In ricordo di P. Franco

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I due miracoli dei pani
François Brossier *



Un lettore attento del Vangelo di Marco rimane un poco sorpreso di scoprire al capitolo 8 un secondo racconto della "moltiplicazione dei pani". Si tratta di un miracolo diverso da quello riferito al capitolo 6 oppure è lo stesso raccontato una seconda volta? Preferiamo porre la questione in modo diverso: nella dinamica dell’opera dì Marco che significato hanno questi due racconti? Le differenze tra i due, per quanto piccole, non potrebbero rivelare il ruolo di ognuno dei due racconti nel quadro di questo Vangelo?


Dopo la prima parte del ministero di Gesù in Galilea (Mc 1,14-6,13), si pone per le folle la questione dell'identità di Gesù: chi è quest'uomo che insegna con tanta autorità e compie simili miracoli? Si apre a questo punto, dopo l'intermezzo della morte del Battista, quella che si potrebbe chiamare "la sezione dei pani" (6,30-8,21).


Il contesto letterario dei due miracoli dei pani


La struttura di questa sezione è chiara: una prima parte narrativa è centrata sulla prima moltiplicazione dei pani; la seconda parte discorsiva tratta del puro e dell'impuro; una terza parte narrativa è centrata sulla seconda moltiplicazione dei pani.


Uno stesso tema percorre tutta questa sezione, il tema dell'incomprensione dei discepoli; essa concerne precisamente il senso del miracolo dei pani. È dunque molto probabile che i due miracoli pongano la questione dell'identità di Gesù e del senso della sua missione.


Il primo miracolo sulla riva occidentale


Il primo racconto ha per quadro la riva occidentale, cioè la riva ebraica. L'azione di Gesù viene narrata secondo la lirica dei racconti veterotestamentari: la raccolta provvidenziale della manna e delle quaglie nel deserto (Es 16 e Nm 11)e la moltiplicazione dei pani compiuta dal profeta Eliseo (2 Re 4,42-48). In un primo tempo, è chiaro che viene stabilita una parentela di Gesù con le grandi figure dell'Antico Testamento, Mosè ed Eliseo. Tuttavia è altrettanto evidente che il racconto di Marco possiede una incontestabile tonalità eucaristica (6, 41).


Il ruolo dei discepoli che sono associati alla distribuzione del pane e il numero di 12 panieri orientano verso la vita della Chiesa primitiva che celebrava la Cena in memoria del Signore. Quale che sia la natura del miracolo operato da Gesù, è chiaro che esso si riproduce ormai ogni volta che i cristiani celebrano la frazione del pane in memoria di lui: il pane eucaristico è offerto in sovrabbondanza a tutti i credenti.


* Professore presso l’Institut Catholique di Parigi



Il secondo miracolo in territorio pagano


Abbiamo detto che molti elementi sono comuni ai due racconti, in particolare la tonalità eucaristica (8,6) Appaiono tuttavia due differenze fondamentali: da un lato il racconto si attua sull’altra riva, in territorio pagano: inoltre insiste ripetutamente sul numero 7 (7 pani e 7 cesti). Il contesto pagano è sottolineato, nel capitolo precedente, nell’episodio della donna siro-fenicia e nella menzione di Tiro, di Sidone e della Decapoli.


Quanto al numero 7 in questo contesto delle nazioni pagane, esso non deve essere estraneo al numero delle 70 nazioni che si supponeva esistessero nel mondo. Infine, il numero di 7 cesti che corrisponde ai 12 nel primo racconto, presuppone una struttura comunitaria diversa da quella evocata dal numero 12. Noi vediamo comparire questa struttura dei "sette" in Atti 6,1-7 dove indica il numero degli "Ellenisti" incaricati del servizio delle tavole, carica esercitata in precedenza dai Dodici. Gli "Ellenisti", come indica il loro nome, sono di lingua greca e saranno i primi missionari al di fuori di Gerusalemme.


La funzione dei due racconti nel vangelo di Marco


Ci troviamo dunque in presenza di due racconti di un pasto di tono eucaristico: uno in un mondo ebraico, l'altro in un mondo pagano. Per i cristiani la lezione è chiara: Gesù è venuto a portare il pane di vita a tutti gli uomini e non soltanto al popolo ebraico. Non solo i pagani possono godere delle briciole che cadono dalla tavola (7,28), ma possono partecipare in piena uguaglianza al banchetto eucaristico.


Resta tuttavia una grave questione che agiterà i primi anni della Chiesa: è possibile una vera comunità di tavola tra Ebrei e pagani? (cf Atti 10,9-16; l5,l-29 Gai 2,11-12). L'ostacolo deriva dai tabù alimentari i degli Ebrei. Ora, proprio tra i due racconti, è collocata la discussione tra Gesù e i farisei sul puro e l'impuro; Gesù dichiara: "Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo..?" (7,15). Così viene tolto l'ostacolo per una vera comunione di tavola.


La struttura di questa sezione del Vangelo di Marco appare dunque densa di significato con i suoi due pasti separati dalla discussione sul puro e l'impuro. Alla fine del Vangelo (16,7), l'angelo della tomba vuota rimanda i discepoli in Galilea. È là che effettivamente scopriranno ciò che il Risorto attende da loro. In particolare, nel passo che ci interessa, scopriranno che la missione presso i pagani non à una iniziativa dei primi missionari cristiani: la Galilea ha posto Gesù direttamente alla presenza di pagani; è dunque nel ministero di Gesù che affonda le sue radici la missione presso le nazioni pagane.


(tratto da Il mondo della bibbia n. 21)

Il desiderio di Dio
I salmi 42-43
di Sr. Germana Strola o.c.s.o.


Nella sua Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, concludendo la celebrazione del Giubileo del 2000 e dando inizio al Terzo Millennio, il Santo Padre invitava la Chiesa a prendere il largo (Due in altum) nella sequela del Signore Gesù. Una delle sottolineature maggiori di questo documento, come è stato più volte messo in risalto, verte sul primato della contemplazione del volto di Cristo (Cap. II-III), la prospettiva della santità (§ 30-31) e il primato della preghiera, nella vita cristiana (§ 32-34). E come esemplificazione concreta di questa direttiva pastorale, Giovanni Paolo II intraprendeva, nelle sue catechesi del mercoledì, un vero e proprio commentario esegetico-esistenziale al salterio. Facendo tesoro di queste indicazioni autorevoli, sembra quanto mai opportuno riprendere alcuni testi salmici, che si rivelano più vicini alla nostra vocazione monastica, chiamata a vivere interamente nella preghiera, cioè nel desiderio di Dio.


I Sal 42-43 (41-42) sono, insieme ad altri (Sal 26, 62, 84, ecc.) i più significativi a questo riguardo. Il sapiente commento del Papa a questi due salmi è stato oggetto della catechesi di mercoledì 6 febbraio 2002. (1)


L'immagine della cerva che anela ai corsi dacqua ha reso celebre questa bella pagina di lirica religiosa, ma non è facile comprendere in quale senso essa esprima il tema fondamentale del salmo, che celebra il desiderio di Dio come aspirazione alla comunione con Lui, nella celebrazione liturgica del Tempio. Come altre composizioni della stessa raccolta – dei figli di ore, Sal 42-49.84-85 e 87-88 - anche i Sal 42-43 celebrano, sotto una particolare angolatura, la centralità del Tempio di Gerusalemme nella religiosità ebraica e il fascino della sua liturgia. Composti in una situazione di esilio, essi riflettono l'esperienza umano-spirituale di colui che ha perso i beni più cari - Dio, la terra, e tutte le mediazioni di salvezza - ma li recupera nella speranza, cioè nella certezza di fede che Dio ricondurrà il suo popolo all'incontro con il Suo volto.


Mentre i salmi di pellegrinaggio al monte di Sion hanno come dimensione strutturante il rapporto distanza-presenza - il movimento del pellegrino parte da un luogo geograficamente distante dal Santuario, proteso verso l'incontro attraverso il percorso di un itinerario fisico e spirituale. - La dinamica del salmo 42-43 è invece la polarità assenza-presenza. L'esperienza della distanza, del vuoto, appare infatti come una componente particolare della dinamica del desiderio e si rivela una espressione come al negativo - attraverso la percezione della carenza - del richiamo all'incontro con la Presenza.


A livello di composizione letteraria, la sequenza si suddivide in tre parti quasi uguali, grazie alla ripetizione di un ritornello (42, 6.12; 43, 6). Altre riprese minori di termini o locuzioni intermedie collegano la prima e la seconda parte (vv. 4b e 11b, la sfida dei nemici), o la seconda e la terza (vv. 10b; 43, 2b, lamento e questionamento di Dio). Il ritorno costante degli stessi temi e delle stesse immagini non è solo un artificio letterario esterno che conferisce unità allo sviluppo dell'insieme, ma evidenzia soprattutto alcuni elementi fondamentali del messaggio religioso. Il desiderio di Dio si intreccia con la speranza, la fiducia, l'autoesortazione, nell'alternanza emotiva del sentimento spirituale, e deve fare i conti con la conflittualità esterna-interna, la contraddizione, ecc.


Due metafore dominano il poema; quella dell'acqua viva, immagine della vita, in apertura del salmo, e quella dell'acqua travolgente della prova immagine della morte, nella seconda strofa. La prima pennellata che apre Sal 42, 2 non è quindi un quadro idillico e sereno - come spesso siamo portati a credere anche ricordando le bellissime raffigurazioni dei mosaici protocristiani e bizantini (2) - quanto una evocazione che già in se stessa è altamente drammatica. La sete, infatti, è indissolubilmente associata, nella Bibbia, alla minaccia della morte, ma è anche l'ambito esperienziale in cui Dio salva, con l'acqua che sgorga dalla roccia, nel deserto.


Poeticamente, le immagini della cerva assetata del Sal 42 e della rondine che volteggia negli atri del Tempio del Sal 84, sono affini, espressione del desiderio come di una forza esistenziale iscritta nella natura della persona, che supera la sua dimensione strettamente razionale. La cerva in particolare, accompagna nella Bibbia nel Cantico dei Cantici e nei Proverbi, la descrizione dell'amore umano o, altrove, in Giobbe e nei Salmi, l'allusione alle tappe fondamentali dell’esistenza (la procreazione, i piccoli, ecc). Secondo l'esegesi rabbinica tradizionale, può essere letta soprattutto come immagine della sposa, di Israele. L'acqua è vita in un paesaggio assolato: la ricerca di Dio si colora di una evocazione primaria, fondamentale per l'esistenza. E’ questo il punto di partenza del salmo.


Ma all'inizio della seconda parte, il precipitare vorticoso e il fragore delle cataratte di abisso in abisso danno all'acqua un significato opposto; quello dell'evocazione della morte. Il paesaggio esteriore diviene di nuovo specchio, simbolo dell'esperienza interiore dell'orante, non solo quindi evocazione in positivo dell'attrazione verso Dio, ma, come in negativo, rappresentazione della sua angoscia mortale per l'allontanamento dalla sorgente della Vita. Le rocce montagnose dell'Hermon dove l'orante colloca il suo esilio - in località ignote, non meglio precisabili, da leggere probabilmente in chiave simbolica - fanno da sfondo alla metafora del vortice tumultuoso della prova. Gli estremi confini del Nord, indicano essenzialmente la lontananza dal centro vitale (il Tempio di Gerusalemme, da cui sgorga la fonte di Dio, le cui acque scorrono nel silenzio). Senza particella comparativa, il quadro geografico, insieme al vigore sonoro del verso originale, è di una forza espressiva abbastanza rara e fa da contrappunto al ritmo classico delle lamentazioni che percorre i due salmi.


