Dobbiamo scendere negli inferi della sofferenza con i nostri fratelli e sorelle
La preghiera dell'Africa
di Patrice Jean Ake
A partire dal settembre 2002, la Costa d’ Avorio, terra di speranza - stando a quanto dice anche il nostro inno nazionale - è entrata in una guerra che non è ancora terminata. In questo sfacelo, molti ivoriani continuano a credere che le elezioni si terranno, che l’economia rifiorirà e che la Costa d’Avorio risusciterà, come ha preconizzato il nostro arcivescovo emerito, mons. Bernard Agré. Anche noi facciamo parte di questo gruppo di persone, anche se riteniamo che queste speranze, gioie, tristezze e angosce debbano essere superate da una speranza più grande, suscitata dal messaggio di salvezza di Gesù Cristo. Il cuore della nostra speranza è la Chiesa, popolo di Dio in marcia che, vivendo di questa speranza, lancia questa sfida al nostro Paese, al nostro continente africano e al mondo intero. E’ dunque la Chiesa che fonda questa speranza che prende in contropiede tutte le visioni afro-pessimiste.
Per questo, partendo dalla crisi ivoriana e cercando di comprenderne le ragioni, cercheremo di vedere che cosa significa speranza - e cosa significa essere testimoni di speranza - in un contesto di crisi, come quello ivoriano e non solo, e per cercare di dire anche cosa i cristiani d’Africa possono affermare in termini di speranza al mondo occidentale.
Al di là di tutto quello che può essere stato detto o scritto sulla crisi ivoriana e sulle cause economiche o politiche, pensiamo che la vera ragione non è stata ancora evocata. La crisi che conosce il nostro Paese ha origine nel fossato che non ha mai cessato di approfondirsi tra ricchi e poveri, a tal punto che la capitale Abidjan, situata a sud, non ha mai smesso di svilupparsi in maniera abnorme, mentre il resto del Paese è rimasto indietro.
Ma più ancora, i privilegiati, che hanno saccheggiato il Paese per lustri, si sono costruiti propri quartieri, ospedali, università, luoghi di divertimento; intanto gli ospedali, le scuole e le università pubblici accolgono i figli dei poveri. E mentre ai rampolli dei ricchi, dopo aver studiato all’estero o in prestigiose scuole locali, viene garantito un posto di lavoro, gli altri perdono il loro tempo a riempire domande di impiego senza alcun risultato.
Quelli che hanno preso le armi in questi anni si dicono «giustizieri» di tutta questa massa di «senza voce» e delle regioni trascurate dallo sviluppo, cercando di prendere con la forza quello che la politica ha rifiutato loro. Ancor più, questi giovani, messi ai margini dal sistema, sono diventati oggi i padroni del gioco politico, senza capirlo fino in fondo, come pure gran parte della popolazione.
Sono disperati e dunque non hanno paura delle armi, ma a ogni tumulto sociopolitico ne approfittano per riversarsi nei supermercati o nei distributori di benzina per saccheggiarli. Oppure distruggono strutture pubbliche come scuole, ospedali, biblioteche o edifici amministrativi, pensando che appartengono ai potenti, e così si illudono di ridurre il fossato che li separa dai ricchi.
Queste situazioni non sono appannaggio dei popoli africani. Gli Stati Uniti d’America, così come le banlieu della grandi città europee, hanno conosciuto recentemente delle sommosse. La ragione è sempre la stessa anche a livello planetario, ovvero il fatto che esistono gravi sperequazioni tra un’élite di ricchi e potenti e una grande massa di poveri. Di qui una guerra che si nutre di terrorismo internazionale e fanatismo, mentre l’Onu appare blindato dai diktat dei cinque membri del Consiglio di sicurezza, che si sono spartiti il mondo.
Eppure, anche se tutto sembra perduto, una speranza c’è. In Costa d’Avorio, sin dall’inizio di questa crisi, le nostre Chiese non hanno smesso di riempirsi e nelle nostre famiglie la preghiera è sempre presente. Numerosi gruppi di preghiera sono nati, anche se in un contesto apparentemente apocalittico. Questo perché gli ivoriani si rendono conto che tutte le nostre speranze non possono essere soddisfatte se non da una speranza più grande, che è radicata nel messaggio di salvezza di Gesù. Avere speranza, dunque, è andare oltre le legittime attese della popolazione - beni materiali, amore umano, situazione sociopolitica stabile, rilancio economico - per perseguire il bene di tutti.
Sperare solo per se stessi sarebbe segno di un egoismo e di un orgoglio insopportabili. Come testimoni di speranza, laici e persone consacrate, al seguito di Mechtilde de Hackeborn e di Magdebourg, di Teresa di Lisieux e Teresa d’Avila o di Giuliana di Norwich, hanno desiderato donare la loro vita affinché i loro concittadini potessero essere salvati. Queste persone pregano per i peccati dei loro fratelli e sorelle, li guardano con amore senza condannarli. Essere testimoni di speranza è avere un amore ardente della croce, il desiderio di soffrire con Gesù per salvare l’umanità. In questo contesto di crisi, essere testimoni di speranza significa scendere agli inferi con i nostri fratelli e sorelle, per incontrare tutti coloro che hanno le mani sporche di sangue, responsabili di uccisioni e barbarie di ogni genere, e di orrende violenze sulle donne stuprate, sventrate, infettate di malattie terribili. Dobbiamo portare le sofferenze di questi traumi e implorare Cristo di non abbandonarci nella morte. Non possiamo che pregarlo perché dopo questa terribile traversata ci attenda sull’altra riva. In questo contesto, la voce che noi come Chiesa ivoriana possiamo inviare alla Chiesa universale non può che essere un messaggio di speranza. L’inno del nostro Paese saluta la Costa d’Avorio come una terra di speranza. Questo saluto è stato tradotto nel linguaggio del popolo nella formula: «Lo scoraggiamento non appartiene agli ivoriani». E poi, oltre alla speranza, c’è l’ospitalità: «Paese dell’ospitalità», dice il nostro inno. Di fronte all’egoismo generalizzato nel nostro mondo, ci auguriamo che tutti i Paesi, anche l’Italia, possano essere terra d’accoglienza per tutti coloro che vogliono venirci in cerca di un po’ di felicità, e che gli italiani comprendano che la Terra e tutte le sue ricchezze appartengono a Dio e che noi dobbiamo condividerne i beni, affinché il fossato tra ricchi e poveri si assottigli. Se ci rendiamo conto di questo, non erigeremo muri di filo spinato tra le nazioni, non vivremo più con la paura di prendere l’aereo, ma ogni uomo si sentirà a casa sua su questa Terra, dove vivremo tutti come fratelli e sorelle.
* Docente di Filosofia, Università cattolica di Abidjan
(da Mondo e Missione, Ottobre 2006)