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Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Lettura liturgica del Libro di Isaia

I «Canti del Servo» nella liturgia cristiana

di Angelo Lameri

Ci proponiamo di leggere le pericopi di Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-9a; 52,13-53,12 (in se­guito questi testi verranno indicati con nu­meri arabi da 1 a 4) alla luce del loro utiliz­zo nella celebrazione liturgica, nel cui conte­sto la parola di Dio si arricchisce di una in­terpretazione nuova e di una insospettata ef­ficacia (cf Premesse al Lezionario, n. 3).

Le pericopi del «Servo sofferente» nel corso dell'anno liturgico

La presenza delle quattro peri copi è parti­colarmente evidente nella Settimana Santa: i canti 1-2-3 sono utilizzati come prime let­ture rispettivamente nei giorni di lunedì, martedì e mercoledì, mentre il canto n. 4 apre la liturgia della parola nell'azione litur­gica del Venerdì Santo. Inoltre la pericope 3, in una forma abbreviata che si ferma al versetto 7, è utilizzata anche la domenica delle palme.

Non possiamo però ignorare che anche in altri momenti dell'anno liturgico siamo in­vitati all'ascolto di questi testi isaiani, pre­cisamente quattro volte in domeniche del Tempo Ordinario e una volta nel proprio dei Santi. In dettaglio: 42,1-4.6-7 nella dome­nica del Battesimo di Gesù - anno A, che chiude il Tempo di Natale e inaugura le settimane del Tempo Ordinario; 49,3.5-6 nella seconda domenica «Per annum» A e, con qualche modifica (49,1-6), nella messa del giorno della solennità della natività di Gio­vanni Battista; 50,5-9a nella XXIV domeni­ca «Per annum» B; 53,2a.3a.10-11 nella XXIX domenica «Per annum» B. Quest'ul­tima lettura infine compare tra i testi sugge­riti per la Messa votiva della S. Croce.

• Nella domenica del Battesimo di Gesù il primo canto del Servo del Signore è posto in relazione alla pericope evangelica di Mt 3,13-17. Dai «titoli» assegnati ai due testi appare evidente l'invito a leggere la figura del Servo, designato con solennità e abilita­to alla predicazione dallo spirito del Signo­re (Is 42, 1), in riferimento a Gesù Cristo e alla sua missione. Il titolo della prima lettu­ra infatti sottolinea: Ecco il mio Servo nel quale mi sono compiaciuto, ad esso fa eco il canto al Vangelo: Si aprirono i cieli e la vo­ce del Padre disse: Questi è il mio Figlio di­letto, ascoltatelo. La seconda delle collette alternative, infine, applica le prerogative del Servo «alleanza del popolo e luce delle na­zioni» a Gesù: Padre d'immensa gloria, tu hai consacrato con potenza di Spirito Santo il tuo Verbo fatto uomo, e lo hai stabilito lu­ce del mondo e alleanza di pace per tutti i popoli ...

• La seconda domenica del Tempo Ordina­rio ha il compito di operare un collegamen­to tra il Tempo di Natale, conclusosi con la festa del Battesimo di Gesù e il tempo «Per annum». Affermano le Premesse al leziona­rio: «Nella seconda domenica del TO il Vangelo si riferisce ancora alla manifesta­zione del Signore, celebrata nella solennità dell'Epifania: tale riferimento è sottolinea­to dalla pericope tradizionale delle nozze di Cana e da altre due pericopi, tratte esse pu­re dal Vangelo di Giovanni» (n. 105). Nel ciclo A, Giovanni Battista manifesta Gesù come l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (cf Gv 1,29-34) e la lettura di Is 49,3.5-6 applica a questo agnello di Dio il compimento della missione del Servo, pro­totipo del vero Israele, di divenire luce del­le nazioni per portare la salvezza fino all'e­stremità della terra. Viene infatti associato a questa pericope il Salmo 39: Ecco, io ven­go, Signore, per fare la tua volontà, che la lettera agli Ebrei mette sulle labbra di Gesù nel momento della sua incarnazione. Quindi il Servo, che Jahvè ha plasmato dal seno materno, è il Cristo, venuto per fare la vo­lontà del Padre, prendendo su di sé il pecca­to del mondo per portare la salvezza fino al­l'estremità della terra.

• Le domeniche del Tempo Ordinario adot­tano per i Vangeli il criterio della lettura se­micontinua dei Sinottici e le prime letture, tutte dall' AT, rispondono al criterio della concordanza tematica con la pagina evange­lica. Affermano le Premesse al Lezionario: «Si è fatto il possibile perché le letture scel­te fossero brevi e facili. Ma si è anche cer­cato che fossero assegnati alle domeniche molti testi importanti dell'Antico Testamen­to. È vero che questi testi dell'Antico Testa­mento sono inseriti nel Lezionario senza or­dine logico, per poterli riferire al brano del Vangelo; tuttavia il tesoro della Parola di Dio verrà aperto in così larga misura, che i partecipanti alla Messa domenicale potranno conoscere quasi tutte le pagine più im­portanti dell'Antico Testamento» (n. 106). Ci troviamo quindi di fronte ad una triplice preoccupazione, di natura didattica, cate­chetica: il loro legame con la pericope evan­gelica, che costituisce il criterio fondamen­tale di scelta; la semplicità e la brevità dei testi per favorirne la comprensione; la suffi­ciente completezza del ciclo triennale che presenta tutte le pagine più significative del­l'AT per farle conoscere ai praticanti delle Messe domenicali.

Ecco perché nella XXIV domenica Balla pericope di Mc 8,27-35, che attraverso il ti­tolo vuole mettere in evidenza la verità sul­la persona di Gesù Cristo, Figlio dell'uomo che deve molto soffrire, viene associata la pagina di Is 50,5-9, invitando così a leggere le parole del profeta come annuncio della passione del Signore che, schernito e oltrag­giato, non ha attenuato la sua fiducia in Dio.

Il quarto canto del Servo sofferente è utiliz­zato nella XXIX domenica B. Il Vangelo in­fatti ritorna sul tema della passione e morte:

Il Figlio dell'uomo è venuto per dare la propria vita in riscatto per molti per poi ri­cordare ai discepoli di ogni tempo che la vera grandezza sta nel servire e nel dare la vita (Mc 10,35-45). È quanto afferma il pro­feta: la vita del Servo del Signore, all'appa­renza segnata dal disprezzo e dalla sofferen­za, diviene causa di salvezza e di giustifica­zione per molti.

• Infine, anche nella messa del giorno della solennità di Giovanni Battista viene procla­mato uno dei nostri testi: Is 49,1-6. Qui pro­babilmente non si intende applicarlo diretta­mente a Gesù, visto che il Vangelo descrive la nascita del Battista (Lc 1,57-66.80), ma viene utilizzato per illustrare la missione del profeta, chiamato fin dal seno materno. Conduce verso questa interpretazione anche l'analoga scelta della messa della vigilia, che propone come prima lettura Ger 1,4-10 che narra la vocazione del profeta Geremia, stabilito profeta delle nazioni e consacrato prima ancora che uscisse alla luce.

La Settimana Santa

La Settimana Santa si colloca al termine dell' itinerario quaresimale, caratterizzato in modo originale nella proposta delle peri copi evangeliche, che seguono un loro percorso nei tre cicli, e delle letture dall'Antico e dal Nuovo Testamento.

La domenica delle Palme, che per certi aspetti è inserita nell' itinerario quaresimale nel quale costituisce la sesta domenica, apre questa settimana singolare, cui scopo è quello di ricordare la Passione di Cristo fin dal suo ingresso messianico in Gerusalem­me (cf Norme sull'anno liturgico e il calen­dario, nn. 30-31). (1)

Le premesse al Lezionario propongono una sintetica indicazione circa la proclamazione della Parola di Dio: «Nella domenica "delle Palme e della Passione del Signore ", per la processione sono scelti, dai tre Vangeli si­nottici, testi riferiti all'ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme; alla Messa invece si legge il racconto della Passione del Signo­re» (n. 97). Abbiamo quindi, a differenza delle altre domeniche, quattro testi biblici, di cui due dal Vangelo.

La celebrazione si apre con la commemora­zione dell'ingresso di Gesù in Gerusalem­me, che nella forma solenne prevede un rito di benedizione dei rami di palma o di ulivo a cui segue una processione verso il luogo della celebrazione dell'Eucaristia.

Il primo testo biblico viene proclamato nel corso del rito di benedizione che precede la processione e costituisce la memoria del­l'ingresso trionfale di Gesù in Gerusalem­me secondo i brani evangelici dei sinottici.

La celebrazione della Messa è caratterizzata fortemente dalla lettura della Passione del Signore secondo i sinottici, mentre le prime due letture permangono identiche nei tre anni del ciclo: Is 50,4-7: Non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi, sapendo di non restare deluso (terzo canto del Servo del Signore) e Fil 2,6-11: Cristo umiliò se stesso, per questo Dio l'ha esaltato.

La domenica delle Palme ormai introduce negli eventi pasquali della morte e risurre­zione del Signore. Cessano i richiami alla conversione e viene proposto alla fede il Cristo sofferente e glorioso. È quindi già l'i­nizio della celebrazione degli eventi pasqua­li, che nelle due domeniche di passione e di risurrezione mostrano la Pasqua nèHasùa unità di passione/morte e di risurrezione.

In questo contesto la liturgia utilizza i quat­tro canti del Servo sofferente, distribuendo­li nei primi tre giorni e il Venerdì Santo, fa­cendone emergere la specificità.

Il lunedì viene proclamata la prima perico­pe, associata all'episodio dell'unzione di Betania (Gv 12,1-11). Il profeta presenta il Servo eletto sul quale il Signore ha fatto scendere il suo spirito. Di questo Servo ven­gono delineate la funzione e le qualità: pro­clamerà e stabilirà il diritto con fermezza, sarà luce e salvezza per le nazioni, non griderà e non spezzerà la canna incrinata. questa lettura risponde il Salmo 26: il Si­gnore è mia luce e mia salvezza, che appli­ca il tema della luce al Servo che non te­merà perché il Signore è difesa della sua vi­ta. Il brano evangelico invita poi a vedere in Cristo il compimento della figura veterote­stamentaria: l'unzione con nardo profumato di Cristo, Servo umile e docile, strumento di salvezza nelle mani di Dio, annuncia la sua morte e sepoltura. Al tempo stesso però il luogo in cui l'episodio avviene, la casa di Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai mor­ti, lascia intravedere che la fiducia che Cri­sto ha riposto in Dio non verrà delusa per­ché Egli offrirà un luogo di rifugio nel gior­no della sventura. La colletta infine legge la passione di Gesù nel suo valore salvifico: in realtà sfinita per la propria debolezza mor­tale è l'umanità, mentre il Cristo sofferente è fonte di vita.

Al martedì è assegnato il secondo canto. Es­so riprende il tema del primo: io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia sal­vezza fino agli estremi confini della terra. La liturgia però, attraverso il titolo assegna­to alla lettura, se del primo canto richiama­va in modo particolare la mitezza e l'umiltà del Servo, di questo secondo sottolinea la sua missione salvifica universale. Il Salmo responsoriale (dal Salmo 70) infatti, canta i prodigi del Signore: La mia bocca annun­zierà la tua giustizia, proclamerà sempre la tua salvezza, che non so misurare ... e anco­ra oggi proclamo i tuoi prodigi. La pagina evangelica (Gv 12,21-38) richiama infine che questa salvezza passa attraverso il buio della notte, della sofferenza, del tradimento (di Giuda e di Pietro). Gesù-Servo di Dio però non ha faticato e consumato invano le sue forze, perché su di lui Dio manifesterà la sua gloria, che la Chiesa riconosce accla­mando: Salve, nostro Re, obbediente al Pa­dre ... (cf canto al Vangelo).

Mercoledì ascoltiamo il terzo canto. È il canto della passione per eccellenza. Risulta infatti immediato l'abbinamento di quanto il Servo dice di sé con i particolari della passione di Gesù: Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Particolari ri­presi dal salmo 68, che però si conclude lo­dando Dio che ascolta i poveri e non di­sprezza i suoi che sono prigionieri. La peri­cope evangelica riprende il tema del tradi­mento, che inserisce nel contesto della cele­brazione pasquale. Ancora oggi la Chiesa nei santi misteri celebra la passione del Fi­glio, che attraverso il supplizio della croce ci ha liberati dal potere del nemico (colletta) e ci ha rigenerati alla vita eterna (orazione dopo la comunione). Proprio per questo il mistero del Figlio, obbediente al Padre, che non ha opposto resistenza e non si è tirato indietro, deve essere testimoniato nella vita di ogni credente (orazione sulle offerte).