La simbologia che collega le acque impetuose con la morte ricorre con frequenza nelle suppliche ispirate da malattie o angosce mortali (3) e per questo forse evoca essenzialmente, nel Sal 42, 8, l'annegamento che riconduce al caos primordiale. Al di là di una interpretazione realistica, bisogna sottolineare che l'orante, alla ricerca di acqua per la sua sete, la trova: ma non come acqua di salvezza, bensì come acqua di distruzione. Dio, che è per lui principio di vita, diventa inspiegabilmente causa della sua morte: "Dio è Colui che fa la ferita e la fascia, che dà la morte e la vita" (Sal 42, 10 e 43, 2); è Lui che tiene in mano le sorti della vita dell'uomo e che ne determina il cammino (4).


Come in controluce, in uno sfondo in cui si sovrappongono metafore ambivalenti, il dialogo dell'orante con se stesso, descritto nelle ripetizioni del ritornello è soprattutto espressione del suo travaglio interiore che si interroga sull'esperienza sconcertante a cui si trova esposto. Nella sua forzata solitudine e nel turbinio di una tentazione che sembra travolgerlo - per la sua fede, sono un tutt'uno la lontananza da Dio e dalla terra santa, dal tempio e dalla comunione con il Signore presente in essa. - Il salmista percepisce che le onde e i flutti che lo avvolgono sono in definitiva onde e flutti che vengono da Dio, voluti da Dio: una parola di giudizio (Dio di difesa e di fortezza... mi hai dimenticato... mi hai respinto). La prova, più a fondo, non è l'esilio, la perdita delle mediazioni storiche dell'alleanza, ma ciò che queste significano: l'apparente impotenza di un Dio che non lo salva (dov’è il tuo Dio?), la contraddizione stessa di un Dio Amante e Creatore, che sembra essere divenuto nemico della sua persona.


Lo sfogo dell'amarezza assume i toni di un abbattimento tutto ripiegato all'interno (non è uno sfogo davanti a Dio) (5); sembra, tuttavia, dalle immagini descritte in Sal 42, 5, che l'identificazione tra desiderio di Dio e lo splendore della celebrazione sia ancora troppo piatta e materialistica (quasi che l'orante confonda ancora la gratificazione emozionale procurata dalla celebrazione antica, con l'autenticità dell'incontro con il Dio Vivente). Prevale forse la nostalgia della festa (sonus epulantis!) sul suo significato propriamente religioso. Così, il ritornello maggiore descrive l'abbattimento, il lamentarsi su se stesso, pur aprendo già verso dimensioni di speranza la lode, la salvezza donata dalla presenza di Dio, il voto di rendimento di grazie. Tuttavia, nostalgia e scoraggiamento diventano l'occasione per una riscoperta della fiducia e della certezza interiore.


Se Dio fa sentire dolorosamente la sua assenza, questa diviene stimolo e occasione di crescita, proprio al cuore della prova. Il modo in cui Dio è presente, ora, non è più lo splendore del culto, ma - precisamente - la dolorosa percezione della sua assenza e il rimpianto. Se l'assenza non provasse duramente la fede, non procurerebbe dolore; ma quando fa soffrire, la stessa assenza rende colui che è Assente presente nell'intimo, proprio con la sua lontananza. Il ripiegamento interiore trova spazi di salvezza quando si apre, ripercorrendo nella memoria la gioia della festa e la memoria di Dio presente in essa. Il modo in cui Dio riemerge come certezza interiore dell'orante non è più lo splendore della liturgia, ma la forza del desiderio, di cui Egli è misteriosamente il principio. Anche le sfide dei nemici acuiscono la sofferenza dell'allontanamento e approfondiscono la nostalgia. In riferimento ad esse, la metafora della sete di Dio viene rovesciata nell'immagine del pane di lacrime, nell'inghiottire lacrime amare. L'orante, invece di poter estinguere la sua sete di Dio, deve portare le sfide beffarde dei nemici, che lo provocano all'ateismo. Al cuore della sua cattività, Dio si rivela come il Signore dell'esistenza e significato del suo misterioso svolgersi nel tempo. Si direbbe che Dio si comunica più intensamente attraverso il suo essere lontano.


Le coordinate del tempo e detto spazio emergono in tal modo in questi due salmi, come le dimensioni strutturanti del desiderio. La lettura della prima e della terza strofa orientano chiaramente verso l'incontro con il Dio vivente, che si rende presente nel culto: ad esempio, in Sal 42, 5 viene descritto impressionisticamente il pellegrinaggio verso la casa di Dio, nel giubilo e nella lode, nell'esultanza della festa; nel Salmo 43, 3-4 il testo poetico delinea a grandi tratti il Monte Santo, la dimora, l'altare, la festa del rendimento di grazie. La prima strofa ricorda nostalgicamente un passato già remoto e impossibile da recuperare; mentre la terza desidera e spera un futuro già percepito come ormai prossimo. E la seconda strofa? La situazione presente, la prova, media tra l'esperienza del passato e l'anticipazione del futuro. Se oggi si levano davanti agli occhi la visione delle montagne dell'esilio (opposte al Monte Santo), le sfide e gli schemi dei nemici, il tumultuare fragoroso delle cascate, la dinamica del desiderio si protende tanto più intensamente dal passato verso il futuro. Al centro della seconda strofa (Sal 42, 9), la supplica e il canto al Dio della vita, che continuano ad accompagnare il salmista, di giorno e di notte, aprono la fonte della speranza, pur nell'incessante scorrere delle lacrime. Nell'oggi di un nuovo diluvio (Sal 42, 8), dal travaglio della memoria che si ripiega nostalgicamente sul passato (Sal 42, 5), si riaccende la speranza che rilancia verso il futuro (Sal 42, 6). Dai confini della terra (Sal 42, 7), la forza del desiderio si protende verso il centro del mondo, il luogo della Presenza, e anticipa le immagini dell'esaudimento della preghiera (Sal 43,3-4). Viene in tal modo descritta una trasformazione interiore, nel passaggio dalla prima alla terza strofa, proprio in forza della continuità della preghiera di fede, che invoca grazia (Sal 42, 9), nel crogiolo della prova.


Nell'intimo dell'orante, la voce di Dio emerge dapprima sotto forma di sete, e quindi nella certezza che ispira l'autoesortazione a permanere, fedelmente nell'attesa. Dio gli si dona nell'anelito del suo desiderio, nella scintilla interiore che accende il dono della preghiera (come dice Sant'Agostino; non potresti desiderare se già non ti fisse dato in qualche modo Colui che tu desideri). Già nel travaglio interiore, nel confluire della memoria, della nostalgia e della speranza, agiscono nell'orante la fedeltà, la verità e la luce di Dio. Il suo dialogo interiore lo conduce come per mano. Secondo tale dinamismo, il ritornello cambia di volta in volta risonanza e tonalità. Infatti alla fine della prima strofa è voce timida e soffocata, alla seconda è affermazione e rimprovero e nella terza professione sicura della fede. La soluzione della prova avviene quando, anche nel movimento alterno del suo mondo emotivo, l'orante recupera la certezza che Dio invia grazia, verità e luce (Sal 25, 21), e difende la causa dell'oppresso (Sal 79; 26, 1 35, 24). La fiducia e la speranza permettono di intravedere e di gustare in anticipo il compimento del desiderio: il ritorno al monte santo, al tempio, all'altare, la gioia della Presenza: Mio Signore e mio Dio! Pur restando ancora lontano, nell'alternanza di scoraggiamento e autoesortazione (Sal 43,5), si dilata un orizzonte di comunione piena nella presenza reciproca con Dio.


L'affermazione centrale che quindi soggiace all'intero svolgimento della sequenza, mette in risalto che il Dio Vivente, principio fondamentale dell'esistenza dell'Antico Israele, è presente, secondo la teologia tradizionale, nel dono che egli fa di se stesso nella Liturgia del tempio. All'immagine della sete - istinto primario per l'autoconservazione - si sovrappone il desiderio della visione del Volto, espressione più classica nell'Antico Testamento per significare la pienezza della comunione (cf Es 33, 14) Secondo il contesto, il desiderio di vedere il volto di Dio significa essere protesi verso l'incontro con la sua Presenza, nella comunione vivificante percepita nello splendore del culto.


Il fondo della prova è raggiunto – ma anche risolto - quando l'orante intravede e raggiunge orizzonti di abbandono, di gratuità e di fiducia, proprio nella contraddizione della fede. Anche nella morte, Dio è il Dio della vita, della luce, della verità e della grazia. Le lacrime inghiottite di giorno e di notte diventano supplica, domanda di grazia, riconoscimento che la prova misteriosa viene da Dio, ma che Egli ci può salvare proprio da essa. Dio è l'autore della vita e della morte, e proprio nella morte - come rivela pienamente la Pasqua di Cristo - si rivela come il Signore della gratuità, della risurrezione, del dono originario, preveniente e gratuito, del vivere.


Ma come leggete questa pagina salmica alla luce del compimento delle Scritture, la morte e la risurrezione di Gesù? Come assumere in dimensione cristiana la dinamica del desiderio, nella sua dialettica di assenza e presenza? Si potrebbe rispondere a diversi livelli, e tentiamo qui di abbozzare solo alcune prospettive interpretative.


Nel Nuovo Testamento, il significato che il Tempio assumeva nell'Antico Testamento riceve una particolare forza e pienezza cristologica, ecclesiologica ed escatologica. Il Padre si è donato, si è rivelato definitivamente a noi nella persona di Cristo, In Lui, via, verità e vita, è possibile adorare il Padre, nello Spirito. La presenza di Dio in Gesù Cristo, secondo l'insegnamento del Vangelo (Mt 18, 20), si dà a noi in molteplici forme (cf SC 7) E tuttavia Dio non è a nostra disposizione: l'incontro con Lui non è automatico né direttamente alla portata dei sensi, né si può dare per scontato, quando lo vorrebbero le nostre pretese emotive.


Nella crescita della fede, i tempi di assenza si alternano alla gioia dei momenti della presenza, secondo una sapiente pedagogia che purifica, accresce e affina il desiderio di comunione. L'assenza è una componente ineliminabile dell'esperienza del tempo presente. La polarità presenza-assenza è costitutiva, nella rivelazione dell'Essere (secondo la filosofia contemporanea). Dio è sempre più grande del nostro cuore ed anche la sua vicinanza permette solo di affacciarci a una insondabile e infinita profondità. Quanto più il Signore è presente, tanto più fa sentite la sua irraggiungibile assenza. Dio non resta un ricordo dell'emozione del passato: il suo avvicinarsi è venuta, presenza, ed è l'imminenza dell'ultimo "Incontro". I mistici di tutti i tempi, del resto, sono coloro che hanno più intensamente sperimentato ed espresso tale mistero.


La vita cristiana è di conseguenza interamente attraversata dal mistero del già e del non ancora, dell'anticipo della promessa già sperimentabile e della pienezza definitiva che ci descrive l'Apocalisse, usando proprio le immagini dei salmi 42 e 43. Dal trono di Dio scaturisce il fiume dell'acqua viva (Ap 22) a cui sono invitati ad attingere, gratuitamente, tutti coloro che hanno sete (Ap 22, 17; 21, 6). Lo stesso fiume costituisce il pieno fluire della fonte vitale che ha dischiuso per noi il costato di Cristo (Gv 7, 37; 19, 31-34). E solo nel pieno compimento dell'escatologia, il desiderio di vedere il Volto di Dio potrà essere definitivamente saziato (Ap 22, 4), perché Gesù è sempre vivo ad intercedere per noi, davanti al Volto del Padre (Eb 9, 24).


Il nostro pellegrinaggio nel tempo verso questi orizzonti definitivi resta sempre determinato dal mistero dell'abbandono del Figlio, che, proprio per aver attraversato la morte, ha aperto per tutti noi il miracolo della vita nuova, la sorgente che zampilla per la vita eterna (Gv 4). E’ molto significativo che il testo del Nuovo Testamento riprenda, per l'orazione di Gesù al Gethsemani, "l'anima mia è triste fino alla morte", proprio la versione greca di Sal 42, 6.12; 43, 5 e che il libro degli Atti alluda al Salmo 42, 8 quando dice, al cap. 3, 9; "Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte". Gesù ha assunto nella sua carne tutto il mistero umano - nella tensione estrema della presenza e della assenza: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato" - non risparmiando a noi di attraversarlo, ma conducendoci con lui attraverso di esso, nella fede e nella speranza della sua vittoria. La contraddizione, il limite e la morte restano per noi, suoi discepoli, il luogo dove si dispiega la potenza della Risurrezione, il sovrabbondante miracolo della gratuità, la pienezza dell'esultanza dell'incontro definitivo.


