L’attenzione al tema dell’incarnazione va colta a vari livelli di interesse: perché offre l’occasione di riflettere su quello che il catechismo considera il “secondo” mistero principale della fede, perché favorisce l’analisi di un paradigma teologico globale e perché contiene indubbi aspetti di attualità. Ma perché tutto ciò sia compreso nelle sue reali implicazioni bisogna anche essere disposti ad ampliare alcuni schemi di approccio, non accontentandosi della semplice riproduzione del dato dogmatico ma andando oltre, nella ricerca di aspetti che derivano da un reale coinvolgimento. E’ ciò che intendo proporre in questa riflessione come un’indagine caratterizzata da un’analisi prevalentemente antropologica.
Il discernimento dei modelli
Il problema principale di ogni religione è quello di determinare il rapporto fra l’umano e il divino, indicando il posto di Dio e quello dell’uomo, delle sue aspirazioni e della sua dignità di soggetto. Tra gli schemi possibili, ed effettivamente seguiti in modo teorico e pratico, se ne possono segnalare tre: quello dell’identificazione, quello della concorrenzialità e quello dell’estroversione.
Il primo non accetta i paradossi derivanti dalla dualità e tenta di semplificare le cose riducendo tutto a un unico registro: o divinizzando il cosmo o secolarizzando il divino. Ciò che si smarrisce è l’idea di alterità, Dio come altro dall’uomo, l’uomo come altro da Dio. In termini cristologici questo tentativo coincide con le teorie docetiste e quelle monofisite, che facevano svanire l’umanità di Cristo, oppure con quelle adozioniste e subordinazioniste che non riuscivano a riconoscerne la divinità.
Il secondo schema, che si rivela come una particolare forma di nestorianesimo, acutizza il confronto muovendosi nell’alternativa, nel ragionamento dell’aut aut: Dio o l’uomo, il cielo o la terra, l’eternità o la storia. Ciò che si dà all’uno sembra togliere qualcosa all’altro e dunque, per il comprensibile primato del divino sull’umano, si giunge a sostenere la pericolosa idea che esso può affermarsi solo sulle dimissioni del proprio essere uomini. Operando all’interno di questi modelli, si pensa di essere dalla parte di Dio e si elimina lo spazio dell’umano.
In maniera generale si può dire che questi due schemi portano a sviluppare una teologia introversa che non riesce a riconoscere l’autonomia della storia, cristallizza le interpretazioni in un tempo determinato e si spegne in un’apologetica arroccata sulla difesa di verità viste solo “dall’alto” (Dio, Cristo, la chiesa, la Bibbia, i sacramenti), Sul piano del metodo dogmatico questa introversione porta a chiudersi nell’in sé del dato di fede, in un’ortodossia che elenca, consulta e impone i dogmi senza farli passare attraverso il confronto antropologico-culturale, ritenendo più importante “credere” nelle cose anziché esaminare il loro valore effettivo per la vita degli uomini.
Una teologia di questo tipo perde la relazionalità storico-salvifica e si riduce a un monologo teorico di tipo informativo, mostrandosi incapace di costruire un ponte fra ciò che si dice di Dio e ciò che invece costituisce la situazione nella quale viviamo. Una restrizione si compie anche nei confronti della concezione di uomo, perché si privilegia la ragione a discapito dell’esperienza e perché si è portati a considerarlo più come un esecutore che come un interlocutore dialogante.
Il settore più influenzato dal modello competitivo è stato invece quello della spiritualità, (1) si pensi di diversi progetti di fuga mundi, alle proposte di ideali angelici a volte corredate da un reale disprezzo nei confronti dei valori imposti dalla modernità, alle difficoltà di comunicazione con le scienze umane, soprattutto la sociologia, la pedagogia e la psicologia. Ne ha risentito anche la liturgia, qualificandosi con un linguaggio astratto, non riuscendo a legare il celebrato e il vissuto, l’estetica e il problema, il valore teologico delle cose con la loro capacità di rispondere alle domande che agitano l’umanità. Né si può trascurare il vasto campo della morale dove l’oggetto sancito dalla sacralità di una legge ha spesso prevalso sulla valutazione della situazione concreta che dà vita alle decisioni.