Il Venerdì Santo celebra la Passione del Si­gnore. Il quarto canto del Servo, trafitto per i nostri delitti e schiacciato per le nostre ini­quità, è associato alla lettura della passione secondo Giovanni che attribuisce un carat­tere «trionfale» alla morte di Cristo. Proprio dalla morte di croce Cristo appare vincitore:

Avrà successo, sarà innalzato, onorato, esaltato grandemente. La lettura di Eb 4,14­16; 5,7-9 aiuta poi a celebrare la passione/morte di Cristo in tutto il suo valore so­teriologico, perché Cristo diviene causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli ob­bediscono: Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiu­tati al momento opportuno.

Conclusione

La pur sommaria presentazione dell'utilizzo dei canti del Servo nella liturgia ci confer­ma prima di tutto il «proprium» della lettu­ra liturgica della parola di Dio, che è sem­pre una lettura cristologica. In questo caso specifico poi la liturgia fa propria una tradi­zione costante, che già a partire dal Nuovo Testamento legge nella persona di Gesù Cristo il compimento della figura del Servo di Dio, sofferente e glorioso. E significativa a questo riguardo la pagina di At 8,26-40nella quale viene descritto l'incontro di Fi­lippo con il funzionario etiope della regina Candace. Il diacono spiega al suo interlocutore Is 53,7-8 in riferimento alla vicenda di Gesù Cristo, anzi proprio a partire da quel passo della Scrittura, gli annunciò la buona novella di Gesù. L'etiope accoglie l'annun­cio e chiede il battesimo, riconoscendo nel­la fede Gesù Cristo come il Figlio di Dio, come aggiunge una glossa antica che si ispira alla liturgia battesimale (cf v. 37).

A questo proposito sottolineiamo che le no­stre pericopi isaiane sono lette in modo par­ticolare nel contesto delle celebrazioni della passione e morte del Signore. Di questa passione e morte i testi in questione e il contesto eucologico nel quale sono inseriti invitano a cogliere la dimensione soteriolo­gica, il «per noi». Il Servo infatti è luce per le nazioni e alleanza del popolo; ricondurrà i superstiti di Israele e porterà la salvezza fi­no agli estremi confini della terra perché si è caricato delle nostre sofferenze, è stato trafitto per le nostre iniquità. La passione di Cristo infatti è redentrice e rinnova l'univer­so (prefazio della passione I); è per noi for­za che ci ottiene il perdono e ci libera dal potere di Satana (collette dei primi tre gior­ni della Settimana Santa) proprio perché Cristo, che era senza peccato accettò la sua passione per noi peccatori e, consegnando­si a un 'ingiusta condanna, portò il peso dei nostri peccati. Con la sua morte lavò le no­stre colpe e con la sua risurrezione ci ac­quistò la salvezza (prefazio della domenica delle palme).

Non dobbiamo infine dimenticare che que­sti testi sono proclamati nel contesto della celebrazione eucaristica, memoriale della morte e risurrezione del Signore. Memoria­le che non costituisce un semplice ricordo soggettivo, che riduce il passato ad un aned­doto, ma è un atto di memoria collettiva, che mette in movimento il presente e di­schiude un avvenire. La Chiesa celebrando la passione e morte del suo Signore è rinno­vata ad immagine di Cristo e grazie a lui ogni cristiano porta in sé l'immagine del­l'uomo celeste, così che dal perdono si ac­cresca la fede e si rinforzi la certezza della redenzione eterna (Venerdì Santo, orazione sul popolo).

1) Cf A. LAMERI, L'anno liturgico come itinerario bi­blico, Queriniana, Brescia 1998 (Interpretare la Bib­bia oggi, 4.5), pp. 65-81.

(da Parole di Vita, 5, 1999)
Lunedì, 23 Aprile 2007 22:04

Il volto divino dell'altro (Marcelo Barros)

Il volto divino dell'altro
di Marcelo Barros






Anno C 28 gennaio 2007 IV Domenica del Tempo Ordinario Ger 1,4-5.17-19 Sal 70 1Cor 12,31-13,13 Lc 4,21-30


Un buon modo di accogliere spiritualmente questa parola del Vangelo, oggi, è immaginare che, proprio come coloro che ascoltarono Gesù, anche noi abbiamo difficoltà a comprendere e ad accogliere la sua proposta. Partire da questo presupposto ci evita di cadere nella presunzione di sentirci migliori e ci fa vivere più urgentemente l'urgenza di convertirci.

I testi di oggi ci parlano del carattere sovversivo e trasformatore della profezia. Geremia è stato chiamato fin dall'utero materno per piantare ed estirpare, per costruire e per demolire (prima lettura). Paolo dice ai Corinzi che lo Spirito è uno solo, ma ha molti doni e suscita i più diversi servizi. Tuttavia, di tutti, il maggiore e più eccellente è l'amore (agapé) che Gustavo Gutierrez dice che è meglio tradurre con solidarietà (seconda lettura). Gesù concretizza tutto questo applicandolo alla sua missione profetica, missione che sorprende ed esige non solo una comprensione nuova e diversa, ma un'adesione esigente e disinteressata.

Un primo sforzo è, allora, quello di comprendere la difficoltà degli ascoltatori di Gesù nella sinagoga di Nazareth. Secondo il Vangelo, Gesù aveva annunciato un nuovo giubileo di liberazione e di vita. Aveva letto la profezia di liberazione del terzo Isaia e aveva affermato: "Oggi si compie questa profezia". Il Vangelo dice che tutti reagirono. Ma Gesù dice che Dio realizza questo non solo per noi ma per tutti, e in particolare per l'altro, per il diverso, per lo straniero. All'udire ciò, i suoi ascoltatori si scandalizzano. Gesù insiste: Elia ed Eliseo sono stati inviati da Dio per dare segnali d'amore agli stranieri e non agli israeliti. Dio pone gli extracomunitari davanti a coloro che sono considerati cittadini.

Al quinto Forum Sociale Mondiale c'era stato un grande atto interreligioso: per due ore rappresentanti di diverse religioni avevano pregato ed espresso il proprio pensiero. Io coordinavo, ma non c'era nessun altro religioso cristiano. Alla fine, una signora venne da me indignata. Perché si erano manifestate tante religioni e io non avevo parlato del cristianesimo? Risposi che per me vivere il cristianesimo è valorizzare il diverso e testimoniare il volto divino nell'altro. Non è facile comprendere che, come diceva Dietrich Bonhoeffer, Dio sceglie di manifestarsi a me attraverso l'altro e all'altro attraverso di me. Fino ad oggi le Chiese hanno avuto difficoltà a vivere questo. Nel luglio del 2006, con grande sofferenza di molti pastori, pastore e fedeli, il Concilio della Chiesa metodista del Brasile, una delle pioniere dell'ecumenismo nel Paese, ha deciso di abbandonare ogni organismo ecumenico che abbia la partecipazione di "cattolici ed altri non cristiani". Da parte della Chiesa cattolica, quanti documenti e testi recenti sono stati scritti per garantire la superiorità della fede cristiana sulle altre credenze?

Nell'attuale contesto di un mondo pluralista, il Vangelo ci chiama alla profezia dell'universalizzazione o decentramento della fede. Oggi, questo è un importante e fondamentale aspetto della profezia del Vangelo. Come dice il teologo brasiliano Faustino Teixeira, "quello che caratterizza il discepolato di Gesù, ossia il cristianesimo, è il senso dell'alterità come norma di spiritualità e di vita".

(da Adista, 5 del 20 gennaio 2007)

L’immagine del religioso e della religiosa del secolo XXI che desidero presentare la sintetizzerei in otto tratti fondamentali, a cui si è giunti dopo le esperienze fatte, gli errori e le esagerazioni commessi e le nuove linee di forza che sono maturate.

Mercoledì, 18 Aprile 2007 01:59

Ecumenismo. Avanti passo dopo passo (l. bad.)

Ecumenismo

Avanti passo dopo passo

(l. bad.)

Qual è Io stato dl salute dell’ecumenismo oggi? Nell’impossibilità di tracciare un bilancio sintetico, ci limitiamo qui a «rileggere» due significativi eventi recenti. In primis, la visita di Benedetto XVI al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che «ha un valore incalcolabile nel processo dl riconciliazione», come ha affermato Sua Beatitudine Bartolomeo I. Dopo le polemiche che hanno preceduto la sua visita In Turchia, il pontefice ha rilanciato Il dialogo sull’esercizio del ministero papale, con l’obiettivo di superare uno degli ostacoli più importanti nel cammino verso la piena unità tra cattolici e ortodossi. La proposta è risuonata nella cattedrale di San Giorgio al Fanar, antico quartiere greco di Istanbul in cui si trova la sede del Patriarcato, nel giorno della festa di Sant’Andrea, primo vescovo della città e patrono delle Chiese orientali. E, insieme alle parole, i gesti: i colloqui a tu per tu, i pranzi insieme, il saluto al Papa attraverso il suono festoso delle campane (che, nella tradizione ortodossa, onora gli ospiti di riguardo), l’abbraccio tra Benedetto XVI e Bartolomeo I, lo scambio tra loro del bacio della pace in segno di fratellanza, la recita del Padre Nostro in greco da parte del pontefice, che tuttavia ha assistito da un posto d’onore alla Divina Liturgia senza poter concelebrare, a motivo della divisione che sussiste tra le due Chiese fin dallo scisma del 1054. E poi, sul balcone del Palazzo patriarcale, il gesto Bartolomeo I, che alza la mano del Papa suscitando Il suo sorriso.

Benedetto XVI ha riconosciuto che «Il tema del servizio universale di Pietro e dei suoi successori ha sfortunatamente dato origine alle nostre differenze di opinione, che speriamo di superare, grazie anche al dialogo teologico, ripreso di recente». Bartolomeo ha rimarcato la «comune volontà di continuare, senza tentennamenti, il nostro cammino, nello spirito di amore e fedeltà, verso la verità del Vangelo e della comune tradizione dei santi Padri, per restaurare la piena comunione delle nostre Chiese». Nella Dichiarazione comune, entrambi hanno rinnovato l’impegno a raggiungere la piena comunione, e al tempo al stesso hanno ribadito la richiesta dl pieno rispetto della libertà religiosa e dei diritti delle minoranze.

Significativo anche il recente incontro tra Papa Ratzinger e l’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams - guida per circa 80 milioni di anglicani nel mondo -, anche se rimangono numerosi punti aperti nel confronto tra le due Chiese cristiane. Terreni di impegno condiviso, emersi nel testo congiunto presentato nel novembre scorso, sono rappresentati da «campi dl comune testimonianza»: la «ricerca della pace in Terra Santa» e il «dialogo Interreligioso attraverso Il quale possiamo congiuntamente raggiungere i fratelli e sorelle non cristiani», ad esempio. Il Papa ha assicurato che «il dialogo teologico» proseguirà, nonostante le difficoltà in ambito bioetico ed etico (dai temi della vita all’ordinazione di donne e omosessuali). Da parte sua, Williams ha ricordato che quarant’anni fa - grazie allo storico incontro di Paolo VI con il primate Michael Ramsey - «è iniziato un processo di riconciliazione e amicizia che è continuato fino ad oggi»

Occorre declinare questi passi nella vita quotidiana delle comunità cristiane, in Italia come nel mondo. Uno strumento ormai consolidato è la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, dal 18 al 25 gennaio. Il tema di quest’anno è: «Fa sentire i sordi e fa parlare i muti» Il sussidio è elaborato dal Consiglio ecumenico delle Chiese (protestanti e ortodossi) e dal Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (cattolici). Lo stesso dicastero ha promosso la pubblicazione in 7 lingue di un Vademecum, L’ecumenismo spirituale (edito in Italia da Città Nuova), utile sussidio pastorale che suggerisce iniziative per rafforzare le radici di un dialogo già avviato.

(da Mondo e Missione, gennaio 2007)

Lo sguardo di un teologo ortodosso sul futuro delle Chiese

Verso una spiritualità ecumenica e profetica

di padre Emmanuel Clapsis

Il testo che segue riporta ampi stralci della relazione tenuta al XIV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa tenutosi al monastero di Bose nel settembre 2006. L’edizione integrale degli Atti uscirà nel mese di giugno per le edizioni Qiqajon. Si pubblica per gentile concessione dell’editore.

Padre Emmanuel Clapsis insegna teologia sistematica alla Holy Cross Greek Orthodox School of Theology di Boston; è stato membro di numerose commissioni teologiche di dialogo ecumenico e del Consiglio ecumenico delle Chiese.


Alla nona Assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese tenutasi nel 2006 a Porto Alegre, in Brasile, le Chiese cristiane hanno riconosciuto la necessità di «concentrare l’attenzione sulla natura della spiritualità cristiana e sull’opera dello Spirito Santo nella Chiesa e nel mondo». Un aspetto di essenziale importanza per l’integrità del lavoro ecumenico in vista dell’unità visibile e per la missione delle Chiese. Il bisogno di fondare il movimento ecumenico e la missione delle Chiese cristiane nell’opera dello Spirito Santo è un principio condiviso, fondante l’ecumenismo.

