “E ditemi: andate lontano?”
“Lontano da dove?”, rispose l'ebreo.

Conversione? Con l’inizio della quaresima diventa un tema ricorrente l’invito alla conversione. Il gesto dell’imposizione delle ceneri è solitamente accompagnato dalle parole: “Convertiti e credi al vangelo”. Le letture bibliche esprimono il medesimo invito. Si tratta di un tema ricorrente e comune, ma che sembra, a volte, non lasciare tracce. Vale dunque la pena soffermarsi un po’ su questa parola – conversione.

Nel linguaggio corrente il termine “conversione” è inteso con tre diversi significati. Innanzitutto, viene ad indicare il passaggio da una comunità di fede a un’altra. È il cambiamento di religione. Il secondo significato fa riferimento a un cambiamento di vita di una persona (o anche di una comunità) che sceglie di abbandonare la “via dei peccatori”. Ed infine si intende un cambiamento di mentalità, un impegno di purificazione e rinnovamento della propria vita spirituale.

La storia è piena di vicende riguardanti persone o gruppi che “cambiano idea”, anche in maniera molto radicale. Ma di per sé non ci si converte ad una ideologia. Affrontiamo subito un problema non indifferente: per molti studiosi del comportamento umano – ed anche per autori che riflettono sui temi della vita spirituale – non sarebbe corretto parlare di conversione. La persona umana, infatti, sostengono costoro, tende ad essere abitudinaria e conformista. Quello che impariamo nei primissimi anni della nostra infanzia – anzi nelle primissime settimane –, ci struttura in permanenza ed influenza la nostra crescita. E così siamo segnati da ciò che apprendiamo: nel nostro modo di intendere le relazioni familiari e sociali, nei nostri gusti, nelle nostre consuetudini e abitudini. Siamo cioè soggetti che non sono protagonisti di cambiamenti radicali nella propria vita. Capaci anche di sperimentare la libertà, ma nelle consuetudini della routine. Tuttavia l’essere umano è un animale particolarmente curioso – ed è la curiosità a far muovere i nostri passi. Mentre l’immagine del cammino contiene elementi propri della nostra identità: la tensione in avanti e l’apertura al futuro.

La conversione – così come solitamente la intendiamo – comporta l’idea di un cambiamento radicale, totale, della vita. Ma ciò sembrerebbe umanamente impossibile – o quasi. E, a ben vedere, se si volesse considerare con attenzione la storia religiosa e spirituale si dovrebbe concludere che probabilmente le persone che hanno sperimentato una vera conversione siano state veramente poche. Anzi, c’è chi giunge ad affermare che forse – almeno dal punto di vista biblico – soltanto un personaggio si sia convertito – Saulo divenuto in seguito Paolo. Il racconto della conversione di Paolo lo conosciamo bene. È narrato nel libro degli Atti (9,1-19).

Alcuni biblisti, tuttavia, fanno osservare che neppure in questo episodio si possa parlare di una vera e propria conversione. Paolo viene chiamato, infatti, da Dio per svolgere un compito. Gli viene affidato l’incarico di portare il vangelo ai pagani. E Paolo accoglie nella libertà questo incarico. A ben vedere, quando Saulo parte per Damasco è già un uomo in crisi. Una crisi, di lungo corso – iniziata forse già al momento del martirio di Stefano. E la caduta da cavallo è soltanto la goccia che fa traboccare il vaso. È il momento in cui la crisi, che Saulo attraversava, inizia a risolversi.

Ho letto da qualche parte che secondo una filosofa femminista gli uomini, a differenza delle donne, non sarebbero capaci di convertirsi… Non voglio entrare nella questione. Ci si può chiedere se il periodo della quaresima sia caratterizzato da un appello per un buon proposito che, si sa, non può essere mantenuto. Si tratta soltanto di un invito formale che la liturgia propone?