Tutte queste prospettive si inseriscono all’interno di una difesa d’ufficio divino, seguendo una logica che, per il suo carattere “religioso”, diventa difficile criticare. Ma la domanda chiave che bisogna porsi è se si tratta di una logica che coincide con la verità fondativa del cristianesimo: l’incarnazione.
L’estroversione di Dio in Cristo
Parlare dell’incarnazione è innanzitutto considerare un Dio che anziché chiudersi in se stesso in maniera narcisistica e oziosa (Deus oziosus) sceglie benevolmente di aprirsi all’esterno. E ciò che i padri hanno sintetizzato con l’idea della “condiscendenza” (synkatàbasis), cioè il suo essere-per l’uomo che però si realizza attraverso una precisa forma di apertura comunicativa: anziché rivelarsi nella purezza assoluta del suo essere, Dio si adegua a coloro che, per caratteristiche inerenti alla propria natura, possono salire all’invisibile solo attraverso il visibile. Il Dio cristiano non è solo un Dio che viene, ma che lo fa in modo quasi anonimo, rendendosi uguale a noi in tutto, fino a diventare, come scrive Moltmann, un “Dio umano”. (2)
Attingendo al grande principio di Tommaso che “la sapienza divina provvede a ciascun essere secondo la sua natura” (III, q. 60, a. 4), Chenu chiama questa modalità dell’agire divino, “legge dell’estroversione. (3) E’ un’espressione appropriata per dire l’opzione antropologica della sapienza divina. Uscendo da sé nella modalità dell’incarnazione, Dio si spoglia dei caratteri irraggiungibili consono al suo essere, codificando se stesso e il suo messaggio in un linguaggio adatto al ricevente. L’invito rivolto all’uomo di salire verso le sue altezze, si realizza quindi scendendo al suo livello, parlando lo stesso linguaggio, assumendone debolezze e limiti, imparando dal di dentro che cosa significa essere l’altro: “Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,6).
Inteso in senso calcedonese, il modello dell’incarnazione rifiuta lo schema dell’identificazione perché non propone annullamento né mescolanza delle nature, ma soprattutto contrasta con quello della concorrenza perché porta a riconoscere che è l’umano, proprio l’umano, a essere scelto da Dio come campo di comunicazione e di comunione.
Da questo punto di vista tutta la storia della salvezza testimonia l’estroversione dell’incarnazione: la comunione, che viene riprodotta attraverso gli schemi terreni di un’alleanza: la parola biblica, comunicata con un linguaggio storicamente e culturalmente determinato (la legge, la sapienza, i profeti); la salvezza, che comprende al suo interno anche l’ascolto e l’intervento per le sofferenze di un popolo in schiavitù o in esilio. Potremmo anche uscire dall’ambito biblico, parlando della condiscendenza divina nel rivelarsi attraverso i valori di molte religioni e, in maniera ancora più ampia, facendo riferimento all’intera vicenda umana. L’incarnazione del Figlio di Dio si inserisce e si comprende all’interno di questa economia, anche se ha naturalmente un posto tutto speciale che determina l’importanza decisiva di Gesù Cristo.