Una spiritualità ecumenica per i nostri tempi deve essere una spiritualità dell’incarnazione, qui e ora, capace di dare vita, radicata nelle Scritture e nutrita dalla preghiera, con una dimensione comunitaria e celebrante, centrata sull’Eucaristia; deve trovare espressione nel servizio e nella testimonianza, ispirare fiducia e speranza. Inevitabilmente condurrà a sopportare sofferenze; è aperta all’ecumene, gioiosa e ricca di speranza. Sua fonte e guida è l’azione dello Spirito. È vissuta e ricercata in comunità per gli altri. È un processo continuo di formazione e discepolato.

Coloro che vivono nello Spirito Santo sanno aprire i loro cuori per abbracciare l’interezza della creazione di Dio. Si prendono cura della vita umana e dell’esperienza di ogni giorno, così come delle questioni di fondo della vita e della sopravvivenza dell’uomo, della giustizia, della pace, della custodia del creato, ma anche delle religioni umane e delle acquisizioni della cultura.

Come ha sostenuto il cardinale Walter Kasper, «la spiritualità sopravvive solo mettendosi in ascolto dei suggerimenti, attese, gioie e fallimenti della vita, e nel riconoscere i segni dei tempi che si rinvengono ogniqualvolta una nuova vita emerge e si sviluppa… Ogniqualvolta la vera vita appare, lo Spirito di Dio è al lavoro». Il suo appello per una spiritualità del quotidiano che abbracci la totalità della vita è stato appoggiato senza riserve dal vescovo ortodosso Kallistos Ware, che ha auspicato «una spiritualità che sappia coinvolgere la vita, in cui non ci sia dicotomia tra il sacro e il profano; una spiritualità non autosufficiente, non specializzata nei suoi propri ambiti, involuta in se stessa, ma al contrario che consideri il mondo come sacramento, che veda ogni essere umano e ogni cosa quali mezzi di comunione con il Dio vivente».

Sembra emergere una convergenza ecumenica sul tipo di spiritualità che le Chiese cristiane intendono incarnare nel mondo presente. Si tratta di una spiritualità che riflette l’opera dello Spirito Santo in ogni aspetto dell’esistenza umana. Include la pienezza della vita - profana e sacra, personale e collettiva -, e non semplicemente la relazione dell’io interiore con Dio. Ora, nel mondo post-moderno si verifica una migrazione culturale verso una vita soggettiva. Le soggettività di ciascun individuo (stati di coscienza, memoria, emozioni, passioni, esperienze fisiche, sogni, sentimenti) diventano una, se non l’unica, fonte di significato, senso e autorità. La «vita-come-se» è identificata con la religione e la «vita soggettiva» con la spiritualità.

La ricerca per comprendere i fattori sociali che caratterizzano la mutazione culturale verso il soggetto e la preminenza che la spiritualità assume nei confronti della religione deve tener conto anche degli effetti che la cultura consumistica e la mentalità di mercato hanno su ogni aspetto della nostra vita sociale e personale. Per esempio, nelle società moderne è emersa una spiritualità individualista-consumistica che comprende capitalismo, consumismo e individualismo, con un orientamento «post-moderno» che privilegia l’eclettismo, la sperimentazione individualistica, un approccio alle tradizioni religiose del tipo «prendine un po’ e mescola insieme». Questo riduzionismo è favorito dalla stessa nebulosità del termine «spiritualità». Il più delle volte, la spiritualità comporta un ampio ventaglio di emozioni e connotazioni, che nella maggior parte dei casi possono essere identificate solo da una certa comprensione della storia del termine, e anche dall’indagine del suo specifico contesto d’uso. I teologi ortodossi nei loro scritti sulla spiritualità e la vita spirituale si sono concentrati soprattutto sulla presentazione della tradizione esicasta, com’è stata praticata nel monachesimo orientale, e hanno recentemente introdotto un importante correttivo a questa tradizione, recuperando ciò che è chiamato spiritualità eucaristica o sacramentale, che assicura l’aspetto comunionale della vita ortodossa. Tuttavia non impegnano sufficientemente la riflessione sui fattori culturali che influenzano oggi la pratica e la comprensione delle vita spirituale ortodossa.

Per padre Alexander Schmemann, la corruzione culturale della spiritualità cristiana è un problema acuto anche per gli ortodossi: «Il nostro è il tempo dell’impostura, della frode spirituale… e il pericolo maggiore, la più grande carenza di tutto questo fenomeno è che troppe persone oggi - compresi quelli che appaiono come i più tradizionali “dispensatori” di spiritualità - sembrano considerare la spiritualità una sorta di entità a se stante, pressoché totalmente disconnessa dall’insieme della concezione cristiana e dell’esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo, dalla totalità della fede cristiana. Ho visto la filocalia (l’amore per la bellezza - ndr) letta e praticata in gruppi e circoli i cui insegnamenti esoterici non solo non hanno nulla in comune, ma sono diametralmente opposti alla concezione cristiana del mondo. Così, quando è staccata dalla totalità della fede, persino quella “spiritualità” che ha l’apparenza più tradizionale, più ortodossa, corre sempre il rischio di diventare unilaterale, riduzionista e in questo senso eretica... diventando in altri termini una pseudo-spiritualità».

Secondo la definizione del Dizionario ecumenico, la spiritualità è la formazione e lo sviluppo dell’esistenza cristiana nel mondo sotto la guida dello Spirito Santo. I molteplici contesti culturali, i fattori sociali, le idiosincrasie personali e le storie diverse influenzeranno inevitabilmente aspetti diversi di questa viva esperienza della vita cristiana. Ciò colloca la spiritualità in una tensione tra l’unico Spirito Santo che è all’opera ovunque e in tutti, e la molteplicità delle concrete situazioni culturali e sociali e delle forme di vita. Mentre la spiritualità cristiana deve essere fondata nella tradizione biblica e modellata dalle pratiche sacramentali della Chiesa, è necessario accettare lo sviluppo di spiritualità multiple, poiché è possibile vivere l’unica vocazione cristiana in una varietà di forme.

La più alta espressione della vita nello Spirito di Dio è l’amore (1Cor 13,13), e così una persona vive in comunione d’amore con Dio e con il mondo. La spiritualità battesimale ed eucaristica, con i suoi forti aspetti ecclesiologici, non è l’unica spiritualità emersa nella Chiesa primitiva o persino quella più eminente che i teologi ortodossi hanno considerato quale unico contributo della tradizione orientale, alla ricerca di una spiritualità ecumenica. John Zizioulas discerne nella Chiesa primitiva due correnti di spiritualità che continuano a coesistere e che non sempre sono compatibili tra loro. Una è identificata con il tipo di spiritualità basato sulla comunità eucaristica, che implica la comunità e il suo orientamento escatologico come fattori decisivi; l’altra corrente è quella tipologia di spiritualità basata sull’esperienza dell’individuo che combatte contro le passioni ed è teso al raggiungimento della perfezione morale: una spiritualità accompagnata dall’unione mistica dell’anima o della mente con il Logos di Dio.

La tradizione contemplativa monastica tende a identificare la spiritualità con un’attitudine interiore, personale, influenzata dall’azione dello Spirito Santo e orientata alla sequela di Cristo. Una della principali caratteristiche che differenzia la loro concezione è che nella spiritualità eucaristica l’altro, la creazione e la comunità dei fedeli sono intrinsecamente coinvolti, mentre nella spiritualità contemplativa ciò che ha la priorità è la personale «visione» di Dio. Solo dopo la realizzazione di questa unità, la visione di Dio, una persona illuminata può volgersi con amore verso gli altri. Nella luce della svolta soggettivistica e degli effetti involontari di una cultura consumistica, la spiritualità contemplativa ricevuta e praticata al di fuori dell’assemblea eucaristica corre il rischio di ridurre la vita spirituale cristiana al rafforzamento religioso dell’individualismo, disgiungendo esistenzialmente le «persone spirituali» dalla comunità dei fedeli e dal mondo. Questa critica non deve intendersi come un ripudio della spiritualità contemplativa, ma come la necessità di riconoscerla come un aspetto essenziale della spiritualità cristiana che non può essere disgiunto dall’ethos eucaristico ed evangelico. Proprio questi ultimi completano e danno il giusto contesto agli sforzi ascetici. L’aspetto «interiore» e contemplativo della spiritualità è solo un aspetto della vita spirituale che non può essere distaccato o praticato indipendentemente dalla Chiesa. Lo Spirito rinnova la pienezza del mondo, così come l’aspetto interiore ed esteriore della vita umana.

La spiritualità eucaristica, con la sua enfasi escatologica, può in qualche esempio separarsi dalla storia e divenire indifferente alla necessità di manifestare la novità in Cristo attraverso parole e azioni che riflettono lo spirito di ciò che la Chiesa e il cristiano battezzato sono divenuti in Cristo. La celebrazione escatologica dell’attiva presenza di Dio nel mondo - com’è sperimentata e vissuta nell’Eucaristia -, invece di diventare la base della partecipazione della Chiesa e dell’impegno nella continua opera di Dio per la trasfigurazione del mondo, in qualche caso diventa una giustificazione ideologica per fuggire dalla storia. John Zizioulas ripudia questa corrente e riconosce la necessità per l’ortodossia di trarre implicazioni etiche dall’Eucaristia. L’ortodosso non può accontentarsi di «una bellissima liturgia senza prendersi cura di trarne le conseguenze sociali ed etiche». Un’attitudine simile compromette la missione e l’impegno della Chiesa.

Una vita spirituale che riflette l’ethos evangelico, liturgico e patristico della Chiesa dovrebbe riflettere l’inseparabile unità tra l’amore a Dio e l’amore al prossimo. La vita spirituale è una vita di comunione che riflette l’amore di Dio. Come afferma Olivier Clement, «entrare in Dio significa lasciarsi prendere dall’immenso movimento dell’amore della Trinità che ci rivela l’altra persona come “prossimo” o, meglio, che fa diventare ciascuno di noi il “prossimo” degli altri. E diventare prossimo vuol dire stare dalla parte di Cristo, poiché egli si identifica con ogni essere umano che soffre o viene rifiutato, che è in carcere o ignorato… (Mt 25,35-40)». Karl Rahner afferma che se qualcuno sostenesse che l’amore di Dio è qualcosa che ha avuto luogo isolatamente dagli altri o che è possibile amare Dio pur ignorando il proprio prossimo, non si tratterebbe certamente del messaggio cristiano. Amare gli altri con le loro irriducibili differenze e condividere con loro le risorse e il potere che regolano la vita personale e comunitaria è sempre un «amore difficile». La paura della diversità può portare a violente esplosioni contro gli «altri» e all’esclusione dal nostro spazio vitale. L’antidoto a questa paura è, per san Gregorio di Nissa, la forza dell’amore che lo Spirito Santo riversa su tutti noi. «Quando l’amore perfetto ha vinto la paura, o la paura è stata trasformata in amore, allora tutto ciò che è stato risparmiato sarà una unità che cresce insieme attraverso l’una e unica pienezza, e ognuno sarà, nell’altro, una unità nella perfetta Colomba, lo Spirito Santo». Una persona che vive nella forza dello Spirito Santo è l’incarnazione vivente di tutto ciò che Dio ha creato. Scrive Evagrio Pontico: «Beato è colui che si considera “rifiuto di tutti”. Beato è colui che guarda alla salvezza e al progresso di tutti come se fossero suoi propri, con ogni gioia. Beato è colui che considera tutti gli uomini come Dio, dopo Dio… che da tutti è separato e con tutti è armonicamente unito». Questa apertura e questa filadelfìa (amore per il fratello - ndr) costituiscono l’unico modo per vincere l’individualismo estremo che minaccia oggi l’esistenza umana. La formazione di una spiritualità ecumenica che consideri il mondo come sacramento e veda ogni persona umana e cosa materiale quali mezzi di comunione con il Dio vivente richiede una teologia dello Spirito Santo che riconosca la presenza attiva, di sostegno e trasformazione dello Spirito Santo in ogni essere umano, nella Chiesa e nel mondo. Una vita spirituale improvvisata coltiva il desiderio di essere con Dio senza alcun desiderio di partecipare attivamente all’amore di Dio per il mondo. Una relazione intima con Dio richiede una connessione coerentemente articolata tra misticismo e profezia.

* professore di teologia sistematica

(da Mondo e Missione, gennaio 2007)

Mercoledì, 18 Aprile 2007 01:20

Bernardo di Chiaravalle (Franco Gioannetti)

Bernardo di Chiaravalle (1090-1153)

di P. Franco Gioannetti


La vita

Bernardo di Chiaravalle nacque nel 1090, terzo di una nobile famiglia borgognona. Suo padre era Tescelin le Saur, signore di Fontaine-lès-Dijon e sua madre Aleth di Montbard. Dopo aver goduto di un’ampia formazione culturale presso i canonici di Chatillon, nel 1112 (secondo altri autori nel 1113) entrò nel monastero di Citeaux, che era stato fondato inizialmente nel 1098, come monastero riformato, dai benedettini, e che era noto per il suo straordinario rigore. Bernardo aveva convinto trenta parenti e amici a fare con lui lo stesso passo. Già nell’estate del 1115 fu mandato a capo di dodici monaci per fondare un altro monastero, Chiaravalle, di cui fino alla morte, avvenuta nel 1153, fu abate. Un’ascesi esagerata lo fece ammalare tanto gravemente che nel 1118 fu costretto a ritirarsi per un anno in una capanna sul terreno del convento, per recuperare le energie. Anche per il resto della vita sarà afflitto da gravi dolori di stomaco. Nello stesso anno incominciò la lunga serie di circa settanta altre fondazioni di monasteri.