Eppure nella nostra vita sperimentiamo dei cambiamenti. E questi cambiamenti avvengono quando siamo motivati da due opposte ragioni. La prima ragione è quella che ci porta a cambiare (lavoro, casa, partner, amici, ecc. ma anche associazioni, religioni…) per gli evidenti vantaggi che vediamo insiti nella nuova situazione. Si cambia lavoro perché meglio retribuito, più vicino a casa e con migliori opportunità di carriera, ad esempio. L’opposta ragione che ci porta ad attuare un cambiamento nella nostra vita è quella della disperazione: si è allora disposti a tutto pur di non continuare a prolungare la situazione di malessere e di disagio che ci ritroviamo ad attraversare.

Ma se vogliamo iniziare a comprendere cosa possa significare conversione, dobbiamo farlo alla luce del testo biblico. La tradizione ebraica ha mantenuto in maniera maggiormente fedele il significato più profondo del termine. La tradizione ebraica parla infatti di teshuvah. È l’invito a ritornare a Dio. “Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno” (Gioele 2,13). Le strade umane tendono ad allontanarsi da Dio. È questo il significato più profondo dei primi capitoli di Genesi. Anzi, sono gli esseri umani a nascondersi, a sottrarsi allo sguardo di Dio. I passi – i progetti – sono volti a mettere sempre maggiore distanza tra l’essere umano e Dio. Teshuvah: ritorna verso Dio, volgi i tuoi passi verso Dio. “Esaminiamo la nostra condotta e scrutiamola, ritorniamo al Signore” (Lam 3,40). Ed i primi racconti di Genesi non fanno che presentare questa prospettiva: la persona umana vuole vivere senza fare i propri conti con Dio. Anzi, vuole superare quell’unico scoglio che lo rende limitato nel suo comprendersi: la morte. La tentazione del serpente – voi sarete simili a Dio – non fa che concretizzare il desiderio umano di vivere senza Dio.

Caino e Abele, Lamech, i vari personaggi che iniziano a popolare la terra, i giorni di Noè, la costruzione della torre di Babele… sono tutte narrazioni che presentano questo progressivo allontanamento da Dio. Finché non c’è una persona che si mette in ascolto di Dio: Abramo. Abramo è il primo a fare teshuvah – a fare ritorno a Dio. “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò” (Gen 12,1). E questo ritorno a Dio avviene in una maniera paradossale: uscendo dalla propria terra. Abramo non ha una casa da lasciare perché è nomade: si sposta con il clan familiare, con le tende e gli armenti. E la sua teshuvah si compie nel continuare il suo viaggio, nel lasciare dietro di sé i pascoli ed i pozzi che gli sono noti e abituali, per andare in cerca di nuovi.

A ben considerare, Abramo non compie chissà quale grande azione. Al pari di tanti altri nomadi anch’egli è in cerca di pascoli adatti al suo bestiame. I trasferimenti vengono fatti in base ai cicli delle stagioni – alle piogge e ai periodi di siccità. Eppure il viaggio di Abramo diventa emblematico poiché si rivela essere un ritorno nelle vie di Dio. Con Abramo il cammino di allontanamento da Dio intrapreso dal genere umano cambia direzione. Non si tratta, però, di un cammino di ritorno sui propri passi, ma verso un nuovo orizzonte. “Per fede Abramo, chiamato da Dio, (…) partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8).

Teshuvah: il ritorno a Dio diventa il cammino su di una nuova strada. E per iniziare a camminare su di una nuova strada non servono scelte radicali. Basta deviare di poco. È noto il cosiddetto “effetto farfalla”: il batter d’ali di una farfalla in Brasile può alterare in un altro luogo del pianeta il corso del clima per sempre. Ed il noto matematico e logico inglese Alan Turing affermava che “Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato”, potrebbe significare la differenza tra il fatto che un uomo è ucciso oppure no da un valanga un anno dopo. Possiamo così considerare che la teshuvah – il ritorno a Dio – inizia a compiersi attraverso un piccolo, piccolissimo cambiamento attuato in una vita che è caratterizzata da consuetudini e abitudini.

