Comunione dei santi,
comunione di ministeri
di Enzo Franchini
Perché non "passa" una sperimentazione più creativa della partecipazione nella chiesa? Perché - in particolare - il ritardo nell'attuazione dei ministeri istituiti? È troppo poco vederne la causa solo nella cattiva comprensione pastorale. È la cattiva spiritualità che inibisce. Ricentrare tutto nell'eucaristia diventa imperativo categorico.
Senza aggressività, come puro rilievo del dato di fatto, sembra di dover cominciare dall’osservazione che dovrà preoccupare le nostre riflessioni: l’eucaristia è troppo clericalizzata, troppo “monasticizzata”. Viene cioè legata prevalentemente alla celebrazione liturgica; a meno non giunga a quella devozione intesa come momento privato, in cui si dà appuntamento a Dio per parlargli della nostra anima.
Ancor più disincarnata ci sembra la proposta della comunione dei santi quale realtà non afferrabile sperimentalmente, vera ma nascosta dietro il velo «mistico» dell’arcano.
L’intenzione delle riflessioni che ci proponiamo è quella di rivendicare la fattibilità visibile di questa comunione: la comunicazione, la partecipazione, la consiliarità, sono infatti già un modo di fare eucarestia; e ancor di più lo sono i miniseri, che sono adempimenti eucaristici per loro natura. Se non fosse per queste tangibilissime realtà, non si attuerebbe il comando: «fate questo in memoria di me». Infatti il “corpo mistico” – realtà conclusive dell’eucarestia – non può essere alienato dalla storia, se Gesù resta con noi fino alla fine dei secoli. Parlare di “corpo mistico” deve significare che proprio di Gesù nato a Maria – e presente nell’eucarestia – dà alla chiesa di costruirsi; così come è la chiesa che fa crescere fino a compiutezza il corpo eucaristico di Gesù, che resterebbe mutilo se non inglobasse anche la nostra realtà presente.
Gesù come comunità
La premessa importante su cui fondare ogni applicazione comunionale è bene espressa nella celebre affermazione di Bonhoeffer: «Lo spazio di Gesù Cristo nel mondo, dopo la sua morte, viene occupato dal suo corpo, la chiesa (...). Alla chiesa si deve pensare come a una Persona fisica (...) l’uomo nuovo è uno, non molti (...). questo uomo nuovo è allo stesso tempo Cristo e la chiesa (...) Cristo è la chiesa (...). l’uomo nuovo non è il singolo (...), ma la comunità, il corpo di Cristo, Cristo» (Sequela pp. 216-218).
La citazione è forse più suggestiva che dimostrativa. E tuttavia essa prende tutto il suo valore una volta che si affermi che Gesù si definisce come persona, nella sua realtà costitutiva, proprio perché si attua come dedizione. Egli realizza la sua vita donandola agli altri: tanto da perdersi negli altri per ritrovarsi vivo in un modo nuovo. Per volontà del Padre, al quale si è abbandonato totalmente. Gesù si offre a noi in modo tale che il suo esistere è relazione con noi, per la nostra salvezza. Gesù è"transitivo" per definizione: perché, per essere se stesso, ha bisogno che qualcuno lo riceva. Gli uomini salvati sono essenziali a Gesù, come l'opera eseguita è necessaria a qualsiasi protagonista se egli vuoi essere riconosciuto capace e responsabile di gestire quell'opera.
Certamente, se non si fosse incarnato, il Verbo di Dio sarebbe stato in grado di dare a noi il suo insegnamento e la sua forza, senza bisogno di fare corpo con noi. Niente ci vieta di pensare che anche senza scendere dal cielo egli avrebbe potuto comunicare agli eletti le sue verità: gli sarebbe bastato comunicare per visione la totalità degli insegnamenti evangelici, come ha fatto coi profeti. C'è una sola cosa - ma questa decisiva per la sua esistenza - che non avrebbe potuto fare restando nel suo cielo: diventare "un solo corpo" con noi: e questo non come unità puramente interiore, realizzata niente più che nell'intimità del pensiero; occorre avere il coraggio di accettare che la sua unione con noi debba definirsi come realtà indubbiamente "fisica". Per realizzare questo impegno salvifico, non aveva altra possibilità che quella di assumere il nostro corpo, così che nessuno potesse più chiamarlo altro che insieme agli uomini con cui esiste in solido: «Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato» (Eb 2,13).