Il Cristo uomo perfetto
E’ interessante rilevare come il disinteresse per “Dio” della modernità, registrato fedelmente da molte voci della letteratura (e persino della teologia come nella death of God = morte di Dio) si traduca poi in un concreto interesse per la figura di Gesù in tutti i campi del sapere e con esiti non sempre riduttivi. Nell’ateo Albert Camus, ad esempio, nonostante il confronto critico con la religione la visione positiva del Cristo resta quasi intatta anche se l’autore se ne serve per denunciare le incoerenze della Chiesa. Così il protagonista del romanzo La caduta, Clamence, dice esplicitamente che gli piace Gesù Cristo perché lo vede come colui che ha portato l’umanità del perdono, ma è disgustato dai cristiani perché quando “salgono” sulla croce lo fanno per poter giudicare il mondo da una posizione di altezza. In psicologia c’è addirittura chi è riuscito, in modo convincente, a far emergere un Gesù-psicoterapeuta, che cura i mali psicologici, liberando l’uomo dall’amgopscia e procurando la guarigione dell’anima. (4)
Il motivo di fondo di questo interessamento, evidenziato anche dai ripetuti tentativi cinematografici, sta nel segreto dell’incarnazione per cui Gesù, apice della congiunzione fra l’umano e il divino, diventa anche un comunicatore perfetto. (5) Incarnandosi il Verbo fa sue le proprietà della natura umana diventando non solo la pienezza del Padre, ma anche rivelazione dell’uomo e dunque in lui, la natura umana raggiunge il vertice della sua costituzione iconica. In altre parole con Gesù non abbiamo solo la parola ultima e definitiva su chi è Dio, ma anche su chi è l’uomo. Rahner va in questa direzione quando sostiene che “l’incarnazione di Dio è il caso supremo dell’attuazione essenziale della realtà umana, attuazione consistente nel fatto che l’uomo è colui che si abbandona al mistero assoluto che chiamiamo Dio. (6)
Di qui la configurazione di Cristo come universale concreto: un’esistenza storica determinata che permette però di leggere contemporaneamente l’immagine di Dio e l’immagine dell’uomo. E’ ciò che vuole dire il concilio quando afferma nettamente che il Cristo è colui che “svela l’uomo all’uomo”, un’espressione chiave, che fa da fondamento a tutta la Gaudium et spes. “La rivelazione – scrive Congar – ci parla di Dio e di noi (non separati dal cosmo), essa concerne l’unione dei due: questa unione, nel suo momento più totale e più universale, è Gesù Cristo”. (7) Il Cristo comunicatore, per la verità stessa della sua incarnazione che lo contestualizza in un tempo e lo rende assente nel presente, diventa però anche un Cristo da comunicare e questo è certamente il problema più difficile da risolvere.
Il Cristo da comunicare
La cristologia, che ha il compito di approfondire in modo ordinato il contenuto dell’atto di fede, è oggi una disciplina in cantiere. Nel passato tutto il campo della sua ricerca veniva coperto dall’analisi del dato dogmatico, trascurando le questioni della comunicabilità e del linguaggio da usare per portare il Cristo all’uomo. Le nuove metodologie stanno cercando di superare questa impasse, scoprendo nuove esigenze che si sintetizzano nella scoperta del principio antropologico.
La prima è quella salvifica. I cristologi contemporanei sono abbastanza concordi nel ritenere che la considerazione del Cristo deve essere salvificamente determinata. E’ il procedimento del Nuovo Testamento dove l’interesse per Gesù, testimoniato dall’uso dei molti titoli cristologici, non è tanto determinato dalla curiosità nel suo mistero personale, bensì dal suo essere lieto annuncio per gli uomini. La stessa riflessione sull’incarnazione non precede bensì segue alla considerazione della sua opera redentrice. Prima viene l’esperienza di ciò che lui è per me e poi si impara a conoscere chi lui è.
Ma la cristologia non è stata sempre fedele a questo compito. Lasciandosi attrarre da una riflessione di tipo ontologico ha investigato sulla persona di Cristo, trascurando l’analisi del suo significato e dell’opera che egli è venuto a compiere nel mondo. A fronte di una cristologia introversa, occorre allora trovare i mezzi e il linguaggio adatto per comunicare un Cristo vivo, il cui annuncio si incarna nella vita degli uomini. Ma ciò può essere compiuto solo aprendosi con sincerità al mondo, sintonizzandosi con le sue attese e le sue lacerazioni.