A partire dal 1128 si coinvolse sempre più in faccende di politica ecclesiastica. Al concilio di Troyes fece da segretario e un anno più tardi fece da mediatore in una contesa tra Ludovico il Grosso e il vescovo di Parigi, mentre nel 1129/30 fece da mediatore tra Ludovico VI e l’arcivescovo di Sens. Quando, a partire dal 1130, due papi Innocenzo II e Anacleto II, rivendicavano, l’uno contro l’altro, il diritto di sedere sulla cattedra di Pietro, Bernardo prese partito per Innocenzo II. Al concilio di Etampes, nel 1130, conquistò Ludovico VI e i vescovi francesi al suo candidato. Re Lotario e il clero tedesco poco dopo s’unirono a questa decisione, e nel 1130/31 Bernardo convinse anche il re d’Inghilterra a riconoscere Innocenzo II. Nel marzo del 1131 s’incontrarono il papa e re Lotario, il quale voleva utilizzare la crisi del papato per indurre il Papa all’abolizione del concordato di Worms e per riacquistare il diritto di investitura dei vescovi. Ma l’energico intervento di Bernardo impedì il realizzarsi di questo desiderio.

Nei 1133 Bernardo, invitato dal Papa, intraprese un lungo viaggio attraverso l’Italia. Fece da piacere nella guerra tra Pisa e Genova e fu presente all’incoronazione imperiale di Lotario a Roma. Nel 1137 fu chiamato a Roma a fare opera di mediatore tra il Papa, imperatore e il re di Sicilia. Nel 1140, al concilio di Sens, grazie all’influenza di Bernardo furono condannati gli scritti di Pietro Abelardo. Nel 1143 l’abate di Chiaravalle fece opera di mediazione nella guerra tra il re Ludovico VII e il Conte di Champagne. Nello stesso anno Papa Innocenzo II gli rimproverò di immischiarsi troppo nella politica.

Nel 1145 un monaco di Chiaravalle fu eletto Papa col nome di Eugenio III. Chiaravalle da allora divenne sempre più il centro delle decisioni di politica ecclesiastica. Nella primavera del 1153 riuscì ad accomodare gravi tensioni politiche a Lothringen. Poi, tornato in patria, se ammalò e morì il 20 agosto. Nel 1174 fu dichiarato santo.

L’Opera - Influsso sugli ordini religiosi e sulla chiesa

La movimentata vita esterna di Bernardo sembra porsi in forte contrasto con la sua opera di monaco e il suo insegnamento di mistico. L’uomo che per alcuni decenni diede la sua impronta, in maniera determinante, alla storia dell’Europa, viveva allo stesso tempo con dedizione e convinzione la vita monacale, in modo tale da entusiasmare molte persone. La riforma iniziata nel monastero di Citeaux deve a lui in gran parte il proprio successo.

Ma l’attività di riforma di Bernardo, all’interno della chiesa, non era limitata al suo ordine. Egli divenne maestro della vita monastica in genere. Ciò che disse sul ruolo della regola di Benedetto e sull’autorità dell’abate e su questioni ascetiche condusse a riforme in molti monasteri benedettini. Inoltre contribuì col consiglio e con l’azione, al rinnovamento di altri ordini canonici e religiosi. Promosse l’ordine cavalleresco dei Templari e nelle diocesi portò come vescovi monaci di Citaux e Chiaravalle.. Sviluppò una dottrina sull’uso delimitato del potere e si diede da fare perché essa, nelle diverse guerre del suo tempo, avesse effetti mitiganti. S’impegnò energicamente per la riforma del clero, lo stile di vita dei prelati, e della curia romana.

Tutto questo era legato al tempo in cui operava e alle sue convinzioni, e in ciò trovava anche i propri limiti. La sua dottrina spirituale e mistica invece ha continuato a far sentire i suoi effetti lungo i secoli.

Scritti

I testi relativamente più spontanei di Bernardo sono le sue Epistolae (Ep.), di cui sono state conservate circa 500; vanno dal 1116 al 1153. Diciamo “relativamente” perchè già durante la vita di Bernardo furono organizzate in una prima raccolta e rielaborate da Bernardo stesso per la pubblicazione. L’indagine scientifica recente ha appurato come tutte le letture, e gli scritti di Bernardo siano stati continuamente rivisti e stilisticamente affinati, con la precisa intenzione di renderli adatti alla pubblicazione. Di conseguenza l’impressione che costituiscano documenti spontanei per lo più inganna. Le lettere di Bernardo trattano tutti gli argomenti pensabili, da brevi chiarificazioni obiettive e organizzative sugli scritti politici, fino a consigli spirituali e ad ampie trattazioni di carattere teologico-mistico (ad esempio Ep. 11 sull’essenza e i gradi dell’amore; Ep. 77, che è un trattato teologico sul battesimo).

Anche attraverso le sue prediche possiamo avere con lui un incontro molto personale. Esse costituiscono oltre la metà della sua opera. Con i suoi monaci viveva molto intensamente, attingendo alla Bibbia e in sintonia con le stagioni liturgiche; e ciò comportava l’esegesi continua e viva mediante la predicazione, un servizio che talvolta sovraccaricò Bernardo di lavoro, ma egli espletò sempre con appassionata dedizione. Ci sono tramandate all’incirca 120 prediche singole sulle festività dell’anno liturgico e dei santi, due brevi serie di prediche sulla pericope dell’annunciazione di Lc 1, 26-38 e sul Salmo 90 (91) e circa 500 brevi testi, abbozzi, e frammenti di testi, di cui 125 sono raccolti col titolo Sermones de diversis. Tutti questi testi si riferiscono sostanzialmente alla vita monastica e mistica, i discorsi politici di Bernardo non ci sono stati conservati.

Le prediche più note e importanti sono i Sermones super Cantica Canticorum (Cant.,) che iniziò nel 1135 come commento continuo ai singoli versetti del Cantico dei cantici di Salomone e che portò avanti, con interruzioni, fino alla morte. Però è arrivato soltanto fino a 3, 1. I cistercensi inglesi Gilberto di Hoiland (morto nel 1172) e Giovanni di Ford (1140-1214) hanno proseguito questo commentario con 48 e rispettivamente 120 altre prediche, fino all’ultimo versetto del Cantico dei cantici. In questi Sermones super Cantica Canticorum, ai quali ha lavorato accuratamente per vent’anni, Bernardo sviluppa, nei termini più vivi e profondi la sua dottrina, basata sull’esperienza, del cammino verso Dio dell’anima che cresce fino a diventarr sposa della Parola divina, unita al Cristo in un matrimonio mistico.

La maggior parte delle numerose trattazioni di Bernardo sono fondamentalmente lunghe lettere, scritte da lui in risposta a determinante questioni postegli. Nel 1125 Bernardo, dietro richiesta dell’amico Guglielmo di Saint-Thierry, scrisse per lui il suo primo trattato di una certa dimensione, l’Apologia. Si tratta di un dibattito - a tratti molto polemico - sullo stile cluniacense della vita monastica; i Cistercensi infatti avevano adottato, nella architettura e nell’arte, uno stile più sobrio e severo. De moribus et officiis episcoporum sorse tra il 1126 e il 1128; era destinato alla arcivescovo di Sens, che si era convertito a una vita ispirata alla riforma gregoriana della chiesa. Con il De baptismo, scritto nel 1138, Bernardo rispondeva ad alcune questioni di Ugo di san Vittore, e l’Epistola de erroribus Petri Abelardi, scritta verso il 1140, era una lettera a Papa Innocenzo II, nella quale, con parole talvolta troppo aspre, stigmatizzava il suo avversario teologico. Già tra il 1126 e il 1135 aveva dedicato a Guglielmo di Sanit-Thierry il trattato dogmatico De gratia et libero arbitrio. Menzioniamo ancora, per amore di completezza, la Vita s. Malachiae, composta tra il 1148 e il 1152, su Malachia arcivescovo di Armah in Irlanda, in amico intimo di Bernardo, che era morto nel 1148, e il trattato De praecepto et dispensatione, scritto prima del 1143/44, destinato ai benedettini di Chartres, che gli avevano rivolto una serie di domande sulla regola di san Benedetto, i poteri dell’abate e la libertà di coscienza dei monaci.

Una delle sue prime opere - scritta prima del 1124/25 - è sorta da discorsi del giovane abate ai suoi monaci sul capitolo settimo della regola di san Benedetto. Essa descrive “i gradi dell’umiltà” e porta il titolo di De gradibus humilitatis et superbiae (De grad.). L’opera offre una presentazione della mistica, che contiene già in nuce tutto ciò che l’uomo più maturo svilupperà negli ultimi Sermones super Cantica Canticorum. Poco dopo – nel 1125 .- scrisse al priore della grande Certosa una lettera sull’amore a Dio (Ep. 11), che più tardi integrò nella trattazione De diligendo Deo (Dil.), un opera con l’esperienza fondamentale della sua vita personale e il centro principio della sua mistica:

Il motivo per cui dobbiamo amare Dio è semplicemente Dio stesso e la misura è senza misura (Dil. I, 1), poiché facilmente gli uomini diventano capaci di un amore più grande, quando si rendono conto che essi stessi sono amati ancora di più (Dil. III, 7).

Accenni a questo centro dell’esperienza dell’essere amati e dell’amare, si trovano in altri due scritti di Bernardo: nel De consideratione (Consid.) e nel De conversione (Convers., 1140), un’edizione ampliata dei discorsi di Bernardo al clero di Parigi.

La dottrina mistica

Con la sua mistica Bernardo si trova alla soglia che conduce dall’era patristica a quella moderna. Detto da un lato “l’ultimo padre della chiesa)” egli è anche uno dei primi mistici “moderni”. L’aspetto “moderno” della sua spiritualità consiste non in una teoria nuova, “moderna”, poiché di fatto egli continua a rifarsi a temi e concetti tradizionali, ma in un modo nuovo, molto personale, di dare espressione alle proprie esperienze e di suscitare nei suoi lettori e uditori esperienze corrispondenti.

È importante notare che Bernardo si muove nella corrente di un nuovo stile di pietà, che s’era imposto in Europa già prima di lui, a partire dalla metà del secolo XI. Caratteristico di questo nuovo stile era un modo diverso di accostarsi a Gesù Cristo. Fino ad allora c’era stata in primo piano l’adorazione della divinità di Cristo, com’era comune nell’ambito romanico e bizantino (e com’è di fatto comune fino ad oggi nelle chiese ortodosse). Se là l’uomo si poneva in adorazione, con sacro timore, da solo e soprattutto in comunità, nella celebrazione liturgica, alla presenza del Figlio di Dio sovrano universale, per implorare la partecipazione alla sua grazia divina e alla sua gloria e partecipare così già adesso alla liturgia celeste dei redenti, ora invece l’attenzione dei cercatori di Dio si rivolgeva al destino terreno di Gesù Cristo. Adesso il singolo abbracciava con amore affettivo il Servo di Dio povero e sofferente, riconoscendolo come immagine della propria vita povera e penosa, e trovava nella sequela di lui la via alla redenzione. Se prima il centro era costituito dalla celebrazione liturgica ora invece si nutriva l’ideale dell’imitazione del Gesù povero, che nell’obbedienza, nell’umiltà e nella dedizione indefessa, compie la volontà del Padre celeste e che la compassione per i suoi fratelli uomini muove a condividere le loro sofferenze e la loro morte, fino alle ultime conseguenze.

L’effetto di questo nuovo stile di pietà era la ricerca, da parte di tutti e ovunque, di un nuovo stile di vita corrispondente, che fosse caratterizzato dalla povertà, dalla semplicità, dall’ascesi rigorosa e dal lavoro fisico. Allo stesso tempo in Occidente si riprese conoscenza dell’antica tradizione monastica orientale, che diede al movimento, caratterizzato dalla ricerca di povertà tipico del secolo XI, un forte tratto eremitico. Presero vita così gli ordini, tuttora esistenti, dei certosini e dei camaldolesi. I cistercensi divennero invero, non da ultimo per influsso di Bernardo, un ordine il cui tratto più caratteristico è un’intensa vita comune, ma allo stesso tempo la loro pietà era improntata da un interesse per il singolo, e tutte le istruzioni spirituali si rivolgevano al singolo, ruotavano attorno al suo rapporto intimo con Dio e alle sue esperienze personali con lui, descritte ora con un nuovo interesse e con una nuova sensibilità psicologica. In questo periodo era molto letto Agostino stesso, che nelle sue Confessioni si presentava in maniera convincente con i tratti della personalità singola.