La verità di questa solidarietà si concreta in modo indubitabile nell'eucaristia. L'eucaristia non è un mistero in più, da aggiungere agli altri articoli di fede elencati nel Credo: piuttosto l’eucaristia è lo strumento con cui quegli stessi articoli di fede diventano veri in ciascuno di noi, nella realtà della loro attuazione. Finché sono dichiarati nell’astrattezza della visione quegli articoli restano esterni all'uomo che li contempla. Ricevi l'eucaristia ed essi diventano invece carne della tua carne. Si inverano, si realizzano di nuovo in te come fatti concreti, salvano davvero tutti e singoli gli uomini che entrano nella comunione con Gesù. Senza l'eucaristia, il Credo conterrebbe la verità astratta - e dunque ancora inefficace - della salvezza. Con l'eucaristia avviene la sintesi tra il progetto ideale e la storia, tra l'ipotesi e la tesi.
La personalità relazionale di Gesù si decide eucaristicamente, perché è l'eucaristia che fa di noi unum corpus, in maniera sponsale così che i due - l'uomo e Cristo – siano una sola persona, e siano compartecipi e coeredi della stessa sostanza. Come Gesù è comunicatore effettivo dei dati elencati nel credo, così chi comunica con lui riceve, in lui, la pienezza del fatto creduto, e non solo la consolazione dell'intuizione: è questa, in sostanza, tutta la teologia dei capp. 14-17 di Giovanni (e non solo di quei capitoli).
Ma questa è dottrina sufficientemente nota, perché si debba insistervi più di tanto. Ciò che non è bastantemente affermato, invece, è che il Corpo mistico non è un’entità gia tutta adempiuta, come se esso non fosse più capace di agire nella storia. Al contrario è un corpo vivo anche su questa terra: è un corpo capace di crescere, di agire, di impegnarsi e sovraimpegnarsi (cf. 2Cor 12,15) per la salvezza delle anime.
Quello che è detto del suo santo corpo ecclesiale, può esser detto anche di Gesù: non è blasfemo parlare di Gesù che resta ancora "viatore" sulla terra, anche se assiso alla destra del Padre: infatti Gesù è nella gloria, ma non ancora del tutto, se egli sopporta in sé tutte le traversie del nostro corpo, che è suo. Gesù continua ad agire di più, e non di meno, di quanto abbia fatto nei giorni della sua carne mortale; solo che egli agisce ormai non senza il suo corpo totale; resta ancora e soltanto lui l’apostolo per eccellenza, ma tramite la sua chiesa.
La potenza della missione (e la dignità dei ministeri) e tutta qui: dopo l’ascensione, Gesù continua a donarsi solo per mezzo della dedizione dei suoi; sono i suoi fratelli che portano a compimento ciò che manca alla pienezza della sua opera salvifica (cf. Col 1,24).
Siamo già all'affermazione da cui si dovrà dedurre tutta la legge dell'apostolato: anche l'apostolato, infatti, con tutte le sue espressioni ministeriali, è in senso stretto un adempimento eucaristico.
L'eucaristia non è un deposito sacro, una presenza arcana da adorare: è una forza viva che fa potente la chiesa che ne è nutrita: chi mangia di lui vive di lui, dunque opera con la sua stessa energia.
Paradossalmente – ma non tanto – si potrà dire, allora: è vero che Gesù è la forza dell’apostolato, ma non è meno vero che anche l’apostolo è la forza di Gesù. Nessuno osi separare ciò che Gesù si è unito, fino a essere “una cosa sola”.
La carità eucaristica
Ma non si deve correre troppo. Prima di parlare direttamente di apostolato e ministeri, occorre fermarsi ancora un poco sulla “vera anima di ogni apostolato”, che è la carità. Un’altra volta, bisognerà dire che solo nell’eucarestia si comprende il valore teologale di ogni forma di carità, compresa la caritas pastoralis di cui parla Presbyterorum ordinis.
Nessuna carità umana può sostituire l’eucarestia: anche se dessi il mio corpo da bruciare a favore dei fratelli, prodigandomi senza sosta nel servizio; e anche se divenissi dolcezza e consolazione all’interno di una comunità tutta dolce e consolata, non per questo io realizzerei quella solidarietà nell’unico corpo che non può che essere quello di Gesù.
