Quelli che furono convertiti dal Concilio.
E quelli che no
di Marco Ronconi
Recentemente, al convegno di presentazione per una mostra fotografica organizzata dall’Azione cattolica italiana sul Concilio ecumenico Vaticano II ho ascoltato con piacere la vicepresidente del settore giovani ragionare su come il Vaticano Il corra i rischio di diventare solo un mito per le nostre ultime generazioni. "Solo", perché la mitizzazione è una delle più pericolose riduzioni di quell'evento che ha prodotto una gamma di documenti ricchissimi e ha introdotto uno stile ecclesiale adeguatamente aggiornato (bisognerebbe dire «nuovo», ma evito l'aggettivo per non distrarre alcune anime giustamente sensibili). Tali tesori non vanno posti sotto una campana di vetro e ammirati, ma vanno fatti circolare, verificati e recepiti fino all'osso. Ascoltavo e condividevo.
Il tentativo di ricezione riduttiva che conosco meglio è quello che cerca di incastrare i protagonisti del Concilio in categorie sociologiche comprensibili, ma tuffo sommato inadeguate (destra-centro-sinistra...). E altrettanto vero però, che anche fare del Concilio un evento "mitico", significherebbe isolarlo dal presente, levandogli quella carica propositiva che è ancora lontana non solo dall'esaurirsi, ma forse anche dal manifestarsi in tutta la sua forza. Non mitizziamo, dunque. È difficile, a ben guardare, ma lo si può fare. Soprattutto, raccontiamo le storie tutte intere, senza paura, affrontando la fatica della loro complessità. Pretendiamo che ci vengano raccontate nella loro interezza.
Da tempo, discutendo e ascoltando di Vaticano II, io che ne ho letto solo sui libri, ho maturato l'idea che il dittico progressisti-conservatori (non) funziona esattamente come il dittico credenti-non credenti: a proposito di questa distinzione, ad esempio, il cardinale Martini rifletteva che «ogni credente dialoga con il non credente che è in lui» e proponeva perciò di ragionare abbandonando tale distinzione che non corrisponde alla realtà, preferendole invece la distinzione tra "pensanti" e "non pensanti . Non sono in grado di proporre un'analogia simile per inquadrare il Vaticano II, i suoi protagonisti e i suoi diversi modi di recepirlo, ma mi sembrerebbe una buona idea che qualcuno lo faccia. Qualcuno che, afferrando la mole di lavoro preziosissimo che gli storici stanno offrendo, dia vita a una tradizione rispettosa della complessità e dell'intelligenza di molti dei suoi protagonisti, da non ridurre, ma da conoscere per discernere e progettare.
Faccio un esempio con la storia del cardinale canadese Paul-Emile Léger Nato nel 1904, entrato in seminario a 12 anni, prete di una congregazione austera e rigorista, arcivescovo di Montreal a 46 anni, in occasione della porpora cardinalizia, si firma «principe della Chiesa» (dal linguaggio, sembra conservatore): grande oratore e predicatore radiofonico (atteggiamento progressista verso i mezzi di comunicazione?), si distingue nei primi anni di episcopato per la sensibilità verso le cause sociali dei malati e degli anziani (qui è difficile: conservatore o progressista?), nonché per una vigorosa campagna di moralizzazione contro l'alcool, le danze modeme, Elvis Presley, il cinema, il bingo e l'abbigliamento sulle spiagge (ok è conservatore). Nelle file dei prelati "tradizionalisti" si presenta al Concilio (anche se alcune sue affermazioni sui poteri da riconoscere ai laici mi sembrano "progressiste" ancora oggi...), dove fa parte di alcune delle commissioni più importanti. Come "esperto", si avvale però di A. Naud, per il quale parla il titolo del suo libro più celebre: Il magistero incerto. Al termine del Concilio, nel 1967, il cardinale Léger lascia Montreal per trasferirsi a Yaoundé, in Camerun, dove resta 12 anni dedicando energie e denaro alla cura dei lebbrosi. Apparentemente, un mito. Per evitare quanto dicevamo prima, tuttavia, basta continuare la storia fino in fondo. Il suo volontario trasferimento africano - che lascia tutti di stucco - non coincide infatti con un lieto fine. Léger incontrerà molti e difficili problemi con il clero locale, venendo costretto a un ulteriore ripensamento del suo modo di vivere l'aspetto missionario del cristianesimo, fino al ritorno in Canada.
Un'altra volta racconterò di come mi sia stupito a scoprire che è stato il cardinale Ottaviani a introdurre la prima volta frère Roger Schutz in Vaticano, o rievocherò la "conversione" del cardinale Parente che, da esponente della minoranza curiale si ritrovò nel postconcilio a difendere vigorosamente la dottrina della collegialità episcopale, avendo riconosciuto il valore degli studi del giovane prof. Alberigo ed essendo rimasto colpito dagli interventi di alcuni confratelli, come l'allora ausiliare di Bologna, monsignor Luigi Bettazzi. Per ora penso basti ricordare che «ognuno può dire che il Concilio non è stato niente per lui, se non l'ha convertito, se non gli ha cambiato la vita, se non gli ha risvegliato responsabilità sino ad allora insospettate o troppo neglette» (cardinal Paul-Emile Léger).
(da Jesus, gennaio 2006)