La seconda è quella storica. Cristologia estroversa è quella di un annuncio che stimola la costruzione della storia, l’edificazione di un’umanità migliore dove la pace e la giustizia sconfiggono le suggestioni del male e della sofferenza. Un Cristo che non avesse niente da dire alle speranze del mondo, che si limitasse a parlare di cielo, di vita eterna, di realtà interiori, non sarebbe un uomo perfetto, ma solo l’estraneo abitante di un mondo lontano. Non è questa la convinzione della Gaudium et spes per la quale “Il Verbo di Dio … entrò nella storia del mondo come uomo perfetto” (n. 38).
Una cristologia introversa tende a presentare un Cristo distaccato, che entra nella storia da semi-uomo, in funzione unicamente trascendente. Ma per il concilio Cristo ricapitola in sé la storia condividendo in tutto la condizione dei figli di Adamo: “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo … egli si è fatto veramente uno di noi” (ivi, n. 10). E’ per questo motivo che “chiunque segue Gesù Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo” (n. 41).
La terza esigenza riguarda la concretezza umana del Cristo. Una cristologia introversa è quella che ragiona in termini assoluti, come se l’immagine di Gesù uomo perfetto si realizzasse al di fuori della sua vicenda esistenziale. Il mistero dell’incarnazione implica invece una specifica attenzione alla vicenda terrena del maestro, per attingere la verità sull’uomo anche dalla sua esperienza umana. Si tratta quindi di tornare a confrontarsi con il Gesù di Nazaret per ricavare, dal suo modo umano di vivere, il modello e la forza per la nostra esistenza.
E’ l’impegno primario della cosiddetta cristologia narrativa: considerare Cristo prototipo dell’uomo anche dal modo in cui è vissuto. Assume così un particolare rilievo l’analisi delle sue tappe esistenziali, delle emozioni e delle esperienze che l’hanno reso figlio degli uomini; la compassione, l’amicizia (cf. Gv 11,3s; 15,13), il dolore, l’amore (15,12), l’angoscia (Mc 14,33), la paura, i turbamenti (Gv 11,33), lo sdegno, il pianto, la gioia (15,11; 17,13) e poi le diverse qualità umane che egli ha posto in rilievo come la liberta, la relazionalità, la corporeità.
Una fede incarnata
Fra le sue riflessioni, Chenu sostiene anche che l’incarnazione non è finita due millenni fa in un angolo della Palestina, ma è un evento che continua in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Essa si realizza assumendo uno stile di vivere e comunicare la fede, di camminare nella santità, di esercitare la propria azione che si adeguano al modello del Verbo incarnato.
Nella teologia propria del teologo francese il riferimento è servito a valorizzare la materia, conferendole una dignità fino ad allora sconosciuta, a far uscire la liturgia dagli ambiti ristretti del modello celeste, a portare la spiritualità su vie diverse da quelle proposte dalla vita religiosa, come il lavoro, l’arte, la ricerca scientifica. In quella di Teilhard de Chardin ha portato ad unire strettamente cielo e terra, contrassegnando il percorso verso Dio come un itinerario che valorizza in termini salvifici anche l’impegno nel mondo e per il mondo. (8) Nella riflessione conciliare si è tradotta nell’attenzione ai segni dei tempi, alla storia, alla cultura, ai problemi umani. E non si possono dimenticare le numerose suggestioni prodotte nei vari campi della costruzione teologica che hanno dato vita a varie forme di “teologie terrestri”. Ne ha beneficiato anche la spiritualità, dove l’idea di un Dio incarnato, come rileva L. Boros, porta a trovare nella profondità dell’essere uomini la fonte dell’eterno. (9)
Le implicazioni sono numerose e si diversificano in base ai diversi presupposti di linguaggio e di metodo propri a ogni autore. (10) Si nota però come il rinnovamento tocchi un modo globale di essere e pensare e non qualche settore specifico. Nei limiti di questo articolo tre prospettive meritano di essere sottolineate: la correlazione (l’essere-con), l’impegno (l’essere-per), la corporeità (l’essere-in).