Gli autori del Nuovo Testamento hanno cercato di rendere il concetto di teshuvah con la parola metanoia. Il termine greco μετάνοια è composto dalla preposizione μετά (ciò che va oltre, comprende, si pone sopra) e dal verbo νοέω (percepire, pensare), e significa "cambiamento di vista" o "cambiamento di sguardo". Nell'antica Grecia, metanoia significava “assumere una condotta diversa, possibilmente migliore”. In alcuni testi del Nuovo Testamento metanoia significa andare al di là di noi e si riferisce a un movimento mediante il quale la persona umana si volge verso Dio, si apre a Dio. Le beatitudini evangeliche (Mt 5, 3-12) sono l’espressione migliore della metanoia cristiana. Anche l’inizio della predicazione di Gesù è contraddistinto dall’invito alla metanoia: “Dopo che Giovanni Battista fu consegnato, venne Gesù nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio e dicendo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo””. (Mc 1, 14-15).

“Il tempo è compiuto”. Significa: è giunto il momento; è adesso. Mentre noi solitamente attendiamo sempre dopo… Convertirsi – seguendo questa prospettiva biblica – non consiste tanto nel compiere grandi cose, ma semplicemente nell’aggiungere quella goccia che fa traboccare l’intero vaso. È un cambiare il modo di vedere le cose. È quella piccola deviazione nel cammino della nostra vita che si rivela essere un ritorno sulle vie del Signore. Vuol dire iniziare a vedere le cose in modo diverso.

Papa Francesco insiste nell’affermare che il tempo è superiore allo spazio. Lo ha fatto in diversi documenti. Ed aggiunge che ciò che conta è avviare processi. Non sono le grandi decisioni a cambiare la storia – la storia universale come la storia personale – ma la capacità di dare avvio a piccole cose che si manifestano capaci di influenzare significativamente il futuro. “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada” (Is, 43,19). Come il piccolo seme di senape che germoglia, dando origine ad un’intera pianta. Sembrerebbe, a prima vista, una semplice cosa, un’operazione dai facili costi. Ma non è proprio così. Sono le piccole cose che si rivelano essere le più difficili da realizzare. Provo a fare un esempio.

Leggiamo nel Vangelo che un modo per fare ritorno a Dio è quello di riconciliarsi con il fratello prima di compiere la nostra offerta (Mt 5,23-24). A volte ci capita di comprendere che le nostre relazioni familiari – o con i vicini di casa –, ad esempio, siano ingessate e in qualche modo bloccate. Magari non sono in corso conflitti evidenti, ma ci si rende conto che nelle consuetudini – che automaticamente si perpetuano – c’è qualcosa che non va. E sappiamo che basterebbe ben poco per cambiare le cose. Forse, semplicemente trovare il coraggio per parlarne insieme. Oppure, nel compiere un’azione di poco conto – un saluto, una telefonata, un invito… – ma che produrrebbe un significativo cambiamento. Ma non si riesce a fare ciò che riteniamo andrebbe fatto per migliorare le nostre relazioni. Oppure può capitare che si continui a rimandare ad un prossimo futuro… Finché giunge la morte per rendersi conto che ciò che si avrebbe voluto/dovuto fare o dire non può più essere compiuto.

C’è un altro aspetto da considerare quando parliamo di teshuvah/metanoia. Nella prospettiva biblica ciò non si compie per un buon proposito o per una risoluzione presa. Ma è nell’agire che tutto ciò si manifesta. C’è un passo molto importante che si legge nel libro del Deuteronomio: “Noi faremo e ascolteremo” (Deut 5,27). Noi siamo abituati a considerare l’ascolto precedere l’azione. La conversione si compie prima nell’azione e poi nell’ascolto – poiché l’azione manifesta che si è attuato l’ascolto. Potremmo portare molti esempi di questa diversa comprensione temporale. “I magi non si misero in cammino perché avevano visto la stella ma, videro la stella perché si erano messi in cammino”. Così scrive san Giovanni Crisostomo. E per fare un altro esempio, un simile tipo di lettura lo ritroviamo anche in san Giovanni della Croce, quando osserva a riguardo dei testimoni della risurrezione (Maria Maddalena, i discepoli, i due di Emmaus e Tommaso): essi non videro il Signore e perciò credettero, ma prima credettero e per questo poi lo videro.