All’inizio del cammino spirituale c’è per Bernardo la riflessione su di sé, il bilancio sobrio del proprio essere all’interno e all’esterno. Egli si esperimenta come l’uomo complesso, pieno di tensioni, contraddittorio. “Io sono la chimera del mio secolo. Non vivo né la vita di un monaco, ne quella di un laico. Da tempo ho rinunciato alla condizione di vita claustrale, ma non all’abito”. (Ep. 250, 4). Egli riconosce che la vera e propria povertà dell’uomo consiste nella sua inquietudine interiore:

Chi è più povero di spirito di colui che nel proprio spirito non trova alcun luogo di riposo, alcun luogo dove posare il capo? (Convers. VII, 12).

Per interpretare teologicamente questa condizione di alienazione Bernardo si serve dei concetti tradizionali: l’uomo – egli dice – si trova in regione dissimilitudinis, nella terra della di dissomiglianza. Bernardo creò una visione esistenziale e teologico-salvifica, etica: l’uomo – osserva – diventa “dissimile” attraverso il peccato, la disobbedienza a Dio. È caratteristico della sua mistica il fatto che in lui a svolgere il ruolo decisivo sia l’orientamento della sua volontà: unione con Dio significa sostanzialmente diventare uno con il volere di Dio nell’amore.

In ultima analisi a partire da questo dato si può ricondurre la sua vita a un denominatore comune. La sua molteplice attività si può far risalire tutta all’unica fondamentale decisione di voler fare continuamente quello che Dio s’aspetta da lui. La mistica nel senso di Bernardo è di conseguenza il rapporto intenso e personale col tu di Dio e l’obbedienza senza condizioni e nei confronti di questo tu, la disponibilità indefessa a donarsi. L’estasi mistica perciò in Bernardo è fondamentalmente un’estasi d’obbedienza. Ciò conferisce alla sua vita e alla sua dottrina una grande vitalità e pluriformità d’aspetti, e una vicinanza costante all’uomo e alla politica, poiché quando egli per brevi momenti viene totalmente rapito in Dio, nell’estasi, “quello stesso amore che lo chiama, lo strappa violentemente dall’estasi per mandarlo ai fratelli” (Dil. X, 27).

Questo vivere e agire ispirati dalla pienezza dell’amore rappresenta la condizione finale. Di solito l’uomo esperimenta soprattutto la propria fragilità. Bernardo si serve anche qui di formulazioni tradizionali, quando spiega che l’uomo creato “ad immagine e somiglianza di Dio” (in imaginem et similitudinem Dei, secondo Gn 1, 26) mediante la disobbedienza del peccato ha perso la propria somiglianza (similitudo) con Dio. Ma i segni della sua dipendenza da Dio sono rimasti in lui indelebili: egli resta immagine (imago) di Dio, soprattutto grazie alla sua indistruttibile volontà libera (libertas a necessitate), che però ha smarrito la capacità di libera scelta (liberum consilium), e la forza di fare ciò che sceglie di fare (liberum complacitum). Bernardo invita a riflettere profondamente sullo sforzo sistematico per conoscere se stessi. Allora l’orgoglio, sviluppatosi per mancanza di una sufficiente valutazione di sé, svanisce, e allo stesso tempo si disinnesca la disperazione latente che proviene da una mancanza di conoscenza di Dio

Il peccato è per natura un ridursi dell’uomo al proprio volere e potere, è voluntas propria. L’uomo deve essere attento a non ripiegarsi su se stesso nella contemplazione del proprio ombelico e nell’incapsulamento in sé, che è proprio il contrario della vera conoscenza di sé. L’uomo incurvato geme “sotto il peso insopportabile della sua volontà propria, invece di portare il giogo dolce e il peso soave dell’amore” (Ep. 11,5), che “non cerca ciò che è utile soltanto a sé, ma ciò che è utile a molti” (Ep. 11,4).

L’ottimismo di Bernardo e la sua psicologia e pedagogia diventano chiari là dove spiega come persino nell’amore egoistico (amor carnalis) del peccatore si nasconde un frammento di verità. Questo amore – egli sostiene - rappresenta il primo grado, anche se del tutto inadeguato, di quell’amore, che l’uomo deve imparare. Amarsi e preoccuparsi del proprio io corrisponde ad un istinto sano. Si tratta però di liberare quest’amore di sé dalla propria ristrettezza e dal proprio stato di schiavitù nella bramosia (cupido), in cui nella sua miopia cerca costantemente, con mezzi errati, una gratificazione svariata e illusoria. Tale amore dev’essere dilatato e “ordinato” in funzione di un amore senza confini e di un’esperienza di essere amati senza confini.

Da una valutazione sobria e obiettiva di sé Bernardo si ripromette la possibilità di diventare sensibili nei confronti di altri uomini, poiché si scopre che siamo tutti compagni di destino.

Lo sguardo alle proprie necessità apre lo sguardo alle necessità degli altri; e grazie a ciò che soffre egli stesso, l’uomo diventa capace di condividere le sofferenze altrui (De Grad. V, 18).

La voluntas propria può svilupparsi dunque un po’ alla volta sino a diventare voluntas communis. Quanti sanno soffrire con gli altri, “estendono la propria simpatia ai loro simili. Mediante l’amore si conformano talmente con loro, da sentire come proprie forze e debolezze le forze e le debolezze loro” (De grad. III, 6).

L’uomo che impara a guardare al di là di sé, può scoprire un terzo, che condivide la propria povertà e allo stesso tempo ha in sé la possibilità di andare al di là dei propri limiti: il Dio fattosi povero in Gesù Cristo. Sì, da che Gesù è diventato uno di noi, la nostra miseria e la nostra pena ci uniscono a lui.

Bernardo fa esperienza di grande pena, malattia, afflizione e tentazioni: “Mi accade quello che è accaduto a Gesù Cristo, il che mi rende molto simile a lui e mi unisce con lui”. La “mistica della passione” che ne deriva cerca la totale identificazione con Cristo, che si è fatto in tutto simile a lui. “Transformamur cum conformamur (siamo trasformati diventando simili a lui)” (Cant. 62,5). Così, al centro della pietà bernardiana c’è la meditazione sulla vita e sulla passione di Gesù Cristo. A Bernardo interessa soprattutto di Gesù il suo atteggiamento di fondo, il suo modus (Cant. 11,3) di comportarsi: il suo donarsi sino in fondo (exinanitio), il suo spogliarsi completamente, la sua umiliazione e l’umiltà, il suo servire, la sua obbedienza.

La vita di Gesù Cristo, per colui che la segue, ha un’efficacia sacramentale, trasformante. Diventare uguali a Gesù comporta la comunione di destino, l’unione con lui, la redenzione, l’aprirsi ad una nuova vita. Bernardo cita volentieri il passo biblico di 1Cor 6,17.

Quanto più l’uomo riflette e legge su Gesù Cristo, quanto più lo prega e gli obbedisce, tanta più confidenza acquista in lui, e un po’ alla volta Dio lo illumina sensibilmente. La conseguenza è che egli trova sempre più gusto in Dio. E una volta che ha gustato quanto è buono il Signore, giunge al primo grado dell’amore, dove ama Dio non più per se stesso ma per lui. In questa condizione si resta a lungo. E non so se un uomo in questa vita possa arrivare tanto lontano da amare (in un grado successivo) se stesso soltanto più per amore di Dio (Dil. XV, 39).

Durante quel lungo tempo che costituisce la maggior parte, la parte quotidiana, della vita, l’uomo – secondo l’esperienza di Bernardo – può trovare Dio specialmente nella sacra Scrittura. La Bibbia ha per lui addirittura un carattere sacramentale, tanto che la sua dottrina spirituale sulla Scrittura, i sacramenti in senso stretto (che sono per lui ovviamente il fondamento) passano fortemente in secondo piano, sorprendentemente, in favore dell’incontro vivo con Dio nella sua parola.

Quando sento come i miei sensi vengano aperti alla comprensione della sacra Scrittura, o come la luce della sapienza sgorghi dal mio intimo, o come la luce mi venga riversata dall’alto e mi si aprono con essa i ministeri, o come il cielo mi apra per così dire il suo seno incommensurabilmente ampio e faccia traboccare il mio spirito con una pioggia abbondante di sollecitazioni e riflessioni, allora non dubito che lo Sposo è presente. Questi sono infatti i tesori della parola, e dalla sua pienezza noi riceviamo tutto questo (Cant. 69,6).

La Bibbia divenne l’elemento vitale di Bernardo. La forma linguistica della Vulgata latina (la traduzione ufficiale della Bibbia in quel tempo) era talmente penetrata nella sua carne e nel suo sangue, che egli parlava letteralmente il “dialetto” della Bibbia. Non è possibile infatti staccare i modi di dire e le formulazioni bibliche, come citazioni, dalle sue parole proprie.

Al suo senso giovanneo per la Parola, Bernardo associa una predilezione per la mistica di Cristo caratteristica di Paolo. A sua volta unisce tale mistica alle immagini e al testo del Cantico dei cantici veterotestamentario. Con una sensibilità addirittura femminile, vive e descrive il suo io come anima che aspira a Dio, e i canti del desiderio, della ricerca e del ritrovamento tra sposo e sposa diventano per lui canti del suo amore per Dio. Questo linguaggio ispirato all’amore sponsale non soltanto conferisce alla mistica bernardiana il suo calore e la sua poesia umana; esso esclude anche ogni tentazione di dissolvimento della persona in un “divino” impersonale: la sua mistica è essenzialmente di natura dialogica.

L’essenziale sta nel tendere verso di lui con grande desiderio; non lo si raggiunge con la ragione, ma diventando conformi a lui (Cant. 69,2).

Sotto questo profilo Bernardo si è sempre mantenuto interiormente estraneo a quel confronto critico e distanziato con la sacra Scrittura e il dogma che incominciava a diventare caratteristico dei maestri contemporanei nelle scuole. Anzi, lo avvertì come pericoloso e, con una passione non sempre rispettosa delle regole della correttezza e dell’obiettività, combatté maestri come Abelardo e Gilberto de Poitiers.

La cultura senza l’amore si gonfia; l’amore senza la cultura si smarrisce. La sposa della Parola non può essere stupida. Ma il padre non sopporta neanche una sposa gonfia d’orgoglio (Cant. 69,2).

Occorre menzionare altri due aspetti della mistica di Bernardo: il suo atteggiamento nei confronti della Chiesa e la sua devozione a Maria. Bernardo può essere dichiarato un mistico marcatamente “ecclesiale”, poiché per lui Cristo e la sua chiesa “sono due in una carne sola” (Cant. 27,7). La chiesa è il corpo mistico di Cristo, in cui il singolo fedele è incorporato; e nella misura in cui vive nella chiesa e con la chiesa, diventa egli stesso sposa di Cristo. Ciò spiega il suo impegno instancabile per la chiesa concreta sulla terra, le cui ferite egli avvertiva come ferite di Cristo e come ferite inferte a se stesso.

La devozione a Maria assume, nell’insieme del pensiero e della fisionomia spirituale di Bernardo, un suo spazio proprio, non del tutto integrato nella sua mistica orientata in senso rigorosamente cristocentrico. Egli parla relativamente di rado di Maria e non apporta alcun contributo nuovo e originale alla dottrina tradizionale della chiesa su di lei. Tuttavia, il poco che ha esposto su Maria è talmente buono ed è formulato in termini così personalizzati che potè dare l’impulso allo sviluppo della successiva pietà mariana.

Il titolo che gli è stato dato è Doctor marianus ma lo caratterizzerebbe ancora meglio il titolo di Doctor caritatis. Egli ha vissuto una via, o meglio la via dell’amore per Dio e per gli uomini, che ha percorso fino alle altezze dell’esperienza possibile su questa terra, là dove

il servo buono e fedele viene introdotto nella gioia del suo Signore (Mt 25,21) e si berrà dalla pienezza della casa di Dio (Sal 36,9). Egli allora in una maniera mirabile dimenticherà per così dire completamente se stesso, scomparirà addirittura a se stesso concretamente, per entrare totalmente in Dio. Da allora sarà unito a lui e sarà un solo spirito (cf. 1Cor 6,17) (Dil. XV, 39).

Le esperienze estatiche che Bernardo descrive ricorrendo a espressioni quali raptus (essere trasportato) e excessus (uscire di sé), risultano, in termini del tutto logici, come il compimento della sua dottrina sull’amore. Esse non sono accompagnate da alcuna circostanza insolita, ma rappresentano la condizione dell’amore perfetto, una fusione totale di tutte le percezioni e gli sforzi nell’amore di Dio che tutto abbraccia:

L’amore è sufficiente a se stesso. Dove subentra l’amore, strappa a sé tutte le altre sensazioni e aspirazioni e le fa prigioniere. Per questo l’anima che ama, ama davvero, e non sa fare altro che amare (Cant. 83,3).