* Il principio di correlazione. Il richiamo all’incarnazione porta innanzitutto ad assumere l’umano, caratterizzando la relazionalità religiosa in maniera consona alle leggi essenziali che fanno un uomo. Dal momento che adora un “Dio incarnato”, il cristianesimo accoglie tutto ciò che c’è di umano, fuorché il peccato, considerandolo parola di Dio rivolta agli uomini. Credere non vorrà dire, dunque evadere, estraniarsi dalla condizione che ci definisce abitanti di questo mondo, ma riempire di significato la propria umanità. Pur avendo bisogno di un’adeguata interpretazione, queste parole di Bonhoeffer sono illuminanti: “Essere cristiano non significa essere religiosi in un determinato modo, fare di sé qualcosa (un peccatore, un penitente, un santo) in base a una determinata pratica religiosa, m a significa essere uomo; Cristo (l’uomo per gli altri) non crea in noi un tipo d’uomo, ma l’uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma la partecipazione al dolore di Dio nella vita mondana”. (11)
L’incarnazione denuncia così una fede alienata e alienante, chiusa in un’opzione per il divino senza costante correlazione con l’umano. L’uso di questo principio vuole sottolineare il rapporto dialogico che deve esserci tra fede e vita, tra tutto quello che confessiamo, proponiamo, celebriamo, pratichiamo e il mondo dell’uomo, inteso non in senso astratto, ma storico ed esistenziale. La sfida autentica del mistero sta proprio nel congiungimento di queste due coordinate. Così, per Geffré, “se si va fino alla fine del realismo dell’incarnazione vista come divenire-uomo di Dio e come divenire-Dio dell’uomo, allora si potrebbe comprendere come la realtà di Dio si scopre come la realtà dell’uomo e viceversa. Da quando Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo, Dio e la realtà sono misteriosamente congiunti – senza essere identificati – nell’essere del Cristo. Rispondere a Dio senza tenere conto del reale, è ciò che costituisce l’alienazione, perché è impossibile rispondere del reale nella sua profondità senza rispondere a Dio”. (12)
Ma come farlo? Le difficoltà e i possibili esiti riduttivi di una simile operazione portano spesso alla rinuncia dell’impresa. Prevalgono allora le posizioni timide, sentendosi sicuri quando si sta “dalla parte di Dio”, dimenticando il Dio che sta “dalla parte dell’uomo”. Un processo di incarnazione spinge qui la teologia tutta a studiare adeguatamente i problemi legati alla mediazione, non limitandosi ad abitare gli ambienti classici del pensiero (Bibbia, traduzione, magistero) né a dare a se stessa una specie di natura trans-storica, bensì verificando le conoscenze dell’uomo, ascoltandone le domande, le esigenze, le esperienze, le opinioni, guardando “anche in basso, nel profondo della terra, dentro l’uomo, da dove sale quell’umano che non solo Dio vuole purificare ma che contiene anche valori che Dio vuole assumere e ricapitolare in Cristo”. (13)
* La dignità dell’uomo. Per Rahner ciò che emerge dal mistero dell’incarnazione è la dignità dell’uomo: “Se Dio stesso è uomo e lo rimane in eterne; se tutta la teologia è di conseguenza antropologia; se all’uomo è proibito pensare dimessamente di sé, perché in tal caso penserebbe dimessamente di Dio, e se questo Dio rimane il mistero ineliminabile, allora l’uomo è in eterno il mistero di Dio espresso che in eterno partecipa al mistero del suo fondamento“. (14)
Ciò non si rileva soltanto da una riflessione teorica sul mistero dell’incarnazione, ma anche da uno studio dei vangeli, memoria vivente di tutte quelle espressioni nelle quali Gesù pone la considerazione dell’uomo al centro delle preoccupazioni divine, “persino i capelli del vostro capo sono tutti contati” (Mt 10,30). L’attenzione è tale da apparire primaria, condizionante, superiore a quei valori sacri che possono apparire come assoluti, la legge, il tempio, l’autorità: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27).