Non è la forza della nostra carità che consacra – cioè fa avvenire – l’eucarestia. È Gesù che facendosi nostra pane ci consacra nella sua carità.
D’altra parte, senza la nostra carità, la realtà eucaristica non perdurerebbe oltre il rito. Non serve a nulla il sacramento che non produce realtà, perchè è nella res sacramenti – nella verità dell’esistenza trasformata – che si attua il piano di Dio.
Simone Weil era sconvolta al dover constatare come Dio stesso si auto-limiti per far spazio all’uomo. L’azione di Dio sommata all’azione dell’uomo – osservava – non dà un risultato accresciuto, dà un risultato diminuito; è più una sottrazione che un’addizione. Eppure, supposto il piano creativo, la gloria del sommo Dio si realizza attraverso la debolezza umana: perchè l’amore di Dio è umile fino all’estremo del rispetto.
In modo analogo anche Gesù si auto-limita: egli certamente resta la presenza attiva che incentiva tutto il crescere del Corpo fino alla sua pienezza; ma non lo fa senza trasferirsi e in certo modo insediarsi nella nostra carità. Non si può comprendere la verità ontologica del Corpo mistico, senza credere anche alla sua verità caritativa: «Rimanete nel mio amore», comanda Gesù, così come io rimango nell’amore del Padre. Non meno di una quindicina di volte il Vangelo di Giovanni adopera il verbo “manere” per indicare questo reciproco insediarsi l’uno nell’altro, perfetti nell’unità.
Un’altra volta occorre lamentare l’interpretazione soltanto ontologica – e non soltanto attiva, operosa – della teologia giovannea. Sembrerebbe che, una volta stabiliti nell’amore che è Gesù in noi, si sia arrivati alla perfezione ultimativa, oltre la quale non ci sarebbero sbocchi per creare dell’altro.
Al contrario la comunione è certamente una realtà data ma, insieme, è un realtà tutta da farsi. La formula agostiniana con cui in certe chiese, per un certo tempo, si distribuiva la comunione, non potrebbe essere più eloquente: Ricevi ciò che sei. Diventa quello che già possiedi. Esercita attivamente la comunione, datti da fare, metti in opera quel Gesù che ti ha trasformato in lui: perché, se la comunione è potenza, non può continuare a essere senza l'esercizio attivo della comunionalità solidale con il prossimo.
«Fate questo in memoria di me»: ci si rifletta e si converrà che è questo il vero precetto eucaristico, quello che ci autorizza a continuare noi ciò che Gesù ha fatto per primo: non tanto il rito della cena, quanto l'offerta della vita.
E ancora adesso, quello che Gesù non smette di fare è di donarsi tutte le volte da capo, ogni volta che si attua in noi un sacramento.
Non bisogna esitare nel dire che egli non solo si dona, ma anche ci riceve. Noi ci diamo a lui in comunione. Egli si adempie accettando in sè la nostra vita. È questo che ci permette di pensare la redenzione - che è sicuramente già tutta data, interamente versata - come un fatto che tuttavia è capace di attuarsi di continuo, nella verità del tempo, dello spazio, degli impegni, delle vicissitudini. Per questo l'eucaristia non è mai finita, fino a tanto che i secoli non saranno consumati.
Ma ci tocca andare ancora più avanti: Gesù dona in comunione agli altri se stesso, ma, agli altri, dona anche noi, se facciamo comunione con lui. Quel pane eucaristico - annota il Martelet - è il corpo di Gesù, ma è anche il mio corpo: così che - una volta entrato nella solidarietà eucaristica - io stesso sono dato e mi dono in comunione.
In proposito Fulgenzio di Ruspe ha un lampo di splendida genialità: «Con il dono della carità ci è conferito d’essere (anche noi) in verità ciò che misticamente celebriamo nel sacrificio». E il discepolo di Agostino spiega ampiamente che quello che fa Gesù nel sacrificio eucaristico, lo possiamo fare anche noi: anche noi divenuti sacrificio, dunque anche noi dati in comunione: e questo non solo alla maniera mistica incontrollabile, ma anche nell'esplicazione attiva della nostra esistenza.