L’influsso esercitato da Bernardo

Gli scritti di Bernardo erano molto diffusi già quando lui morì. Fino ad oggi ci sono stati conservati più di 1500 manoscritti, quasi la metà dei quali redatti durante la sua vita. Sono sopravvissuti a tutte le catastrofi, in una quantità che è unica nella storia della letteratura. I suoi interessi politici e teologici sono stati dimenticati presto, ma la sua teologia ha continuato a far sentire la sua influenza nell’ordine dei Cistercensi e, nei secoli XII e XIII, ha ispirato altri numerosi autori. Da essa prese vita nel secolo XIII la devozione e la mistica del cuore di Gesù. La teologia di Bernardo, che parte dall’esperienza del singolo, e il suo concetto di esperienza, influenzarono i teologi francescani del secolo XIII, il cui ordine è sorto nella seconda ondata di quel movimento incentrato sulla povertà che s’era avviato nel secolo XI e che aveva anticipato il suo ideale spirituale della sequela del Gesù povero di Nazareth. Alessandro di Hales e Bonaventura citano abbondantemente le opere di Bernardo (Cant. 43,4). La devozione a Gesù, sviluppata in maniera così convincente da Bernardo, ha ispirato il poeta che ha composto l’inno Jesus dulcis memoria, e che nei secoli successivi ha impresso la propria impronta in maniera determinante sulla devotio moderna sviluppatasi attorno a Geert Groote e ai Fratelli della vita comune, nel secolo XV.

Tra i mistici domenicani renani del secolo XIV, a subire fortemente l’influsso di Bernardo fu soprattutto Enrico Susone. Martin Lutero ha molto apprezzato Bernardo, a cui deve stimoli essenziali: l’amore per la parola di Dio, il rapporto tra conoscenza di sé e conoscenza di Dio, la priorità data al singolo, il richiamo alla propria esperienza nella teologia.

Furono gli autori spirituali francesi dei secoli XVII e XVIII a recuperare un’immagine più sobria del santo. Jean Mabillon nel 1667 curò un’edizione completa di tutte le opere autentiche di Bernardo. Nelle controversie del periodo sul giansenismo e nei dibattiti tra Fénelon e Bossuet, tutti i partiti si richiamavano a Bernardo. Bérulle e gli spiritualisti della scuola francese si sentivano imparentati spiritualmente con lui. Pascal ha imparato da Bernardo a prendere sul serio il “cuore” e le sue ragioni, e ha fatto proprio il “Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato” del De dirigendo Deo di Bernardo.

Nel secolo XIX Bernardo divenne per gli apologeti una riprova lampante della potenza dello spirito della pietà medievale, mentre i suoi avversari elevarono Abelardo, contro cui lui aveva così aspramente combattuto, a figura simbolo delle lotte contro l’oscurantismo della chiesa. Adolfo van Harnack dichiarò che negli scritti di Bernardo si può trovare nel modo più chiaro “il genio religioso del secolo XII”. Nel 1895 l’abbé Elphège Vacandard, con la sua opera in due volumi sulla vita di Bernardo, tuttora insuperata, ha posto il fondamento per una sua biografia storicamente obiettiva. E nel 1934 è stato Etienne Gilson a proporlo alla teologia con un libro sulla sua mistica.

Nell’ambiente di lingua tedesca questi stimoli ad una edizione delle opere di Bernardo e ad una presentazione della sua vita storicamente e spiritualmente seria e all’altezza dei tempi non hanno trovato fino ad oggi chi li accogliesse e li portasse avanti. Manca una traduzione completa che renda accessibili le sue opere in lingua tedesca. L’edizione in tedesco delle sue prediche, in sei volumi, risale all’inizio degli anni 30. C’è, è vero, tutta una serie di studi di dettaglio e alcuni romanzi popolari su Bernardo, ma la riscoperta dei grandi mistici è diventata feconda sino ad ora soltanto in ambiente di lingua francese e che di recente in quello di lingua inglese e italiana.

L’approvazione delle convivenze non distruggerà certamente la famiglia e la società. Ne siamo persuasi perché le realtà naturali quando vengono buttate fuori dalla porta rientrano dalla finestra.

Arte e liturgia

Simbolismo dell'acqua e oggetti collegati

di Micaela Soranzo

Gesù, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: "Dammi da bere". [...] Ma la samaritana gli disse: "Come mai tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono una donna samaritana?". [...] Gesù le rispose: "Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: ‘Dammi da bere!’, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva"» (Gv 4,6-10).

Il vangelo della samaritana, anche se si legge solo nel ciclo A, è emblematico del tempo di Quaresima, poiché già Sacrosanctum Concilium 109 metteva in evidenza il carattere battesimale, accanto a quello penitenziale, proprio di questo tempo liturgico. Nell’episodio, infatti, l’acqua stagnante del pozzo di Giacobbe, immagine della purificazione legale dei giudei, si oppone all’acqua viva del battesimo, tanto che spesso iconograficamente la forma ottagonale, esagonale e talvolta cruciforme del pozzo richiama in modo evidente il fonte battesimale. Nel colloquio con la samaritana Gesù sottolinea la differenza sostanziale tra l’acqua comune del pozzo e l’acqua che egli dà: «Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete» (Gv 4,14).

Senz’acqua non esiste vita. Nella tradizione ebraica e cristiana l’acqua è legata all’origine della creazione: è la sostanza-madre dalla quale venne creato il mondo, ma, per la sua mancanza di forma, è anche immagine del caos, delle condizioni esistenti prima della creazione del mondo. Prima che fosse creata la luce «le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1,2). L’acqua può essere creativa o distruttiva, sorgente di vita o di morte: tutto l’Antico Testamento esalta il segno di benedizione dell’acqua, poiché «un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino» (Gen 2,10) e il Signore ha fondato la terra sui mari «e sui fiumi l’ha stabilita» (Sal 24,2), anche se constata la sua forza distruttiva nel diluvio e nel passaggio del Mar Rosso.

È naturale che una civiltà agraria come Israele vedesse nell’acqua la manifestazione dell’azione divina: l’acqua che cade sulla terra arida non è solo segno di fertilità, ma soprattutto della benevolenza di Dio. Ciò appare con evidenza in Ezechiele (47,1-12); l’acqua che scorre verso oriente, cioè verso la luce, il sole di Cristo, sgorga dal tempio: «Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il fiume, vivrà, [...] perché quelle acque dove giungono risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà». L’acqua viva evoca la divina Sapienza e lo Spirito: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; [...] metterò dentro di voi uno spirito nuovo. [...] Vi libererò da tutte le vostre impurità» (Ez 36,25-29).

Gesù si fa conoscere dalla samaritana come il Signore della vita: non c’è dubbio sulla funzione non solo purificatrice, ma anche salvatrice dell’acqua: l’acqua del battesimo porta a una nuova nascita. Il miracolo della sorgente operato da Mosè (Es 17,6) diventa modello della fonte di salvezza fatta scaturire da Cristo per i fedeli, e per questo è spesso raffigurato nelle catacombe con significato sacramentale. Lo stesso Giovanni nell’Apocalisse, riecheggiando Ezechiele, descrive l’Agnello che conduce i salvati «alle sorgenti della vita» (Ap 7,7). Il trono di Dio e dell’Agnello è il vero luogo dal quale scaturisce il fiume con l’acqua di vita (Ap 22,1).

Anche la lavanda dei piedi degli apostoli da parte di Gesù, prefigurata da quella di Abramo ai tre angeli, non è solo un esempio di umile servizio, ma è simbolo del battesimo degli apostoli in preparazione al banchetto eucaristico. Su un sarcofago del IV secolo ad Arles la lavanda dei piedi è raffigurata in contrapposizione alla lavanda delle mani di Pilato, riproponendo così iconograficamente l’ambiguità del segno dell’acqua.

L’elemento "acqua" riveste fondamentale importanza in tutta la liturgia e assurge alla dignità di sacramento quale materia del battesimo: dal IV secolo in poi, inoltre, si consacra appositamente l’acqua del battesimo per distinguerla dall’acqua santa. Il primo accenno a quest’ultima si trova negli Atti apocrifi di Pietro (200) e poi negli Atti di Tommaso (232). È accertato che in Oriente già dal III secolo si usava un’acqua consacrata come aiuto per i malati e protezione dai demoni. I recipienti per l’acqua che si trovavano alle porte delle chiese più antiche, e che si ritennero acquasantiere, possono aver contenuto anche semplice acqua per la purificazione. Dal VI secolo in poi l’uso dell’acqua santa è molto diffuso: si aspergono anche le case, i generi alimentari, i cadaveri. Nell’antichità cristiana troviamo, inoltre, ben radicata l’usanza della lavanda delle mani prima di accingersi alla preghiera. Il rito del lavabo è molto antico e trae origine dalla Scrittura; in Es 30,18-23 Dio ordina a Mosè di collocare un bacino tra il tabernacolo e l’altare in cui Aronne e i figli avrebbero dovuto lavarsi le mani e i piedi prima di accostarsi all’altare.

Nel IV secolo a Gerusalemme la messa sacrificale aveva inizio quando il diacono porgeva l’acqua al celebrante e ai presbiteri che circondavano l’altare, così sin dall’inizio il significato simbolico dell’abluzione era messo in risalto. Un’amplificazione importante di questo rito si ha nella messa etiopica: dopo aver scoperto sull’altare le offerte, il celebrante si lava le mani, però non se le asciuga subito, ma si volta e spruzza verso il popolo l’acqua che gli è rimasta sulle dita, pronunciando parole di ammonimento contro chi è indegno di accostarsi alla mensa del Signore.

Il simbolo della purificazione è stato determinante nei riguardi delle abluzioni della liturgia: una lavanda delle mani prima di indossare le vesti liturgiche fa già parte, nelle fonti del primo Medioevo, dello svolgimento dell’Ordo missae. Prima di entrare nella basilica e partecipare ai sacri riti ci si lavava i piedi e la faccia, ma soprattutto le mani, poiché in esse sarebbe stata ricevuta l’eucaristia. Così dice Paolino: Cantharus intrantumque manus lavat amne ministro.

Per questo, al centro dell’atrio della basilica cristiana, come già nel quadriportico delle case romane, vi era una fontana o cantaro. Ma fin da allora si sentiva la necessità di purificare lo spirito oltre che di pulire il corpo e perciò fu introdotto l’uso di benedire l’acqua e di aspergere con essa i fedeli che entravano in chiesa. Un’iscrizione greca, ripetuta spesso in antichi vasi per contenere l’acqua benedetta dice: «Lava i tuoi peccati e non il tuo viso».

Papa Leone IV (IX secolo) prescrisse che ogni domenica, prima della messa, il sacerdote benedicesse l’acqua e con quella aspergesse i fedeli. Avveniva però che non tutti erano in chiesa all’inizio della messa e allora fu introdotto l’uso di porre un recipiente di acqua benedetta all’ingresso della chiesa in modo che i fedeli ritardatari potessero aspergersi da sé. Tale è l’origine del segno di croce che si fa con l’acqua benedetta all’ingresso in chiesa.

L’acquasantiera è documentata per la prima volta nel IX secolo. Essa doveva essere collocata vicino alla porta ed essere di modeste proporzioni per non gareggiare in ampiezza con il fonte battesimale. In origine era per lo più in marmo o in pietra, non molto profonda e sorretta da un pilastrino o da una colonnina o addossata a un pilastro della chiesa anche se poi san Carlo prescriverà che sia ben staccata dalla parete e con un decoroso aspersorio con setole appeso alla vasca con una catenella ben lavorata, poiché prendere l’acqua benedetta direttamente con le mani era considerato un atto irriguardoso. In epoca romanica le acquasantiere furono spesso realizzate con materiale di riuso, come capitelli, colonne, cariatidi, mentre nel periodo gotico raggiunsero dimensioni monumentali e forme più articolate ispirate dalla stessa architettura e vennero decorate con rilievi e statue. Nel Rinascimento prevalsero due tipologie, quelle a piastrino con vasca a bacino liscio e quelle a mensola a forma di conchiglia, che nell’iconografia cristiana è simbolo di castità e fecondità a un tempo. Con lo stile barocco e rococò assunsero forme più elaborate, ricche di decorazioni e figure in marmi policromi: le loro dimensioni divennero imponenti.

L’acquasantiera mobile è una variante poco diffusa dell’acquasantiera fissa. Il suo uso nacque attorno al X secolo dall’esigenza liturgica di consentire a coloro che non avevano potuto partecipare all’aspersione domenicale di segnarsi con l’acqua benedetta ed eventualmente di utilizzarla per le devozioni private, incrementando così la diffusione delle cosiddette "acquasantiere domestiche" o "pensili".