Questa considerazione emerge anche dal modo in cui Gesù difende le dignità violate, i volti irredenti di coloro che per gli schemi dualistici del puro e dell’impuro erano considerati meno uomini: i piccoli, gli ammalati, i lebbrosi, i peccatori, i poveri (Mt 25,31-46), cui potremmo aggiungere la lista aggiornata dei disoccupati, dei senza-tetto e senza-terra, dei diversi, dei non-allineati. “Gloria di Dio è l’uomo vivente”, l’uomo per se stesso, e non in quanto rientra in alcuni schemi precostituiti.
Parlare di Cristo è parlare del redentore dell’uomo. Giovanni Paolo II lo ha particolarmente richiamato nella sua prima enciclica: “Cristo, redentore del mondo, è colui che è penetrato, in modo unico irripetibile, nel mistero dell’uomo ed è entrato nel suo cuore“. (15)
Possiamo persino affermare che in rapporto a Cristo acquista una sua adeguata comprensione anche la nota confessione della dignità dell’uomo espressa nella dottrina dell’immagine di Dio lo si rileva dalla cautela di Tommaso nel considerare il tema in riferimento al legame Dio-uomo. Per l’aquinate questo rapporto è insostenibile perché la distanza è abissale, la stessa che intercorre tra il finito e l’infinito, per cui sostiene che la qualità iconica compete solo al Figlio primogenito che è alla natura del Padre. (16)
Poiché però, con il mistero dell’incarnazione, il Figlio è divenuto consostanziale a noi, allora la qualità iconica dell’uomo si riferisce al Cristo, è resa compiuta soltanto in Cristo. L’argomento è sviluppato in tutti quei testi neotestamentari che parlano dell’uomo nuovo. Comprendiamo allora il racconto del giudizio finale riportato da Matteo, dove il giudizio si basa sulla capacità di riconoscere il Cristo in ogni uomo, sull’impegno di chi restituisce questa dignità a coloro che ne sono privati (25,31-46).
Ne consegue che è compito di un cristianesimo incarnato lottare per l’uomo, la sua realizzazione e il riconoscimento dei suoi diritti. Ciò non può essere considerato un semplice preambolo né un di più da affidare a un secondo tempo, ma qualcosa che tocca il cuore stesso di una fede cristologicamente matura e che oggi è divenuto particolarmente urgente e attuale viste le disastrose esperienze di un secolo segnato da un concreto antiumanesimo.
* Il superamento dello spiritualismo. Lo spiritualismo è il grande rischio delle religioni che, proponendosi come testimoni dello spirito, sono inevitabilmente portate a denigrare ciò che appare in una sfera puramente terrestre. Nella storia del cristianesimo abbiamo avuto lo spiritualismo cristologico che a sua volta è sfociato in uno spiritualismo ecclesiologico e in uno spiritualismo antropologico. Un influsso decisivo è stato esercitato dalle concezioni filosofiche platonizzanti, ereditate dal pensiero agostiniano, ma anche dalla discussione sulla grazia, la cui unilaterale affermazione ha prodotto il noto schema dei due piani, dove grazia e natura sono state separate in un dualismo denunciato da De Lubac nel libro Il mistero del soprannaturale.