Note


1) Cf. L’Osservatore Romano di giovedì 7 febbraio 2002.


2) Cf. SANT’AGOSTINO: Corri alla fonte, aspira a questa sorgente viva (la Torah, lo Spirito). Non correvi tuttavia come un animale qualsiasi, ma con la rapidità prodigiosa e la leggerezza veloce del cervo...


3) Cf Gio 2, 4; Salm 88, 8, ecc.


4) Dt 43, 39b; 1 Sam 2, 6; Is 42, 8; Sap 16, 13; ecc.


5) Cf Sal 62, 9; 102, 1; 142, 3.

Le nozze di Cana
ALCUNE GLOSSE ANNOTATE AL MARGINE DEL TESTO (Gv 2, 1-11)
di Sr. Germana Strola o.c.s.o.


Il breve racconto del primo segno compiuto da Gesù alle nozze ai Cana assume nel Vangelo di Giovanni un grande rilievo sia come punto di arrivo dell'ingresso del Messia nella scena della storia dopo la costituzione della comunità dei discepoli (1,35-51), sia come inizio della sua vita pubblica, in dittico con la purificazione del Tempio (2,13-25). Il significato dell'episodio diviene più luminoso se questo viene situato all'interno nel disegno dell'intero Vangelo di Giovanni, che intende condurre alla fede in Cristo (2,11 cf 20,31). L’evangelista lo presenta infatti come l'inizio (arché, cf Gv 1,1) dei segni che nel tempo della storia manifestano la Sua gloria, attraverso la trasformazione dell'acqua (delle abluzioni dei Giudei, v. 6) nel vino messianico delle nozze escatologiche.


Il significato del festino delle nozze nell'AT e nel NT


Fin dall'inizio del Vangelo di Giovanni, non mancano allusioni, per quanto velate, alla dimensione nuziale della presenza del Verbo fatto carne. Giovanni Battista confessa di "non essere degno di sciogliere la cinghia del suo sandalo" (1,27 cf Rut 4,7-8), presentandosi come "l'amico dello Sposo" (3,29), che gioisce alla sua voce, dando testimonianza della prospettiva nuziale del Messia, "Colui che ha la sposa" (3,29). Nei profeti non mancano inoltre i testi che evocano l'era messianica nei termini di una festa di nozze come figura del ritorno in grazia, della pienezza di bene che Dio prepara per il suo popolo (Is 54,1-11; 62,4-5; cf. 1 Sam 2,5; Sal 113,9; Os 1,16-17; si veda anche Is 25, 6-8).

Il terzo giorno


Giovanni introduce l'episodio con la connotazione temporale "il terzo giorno" (Gv 2,1): inquadrando il racconto di conseguenza, con un riferimento implicito al grande segno compiuto nel terzo giorno della risurrezione (cf Os 6,1-2; Gl 2,1; 1 Cor 15,4; cf Lc 24,46; Gv 2,19). Ma nel terzo giorno si verificano molti eventi decisivi della storia di Israele, a partire dal terzo giorno della creazione (Gen 1,11-13): è il giorno del sacrificio di Isacco (Gen 22,4-8), il giorno che scandisce il ciclo di Giuseppe (Gen 42,18-19,24), il giorno del grande scisma tra Israele e Giuda (1 Re 12,12-13.19); il terzo giorno è soprattutto il momento in cui viene ratificata l'alleanza sinaica (Es 19,16), che nel giudaismo è stata interpretata in chiave escatologica e nuziale. Al Sinai, "il terzo giorno", il Signore rivelò la sua gloria dando la legge dell'alleanza a Mosè, affinché il popolo credesse anche in lui (Es 19,10.11.16). A Cana, "il terzo giorno", Gesù rivela la sua gloria dando il vino nuovo, simbolo del suo vangelo, che è la legge della nuova alleanza: allora i discepoli credettero in lui (Gv 2, 1-11).


Alla luce delle reminescenze bibliche del "terzo giorno", l'alleanza in chiave nuziale di Dio con l'uomo raggiunge nella persona di Gesù il suo punto culminante: il compimento escatologico si riallaccia all'origine.


Qui Giovanni introduce ex abrupto, senza nessuna preparazione, la figura di Maria: "La Madre di Gesù era là" (come ai piedi della croce, Gv 25-27). Nel contesto di queste nozze emerge in primo piano la relazione Madre-Figlio: si parla della Madre - quindi della fecondità dell'alleanza nuziale - prima che della Sposa, come se nell'alleanza di tipo nuziale, venisse simboleggiato in primo luogo l'effetto che ne deriva, cioè la menzione della presenza dei discepoli chiamati anch’essi alla partecipazione del festino nuziale.



Non hanno più vino


Nel momento in cui si svolge la celebrazione della festa di nozze, manca qualcosa di essenziale perché lo sposalizio sia completo: il vino. Ce n’era stato prima? Può darsi, ma non viene detto. In ogni caso, la funzione della Madre di Gesù, che opera simbolicamente il passaggio verso il compimento della nuova alleanza, consiste semplicemente nel dire con la sua parola la situazione a Gesù: Non hanno più vino.


Nella sua risposta, "Che cosa c’è per me e per te? Donna, non è ancora giunta la mia ora?" Gesù sembra, per così dire, prendere le distanze da sua Madre: segnalando un'alterità - tra un "lo" maschile e un "tu" femminile: è superato il tempo delle relazioni puramente familiari - Gesù invita sua Madre a situarsi con lui nella prospettiva della sua missione messianica, evidenziando anche un termine di tempo da rispettare: l'ora della piena rivelazione della gloria del Padre nel Figlio, nel mistero della Pasqua in un crescendo che tende verso il compimento.


Il titolo Donna (cf. Gen 2,23; Is 54,5) e la menzione dell'ora ritornerà nel dialogo fra Gesù e la Samaritana - Credimi, donna, viene un ora in cui né su questa montagna né in Gerusalemme adorerete il Padre - ma anche nell'incontro con Maria di Magdala, nel mattino di Pasqua (20,15), e soprattutto nell'affidamento di Giovanni a Maria, ai piedi della Croce (19,26-27), quando l'"ora" è veramente compiuta. Il titolo Donna non è quindi un'allusione alla donna del Protovangelo (Gen 3,15.20), ma un riferimento alla "figlia di Sion", quella fìgura femminile che nella tradizione biblico-giudaica simboleggiava Israele (cf. Os 1-3; Is 62,11; Zc 9,9).


Nell'ambito di questi richiami il tra il Sinai e Cana trova collocazione anche l'invito di Maria ai ministri (diakonoi) delle nozze: "Quanto egli vi dirà, fatelo" (v.5), una parola che sembra volutamente riprendere la dichiarazione di fede emessa da Israele al Sinai: "Quanto il Signore ha detto noi lo faremo" (Es 19.8; Ef 24,3.7). Giovanni pone sulle labbra della Vergine le parole che il popolo eletto pronunciò all'inizio della sua storia, significando implicitamente una identificazione tra la comunità di Israele e la Madre di Gesù. Nel linguaggio biblico-giudaico il popolo è rappresentato sovente sotto l'immagine di una "donna". Si può comprendere allora come Gesù, rivolgendosi alla Vergine, usi il termine "donna" (Gv 2,4). Sarebbe questa la versione giovannea del tema lucano di Maria "figlia di Sion". In termini più espliciti: Giovanni presenta nella Madre di Gesù la fede ideale di Israele giunta alla pienezza dei tempi


Le giare della purificazione dei Giudei


Con la menzione delle giare, al centro del racconto, emerge un elemento sconcertante nel contesto di un matrimonio: come se si cominciasse a condurre gli sposi al fonte battesimale. Giovanni ne precisa il numero e la capienza: sono sei, il numero della perfezione (sette, meno uno); la menzione della purificazione chiama in causa le antiche categorie della legge giudaica. La loro capienza è impressionante (se una metreta corrisponde a circa 40 litri, ed ognuna ne conteneva due o tre, avremmo in totale da 5 a 7 ettolitri di vino eccellente): una sovrabbondanza che in Giovanni sottolinea una delle caratteristiche del dono di Dio. Gesù ha bisogno delle giare e dell'acqua che esse contengono, cf l'acqua della creazione (Gen 1,6-10), del diluvio (Gen 6,17), del Mar Rosso e del Giordano, ma anche l'acqua che esce dal lato destro del Tempio (Ez 47) e l'acqua della nuova alleanza (Ez 36,25), ecc. per rivelarsi, nella sua persona, come il fondamento e il fine della creazione e della storia. Gesù raccoglie e trasforma tutti i riti di purificazione, portando ogni cosa al suo compimento (Mt 5,17).



Mescevano vino: il gesto miracoloso dell'obbedire


Raramente viene sottolineato un dettaglio significativo: Giovanni dice laconicamente che i "servi" (diakonoi) dopo aver riempito le giare fino all'orlo, nell'atto di mescere, versavano vino. L’evangelista non descrive quindi il segno miracoloso se non nel gesto obbediente dei ministri delle nozze, che compiono fedelmente l'ordine ricevuto. Gli addetti al servizio del banchetto di festa sono quindi i testimoni autorevoli di quanto si compie attraverso l'umile esecuzione del loro compito. La loro ministerialità diventa trasparenza credibile di quanto un Altro compie, attraverso di loro.


Felicitazione e conclusione del racconto


La conclusione che trae il maestro di tavola illumina la portata dell'avvenimento. Il vino buono è stato conservato fino ad ora. L'acqua divenuta vino riecheggia, dal punto di vista dell'espressione formale, l'annuncio del Prologo: la Parola divenuta carne. La trasformazione dell'acqua in vino prolunga e manifesta la realtà dell'Incarnazione, che continua a compiersi in noi.


La ricchezza dell'affermazione fino ad ora si rivela in tutta la sua profondità se viene collocata, di nuovo, sullo sfondo dell'Antico Testamento. Per i tempi messianici la voce profetica annunciava che in quel giorno le montagne stilleranno vino nuovo (Gl 4,18, Am 9,13-14). È ora presente la Sapienza che ha preparato il vino... e dice, "Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato a voi". (Pr 9,2.5).


Nel Cantico dei Cantici, il vino è il simbolo dominante dell'amore tra l'amata e l'amato.


Ora, al presente il vino buono è dato in misura sovrabbondante, significando che in Gesù si è inaugurata l'era escatologica. Nella persona dello "sposo" si intravede la presenza effettiva della Sposo.


Il "vino buono" conservato fino ad ora (v. 10) rappresenta la rivelazione messianica, "la grazia della verità" presente in Gesù (1,17) "il suo vangelo"; per mezzo del simbolismo delle nozze, egli si manifesta come lo Sposo della nuova comunità messianica (cf. anche 3,2 ss) È questa l'esegesi più diffusa nella tradizione antica.


Cana è quindi un simbolo della nuova alleanza. Questo simbolismo messianico, specificato in quello delle nozze messianiche, non vale solo per Gesù, ma anche per Maria. Nei loro gesti e nel loro dialogo, la Vergine e il Cristo, superando largamente i festeggiamenti locali, soppiantavano i giovani sposi di Cana per diventare lo sposo e la sposa spirituali del banchetto messianico.


Però Maria, la sposa, svolge qui anche una funzione materna: la sua esortazione ai "servitori" (cf 12,26: "servire" Gesù).