Questa è solo la metà della verità: l'altra metà consiste nella certezza che la comunione sta nel ricevere la vita degli altri, insieme a quella di Gesù. Loro sono pane per me. Vivo non senza il loro servizio, se è il loro servizio che mi dà la partecipazione all’unico corpo di Cristo...cosa che sarà anche meglio esplicitata quando, più avanti, si rifletterà sulla forza cristica e cristificante dei ministeri.
Per il momento, converrà insistere ancora sulla carità come attuazione efficace della res dell’eucarestia.
La teologia della liberazione ha spinto forse troppo verso l’eucaristia come simbolo dell'impegno, tanto da sembrare che l'impegno fosse già eucaristia: ed è vero, a patto però che si affermi con più forza che senza l’eucaristia non può darsi forma caritativa sacramentalmente efficace.
In compenso. la consuetudine europea continua a insistere troppo sulla celebrazione liturgica, e liscia la carità sullo sfondo, come possibilità di semplice applicazione etico-ascetica.
Bisognerà concentrarsi infinitamente di più sulla lavanda dei piedi perché qui è la sostanza eucaristica definitiva. La res del sacramento infatti, non è solo il corpo mistico come si continua a insegnare, ma è il corpo mistico in quanto persona attiva che fa servizio, e servizio umile in riconoscimento della presenza eucaristica nell'altro. Finchè siamo nel tempo della storia, l'ontologia si realizza nell'effettiva capacità di operare, così da dare corpo al Corpo perchè non si immagini che, per essere eucaristici, occorra uscire dalla corposità operosa del servizio.
Il servizio della comunione
C'è una concezione per lo meno mutila della comunione dei santi: quella di immaginare uno scambio in certa misura automatico dei "meriti", così come per pura forza di inerzia i vasi comunicanti allineano alla stessa altezza il livello del liquido che li riempie.
E invece la comunione dei santi è anche - e per certi aspetti prima di tutto - comunione di ministeri, tutti visibilissimi e sperimentabili.
È falso immaginare che tutti i servizi siano eguali, purché ci sia la carità; e che tutti i ministeri contino per l'amore che contengono. e non anche per la specificità del servizio prestato.
La nostra non è una comunione di uguali: c'è la fraternità, ma c’è anche la paternità, e, in casi precisi, anche la sponsalità. Ciò che viene dal padre o dallo sposo non è mai la stessa cosa di ciò che viene dal fratello: il «Dio che agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6) ha voluto che il suo Cristo stabilisse «alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo» (Ef 11-12)
Naturalmente sono i ministeri ordinati che comportano uno specificità che è decisiva per la struttura stessa del Corpo; quelli istituiti (e quelli di fatto) variano secondo il variare delle esigenze cui rispondono. Ciò che conta è il convincimento di fede che sia negli uni che negli altri, ogni volta che si agisce nel nome di Gesù, Gesù continua a darsi in comunione.
Questo comporta una prima convinzione di fede, di grandissimo valore: ogni volta che esercito il ministero per cui sono posto, io faccio reale azione eucaristica, Faccio “epiclesi” sui fratelli, do il corpo di Cristo...e insieme do il mio corpo. Per Paolo era indubitabile che l’eucaristia si adempisse non senza quel “culto” (o liturgia) che è l’apostolato (cf. Rm 1,9; soprattutto Ef 4,11-13). Alla maniera di Cristo – e insieme a lui – osa affermare di essere anche lui libagione per il santo sacrificio (Fil 2,17; 2Tm 4,6).
Ma c’è una seconda convinzione, a cui, in particolare i preti, siamo poco abituati: ed è la coscienza che insieme a Gesù, riceviamo gli altri in comunione; e questo ogni volta che essi esercitano un ministero con l’energia ricevuta da Dio (1Pt 4,11). Il ministro in atto – sia ordinato che istituito o di fatto – può santificarmi, con la forza del Corpo di cui è membro attivo. Il suo servizio è un’epiclesi al concreto, che mi “eucaristizza” progressivamente. Convertirsi alla comunione comporta anche tanta fede quanta ne occorre per non dimenticare che Gesù mi contatta tramite l’intervento santificante del fratello che fa corpo con lui.