Le conseguenze dello spiritualismo, assente nella più autentica riflessione scolastica, sono state a dire a dir poco disastrose. Cose e persone venivano valutate solo in quanto facevano riferimento a Dio, la salvezza si traduceva in termini astratti che non trovano riscontro sul piano della storia, nel credente si insinuava una sottile forma di de-responsabilizzazione, che lo portava a svalutare il terrestre, l’impegno, l’opera di costruzione nel mondo. Ne risentiva anche l’antropologia perché l’uomo, diviso nel corpo e nell’anima, si abituava a un disprezzo del primo, soprattutto nelle sue esigenze primarie della sessualità e della gestualità. Per lo spiritualismo ciò che conta veramente è il sacro, il soprannaturale, il divino, il tempo religioso speso direttamente per Dio. Il mondo diventa una sorta di prigione, un luogo di esilio, un banco di prova o addirittura qualcosa di demoniaco dal quale tenersi lontani. La fede spiritualistica aliena dal quotidiano, rende praticanti, cioè frequentatore del rito ma non testimoni.
J. B. Metz usa il termine “diviniamo” che mutua dalla terminologia di Congar, che a sua volta ricava dalla riflessione di R.A. Gauthier. Con esso, l’autore indica il tentativo, derivato dalla cultura greca, di eliminare l’alterità fra Dio e il mondo, sacrificando l’autonomia di quest’ultimo per determinarlo, in ogni sua parte, con un riferimento divino. E’ la tentazione che si è tradotta storicamente in alcune parti della riforma gregoriana, quando si è voluto clericalizzare il mondo, creando una mentalità che ha ipotecato anche il pensiero cristiano moderno.
Per Metz il cristianesimo favorisce invece un processo di mondanizzazione del mondo e delle sue strutture non escludendo Dio alla maniera degli atei, ma facendo in modo che Dio sia Dio e il mondo sia mondo. Il modello è ancora l’incarnazione, dove Dio assume l’altro da sé ma senza svuotarlo della sua identità e consistenza, bensì rispettandolo nella sia alterità. “Dio non violenta ciò che assume, non lo succhia, non lo divinizza fino a renderlo puro teofanismo … egli non è uguale agli dei non è un usurpatore, un Moloch”. (17)
Giovanni Tangorra
Note
1) Cf. Congar Y., “Gloria di Dio e grandezza dell’uomo”, in Aa. Vv., L’ateismo contemporaneo,SEI, Torino 1969, 187-200.
2) Moltmann J., Trinità e regno di Dio,Queriniana. Brescia 1983, 131.
3) Chenu M.D., “Pour une anthropologie sacramentelle”, in La Maison Dieu 119 (1974) 86.
4) Mi riferisco soprattutto al libretto di Wolff H., Gesù psicoterapeuta, Queriniana, Brescia 19903.
5) Cf. Lambiasi F. – Tangorra G., Gesù comunicatore, Paoline, Roma 1996.
6) Rahner K., Corso fondamentale della fede,Paoline, Roma 19844, 285.
7) Congar Y., Foi et théologie, Desclé de Br., Paris 1962, 23.
8) Cf. Teilhard de Chardin, L’ambiente divino,Il Saggiatore, Milano 1968.
9) Boros L., Incontrare Dio dell’uomo,Queriniana, Brescia 19702.
10) Cf. Besret B., Incarnation ou eschatologie?,Cerf, Paris 1964.
11) Bonhoeffer D., Resistenza e resa, Bompiani, Milano 1969,266.
12) Geffrè C., Le christianisme au risque de l’interprétation, Cerf. Paris 1988, 163.
13) Sartori L., “Nuovi orizzonti ecclesiali e senso di appartenenza alla chiesa oggi”, in Presenza pastorale 47 (1977) 63, studio ripreso in ID., Per una teologia in Italia. Scritti scelti, a cura di E.R. Tura, EMP, Padova 1977,1.
14) Rahner K., Corso fondamentale sulla fede, 293.
15) Giovanni Paolo II, Il mistero della redenzione, in Enchiridion delle encicliche, EDB, Bologna 1998, 45.
16) Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I, q. 93, a. 1, ad 2.
17) Metz J. B., Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 19743, 23.