L'ultima parola di Maria nei vangeli, suscita in loro la perfetta docilità alla parola di Gesù (2,7s), il vero atteggiamento dei credenti, nell'alleanza nuova. Maria diventa così "Madre delle membra (di Cristo)".


E i discepoli credettero in lui


Il segno di Cana, secondo la lettura del testo, viene narrato come tale soprattutto dal punto di vista dei discepoli. Credere in Gesù significa vedere, udire, gustare ciò che avviene, come epifania della Sua gloria: penetrando il significato profondo della realtà, in cui si dispiega il miracolo di Dio, nell'oggi di Cristo.


 

Le nozze di Cana
in San Bernardo di Chiaravalle
di p. Giuseppe Brienza*, o. cist.



 


Il secondo mistero luminoso che ha per oggetto la contemplazione dell'episodio delle nozze di Cana, trova degli agganci in alcuni dei sermoni di Bernardo di Chiaravalle.


Mi riferisco a quello sulla prima domenica dopo l'ottava dell'Epifania, al sermone 54,12 sul Cantico dei Cantici e ai sermoni 55 e 56 pubblicati nell'edizione italiana delle opere sul santo 7(1). La riflessione proposta prenderà in considerazione i sermoni 55 e 56, i cui titoli rispettivi sono:


a) Le sei giare della purificazione,


b) Come riempire le giare mistiche con un triplice timore.


"Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili" (Gv 2-6).


Su questo breve versetto delle nozze di Cana, Bernardo incentra la sua meditazione, si attarda a modo di lectio divina sul testo sacro per poi applicarlo in concreto ad alcune osservanze della vita monastica cistercense.


Da premettere che la Vergine Maria, viene citata dall'Abate solo nel sermone 56, mentre sappiamo che a differenza degli altri misteri luminosi, Maria ha un ruolo importante, nella meditazione del secondo mistero. (2)


Evidentemente Bernardo è preoccupato di applicare l'allegoria spirituale ai monaci, più che tenere un discorso prettamente esegetico.


Tuttavia in quel breve inciso, a Maria viene attribuita una funzione importante, laddove dice:


"… i servi, ai quali tuttavia già Maria aveva suggerito per prima; "fatte tutto quello che vi dirà"; non devono arrogarsi il diritto di predicare senza prima essere istruiti dalla Madre della grazia, Maria". (3)


Le sei giare prese in esame da Bernardo, corrispondono ad altrettante osservanze monastiche, con le quali, i monaci, servi di Dio, come veri Giudei, dovranno purificare la loro vita.


Le osservanze menzionate in ordine di citazione sono:


· il silenzio,
· la salmodia,
· le veglie,
· il digiuno,
· il lavoro manuale,
· la purezza del corpo.


Nella giara del silenzio, il monaco dovrà purificarsi dai peccati che riguardano la loquacità, definita senza ombra di dubbio un vizio. Otto sono gli aggettivi negativi usati da Bernardo per indicare la loquacità. È la parola stolta, vana, bugiarda, inutile, ingannevole offensiva, impudica, sempre in cerca di scuse.


L'immagine che evoca il santo per definire gli effetti devastanti della parola intrisa da tali attributi, è forte:


"Questa peste nasce dalla loquacità, e con la censura del silenzio o la si estirpa alla radice, o almeno la si controlla perché non faccia troppi danni". (4)


Nella giara della salmodia, il monaco, attraverso la recita o il canto di salmi, inni, cantici, loda Dio e a lui solo attribuisce quel bene che vede in sé mentre, a se stesso attribuisce il male. Il monaco si purificherà con questa giara, quando riconosciuto il suo peccato nello stato di vita precedente la sua conversione, un peccato fondamentalmente di bestemmia, in cui emergeva il proprio io, riempie ora la sua bocca di salmodia che lo aiuta a confessare il suo peccato e a correggere il suo modo di vivere, mettendo al centro della propria vita Dio.


"... Fino a che uno loda se stesso e accusa Dio cosa fa se non bestemmiare? Non sono forse blasfemi quelli che dicono: "Le vie del Signore non sono rette"? Ma una volta che uno si converte e confessa il suo peccato, ed è istruito nei cantici divini, dopo aver corretto il suo modo di vivere corregge anche te parole: accusa se stesso a attribuisce a sé i suoi mali; loda invece Dio, e il bene che vede in sé lo attribuisce a lui, non a sé: tutto questo lo si canta nella salmodia". (5)


La terza giara si riempie con le veglie, ad imitazione di Cristo che passava le notti in orazione. La preghiera insistente, espressione di una vigilanza continua che si oppone al torpore e alla sonnolenza spirituale, è condizione indispensabile per non cedere alla tentazione.


Il digiuno riguarda la quarta giara. Un digiuno che Bernardo invita a praticare come rimedio contro i peccati di gola, non restringibili alla sola sfera culinaria evidentemente, ma estensibili a tutto quello che nella vita dell'uomo diventa un idolo da perseguire e conquistare. L'allusione si deduce quando afferma:


«La giara del digiuno ci fa acquistare forza per scacciare i demoni, memori dell'esortazione del Signore che dice: "Questa specie di demoni non può uscire in alcuna maniera se non con l'orazione e il digiuno"». (6)


Nella quinta giara, come mezzo di purificazione, si trova il lavoro manuale. Bernardo è consapevole della meraviglia che tale asserzione suscita nell'ascoltatore. Sul Commento a questa giara, spende qualche parola in più, anche se si rende conto che il discorso andrebbe ampliato. Cita a più riprese, l'apostolo Paolo, per dare vigore e spessore alla sua affermazione.


Sulla scorta degli insegnamenti del dottore delle genti, Bernardo indica il lavoro come mezzo di autosussistenza e indipendenza economica, necessario per una vita ordinata e disciplinata, lavoro che opposto all'ozio, padre dei vizi, consente al monaco di purificare il suo cuore e di vivere in pace:


"Vi esortiamo fratelli, a fare ancora dei progressi, e a farvi un punto di onore di vivere in pace... alfine di condurre una vita decorosa di. fronte agli estranei, e per non aver bisogno di nessuno". (7)


L'ultima giara contiene lo sforzo di purificazione che il monaco è chiamato a compiere attraverso la purezza del corpo. Grazie ad essa vengono purificati i peccati commessi con i cinque sensi: vista, udito, gusto, odorato, tatto. Le giare precedenti, con relative osservanze, hanno valore, se accompagnate e confermate dalla purezza del corpo; giara che più delle altre riguarda Dio, per piacere a lui solo e compiere la sua volontà, che è la nostra santificazione.


"Mantenere il vaso del proprio corpo con santità e rispetto", (8) è dunque impegno urgente per il monaco. Bernardo commenta che se le prime quattro giare le dobbiamo a noi stessi, la quinta al prossimo, la sesta la dobbiamo a Dio.


Il sermone conclude con una riflessione allegorica sul significato del complemento di materia delle giare.


La pietra difficilmente si rompe o si frantuma. Non è un materiale fragile, quello che contiene il prezioso liquido della grazia, bensì un materiale duro, la pietra appunto, che indica anche le difficoltà che il monaco dovrà sostenere per avere la vita. La via aspra da percorrere, trova stabilità e fondamento su Cristo, pietra su cui costruire. Le giare sono dette di pietra, per dire che sono cristiane, fatte cioè, di fede in Cristo.


Note


*) P. Giuseppe Brienza, Priore del Santuario Santa Maria dei Lumi in S. Severino Marche (Mc).


1) Le Opere di San Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Sermoni diversi e vari, vol, IV, Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 2000, pag. 382-391.


2) Cfr. Rosarium Virginis Mariae, GIOVANNI PAOLO II, Edizione Paoline, 2002, n .21, pag. 31.


3) Ibid., Le Opere di S. Bernardo... serm., 66, pag. 389.


4) Ibidem, serm., 55, 1, pag. 383.


5) Ibidem.


6) Ibidem, serm. 55, 2, pag. 385.


7) Ibidem, serm. 55, 3, pag. 385.


8) Ibidem, serm. 55, 4, pag. 387.



Uno sguardo al sermone cinquantasei


Il sermone cinquantasei commenta l'episodio delle nozze di Cana dal versetto sette fino al decimo incluso. È un dialogo che ha per protagonisti i servi, Gesù, il maestro di tavola, lo sposo e sullo sfondo la Vergine Maria. Le sei giare possono essere talvolta piene, talvolta vuote.


Non sempre la giara è colma di liquido buono come l'acqua e il vino, può essere piena anche di veleno, sostanza che uccide.


Il riferimento alle osservanze monastiche è allegorico. La giara colma di veleno simboleggia lo stato d'animo del monaco, quando compie i suoi doveri con rancore e malcontento. La giara colma di acqua sta ad indicare il monaco che pratica le osservanze per timore di Dio. La giara piena di vino è propria del monaco che trasforma le osservanze dal timore, all'amore verso Dio. Stato ottimo, raggiungimento di una vita che si spende per amore e non per paura del giudizio. È il vivere l'obbedienza da figli e non da schiavi.


Compito del monaco è quello di far sì che le giare siano colme di acqua, perché il Signore lo comanda; con l'intercessione di Maria, quell'acqua è destinata a convertirsi in vino, e questo è lo stesso Signore che lo fa. Per grazia di Dio, sono quello che sono, dirà l'apostolo Paolo, cioè un buon vino.


Sono allora da escludere nella vita del monaco le giare vuote, sterili e quelle piene di veleno. I servi non tengono tutto per loro il vino, lo portano alla tavola imbandita, al maestro di tavola; essi sono coloro che il Signore ha posto a capo della sua famiglia perché distribuiscano a tempo debito la razione di cibo. La distribuzione del cibo avviene mediante l'annunzio della Parola in due modi: presentando la meravigliosa dolcezza del regno e minacciando gli orrendi tenori del supplizio. In coloro che ricevono la Parola nasce un grande timore per ambedue le realtà. Il timore di essere esclusi dal possesso delle bellezze del regno e quello di subirne i tormenti della preclusione. Le giare ricevono in questo modo due misure, ma siccome il passo evangelico afferma che vi erano sei giare, contenenti due o tre barili, bisogna aggiungere un terzo timore per colmare il terzo barile.


È il timore che riguarda ogni atto presente, per cui l'uomo ha la paura di essere abbandonato dalla grazia interiore. Mentre i primi due timori riguardano il futuro, il terzo interpella il presente. Una volta riempite le giare fino all'orlo, l'acqua è trasformata in vino. Il maestro di tavola fa una constatazione che trova riscontro nella vita civile e politica. Rivolto allo sposo dice:


"Tutti servono in principio il vino buono, e quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono". (9)


A detta di Bernardo, capita purtroppo in chi vuole conquistare un potere, di offrire ai propri sudditi prima l'amore, una volta però ottenuto lo scopo si trasforma in tiranno, seminando terrore. Non così avviene sul piano spirituale:


"Il nostro Sposo si comporta esattamente al contrario Riserva sempre per la fine il vino buono; quello invece che al confronto appare inferiore lo propina all'inizio dicendo: "Figlio, disponendoti a servire Dio, mantieniti nel timore"... E così l'acqua del timore sarà cambiata nel vino dell'amore". (10)


Note


*) P. Giuseppe Brienza, Priore del Santuario Santa Maria dei Lumi in S. Severino Marche (Mc).


9) Ibidem, serm. 56,2, pag. 391.


10) Ibidem.



Riflessione


Nel sermone 54,12 sul "Cantico dei cantici", Bernardo torna sul tema dell'acqua e del vino. Sua preoccupazione costante è di incitare il monaco a conservare gelosamente la grazia di Dio.


"Beato te, se riempirai il tuo cuore di questo triplice timore, che tu tema, cioè, quando ricevi la grazia, tema maggiormente quando la perdi, e ancora molto di più quando l'hai recuperata". (11)


Nei sermoni Gesù è lo Sposo, nel cui amore trinitario, il monaco trova il punto di partenza e di arrivo, aspirando con umiltà al possesso completo della visione trinitaria.