È per poca abitudine a pensare eucaristicamente – cioè comunionalmente – che ci si trova imbarazzati di fronte alle molteplici presenze con cui Gesù ci attiva. Sappiamo che Gesù è presente nella sua parola, nelle varie celebrazioni liturgiche, nei poveri, e infine quando due o tre sono insieme nel suo nome. Intanto, occorre ricordare che nessuno di questi ambiti è mediatore di Gesù, se non in forza dell’eucaristia data o ricevuta. Gesù non dispensa mai dall’eucaristia, perché è lì che egli si è consegnato una volta per tutte. E inoltre nessuno di questi ambiti è separabile dagli altri, perché tutti sono necessari per creare l’unico Corpo che esse attivano cristianamente.
Comunque, si entra nell’universo mentale eucaristico quando ci si rende conto che Gesù, in forza della sua eucaristia, continua a farci eucaristia tramite il servizio dei fratelli e ai fratelli: è nella concretezza dei molteplici servizi, in tutti i loro aspetti, che si adempie la realtà eucaristica.
Eucaristia e missione
Questi ultimi accenni aprono obbligatoriamente alla missione verso il mondo non ancora credente: perché è per la vita del mondo che Gesù si è consacrato.
Una comunità che si chiudesse nella propria beatitudine cristiana, celebrando una carità eucaristica che non sia, per forza di cose, anche carità sacrificale a favore di chi non fa ancora della chiesa, mutua la verità del sacramento.
Prima ancora che sia il singolo a dedicarsi ai lontani, quasi uscendo dalla comunità e andando come Gesù «fuori dell’accampamento» (Eb 13,12), è la comunità in quanto tale a non avere altro scopo che quello della dedizione all’altro.
Non basta aprirsi all’ospitalità ecclesiale, così da lasciare entrare quelli che sono fuori, invitandoli anzi al convito; in altre parole: non basta fare proselitismo per allargare le nostre tende. Quanti sono già nella tenda non hanno altro impegno che quello di uscire loro verso gli altri, prima di chiedere che gli altri vengano a noi. È così che dobbiamo imparare e volere la totalità della salvezza per tutti.
Sarebbe assurdo affermare, con questo, che tutti debbano andare a servire l’incredulo o il pagano. Le vocazioni interne alla chiesa continueranno probabilmente a prevalere sempre, rispetto a quelle cosiddette missionarie. E però anche chi serve nella sua piccola postazione – anche la vecchietta che stira la biancheria della chiesa o dice il suo rosario – dovrebbe imparare a pensarsi in vista della totalità. Quella vecchietta non è un pezzettino del tutto, non è la classica povera goccia nell’oceano: se è parte del corpo di Cristo, è dedicata come Cristo non meno che alla salvezza di tutti gli uomini, anche se non lo sa. Ma dovrà imparare a saperlo.
Se pensassimo l’eucaristia solo in termini di interiorità ecclesiale, faremmo cessare la verità stessa dell’eucaristia, che è il sacrificio con cui Cristo ricapitola ogni cosa per offrirla al Padre. No meno di Gesù, la chiesa deve versarsi per gli altri: in caso contrario, ci sarebbe contraddizione all’interno dell’unica eucaristia, con Gesù che si offre per tutti e la comunità che si appaga di se stessa. Mai rompere la solidarietà con i fratelli, anche quando sono peccatori: davanti a Dio e per volontà di Dio, noi dobbiamo stare dalla loro parte – come Gesù – per difenderli “dall’ira di Dio” col nostro stesso corpo.
Non resta, allora, che applicare: tutte e singole le comunità cristiane sono lealmente eucaristiche se, nel loro quotidiano concreto, hanno iniziative davvero “estroverse”, centrate cioè su servizi tangibile agli “altri”.
Un’ultima considerazione: queste cose non vano pensate solo per dirle agli altri (che è il servizio tipico del predicatore, che si proietta sempre verso l’insegnamento). Dovremmo cominciare noi a guardare gli operatori cristiani come santi che “mi” impongono le mani, “mi” consacrano, “mi” mettono in grado d’essere a mia volta comunione. Ne deriverebbe subito un capovolgimento di prospettive pastorali che risulterebbe convincente anche per rassicurare gli altri – i ministri istituiti o di fatto – che essi sono veramente azione del corpo mistico di Cristo.
(da Settimana, n. 39, 3 novembre 1996, pp. 8-9)