Riprendiamo la figura di Abramo. Il racconto delle sue vicende inizia con queste parole: “Lascia la tua terra” (Gen 12,1). Lekh lekhà! Espressione che si può tradurre anche con “Vai a te stesso”. Vale a dire: entra in te stesso, lascia dietro di te la monotonia delle solite cose, datti il tempo sufficiente, prendi il cammino del tuo tempo… Quale significato ha per noi l’ascolto di questa voce interiore? È possibile mettersi in ascolto nella misura in cui possiamo assicurarci un po’ di intima interiorità, dandoci il tempo ed il silenzio sufficienti. A ben vedere, ci dicono gli autori spirituali, il viaggio più difficile e duro, più lungo e affascinante è quello che si compie nel nostro intimo.

E torniamo al racconto iniziale. Lontano da dove? Chiede l’ebreo in partenza. Lontano da dove – quando l’invito è di andare a se stessi, nella propria intimità? A mettersi in cammino per lasciarsi avvicinare a Dio.

Un’altra storia. Un rabbino polacco aveva sognato di trovare un tesoro sotto un ponte della città di Praga. Egli si mise subito in cammino, affrontando a piedi il lungo viaggio. Arrivato a destinazione, non poté soddisfare il desiderio di mettersi a cercare il tesoro poiché il ponte – il famoso ponte Carlo – era custodito da un numeroso drappello di guardie. Il capo delle guardie lo notò e gli chiese ragione del suo aggirarsi irresoluto. Il rabbino iniziò, allora, a raccontare del sogno fatto. Il capo delle guardie si mise a ridere: non c’era da prestare fede ai sogni. Anche lui, infatti, n’aveva fatto uno simile. Aveva sognato che nei pressi di una certa casa – che descrisse con precisione – era nascosto un tesoro. Il rabbino capì che l’uomo stava parlando proprio della sua abitazione. Ritornò a casa e, scavando secondo le indicazioni ricevute, trovò il tesoro. Forse, anche a noi capita di cercare lontano quello che invece c’è molto vicino?

È possibile convertirsi? Nella misura in cui riusciremo ad andare a noi stessi. Poiché lì, ci insegnano i maestri spirituali, in qualche angolo nascosto del nostro cuore, è presente Dio. E questo nostro tornare a Dio si compie, allora, nella discesa dell’intimo del nostro cuore. “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Maria… Colei che viene indicata come la “prima in cammino”.

Faustino Ferrari

 

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Giovedì, 21 Dicembre 2023 11:12

Dalla crepa entra la luce (Faustino Ferrari)

Esiste una "broken art" giapponese. Si tratta della tecnica di riparare il vasellame di ceramica. Il nome di quest'arte è kintsugi (o anche kintsukuroi) e letteralmente significa «riparare con l’oro». I frammenti dell’oggetto rotto vengono aggiustati usando una mistura di lacca e oro in polvere. Un oggetto, anche se rotto, può così continuare ad essere usato. Anzi, i segni della rottura vengono impreziositi. Dal danno si ricava un oggetto ancor più prezioso, considerato esteticamente migliore, raffinato. La conservazione si salda alla memoria. Avere davanti agli occhi l'oggetto riparato farà ricordare la circostanza in cui è stata causata la rottura. La cultura occidentale è portata a vedere in ciò un'attenzione per ciò che può essere riusato. Si può, invece, ricavare una lezione simbolica: non bisogna vergognarsi delle ferite subite nella propria esistenza. Le cicatrici delle ferite – fisiche e/o spirituali – non sono da nascondersi. Accettandole in tutta la loro visibilità, possono rivelarsi preziose. Per una nuova vita.
 
«Ring the bells that still can ring / Forget your perfect offering / There is a crack, a crack in everything / That’s how the light gets in». È il ritornello della canzone Anthem, del canadese Leonard Cohen. Perché la luce possa passare attraverso una crepa è necessario che la crepa sia ampia a sufficienza – e maggiore è la crepa, maggiore è la luce che l’attraversa.
 