La contemplazione del mistero dell'incarnazione in sintonia con la teologia paolina mostra il Figlio di Dio nell'atto di spogliare se stesso, per uno svuotamento e abbassamento totale, per assumere la condizione del servo obbediente, umiliato e sofferente.


Bernardo assorto nella contemplazione del Verbo che si è fatto carne, esprime tutta la sua ammirazione e gratitudine:


"Come sei bello, Signore Gesù... sei bello per me, Signore mio, nello stesso spogliarti di questa tua bellezza! Per il fatto che ti sei annichilito, che ti sei spogliato Tu, lume perenne...". (12)


Sull'esempio di Cristo, il monaco dovrà svuotare il suo cuore da tutto ciò che gli è di scandalo, di impedimento, da ciò che lo allontana dall'amore di Dio. Ancora una volta, come nel primo mistero, si parte dalla spiritualità del cuore, per colmarlo del vino della carità verso Dio e il prossimo.


«Dio ama un dono completo, un affetto pieno, un sacrificio perfetto. Cerca pertanto, di portare alle celesti nozze un'idria piena, perché si possa dire di te: "Lo ha riempito lo spirito del timore del Signore"... Se temerai pienamente e perfettamente, la carità darà sapore alle tue acque... è la carità, il vino che rallegra il cuore dell'uomo». (13)


Ho preferito in questo commento far parlare di più Bernardo. Come sempre la sua è una parola ricca e coinvolgente.


Da quanto ci ha proposto, è evidente che la vita del monaco è un cammino di purificazione verso la luce. "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5,8.).


Le scelte che Gesù ci chiede, benché radicali e impegnative, sono liberanti e gioiose. Il monaco che si dedica con impegno nel condividere il cammino di Cristo, meriterà un giorno di vedere nel suo regno, Colui che ci ha chiamati (Cfr. RB, prol, 21).


Note


*) P. Giuseppe Brienza, Priore del Santuario Santa Maria dei Lumi in S. Severino Marche (Mc).


11) BERNARDO DI CHIARAVALLE, Sermoni sul Cantico dei cantici, a cura di Domenico Turco, serm. LIV, n. l1, pag. 511, Ed. Vivere In, Trani 1982.


12) Ibidem, serm. XLV, 9, pag. 435.


13) Ibidem, serm, LIV, 12, pag. 512.


 


 

Pellegrini di Dio
P. Michel Bureau s.j. e Cyril Douillet


Quando la marcia occupa da sei a sette ore al giorno, può sembrare naturale che i pensieri siano in armonia con questa attività ripetitiva. Invece non è così. "Camminare umilmente con il proprio Dio" si attua nella ripetitività dei giorni. Un giorno dopo l’altro. Come un modo di essere nella quotidianità, piuttosto che agire in circostanze particolari. Il quotidiano deve essere lo stato abituale. La frase che segue, risponde alla domanda: "Cosa vuole il Signore che io faccia per lui"? "Ti è stato detto, o uomo, ciò che il Signore attende da te. Null’altro che camminare umilmente con il tuo Dio, praticare la giustizia e amare con tenerezza"(Mi 6, 8).


La Bibbia, testimone di una lunga marcia


Marciare, può rappresentare il passaggio dalla marcia fisica, che mette a dura prova, alla memoria dei racconti biblici. La Bibbia è, essa stessa, il racconto o la testimonianza di un lungo cammino, di una lunga evoluzione dei rapporti tra l’uomo e Dio.


Prendiamo l’esempio di Abramo, il primo pellegrino. Partì, senza conoscere la direzione da prendere, per il paese che Dio gli aveva indicato. La decisione presa di partire, era il suo modo di manifestare la sua fedeltà, e ciò gli fu riconosciuto come cosa giusta. La decisione di partire diventa allora un modo di tradurre nel concreto della sua vita, un’esigenza interiore, La chiamata, l’invito di Dio a lasciare il suo paese, la casa di suo padre, la sua famiglia, trasformò Adamo da nomade a pellegrino. "Da accampamento in accampamento, Abramo si diresse verso il Negeb" (Gen 12, 9). La decisione di partire, per quanto giustificata dalla necessità, non è che la risposta ad un richiamo interiore, ad un invito benevolo, se non addirittura amorevole.


Dio invita a partire


Abramo è invitato ad abbandonare il paese e lo abbandona; invitato a sacrificare il suo unici figlio si appresta ad obbedire. Essere pellegrino, è forse un invito ad abbandonare tutto? Gli ascendenti e i discendenti? L’essenziale consiste forse nell’essere in questo rapporto che lega, che nutre? Alcuni si legano con i legami dell’amicizia, lui, con l’obbedienza ad una parola che scopre man mano. Nessuno l’aveva sentita prima di lui , nessuno aveva messo in gioco la sua fiducia in un tale invito. E un uomo stupefacente: egli vede e non si ferma, Egli vede il paese che il Signore ha promesso a lui e alla sua discendenza e continua. Perché? La storia non lo dice. E forse tentato di restare nel paese che gli è stato promesso con solennità? Nemmeno questo dice la storia. Egli cammina, senza porsi domande.


Per alcuni giorni Abramo è con il proprio figlio, i suoi servitori, alcuni asini. Tre giorni di marcia, fianco a fianco in silenzio, è lungo…Bisogna averlo provato per sapere cosa significa. Ciascuno cammina, immerso nel suo segreto: il padre con questa nuova chiamata che lo fa mettere in cammino per un luogo che solo più tardi gli sarà rivelato, con questa richiesta che sembra togliergli la discendenza che ha impiegato tanti anni ad avere; il figlio, la sua progenie, frutto di una promessa, come il paese. Preferirebbe egli forse rinunciare al paese, piuttosto che alla sua discendenza? Forse…. la storia non lo dice.


Il figlio è preso come si prende un agnello del gregge per accogliere l’ospite di passaggio. Preso ed abbandonato a sé stesso senza una parola di spiegazione. Quando i servitori non saranno più con loro, dopo tre giorni di marcia, alla domanda su chi sarà la vittima offerta in sacrificio, padre e figlio si ritroveranno davanti alla parola: Dio provvederà. "e se ne andarono tutti e due insieme"(Gen 22, 6).


Marcia iniziatica, ove il padre introduce il figlio nella fede alla parola. Il ritorno non ha bisogno di commenti: Abramo ritornò verso i suoi servitori e si misero in cammino insieme , verso Bersabea. Tre giorni di cammino, in silenzio, per imparare che la vita di un uomo è unica. Capito questo, si può essere padre, stabilirsi in qualche luogo, morire.


Dio cammina con il popolo


Il Signore ha accompagnato Abramo ed accompagna anche il popolo di Israele. "Il Signore camminava con loro, di giorno, in forma di colonna di nube"(Es 13, 21)Cosa c’è di più stupefacente: che l’uomo cammini con Dio, o che Dio si metta al passo dell’uomo? Si saprà un giorno, che Dio si rivela al suo figlio("Il mio figlio primogenito è Israele". Es 4, 22)camminando al suo fianco, affinché non abbia paura la notte, e guidandolo di giorno, come fece durante l’Esodo. . Dio manifesta la sua onnipotenza, rifiutando di servirsene. Cammina con l’uomo. La stessa logica gli impedirà di intervenire nei momenti della Passione e della Croce. Dio cammina con l’uomo anche correndo il rischio di sparire o di non essere riconosciuto. Quando Gesù camminerà sulle acque, i discepoli avranno paura. Quando camminerà con i discepoli di Emmaus, costoro non lo riconosceranno. La buona novella è che Dio cammina, e cammina con l’uomo. L’uso della parola "camminare" può essere inteso in quattro differenti significati: in senso letterale - "camminare", "camminare nel deserto"-; in senso figurato, "camminare con Dio ", con le sue molteplici declinazioni, "secondo la sua parola", "le sue leggi", "le sue istruzioni". "Camminare" può essere utilizzato anche nel senso di "far camminare", in senso fisico: " il Signore ti ha fatto camminare per quarant’anni nel deserto" (Deu 8, 2);lo stesso significato lo si ritrova poi, in senso figurato: "il Signore ti ha fatto camminare secondo le sue leggi. "Questa ultima formula, ripresa da molti profeti, diventerà uno dei segni della presenza di Dio presso il suo popolo, la nuova alleanza. Non potendo citare tutti i passi relativi, ci basti questo versetto: "Io darò loro un cuore solo, e metterò in essi uno spirito nuovo (…. )affinché essi camminino secondo le mie leggi"(Ez 11, 19-20).


Questi differenti significati attribuiti al verbo "camminare", si possono applicare anche , sia a momenti del pellegrinaggio che a quelli della vita del cristiano. In primo luogo , il cammino fisico. Questa attività, sensibile, è anche occasione di un’altra esperienza: ti è stato dato di camminare, sia perché qualcuno ti ha aiutato, aspettato, curato, sia anche perché qualcuno ti ha permesso di "avanzare". L’inizio di un cammino di fede, consiste nel riconoscere di aver ricevuto una forza che non proviene da se stessi, e nel nominarne l’origine, l’autore.


Dio, per rivelarsi, utilizza una via imprevista: Egli invita dapprima il suo popolo a mettersi in viaggio per rendergli culto. Non ci sarebbe nulla di straordinario in questo, se non gli chiedesse di andare nel deserto. Faraone , non è tratto in inganno e rifiuta l’invito. Per di più, questa richiesta di uscire, di andare nel deserto, è per Dio l’occasione di liberare Israele dal suo oppressore. ""Camminare" nel senso più letterario del termine, si precisa dunque, come "camminare secondo le istruzioni del Signore". Abbandonare il proprio paese per andare a rendere culto ad un Dio che non si è avuto ancora occasione di conoscere e, con il fatto stesso di mettersi in cammino, ricevere una libertà che non si sperava più di ottenere, poiché si era condannati a morte. Ecco il modo di agire di Dio.



Richiamo alla libertà


Dio chiama a quello che l’uomo pensa essere un rapporto di adorazione, di culto divino, ma la realtà è che egli ricostruisce l’uomo in tutta la sua grandezza. In questo egli si manifesta per ciò che egli è veramente. Da questo momento, gli uomini si trasmettono di generazione in generazione questo paradosso: "servire dio, rende l’uomo libero come lui" (Pour que l’homme soit un fils, Didier Rimaud, ed. CNPL).


Così, poco a poco, con il superamento dei chilometri, l’usura delle calzature e le intemperie, attraverso la sola grazia, o forse anche l’apporto di questi elementi esterni, il pellegrino si apre all’altro, all’opera che si realizza in lui, e che gli permette di compiere ciò che credeva essere il suo più intimo bene. Nel momento in cui prende la sua decisione per un’iniziativa personale, viene a scoprire che essa non era altro che la risposta a un invito. Ugualmente, il saggio avverte il cristiano che la sua conversione ha origine da un richiamo più grande di lui:


Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo,
Rinnova i nostri giorni come un tempo,
Se non ci hai respinto.
Sei troppo irato contro di noi.
(Lam 5, 21-22)


E necessario avere molta audacia, fede e humor per rivolgersi a Dio in questi termini.


La vita è un pellegrinaggio


Lungo il camino le debolezze del corpo, le sue fragilità, le sue piaghe e le asperità della strada, si mostrano in piena luce, con pudore e semplicità. La stessa cosa avviene per le debolezze dell’anima, dell’essere umano completo. Più che altrove o in circostanze diverse, la lontananza dalla propria casa o l’assenza di barriere abituali, permettono alla parola di ritrovare libertà , spogliandosi di schemi e sovrastrutture. Nessuna ostentazione, solo un modo semplice di manifestarsi.