Più usato, invece, è il secchiello per l’acqua benedetta; di forma e dimensioni variabili, è dotato di un manico per il trasporto, il cui uso è attestato dalle fonti a partire dal IX secolo, ma i più antichi esemplari che possediamo sono quelli in avorio del X secolo, detti "situle". Deriva dalla "secchia" o "brocca per il vino" attestata già in epoca romana. È un manufatto prezioso arricchito da decorazioni a rilievo suddivise in registri o entro elementi architettonici. Generalmente è d’avorio a sezione circolare. Uno degli esempi più antichi è la situla di Gotofredo (ora al duomo di Milano) di epoca ottoniana (X secolo). Unitamente al secchiello vi è l’aspersorio, strumento liturgico per l’aspersione con l’acqua benedetta. Nei primi tempi del cristianesimo si utilizzava per l’aspersione un ramoscello di alloro o issopo, ma anche olivo o mirto, con allusione al Salmo 50,9: asperges me hyssopo. La forma del bastone col ciuffo di setole fissate a un manico d’argento o di avorio sembra risalire al XIII secolo.

I riti purificatori con l’acqua benedetta, sia delle mani, sia degli oggetti che vengono a contatto con le specie consacrate, erano fatti con appositi contenitori. Spesso si trattava di una coppia di vaschette distinte per non mescolare l’abluzione delle mani prima della consacrazione dell’ostia con la successiva purificazione del calice. Solo dopo il concilio di Trento, con la regola di bere l’acqua della purificazione del calice, decadde la funzione delle vaschette appaiate.

L’uso del bacile legato alla cerimonia dell’abluzione è menzionato dal IV secolo. Il lavabo delle mani del celebrante avveniva prelevando l’acqua dal bacile con una coppetta oppure versandola da una brocca. Tali recipienti furono assai diffusi nell’alto Medioevo e spesso non si distinguevano da quelli di uso profano se non per eventuali elementi decorativi. Dal XVI secolo il bacile, accompagnato dalla brocca, venne a costituire un servizio unitario, detto "servizio da lavabo", il cui uso durante la messa era riservato agli alti prelati o al sacerdote in cerimonie particolari, poiché durante la messa ci si lavava le mani con l’acqua delle ampolline. Solitamente è di metallo, più o meno prezioso, lavorato a cesello o a sbalzo con motivi vegetali e di carattere simbolico, più raramente zoomorfi e antropomorfi, mentre già il Cerimoniale episcoporum del 1600 vietava la croce e le figure dei santi.

Nel tardo Medioevo si usa prevalentemente l’acquamanile o "brocca figurata". Realizzati in bronzo, ottone o rame, avevano generalmente forma di animali, reali o fantastici (leoni, cavalli, chimere, grifoni), di teste umane o gruppi, come san Giorgio e il drago; poggiavano direttamente sulle zampe. Il loro uso è documentato dalle fonti fin dal V secolo, ma i primi esemplari noti di fattura occidentale risalgono al XII secolo. Dal XV secolo questa particolare tipologia decade, soppiantata da altre forme di brocca.

In questo periodo si usano anche i bacili gemelli, simili per forma e decorazione, incastrabili l’un l’altro; il bacile inferiore era destinato a ricevere l’acqua versata dal superiore fornito di un beccuccio spesso a testa di animale. Gli esemplari più preziosi sono in rame dorato e smalto di Limoges del XIII e XIV secolo. Infine vi era il vasetto per la purificazione, che conteneva l’acqua nella quale il sacerdote si purificava le dita dopo aver toccato extra missam le sacre specie. L’oggetto veniva posto sul gradino dell’altare, a sinistra del tabernacolo, con accanto il purificatoio, e poggiava su un piattino.

Attualmente l’aspersione con l’acqua benedetta non è più segno di purificazione, ma vuol essere un richiamo al nostro battesimo e proprio con questo significato è stata anche introdotta nel nuovo Rito del matrimonio. Anche l’aspersione con cui si consacra una chiesa o un altare rappresenta il battesimo; infatti la preghiera tratta dal Rito della dedicazione dice: «Padre santo, [...] benedici e santifica quest’acqua che verrà aspersa su di noi e sulle pareti di questo tempio, perché sia segno del lavacro battesimale che ci fa in Cristo nuova creatura e tempio vivo del tuo Spirito». È vero che già Durando nel suo Rationale (XII secolo) affermava, a questo proposito, che la triplice aspersione con issopo all’interno e all’esterno della chiesa rappresentava la triplice immersione del battesimo, ma specificava che l’acqua benedetta aveva tre significati: serviva per scacciare il demonio, per purificare la chiesa, perché tutte le cose terrene sono corrotte e macchiate dal peccato, e per togliere ogni maledizione, perché la terra ricevette la maledizione a causa del frutto del peccato, mentre l’acqua non fu mai maledetta.

Un’ultima riflessione va all’acquasantiera. Non è menzionata nei "Praenotanda" al Messale romano e neppure nelle Note pastorali della Cei sulla progettazione delle nuove chiese e sull’adeguamento di quelle antiche, ma è comunque presente in tutte le chiese, anche le più recenti. C’è da chiedersi, allora, quale significato abbia oggi la presenza di un oggetto che, nato per necessità funzionali, ha assunto nei secoli altri significati, pur restando quasi immutato nella forma. Resta, comunque, che il segno di croce con l’acqua benedetta è un "fare memoria" del proprio battesimo, non è un gesto devozionale o scaramantico: ma quanti ne sono veramente consapevoli?

(da Vita Pastorale, 3, 2007)

Fasi della cultura europea d'oltralpe

GASPARO CONTARINI (1483- 1542)*

di Renzo Bertalot



Premessa

Il 31 ottobre è stata firmata la Dichiarazione Comune sulla giustificazione per fede tra cattolici e luterani. Il contenuto del documento pone fuori campo le scomuni­che reciproche emerse sull'argomento specifico durante il XVI secolo.

Dobbiamo essere molto grati ai numerosi storici che, a proposito di Gasparo Contarini, hanno indagato sull'e­volversi di due momenti principali: la prima metà del XVI secolo e la seconda metà del XX secolo. Si tratta di un lavoro non sempre facile non solo dal punto di vista della ricerca meticolosa negli archivi, ma anche per quan­to riguarda le intuizioni e i confronti. Si può rimanere ammirati per le convergenze che segnalano una buona soggettività piuttosto che un'impossibile oggettività. Ciò non toglie che a volte sorgano perplessità e ci si trovi costretti a sospendere il giudizio.

Quando si parla di Gasparo Contarini bisogna tenere presente che i suoi scritti sono stati spesso manipolati e corretti anche da persone eminenti come il cardinale Morone e il vescovo Beccadelli, tra gli altri. Bisogna muo­versi con molta cautela o addirittura saper sospendere il confronto. (1)

La figura e la testimonianza di Gasparo Contarini pas­sano dal XVI secolo al nostro come segnali di una lunga attesa la cui attualizzazione oggi non è poi così lontana dal nostro orizzonte immediato.

È un fatto che per molti anni i protestanti coltivarono la speranza di vedere la Serenissima affiancarsi alla Riforma e diventare così la "Ginevra italiana". Anche Giordano Bruno ritenne Venezia capace di adoperarsi in tal senso. Non mancarono certamente gli inviti e le sollecitazioni degli ambasciatori stranieri. Lo stesso Filippo Melantone scrisse ai Veneti nel 1539 e forse addirittura al Senato della Repubblica nel 1541. Pola era ormai una città a maggio­ranza luterana e a Padova si calcolava la presenza di seimi­la cosiddetti luterani. A Venezia sembrava che circolassero quarantamila copie del Beneficio di Cristo ritenuto il cate­chismo della Riforma protestante. Vi furono almeno due sinodi organizzati dagli anabattisti. In quel tempo molti teologi italiani passarono alla Riforma e divennero titolari di prestigiose cattedre in Inghilterra, Germania e Svizzera. Ma ben presto i Riformatori al di là delle Alpi dovettero rendersi conto che i principi italiani non avevano sufficien­te autorità per introdurre la Riforma nei loro paesi. (2)

A - La vita

Gasparo Contarini nacque a Venezia il 16 ottobre 1483 (è una curiosità storica notare che Lutero nacque poco dopo: il io novembre 1483) La sua vita fu determinata particolarmente dall'esperienza del sabato santo (24 apri­le) del 1511. In quel giorno prese coscienza della giustifi­cazione per grazia mediante la fede: "Et compresi vera­mente che io fessi tutte le penitenze possibili e molto più ancora, non seria bastante ad una gran zonta, non dico meritar quella felicità ma satisfar le colpe passate [...] Solum fatigar se dovemo in unione con questo nostro capo con fede, con speranza e con quel poccho de amor che potemo. Che quanto a la satisfacion di i peccati fati e in i quali la fragilità umana casca, la passion sua è e stà sufficiente et più che bastante". (3)

L'argomento fu ripreso con gli amici Tommaso Giustiniani e Vincenzo Querini. Insieme costituirono una "pia comunità", ma mentre i due compagni scelsero la vita contemplativa ritirandosi nell'eremo di Camaldoli, Contarini preferì dedicarsi alla vita attiva. (4)

Contarini seguì l'iter scolastico di tutte le famiglie patrizie veneziane. Studiò a Padova con Pomponazzi prendendo in seguito le distanze dal maestro. Rifiutò l'in­dirizzo aristotelico padovano a favore dell'umanesimo toscano in vista di una nuova filosofia. In sintonia con il bassanese Lazzaro Bonamico, lasciati Aristotele, Avicenna e Pomponazzi, puntò verso il platonismo fio­rentino. Intanto Contarini si affermava nella carriera poli­tica e diplomatica: nel periodo 1518-1535 è ambasciatore della Serenissima, consigliere ducale e membro del Consiglio dei Dieci; è inviato più volte a Ferrara e a Roma; nel 1521 incontra Tommaso Moro in Inghilterra; viene nominato ambasciatore plenipotenziario presso Carlo V in Germania; è presente alla Dieta di Worms, e forse incontra Lutero. (5)

Nel 1525 il fratello di Gasparo Contarini è vittima dell'inquisizione: fu trovato a trasportare Bibbie e libri di Lutero insieme a mercanti veneziani. Gasparo Contarini, nel 1529, rifiutò di consegnare a Carlo V e a Ferdinando d'Asburgo i "luterani" veneti in nome della libertà. Dopo il sacco di Roma (1527) e l'umiliante pace di Barcellona (1529), una Canossa alla rovescia, tocca a Gasparo Contarini il compito di rappacificare il prigio­niero Clemente VII con Carlo V In quell'occasione il patrizio veneziano ricorda al papa, in quanto pastore, di anteporre ad ogni preoccupazione l'interesse per la vera chiesa: lo stato temporale è un'altra cosa, "riguarda i principi"

Gasparo Contarini era un autodidatta in teologia, ma leggeva quotidianamente la Sacra Scrittura nel testo lati­no e greco: Non considerava eretiche le interpretazioni bibliche fatte da Savonarola, la cui scomunica riteneva ingiusta. (6)

Il 21 maggio 1535 Gasparo Contarini viene eletto car­dinale da Paolo III Farnese. Il 23 ottobre 1536 è nomina­to vescovo di Belluno: non riceverà mai la consacrazione episcopale, sarà invece ordinato nel 1537. Nel 1536 Paolo III lo chiama a presiedere il Consilium de emendanda ecclesia. Il 9 marzo dell'anno seguente Contarini presen­ta, legge e spiega al pontefice il testo definitivo del docu­mento, esponendo giudizi piuttosto negativi, oltre che sulla curia romana, anche su Erasmo. Nel 1540il Contarini (discepolo di Ignazio che allora era sospetto di eresia) contribuisce all'approvazione della Compagnia di Gesù e l'anno successivo è nominato legato pontificio all'incontro di Ratisbona. I protestanti lo accoglieranno come un "eroe". (7)

Il 29 maggio scrive al cardinale Alessandro Farnese che è necessario concedere il calice ai laici durante l'eu­caristia e il matrimonio ai preti, altrimenti si rischia il pas­saggio di molti cattolici tedeschi al luteranesimo Il 22 giu­gno scrive ancora al cardinale Alessandro Farnese dichia­randosi deluso dei colloqui di Ratisbona. Intanto il 27 maggio Gasparo Contarini era stato sconfessato dal con­cistoro di Roma.

Il 25 luglio 1542 viene istituito il tribunale dell'inquisi­zione (simile a quella spagnola) sotto la direzione del car­dinale Gian Pietro Carafa futuro papa con il nome di Paolo IV: il Contarini è accusato di luteranesimo e rele­gato a Bologna. Lì incontra Bernardino Ochino che vole­va salutarlo e che viene consigliato di non presentarsi a Roma dove era stato convocato. In una delle ultime lette­re al cardinale Pole scriveva: "Il fondamento dello edifi­cio dei Luterani (cioè la salvezza per fede) è verissimo, né per alcun modo dovem dirli contra, ma accettarlo come vero et cattolico, immo come fondamento della religione cristiana". (8)

Gasparo Contarini muore a Bologna tra le braccia del segretario Ludovico Beccadelli, mentre circolano insi­stenti le voci che sia stato avvelenato per mandato dallo stesso Paolo III. Fu sepolto a Venezia alla Madonna dell'Orto. Più tardi le sue ossa furono rimosse a causa di restauri. Rimane tuttavia un suo ricordo, una pietra tom­bale e il suo busto, opera di Alessandro Vittoria.