Michel de Certeau ha parlato di «fratture». Abbiamo una concezione della storia che si svolge in un continuo progresso. Per Certeau questo modo di intendere, però, non è corretto. L’attuale crisi contemporanea non è unica né nuova. La storia umana e spirituale presenta una continua serie di fratture. Ciò è visibile soprattutto nell’esperienza delle persone mistiche. La loro vita spirituale resta incomunicabile. Ma, al tempo stesso, non può non essere comunicata. C’è un indicibile divino che va trasportato nella parola umana. In questa frattura si colloca la vita spirituale più profonda.
Il filosofo Martin Heidegger ha usato un’immagine di altro genere. Ha parlato di segnavia, di sentieri interrotti e di radure. I segnavia sono le tracce che permettono di percorrere un sentiero che si inoltra nel bosco. Ma si tratta di sentieri che s’interrompono, all’improvviso. S’interrompono nella radura dell’essere. Teniamo qui soltanto l’immagine del sentiero che si spezza nella radura. La radura può essere vista come una sorta di ferita, di cicatrice del bosco – il luogo ove, non si sa perché, gli alberi non crescono. A prima vista sembrerebbe che il cammino sia stato smarrito. In realtà, la radura è il solo luogo del bosco ove sia possibile vedere un tratto del cielo.
 
Il pittore di icone è colui che, avendo sperimentato il mistero divino, cerca di comunicare la propria esperienza spirituale attraverso le immagini sante. Non cerca di esprimere la bellezza attraverso una rappresentazione attraente. Spesso le icone, secondo i nostri gusti estetici, non sono belle. La bellezza estetica non ci deve distrarre dal contemplare il mistero divino. L’icona, dal punto di vista simbolico, rappresenta una sorta di piccola finestra, una frattura che ci permette di scorgere qualcosa della luce divina. Rappresenta la crepa che ci apre al mistero divino.
Nella tradizione rabbinica si legge: «È un disonore per un uomo comune servirsi di un vaso rotto. Ma per il Santo – sia benedetto – non è così. Al contrario, egli si serve soltanto di vasi rotti: ‘il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato’ (Sal 34,19); ‘egli guarisce i cuori spezzati’ (Sal 147,3); ‘Dio non disprezza un cuore spezzato e abbattuto’ (Sal 51,20)».
 
Ad un giovane che chiedeva consigli per la preghiera, Jean Claude Colin diede vari suggerimenti. Tra gli altri consigli leggiamo: «Bisogna anche apprendere a gustare Dio. Eh sì, gustare Dio… Gustare Dio è avere il cuore ferito». Perché Colin parla di un cuore ferito?
 
Il profeta Ezechiele annuncia un nuovo tempo, nel quale il cuore di pietra sarà sostituito da un cuore di carne (36,22-32). E per Geremia è un tempo in cui la legge non sarà più scritta sulla pietra delle tavole, ma nel cuore stesso (32,36-41). La trasformazione di questo cuore di pietra non avviene per sostituzione, ma attraverso una lacerazione. Il cuore di pietra può essere sanato nel momento in cui inizia a rompersi. Il profeta Gioele invita a lacerare il proprio cuore e non le vesti (2,16).
 
La ferita del cuore è l’immagine paradossale che svela un’opera in corso di risanamento! Il cuore corrotto è un cuore di pietra, gelido, immobile e rinchiuso in se stesso. Dio si rivela il medico che cura questo cuore di pietra facendovi breccia – una crepa – e lasciandovi il segno di una ferita. Una ferita non più rimarginabile, ma che diventa il farmaco per la guarigione del cuore. Il cuore ferito è il segno dell’azione e della vicinanza di Dio.
 
La vicinanza di Dio a chi ha il cuore ferito non si chiude in un rapporto intimistico, ma interpella all'apertura e alla solidarietà con i tanti cuori feriti della storia e del mondo. Preghiera e solidarietà costituiscono i due modi per attuare l'accoglienza della vicinanza di Dio in noi. Scrive Agostino: «Ama ed egli si avvicinerà; ama ed egli abiterà in te». Il profeta Isaia annuncia un tempo in cui «ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi» (58,12). Come nell’arte giapponese, si tratterà di brecce riparate con l’oro?
 