Per il credente , da lungo tempo, la vita umana sulla terra è un pellegrinaggio. Questo concetto può essere inteso in almeno due maniere: per Giacobbe, essa è pellegrinaggio, in quanto passaggio più o meno lungo. Si può dunque misurare, paragonare, valutare. D’altra parte un pellegrinaggio comporta sempre un arrivo, una destinazione finale(per un Ebreo credente, Gerusalemme prima di tutto). La vita è dunque, più che un passaggio, un cammino verso una "fine", intendendo questa parola, come termine e come finalità. . ed ecco che il concetto assume il significato di buona novella: la vita non è assurda. E chiara l’evoluzione successiva del concetto: la vita è un pellegrinaggio per arrivare a "possedere "un termine e uno scopo. L’uomo difficilmente percepisce questa idea della meta da raggiungere: egli avanza passo dopo passo, come un bue che lavora la terra. Da questa ignoranza, nascerà la preghiera del salmista:


Apri i miei occhi
che io contempli le meraviglie della tua legge.
Io sono pellegrino sulla terra;
non nascondermi i tuoi comandamenti.
(Sal 118, 18-19)


Nel Nuovo testamento il termine "pellegrinaggio" ritorna parecchie volte. Per Pietro, gli uomini sono degli stranieri e dei viaggiatori(1 Piet 2, 11) ed è la stessa cosa per l’autore della Lettera agli Ebrei (Ebr 11, 13). Ciò che era ancora confuso nell’Antico Testamento, diventa chiaro nel Nuovo: la vera dimora dell’uomo, è presso Dio. Sulla terra, l’uomo è uno straniero, non è a casa sua. La sua vita è un viaggio, un pellegrinaggio, che trova luce nel modo in cui il Cristo ha percorso, per primo, il cammino. Ha aperto la strada. L’uomo, non domina il suo camminare, ma nemmeno procede come un cieco. Compiere un pellegrinaggio, è dunque mettersi nella situazione di scoprire l’essenziale di ciò che fa la condizione dell’uomo.


(Traduzione dal francese di M. Grazia Hamerl da Fêtes et Saisons 563)


 


 

Sabato, 19 Giugno 2004 12:03

Luce di gioia (Gilles-Hervé Masson)

"Luce di gioia"
di Gilles-Hervé Masson, o. p.


Il mese di febbraio celebra la festa della Presentazione, festa della luce, luce che risplende nella persona del fanciullo Gesù. Ecco perché meditiamo sul "lucernare", parola che significa, letteralmente, "inno della luce". Tra i vari inni, uno dei più conosciuti, è "Luce di gioia", canto che accompagna il rito secolare della luce all’inizio della preghiera della sera. Cosa vi è di più semplice che accendere un cero o una lampada, cosa di più bello che l’unione della luce e del canto per esprimere il senso della vita?


Quando il pomeriggio volge alla fine e la sera sta per scendere, la campana suona per invitare alla preghiera. Tra poco cominceranno i vespri. Essi si aprono con il segno della croce e la lettura del versetto "Dio, vieni in mio aiuto! Signore, vieni presto in mio soccorso". A questa invocazione può far seguito il rito antico del lucernari che consiste nell’accendere i ceri dell’altare, delle icone, o i lumicini disposti qua e là. Compiendo questo rito, si canta "Luce di gioia" (in greco phôs hilarion) che si dice sia stato composto da un martire.


Qual è il senso di questo gesto? È un atto di fiducia e di fede espresso nel momento in cui le tenebre sembrano prendere il sopravvento e privare lo sguardo degli uomini della luce di cui essi hanno bisogno.


Questo è il primo gesto che fanno gli ebrei quando inizia lo shabbat: la madre accende una lampada, la quale indica, con la sua luce, che questo tempo è consacrato a Dio. :È il tempo in cui ci si ricorda del Creatore e della sua creazione per rendergli lode e gloria nella preghiera e nell’ascolto della sua Parola.


Al centro dello shabbat, vi è anche la preghiera del Shema Israël, con tutte le benedizioni che ne fanno parte; la prima di queste è una benedizione della luce, che termina con l’omaggio reso al Creatore delle stelle.


Per chi ha familiarità con la Scrittura, è ben chiaro il senso di questa serie di riti e di preghiere. All’inizio dell’opera creatrice di Dio, vi è la luce che viene prima di tutto il resto. Luce del cosmo, condizione della vita, ma insieme, luce nel cuore dell’uomo, condizione di una vita felice . È attraverso questa via che si impara a leggere in chiave simbolica il significato dell’alternanza tra il giorno e la notte: vi si legge la dinamica della vita umana, circondata di luce, ma anche minacciata dalle tenebre. Ed ecco il ricordo della Parola originale: "Che la luce sia!"


All’inizio del suo Vangelo, Giovanni non fa che ricordarsi del primo sfavillio di luce che Dio ha dato al mondo. Egli ricorda che il Verbo di Dio viene per rendere al mondo libero accesso alla luce . Quando Luca ci presenta il vecchio Simeone, non ci mostra solamente un vegliardo intenerito da un lattante, ma un uomo che, nel profondo di sé stesso, percepisce in questo bambino il dono di una rinnovata luce e speranza: "I miei occhi hanno visto la tua salvezza. Luce per illuminare i pagani e gloria d’Israele tuo popolo". E come non pensare alla cura con cui viene preparato il cero pasquale, e alla celebrazione della luce durante la grande veglia di Pasqua!


Nulla vi è di più semplice, in verità, che accendere un cero o una qualsiasi luce. Ma, questo semplice gesto, illuminato dal canto, può condurre il nostro cuore e la nostra preghiera molto lontano, nella ricchezza di tutto ciò che la Scrittura ci dà, nella dolcezza della speranza che veglia sempre "di giorno come di notte".



Luce di gioia


R. Luce di gioia,
splendore eterno del Padre
santo e beato, Gesù Cristo.


1. Al tramonto del sole,
contemplando la luce della sera,
cantiamo il Padre e il Figlio
e il Santo Spirito di Dio.


2. In ogni tempo degno di essere lodato,
da sante voci,
Figlio di Dio che donasti la vita
E il mondo ti glorifica.


(Per la festa della Presentazione del Signore)


3. Simeone ti ha ricevuto tra le sue braccia
come una fiaccola
e i suoi occhi hanno visto
la luce delle nazioni.


4. Sei stato portato nel Tempio
da mani di uomo,
tu, il Tempio nuovo
costruito dalle mani di Dio.


5. Il tuo santo Spirito
ci ha condotti all’incontro con te
e abbiamo contemplato la tua gloria.
Concedi ai tuoi servi
riuniti in questa sera,
di addormentarsi in pace nella tua luce.


6. Signore Gesù noi ti adoriamo,
immagine del Padre invisibile,
splendore della gloria dei Cieli,
Sapienza eterna e Verbo di Dio


7. Ti acclamiamo e ti benediciamo,
perché hai visitato la nostra terra.
La creazione si rallegra e s’inchina davanti a te,
ti offre la voce della sua lode.


(Si conclude con questo versetto)


8. Che la mia preghiera verso te Signore
si innalzi come l’incenso
e le mie mani davanti a te
come l’offerta della sera.


(Inno dell’ufficio domenicano)


(Tradotto e adattato da M. Grazia Hamerl da Biblia n°16)

La Scrittura
ALCUNE RIFLESSIONI
SULLA PAROLA DI DIO FISSATA PER ISCRITTO


 Nelle pagine della Bibbia, la Parola di Dio giunge a noi fissata per iscritto. Suscita un certo interesse riflettere su questo dato, per cercare di capire come Dio giunga fino a noi e come Egli continui a parlare, nel Suo Spirito, attraverso parole fissate per sempre e sempre nuove, nella insondabile e perenne attualità del Suo Spirito. L’esempio che offre il profeta Geremia si rivela a questo fine particolarmente significativo: conviene quindi fondare le nostre considerazioni da quanto viene detto in questo libro biblico, sulla fissazione per iscritto della sua profezia (1).


In Geremia il motivo dello «scrivere» e quello del «libro» sono assai frequentemente attestati (katab, scrivere: 19 volte; sefir, libro: 24 volte; si aggiunga anche il termine megillah, rotolo: 14 volte, tutte nel cap. 36). Fra queste numerose occorrenze ne evidenziamo tre che parlano dei tre «libri» scritti da Geremia (che riproducono la totalità del suo libro attuale).


1.  Abbiamo anzitutto il libro di cui parla ampiamente il cap. 36, scritto - da Baruc sotto dettatura di Geremia (36,4.6.18.27); esso ha per contenuto fondamentale gli oracoli contro Giuda, e per questa ragione il re Ioiaqìm lo brucia (v. 23). Geremia ne detterà un altro a Baruc, con le stesse parole di prima e l'aggiunta di parole simili (v. 32). Queste annotazioni hanno indotto alcuni studiosi a tentare di ricostruire il contenuto del rotolo primitivo, il famoso «rotolo originario», di cui parlano tutte le Introduzioni al profeta Geremia.


2.  Si parla in secondo luogo del libro che contiene gli oracoli contro le nazioni, a cui fa riferimento 25,13. Il versetto appare in verità un po' contorto (2); riferendosi a Babilonia dice: «Farò venire contro questo paese tutte le mie parole dette contro di esso, tutto quello che è scritto in questo libro che Geremia profetizzò contro tutte le nazioni». Possiamo pensare vi sia almeno un'allusione a 51,60, dove si dice che «Geremia scrisse in un libro tutte le sventure che dovevano venire su Babilonia»; in altre parole c'è un secondo scritto - diverso da quello contenente gli oracoli contro Giuda - che raccoglie le profezie contro Babilonia, e si è successivamente arricchito - delle parole contro le altre nazioni.


3.  Un terzo libro è menzionato in 30,2; indirizzato probabilmente al popolo di Israele (e applicato quindi anche a Giuda), conteneva tutte le parole di consolazione che Geremia aveva rivolto al popolo sofferente per l'esilio. Questo scritto è simile alla «lettera» del cap. 29, inviata ai deportati (della prima deportazione del 597), e contenente anche parole di speranza (vv. 11-14).


In Geremia viene quindi ripetutamente ribadita la messa per iscritto di «tutte» le parole che egli riceve dal Signore (cfr. 30,2; 36,2; ed anche 25,13) e questo implica un modo particolare di intendere e di trasmettere la profezia. Consideriamo innanzitutto i soggetti implicati in questa particolare attività di parola e di comunicazione.


Il profeta, "messaggero" della Parola


La messa per iscritto conferisce una certa definitività alla parola pronunciata: si tratta di un processo di fissazione, di canonizzazione della parola profetica. Essa viene in tal modo riconosciuta valida, cioè veritiera, e riconosciuta per sempre come parola di Dio. L'attribuire a Geremia stesso l'atto dello scrivere significa attestare e comprovare, in un certo senso, la sua autorità o la sua firma personale (3) nelle tradizioni che a lui fanno riferimento (4).


Durante e subito dopo l'esilio di Israele avviene infatti il grande processo di fissazione sistematica delle tradizioni religiose racchiuse nella Tôrâh e nei Profeti (sia i profeti «anteriori», così definiti dalla tradizione ebraica, sia i profeti «posteriori», cioè gli scritti profetici). Tale operazione riconosce e significa che si è compiuto il tempo di una speciale rivelazione. Mettere per iscritto la Parola ricevuta, significa volerla fissare per le generazioni future, riconoscendone la validità al di là del compimento della propria storia personale.


Mettendo per iscritto le parole del Signore, il profeta dichiara e accetta la sua propria finitudine, la propria morte; la sua presenza fisica non è più necessaria per veicolare la Parola. Lo scritto è sempre un testamento (come per Dt 31-32) (5). In 36,5 si dice che Geremia scrive perché è «impedito» e non può recarsi al Tempio a proclamare la parola di Dio; tutto questo ci sembra detto con valore (anche) parabolico: il profeta dichiara che non può essere presente con il suo corpo, e allora si affida ad un altro corpo, al rotolo che è portatore della parola di Dio. La morte del profeta-locutore e l'avvento del profeta-scrittore aprono la via al tempo del lettore (6).