Con il 1542 e con l'inquisizione termina l'epoca tanto attesa e travagliata delle riforme e inizia quella della Controriforma e della confessionalizzazione del cristiane­simo occidentale.

B - Ratisbona 1541

Quando Gasparo Contarini arrivò a Ratisbona come legato pontificio fu accolto da tutti con molta fiducia e grande entusiasmo. Filippo d'Assia gli mandò persino la banda musicale per far "gran festa". (9) A proposito della giustificazione, la discussione cadde sul duplice aspetto, della giustizia imputata e della giustizia inhae­rens: non l'una senza l'altra. (10) Si tratta del dono gratui­to di Dio in Cristo e delle opere che promanano dalla radice della fede in vista della santificazione. La tra­sformazione dell'uomo deriva dalla fede, dono di Dio, e non da noi. Questo primo tentativo non piacque, per motivi diversi, né ai protestanti, né ai cattolici, né a Gasparo Contarini.

Dopo un'interruzione, gli uni e gli altri si trovarono d'accordo nel sottoscrivere la formula che descrive la giu­stificazione per "fede viva ed efficace". (11)

Calvino, scrivendo a G. Farel, considerò il testo "un risultato notevole": "nulla v'è contenuto che non si trovi nei nostri scritti", ma il suo collaboratore rimase piutto­sto perplesso. (12) Per Mattia Flacio Illirico, storico del pro­testantesimo, approvando l'accordo, definì Gasparo Contarini un "eroe". (13) Anche Lutero rimase stupito e disse che se i cattolici accettano la giustificazione come "fondamento capitale" egli è pronto a baciare i piedi al papa. (14)

In quei giorni circolava pure un testo segreto, il cosid­detto "Libro di Ratisbona", che non facilitò affatto il pro­seguimento della discussione.

Passando ad altri temi Melantone, Bucero e Contarini non trovarono accordo sulla transustanziazione sia come presenza di Cristo realiter et personaliter sia come "mutazione mistica". I contrasti non furono superati. Oltre alle difficoltà meno compromissorie sui sacramen­ti caddero anche le proposte di eliminare i monasteri, il celibato dei preti, la confessione auricolare e di dare il calice ai laici. Melantone si dimostrò intransigente sul primato. (15)

Ratisbona era ormai un fallimento e Contarini scrisse la sua delusione al cardinale Alessandro Farnese.

Certamente lo zoccolo duro del contesto teologico e politico non favorì gli accordi. Non era possibile trarre le conseguenze neppure sulle convergenze, le quali si anda­vano evidenziando, a proposito della giustificazione. Da parte cattolica si è anche detto che Gasparo Contarini fece in modo di far ricadere la colpa della rottura sui pro­testanti, a causa della loro "falsità". (16) Ciò nonostante, Ratisbona fu un occasione di dialogo che venne meno in un periodo in cui l'attesa e la speranza per la riforma della chiesa erano molto appassionanti, coinvolgenti e signifi­cative in tutta l'Europa. Wittenberg, Ginevra e Roma pre­sero le loro rispettive distanze da Ratisbona gettando un'ombra paralizzante sulla richiesta di convocazione di un concilio.

Nel 1542 Paolo III decise di avviare anche in Italia l'in­quisizione richiamandosi allo schema spagnolo. Sarà il car­dinale Carafa ad occuparsene direttamente e personalmen­te. Si profilano all'orizzonte il Concilio di Trento e l'età della confessionalizzazione del cristianesimo europeo.

Tuttavia l'incontro di Ratisbona segnò i secoli futuri e particolarmente quello attuale.

Il 31 ottobre 1999 ad Augusta, città storica del prote­stantesimo, venne firmato l'accordo tra cattolici e lutera­ni sulla giustificazione. Veramente i tempi di Dio non sono scanditi in base ai nostri calendari. Intanto risorgono la voce e gli scritti dei massimi rappresentanti a Ratisbona. L’augurio è di iniziare il Terzo Millennio con "fede viva ed efficace". La fatica e la perseveranza di Gasparo Contarini costituiscono certamente una vittoria su di un tragico silenzio plurisecolare e un'occasione pro­pizia per tutto il cristianesimo.

Note

* Il testo è ripreso e adattato da una conferenza tenuta all'Ateneo Veneto il 23 ottobre 1999. Cf. R. Bertalot, Gasparo Contarini (1483-1542), contesto e attua­lità della giustificazione per fede, in Ateneo Veneto, Venezia, 1999, pp. 206-218.

1) Lutero parlò della giustificazione "passiva" cioè del dono di Dio in Cristo, assolutamente incondizionato da parte umana. Parlò in seguito della giustificazione "imputata" da Dio in Cristo, cioè come sentenza divina a carattere giuridico. Anche per il riformatore tedesco le opere sono necessa­rie, servono a riconoscere la salvezza: senza le opere la fede è falsa e non giu­stifica, sarebbe una farsa o meglio una "fanatica astrazione, una pura vanità e un sogno del cuore" (V. Subilia, La giustificazione per fede, Paideia, Brescia, 1976, p. 201). Nel XIV secolo i movimenti pauperistici catari, albigesi e val­desi si opposero alle indulgenze e sostennero la giustificazione per fede. Cf. E. Le Roy, Storia di un paese: Montaillou, Milano, 1991, pp. 409 ss. Pietro Speziali (1478-1554) trattò l'argomento della giustificazione per fede nel 1512: "prima che il nome di Lutero fosse noto quando ancora non si era pro­nunciato" (E. Comba, I nostri protestanti I, Claudiana, Firenze, 1895, pp. 222 ss.). La sua opera Dei gratia, rimasta inedita, è conservata alla Biblioteca Nazionale Marciana, Codd.Lat. III, 59 (=2275) e 151 (=2152), del secolo XVI, (il secondo autografo è pervenuto dal Consiglio dei Dieci nel 1787) descritti da G. Valentinelli, Biblioteca manuscripta ad S. Marci Venetiarum. Codices mss. Latini II, Venetiis 1869, pp. 110-111 (ringrazio il dr. Gian Albino Ravalli Mondoni per quest'ultima segnalazione). S. Caponetto, La Riforma protestante nell'Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino, 1992, p. 62. Anche Giacomo Lefèvre (1455-1536), iniziatore della Riforma in Francia insegnò la giustificazione per fede tre anni prima di Lutero: così V. Vinay, La Riforma protestante, Paideia, Brescia, 1970 pp. 270-276.

2) Comba, I nostri protestanti I, pp. 42.227 e 248; A. Stella, Correnti ere­ticali nel Cinquecento, in P. Gios (a cura), Storia religiosa del Veneto. Diocesi di Padova, Giunta Regionale del Veneto - Gregoriana Libreria Editrice, Padova, 1996, pp. 519-542; G. Cozzi, I rapporti tra Stato e Chiesa, in G. Gullino (a cura), La Chiesa di Venezia tra Riforma Protestante e Riforma Cattolica, Ed. Studium, Venezia, 1990, pp. 28 ss.; D. Cantimori, Umanesimo e religione nel Rinascimento, Einaudi, Torino, 1975, pp.183-188; F. Ambrosini, Storie di patrizi e di eresia nella Venezia del '500, Franco Angeli, Milano, 1999, pp. 212-218; R. Bertalot, Dalla Teocrazia al laicismo. Propedeutica alla filosofia del diritto, Università di Sassari, Sassari, 1993, pp. 75 ss.

S. Tramontin, Tra Riforma cattolica e Riforma protestante, in S. Tramontin (a cura), Storia religiosa del Veneto. Patriarcato di Venezia, Giunta Regionale del Veneto - Gregoriana Libreria Editrice, Padova, 1991, p. 100.

4) A. Stella, Spunti di teologia contariniana e lineamenti di un itinerario religioso, in E Cavazzana Romanelli (a cura), Gasparo Contarini e il suo tempo, Atti del Convegno, Venezia 1-3 marzo 1985, Venezia, 1988, p. 152; E. Massa, Gasparo Contarini e gli amici tra Venezia e Camaldoli, in Ib., p. 72.

5) A. Stella, Gasparo Contarini e i gruppi evangelici veneti, in Lutero e la Riforma, Vicenza, 1985, p. 79; 5. Tramontin, Profilo di Gasparo Contarini, in Cavazzana Romanelli (a cura), Gasparo Contarini e il suo tempo, p. 24; G. Fragnito, Gasparo Contarini tra Venezia e Roma, in Ib., pp. 107 ss.; E. Gleason, Le idee della riforma della chiesa in Gasparo Contarini, in Ib., p. 129. Nel febbraio 1525 Carlo V fu informato dell'arrivo in un porto del regno di Granada di tre galere veneziane cariche di libri di Lutero. Il governatore del luogo sequestrò le navi e fece arrestare capitani ed equipaggi. (così Caponetto, La Riforma protestante, p. 56).

6) Stella, Gasparo Contarini e i gruppi evangelici veneti, pp. 79 ss.; Bertalot, Dalla Teocrazia al laicismo, p. 52; Tramontin, Profilo di Gasparo Contarini, pp. 26-30; Stella, Spunti di teologia contariniana, pp. 152 ss; G. Fragnito, La Bibbia al rogo, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 51; Cozzi, I rapporti tra Chiesa e Stato, p. 18.

7) G. Spini, Storia dell'età moderna, vol. I, Torino 1965, p. 173; K. Heussi, G. Miegge, Sommario di storia del cristianesimo, Claudiana, Torino, 1960, p. 172; P. Prodi, Intervento, in Cavazzana Romanelli (a cura), Gasparo Contarini e il suo tempo, pp. 208 ss.

8) Tramontin, Tra Riforma cattolica e Riforma protestante, p. 101; Tramontin, Profilo di Gasparo Contarini, p. 17; Caponetto, La Riforma pro­testante, p. 119 e Spini, Storia dell'età moderna, p. 199. Il cardinale Pole tra­scorse in Inghilterra il resto dei suoi giorni e si fece sostenitore della restau­razione cattolica. Interessante è la scoperta fatta Hubert Jedin nel 1943. Si tratta di trenta lettere di Gasparo Contarini che si trovavano presso il mona­stero camaldolese di Frascati. Purtroppo molte di queste furono manomesse per eliminare le ambiguità nei confronti della dottrina tridentina emergente: A. Marranzini, I colloqui di Ratisbona, in Cavazzana Romanelli (a cura), Gasparo Contarini e il suo tempo, p. 192; Stella, Gasparo Contarini e i gruppi evangelici veneti, pp. 76 ss. Per ulteriori dettagli sulle opere e sul pensiero di Gasparo Contarini cf. Bertalot, Gasparo Contarini; contesto, pp. 211-213.

9) Stella, Gasparo Contarini e i gruppi evangelici veneti, p. 80.

10) P. Ricca, Intervento, in Cavazzana Romanelli (a cura), Gasparo Contarini e il suo tempo, p. 230.

11) Marranzini, I colloqui, pp. 175 ss.

12) Ricca, Intervento, p. 236; Vinay, La Riforma protestante, p.60.

13) Cozzi, I rapporti tra Stato e Chiesa, p. 32.

14) Marranzini, I colloqui, p. 174. Nella "Libertà del cristiano" Lutero si rivolge a papa Leone X chiamandolo "Santissimo Padre in Dio". Non va tut­tavia dimenticato che, negli Articoli di Smalcalda del 1537, il papa era descritto come l'Anticristo, cf. E. Campi, Il Protestantesimo nei secoli, vol. l, Claudiana, Torino, 1991, pp. 84s. Anche da parte protestante vi furono delle riserve sul concetto luterano della giustificazione. M. Bucero, Riformatore a Strasburgo, e U. Zwingli, Riformatore a Zurigo, lo ritenevano "amorale", cf. A. E. McGrath, Il pensiero della Riforma, Claudiana, Torino, 1991, p. 97. Gli anabattisti descrivevano la "giustificazione" luterana come "un'indulgenza plenaria" cf. Subilia, La giustificazione per fede, p. 297.

15) Marranzini, I colloqui, pp. 182ss; Prodi, Intervento, p. 219. Cf. Caponetto, La Riforma protestante, p. 121. Carlo V concesse in seguito che a Strasburgo si sperimentassero sia il calice ai laici sia il matrimonio dei preti, ma il tentativo ebbe i giorni contati, cf. Caponetto, Id., p. 179.

16) Prodi, Intervento, p. 216.

Venerdì, 06 Aprile 2007 20:53

Paure e speranza (Faustino Ferrari)

Le speranze restano vaghe. Le idee giuste non cadono dal cielo, ma hanno bisogno di gambe per camminare e di braccia per poter essere realizzate.

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