Nella bibbia ogni immagine assume anche il significato opposto. Così è per l’immagine della crepa. Geremia ricorda: «Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l'acqua» (2,13). Per ogni cosa si rende così necessario il discernimento.
 
Nel vangelo di Matteo, nel racconto della risurrezione di Gesù viene usata l’immagine del terremoto (28,2). Si tratta di un immagine che non significa castigo né è solo simbolo di distruzione, ma è spesso associata con le teofanie. Attraverso il terremoto, Dio si manifesta. Il forte terremoto crea solchi nel terreno, apre crepe e fratture nelle costruzioni. Sconvolge. Il terremoto del racconto di pasqua apre le crepe attraverso cui è possibile vedere la luce della risurrezione di Cristo. Soltanto i riverberi di quella luce – poiché non è dato di poter scorgere pienamente la gloria di Dio, la gloria della risurrezione.
 
E poi, il racconto di Tommaso. Nella richiesta di toccare la carne ferita del Cristo siamo posti di fronte a ben altro che allo scetticismo di una persona nutrita dal dubbio. Perché la professione di fede di Tommaso, quel «Mio Signore e mio Dio!» non può più essere disgiunta dal riconoscimento della passione e della morte del Signore. Tommaso riconosce il suo Signore, ferito nel corpo e nella carne. Sono proprio le ferite del corpo a svelare la divinità del Cristo! Il vangelo di Giovanni – il più spirituale dei quattro vangeli – a riguardo non lascia dubbi ed è radicale. Il momento dell’elevazione in croce – momento culminante della morte con la consegna al Padre dello Spirito da parte del Figlio – è al pari il momento della massima glorificazione. Ed i discepoli incontrano nel Risorto non un fantasma, ma l’Uomo dei dolori e delle ferite.
 
Quali sono le crepe – le fratture, le ferite – attraverso cui possiamo scorgere la luce della risurrezione penetrare nella nostra vita?
 
Faustino Ferrari
 
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Martedì, 19 Aprile 2022 11:26

Pasqua 2022

E noi, in questo tempo, quando in tanti si sacrificano per un tempo di guerra, in questa Pasqua, continuiamo ad osare di celebrare la risurrezione con il racconto di un Dio sconfitto...

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Domenica, 27 Marzo 2022 01:05

C'è censura e censura… (Faustino Ferrari)

«La censura è il controllo della comunicazione da parte di un'autorità, che limita la libertà di espressione e l'accesso all'informazione con l'intento dichiarato di tutelare l'ordine sociale e politico» (Wikipedia).

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Sabato, 25 Aprile 2020 14:00

Messe in streaming o altro? (Faustino Ferrari)

Queste messe sine populo sembrano riportarci ad una situazione preconciliare, ove il prete torna ad essere l'unico protagonista, mentre il popolo è relegato al ruolo di spettatore di lontane celebrazioni.

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Mercoledì, 22 Aprile 2020 14:07

Mascherine (Faustino Ferrari)

La diffusione dell'epidemia del coronavirus ci ha imposto l'uso delle mascherine. A nostra protezione, ma soprattutto a protezione di quanti ci sono prossimi. Si profila una lunga stagione ove la nostra vita sociale sarà tutta giocata dietro questi scudi facciali. Non si tratta soltanto di una misura profilattica.

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Sabato, 11 Aprile 2020 14:21

Pasqua 2020 (Faustino Ferrari)

E celebreremo la pasqua, ma non nelle nostre chiese. Quest'anno non ci sarà il braciere con il fuoco né il bacile dell'acqua benedetta. Non accenderemo i nostri lumi al cero pasquale. Non scenderà l'acquasanta sul nostro capo...

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Venerdì, 10 Aprile 2020 14:55

Celebrare il silenzio (Faustino Ferrari)

Il silenzio è ambivalente – ambiguo. Esperienza, al pari della solitudine, amata o odiata – leggera o grave, ardua o liberante. Esperienza che era stata sempre più ridotta, quasi vanificata, dal nostro vivere quotidiano, fatto di fretta e di rumori.

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