Il lettore, destinatario della Parola


Mediante lo scritto, la parola profetica non è più condizionata dallo spazio e dal tempo del profeta: essa attraversa i secoli, convocando in ogni epoca lettori da ogni parte della terra. Lo scritto dice così, in un certo modo, che la parola vale per sempre e per tutti (coloro che vogliono ascoltare). In se stesso, tuttavia, lo scritto è silenzioso; esso necessita l'atto della lettura (7), mediante il quale diventa strumento di comunicazione. Chi parla non è più il profeta, ma è il lettore, lo scriba che sa leggere e sa interpretare la parola profetica (cfr. 36,6). Lo scritto adduce il tempo dell'interpretazione. Come lo scritto (il rotolo) può essere alterato e distrutto (cfr. 36,23), così può essere mal letto e mal interpretato: la fedeltà alla profezia si gioca anche nella cura con cui lo scritto è trasmesso e nel rigore attraverso il quale è interpretato. Ma soprattutto è rilevante che, dopo la morte del profeta, la Parola risuona nella voce dell'interprete, il quale invera la parola antica proclamandola nell'oggi della sua storia. Il «compimento» della profezia si realizza in questo atto di lettura attualizzante.


NOTE


1.   Attingiamo le note esplicative della fissazione per iscritto del libro di Geremia da P. BOVATI, Geremia 30-31. Il Libro della nuova Alleanza (Dispense ad uso degli studenti; Roma, PIB, 2000-2001), 50-54.


2.  La discussione analitica dei vari problemi testuali esula dai fini di queste brevi considerazioni; per una loro presentazione e valutazione si rimanda ai commentari e agli studi di carattere tecnico, ad esempio quelli citati da BOVATI, Geremia, 6-13.


3.   È verosimile che il Geremia storico abbia scritto dei testi servendosi della collaborazione del suo scriba Baruc; constatiamo però che il riferimento a tale operazione appare solo nelle parti redazionali del libro di Geremia, attribuite al deuteronomista. In ogni caso l'atto redazionale, che è quello della definitiva scrittura, è l'operazione mediante la quale un autore (sacro) viene “consacrato” scrittore.


4.  La figura dello scriba Baruc, evidenziata nel cap. 36, è quindi emblematica: scrive “sotto dettatura”, e riproduce dunque fedelmente il messaggio del suo maestro-profeta.


5.   Si ricordi che Mosè è dalla tradizione deuteronomica definito il più grande dei profeti (34,10; cfr. anche 18,15).


6.    Altri testi della tradizione profetica introducono il tema del libro e il suo rapporto con il profeta; ricordiamo, ad esempio, Is 8,16-18 (il "memoriale" lasciato alla generazione seguente); 30,8-17 (il documento lasciato a perenne testimonianza); Ez 2, lss. (la vocazione vista come mangiare un libro); 24,2 (il profeta mette per iscritto la data della caduta di Gerusalemme); Ab 2,2 (il futuro è consegnato su una tavoletta); Zc 5, lss. (il libro della maledizione che vola). Naturalmente si deve anche ricordare la tradizione della Legge scritta, di cui il Decalogo è il principale testimone; ed anche il "Cantico di Mosé" (Dt 31-32) che viene presentato come il documento scritto attestante la trasgressione dell'alleanza e la necessità della divina punizione (è il primo rîb ad essere scritto).


7.   Cf. le opere mirabili di P BEAUCHAMP, in particolare da L'un et l’autre Testament. Essai de lecture, Paris 1976; e L'un et l’autre Testament, tome II,: Accomplir les Ecritures, Paris 1990 (soprattutto 65-112), tradotto in italiano.



Il Signore, Principio e Autore della Parola


Abbiamo finora parlato del profeta, come fosse lui l'origine, la sorgente della Parola. Ma sappiamo che è proprio del profeta, del suo parlare veritiero, il fatto di riferire la sua stessa parola a Dio, il dire che non è lui a parlare, ma Dio in persona. E cosa significa questo in rapporto allo scritto? Significa che Dio s'impegna per sempre nella storia degli uomini; nella traccia scritta Egli lascia un segno perpetuo del suo parlare, come una caparra della sua promessa. Usando una metafora, il testo biblico dice che Dio «fa testamento», cioè fa alleanza, dice il suo volere (le sue «ultime» volontà), convocando il futuro per la realizzazione.


Ma ci sono due «scritture», ci sono due «testamenti», cioè due alleanze. La prima è collegata con Mosè e il monte Sinai/Horeb: consiste nella stesura delle dieci parole, incise dal dito stesso di Dio (Es 31,18; Dt 9,10) su tavole di pietra (Dt 5,22) - scritte (Es 24,4.12; Dt 4,13; 5,22;) e riscritte (Es 34,1.27; Dt 10,2.4) come segno di un'alleanza infranta e rinnovata - tavole collocate nell'arca così che potessero accompagnare Israele e dimorare sempre in mezzo al popolo (Dt 10,5). Inoltre Mosè, al termine della sua vira, scrive un cantico (Dt 31,22) che, concludendo la Torah, annuncia la fine d'Israele e l'esilio (Dt 32,21-25): la prima alleanza, con la voce di colui che ne è stato il mediatore, dichiara per iscritto, la sua conclusione (8). Ma in questo stesso cantico, viene annunciato anche un insperato futuro, nel quale YHWH si affermerà definitivamente come il Dio di Israele (Dt 32,26-43; ed anche 30,1-14).


Geremia ha dei tratti che lo fanno assomigliare a Mosè; questo rapporto di somiglianza è particolarmente significativo se suggerisce il riferimento alla fine della prima alleanza. E come se Geremia, con il suo «rotolo» (Ger 36), riattualizzasse il Cantico di Mosè (Dt 32). Geremia parla effettivamente della fine in tutti i suoi oracoli (cap. 1-25), motivandola con la constatazione di una totale e universale ribellione: infatti «il peccato di Giuda è scritto con uno stilo di ferro, con una punta di diamante è inciso sulla tavola del loro cuore» (Ger 17,1).


Ma Geremia ha un altro scritto, che parla di un'altra alleanza, e perciò di un'altra «scrittura» da parte di Dio. Il piccolo libro di Geremia (30,2) è l'esteriore testimonianza di un evento mirabile, il definitivo impegnarsi del Signore con il suo popolo. Uno scritto umano, quello profetico, è testimone di un patto divino, scritto nell'intimo dell'uomo, sulla tavola del cuore (31,33) (9): in esso si comunica il parlare «ultimo», cioè la rivelazione escatologica di Dio quale eterna alleanza.


Conclusione


L’esempio della fissazione per iscritto della Parola di Dio rivolta al profeta Geremia è quindi molto illuminante: consegnando a un rotolo il messaggio ricevuto da un Altro, fissandolo per le generazioni a venire, oltre la propria morte. Geremia oltre ad attestare l'autenticità di un annuncio accolto nella sua debolezza e trasmesso con una obbedienza che lo espone alla persecuzione e alla morte, diviene eloquente trasparenza non solo della mediazione profetica, ma del compito di autore sacro e della destinazione universale della rivelazione biblica.


La Parola di Dio giunge fino a noi solo attraverso una catena di tradenti, che ha riconosciuto nella rivelazione ricevuta per iscritto un valore superiore alla propria esistenza e al proprio momento storico. Quindi Dio, continua a parlare a noi oggi, grazie alla mediazione di generazioni e di generazioni di uomini, che hanno consegnato al futuro la parola e che hanno riconosciuto essere più grande di loro stessi, del loro tempo e della loro comprensione. Non esiste quindi alterità o soluzione di continuità tra Scrittura e Tradizione: non possiamo entrare in rapporto con Dio se non attraverso una mediazione storica: in altri termini, non possiamo ascoltare Dio se non attraverso la Chiesa.


(da Vita nostra)


NOTE


8.   È un po’ come se Dio desse ad Israele il libro del ripudio, che attesta (indirettamente) che c'è stato un matrimonio proprio nel momento in cui lo si dichiara annullato (cfr.Ger 3,8).


9.   Ricordiamo l'analogia con lo scritto redatto da Geremia al cap. 32, che documenta l'acquisto del campo di Anatot (tra l'altro questo documento ha una parte visibile e una sigillata: 32,11.14). Lo scritto di Geremia (l'atto notarile, così come tutta la sua profezia scritta) è in funzione di un evento futuro (il ritorno di Israele e la nuova alleanza) nel quale si realizzerà il senso di quanto è racchiuso (e come sigillato) nello scritto del profeta (32,15.36-44).


 

La Bibbia, un libro ispirato
di Joseph Moingt *


prima parte


Solo un credente di tradizione biblica può affermare che la Bibbia è un libro ispirato da Dio, solo un cristiano vi integra gli scritti del "Nuovo Testamento", come se formassero un solo libro con quelli dell’ "Antico" di cui essi compiono la rivelazione, e rifiuta di inserire altri libri posteriori alle origini cristiane, perché essi distruggerebbero l’unità di questo libro spezzando la sua "chiusura". Quando dicono che la Bibbia è "ispirata", i cristiani comprendono che Dio ne è l’autore, nel senso che Dio stesso vi si esprime, vi si rivela, per comunicare agli uomini la sua verità e le sue promesse di salvezza, e quindi che il contenuto di questo libro è la "Parola di Dio", come la liturgia domanda ai fedeli, presentando loro il Libro sacro, di acclamare il passo che è appena stato loro letto.


Il dogma cristiano vuole significare ancora di più, e cioè che Dio ha voluto che la sua Parola fosse messa per iscritto, che questo libro fosse scritto come or ora è stato letto, per essere trasmesso a tutti gli uomini fino alla fine del tempo. Vi sono due grandi difficoltà per comprenderlo. Anzitutto la Bibbia non è un libro, ma una Biblioteca, un insieme di molti libri, appartenenti a disparati generi letterari, espressi in lingue diverse, la cui composizione si estende su una decina di secoli, la cui riunione in biblioteca e in Bibbia si è fatta nel tempo a partire da molteplici centri redazionali ed editoriali e per diversi motivi politici e religiosi. Inoltre ciascuno di questi libri (almeno in moltissimi casi), non è stato composto in un solo momento, da un solo e stesso scrittore, ma sulla base di tradizioni orali sparse e di redazioni parziali di diversa provenienza, e attraverso molteplici riscritture e complessi rimaneggiamenti ripresi in periodo molto lunghi.


Si pone allora al teologo un importante domanda: Chi ha scritto la Bibbia? Se egli giunge con sufficiente facilità a rappresentarsi, in un quadro analogo alla regola delle tre unità, di tempo, luogo e azione, che Dio "coopera" con lo scrittore sacro che per lui è uno "strumento", pur rispettando la sua piena libertà intellettuale (cioè la sua "ispirazione" personale, il che è meno facile da dimostrare!), è molto più difficile spiegare come Dio sia l’unico autore decisivo, redattore, compositore, editore tanto di un insieme letterario così composito, lungo e disperso, quanto di ciascun libro che spesso costituisce, da solo, una lunga storia che, in conclusione, non può essere decisa. È vero che i lettori della Bibbia, ebrei e cristiani, si richiamano, ciascuno per quanto lo concerne, all’unità di un progetto editoriale divino che sarebbe, per gli uni, l’Alleanza secondo la Legge, per gli altri, la venuta di Gesù. Questi presupposti dogmatici non risolvono veramente la difficoltà al livello più propriamente redazionale dell’unità di ciascuno scritto né della loro unificazione in un solo libro ritenuto di origine divina, ma essi forniscono un principio per elaborare una risposta a questa domanda, cosa che io cercherò di fare, ovviamente dal solo punto di vista cristiano.



* Professore emerito presso la facoltà dei Gesuiti di Parigi


(da Il mondo della Bibbia – 66, Gennaio-Febbraio 2003, n.1)



Seconda parte
La memoria di Gesù



Riassumerei questa risposta dicendo che la Scrittura è ciò che costituisce la memoria di Gesù , che ha formato la propria autocoscienza, e il ricordo collettivo e vitale che la Chiesa ha conservato di lui, che è all’origine del fatto di essere cristiani Nel primo senso, evidentemente, la Scrittura designa soltanto i libri del Primo Testamento che Gesù leggeva secondo il canone usato dal giudaismo del suo tempo; tuttavia essi non rappresentavano per lui un insieme da conservare, o da rinnovare o da completare, né il passato globale del suo popolo, ma semplicemente il suo passato, presente e futuro, che egli doveva riscrivere e rieditare assumendolo e vivendolo nel proprio corpo. Egli non citava molto le Scritture e non le commentava alla maniera degli scribi, né si riferiva con compiacimento ai grandi eventi del passato: esse non erano per lui né una raccolta da conservare né un repertorio. Questo non impedisce che costituissero il fondo vivo e l’orizzonte materiale del suo pensiero. "Tutte le Scritture parlano di me", diceva: in esse, giorno dopo giorno, egli scopriva e costruiva la sua identità più profonda, quella che gli veniva dalla sua discendenza da Abramo, certamente, ma molto più quella che gli veniva dalla sua relazione con Dio, prendendo consapevolezza che era "uscito da Dio e venuto in questo mondo" attraverso le Scritture "da Mosè e dai profeti", così come insegnerà ai suoi discepoli a comprendere "secondo le Scritture" tutto ciò che doveva, dall’inizio dei tempi, capitargli.


Se si tratta ora della memoria di Gesù che è nella Chiesa, da lui creata, la Scrittura designa (oggi, per noi) in primo luogo gli scritti evangelici ed apostolici che si riferiscono alla persona e alla venuta di Gesù, ed indirettamente i libri antichi a cui egli stesso faceva riferimento per definire la sua identità. I ricordi di Gesù che hanno valore di testimonianze autorizzate sono quelli raccolti e trasmessi da testimoni scelti da Dio e da Gesù e suscitati dallo Spirito Santo per annunciare al mondo la risurrezione e il vangelo di Cristo, e non quelli che hanno potuto fissarsi spontaneamente nello spirito dei suoi contemporanei. Essi rappresentano dunque quello che Gesù stesso ha fatto scrivere nello spirito e attraverso la penna di questi testimoni, e sono simbolo e perpetuazione della sua presenza vivente nella fede della sua Chiesa. La Chiesa non assume i libri dell’ Antico Testamento per rafforzare la fede dei suoi fedeli nelle loro radici ebraiche – come taluni propongono con tanta superficialità oggi – ma perché così li trova e li rilegge riscritti e reinterpretati nella propria memoria e nella carne di Gesù. Su questi due sensi della memoria di Gesù e sui loro due versanti si elabora il lavoro di ispirazione e di composizione da parte di Dio di ogni libro e dell’intera Bibbia, e che Dio può essere pertanto compreso come l’unico e completo autore ed editore del tutto e di ogni parte.


Dio si rivela nella storia preparandovi la venuta del suo figlio e donandogliela in eredità quando viene per manifestarsi finalmente in lui. La scrittura della rivelazione è la raccolta, a monte e a valle, delle tracce di questa venuta e dei ricordi di questa manifestazione. La rielaborazione della memoria di Gesù – attraverso cui egli si appropria di questa storia come del passato della sua incarnazione, venendo da Dio, e la prolunga, ponendo la Chiesa nel mondo come il suo corpo totale generato dalla sua carne e dal suo Spirito – è l’attività che tesse l’unità di ogni libro e che li collega tutti in un unico e stesso libro, la Bibbia. Di fatto Gesù riferisce a se stesso tutto quello che Dio gli rivela come scritto di lui nella diversità dei tempi e dei luoghi, e lo Spirito, riunendo la Chiesa, testimonia al suo interno che essa è veramente il corpo di colui che doveva venire. L’edizione della Bibbia cristiana non è fatta a pezzi, per aggiunte successive attraverso i tempi, dal passato verso il futuro; essa si costruisce in senso inverso, secondo il tempo, ma anche ripercorrendo alla rovescia, dalla costituzione della Chiesa verso la venuta di Cristo nel quale essa prende e riconosce la sua origine, e di Cristo verso il suo passato che si identifica nel suo presente sino ad esserne completamente rivestito, affinchè l’unità della lettera avvenga attraverso l’unità dello spirito che le dà significato.


L’attività editoriale di Dio si consuma nell’atto attraverso il quale egli esprime la sua Parola nella carne di Cristo per generare da questa una moltitudine di figli, la Chiesa. Nell’unico istante (eph’apax) della pubblicazione o edizione del corpo totale di Cristo si compie l’edizione completa del suo corpo strutturale (come diceva Origene), di tutto ciò che la pazienza di Dio ha scritto nella profondità dei secoli. "Carne di Cristo, cardine della salvezza", scriveva Tertulliano: essa è il punto nodale della intera storia della salvezza, la riunione di tutti i racconti della salvezza in uno solo. Questo atto di edizione costituisce la conclusione della Bibbia, la delimitazione di un corpus di scritti destinati ad un corpo di lettori. Ma il termine dell’atto dello scrivere non è il termine della rivelazione, che continua in ogni atto di lettura, perché la rivelazione non è perfetta- atto di comunicazione effettivo e riuscito – se non facendosi accogliere come interpellanza personale di ognuno attraverso la parola di Dio, ed ogni rilettura, guidata dallo Spirito nella Chiesa, rinnova inesauribilmente la vetustà della Scrittura facendola fiorire di sensi nuovi sino alla fine dei tempi.


(da Il mondo della Bibbia – 66, Gennaio-Febbraio 2003, n.1)



Terza parte
La Bibbia delle Nazioni





Rileggendo la Scrittura secondo il rinnovamento di senso che essa prende nel rinnovarsi del tempo, la Chiesa la strappa dalle sue chiusure, passate e presenti, etniche e religiose, consegna la parola di Dio al mondo, ne fa la Buona Novella per ciascuno e per oggi, la rende universale, ne fa la Bibbia delle Nazioni, di tutti gli altri credenti e "gentili" di ogni specie invitando gli uomini divisi di ogni paese e di ogni cultura a scoprire nell’unità del Libro ispirato, aperto a tutti grazie all’alterità che lo abita e che lo rende un bene per tutti, ispirazione del loro cammino verso l’unità e verso la pienezza dell’umanità. Il lavoro di esegesi biblica universitaria, qui esposto, studiando la Scrittura secondo le esigenze della razionalità critica e scientifica del nostro tempo, si impegna a metterla a disposizione di tutti gli spiriti, affinchè sia veramente ispirante per coloro che la leggeranno alla ricerca della verità che ne promana.



(da Il mondo della Bibbia – 66, Gennaio-Febbraio 2003, n.1)


 

Sabato, 19 Giugno 2004 11:56

La nascita della Bibbia (Thomas Römer)

La nascita della Bibbia
di Thomas Römer


 


Prima parte


All’inizio, l’esilio. Attrae riassumere così la nascita della Bibbia ebraica. L’esilio in Babilonia non ha provocato la fine del popolo ebreo, ma ha, paradossalmente, dato origine al giudaismo, che fonderà, a partire dal IV secolo a.C., la sua identità nella Torâ. La deportazione della intelligentia ebraica a Babilonia ha così preparato in modo decisivo l’avvento del Libro.


L’esilio babilonese fu la conseguenza delle rivolte dei re di Giuda contro l’impero babilonese, che controllava dal 605 a.C. il Vicino Oriente. Nel 598 avvenne il primo assedio di Gerusalemme, e una parte importante degli intellettuali e della corte fu deportata. Sedecia, il re insediato dai Babilonesi, tentò una ribellione che provocò la distruzione di Gerusalemme nel 587-586. La città fu incendiata e il Tempio distrutto, e si verificò una seconda ondata di deportazioni. Il regno di Giuda aveva finito di esistere e fu assegnato alla provincia babilonese di Samerina. Taluni testi biblici danno l’impressione che la Giudea sia stata totalmente svuotata dei suoi abitanti e resa un deserto durante l’esilio (cf 2 Re 25,21); ma, in realtà, soltanto dal cinque al dieci per cento della popolazione fu deportata. Tuttavia, bisogna attribuire a questa "minoranza intellettuale" l’ideazione e la stesura per iscritto della maggior parte delle risposte che furono date in quel tempo di fronte alla crisi dell’esilio.


La prima edizione di una storia di Israele


Un gruppo di ex-funzionari della corte dà vita, all’epoca dell’esilio, ad un affresco storico che va dal libro del Deuteronomio sino ai libri dei Re. Viene chiamato "storia deuteronomista" perché gli autori di questa storia si sono fondati sul primitivo Deuteronomio edito all’epoca di Giosia (verso il 630), di cui forniscono un’autentica griglia di lettura della storia del popolo di JHWH. Il Deuteronomio esorta Israele a rispettare l’alleanza con JHWH non adorando nessum’altra divinità al di fuori di lui. La narrazione deuteronomista vuole dimostrare che tutta la storia di Israele, dal suo insediamento nella terra promessa, è stata segnata dalla costante disobbedienza del popolo e dei suoi capi, che non hanno saputo rispettare questa fondamentale esigenza. Nell’ottica degli autori deuteronomisti è allora JHWH stesso che provoca la catastrofe dell’esilio per dare una punizione ad Israele per la sua incapacità ad osservare la Legge codificata nel Deuteronomio.


La storia deuteronomista non è né una storiografia in senso moderno, né una ricerca alla maniera dei Greci. Tuttavia essa deve essere interpretata come il primo tentativo mirato a costruire un’ immagine globale del passato di Israele per dare un senso al presente. Gli autori della prima storia di Israele sono in realtà dei redattori. Non partono dal nulla, ma utilizzano dei testi dell’epoca della monarchia, tra i quali una prima versione del Deuteronomio e del libro di Giosuè, risalente al regno di Giosia, o anche un "libro dei sapienti", la cui origine si colloca nel regno del nord e che forma l’ossatura del libro dei Giudici, come pure una storia dell’ascendenza di Davide (1 Sam 16 – 2 Sam 5).


La novità della storia deuteronomista consiste nel revisionare questi testi più antichi e nell’organizzarli in una composizione coerente che mette in relazione tutta la storia di Israele, dalle origini all’esilio. Il lavoro di questi "deuteronomisti" del tempo dell’esilio prepara così il cammino verso una "religione del Libro". Deuteronomio 6,9 (un testo esilico) invita i detinatari a scrivere le parole della Legge su tutte le case di Israele, questa pratica era normalmente riservata ai santuari. Così, dopo la distruzione del Tempio, ogni casa può diventare "santuario", luogo in cui ascoltare la parola di JHWH: L’edizione esilica del Deuteronomio si trova dunque, in un certo modo, all’origine del culto sinagogale.


(tratto da Il mondo della Bibbia, n.1, 2003)



Seconda parte


La formazione del corpus profetico


I profeti dell’VIII sec. a.C. avevano denunciato le ingiustizie sociali e le deviazioni del culto in Israele e in Giuda; avevano anche annunciato l’arrivo di un giudizio divino. Marginali nella loro epoca, essi diventano immediatamente credibili dopo la catastrofe dell’esilio, che conferma i loro oracoli di sventura. L’ambiente deuteronomista, già responsabile dell’edizione dei libri dal Deuteronomio a 2Re, inizia allora a curare in particolare i libri di Amos, di Osea e di Geremia, fornendo così alla storia deuteronomista un complemento profetico. Questo complemento serve a dimostrare che il giudizio era stato annunciato molto tempo prima dai profeti, che per questo sono stati costantemente respinti dal popolo. Tuttavia l’esilio poneva anche la questione di sapere se poteva ancora esserci un avvenire per il popolo di JHWH. Di fronte all’insistenza deuteronomista sul giudizio, si sviluppa a partire dal 540 un profetismo "ottimista". Questo profetismo di salvezza si percepisce soprattutto nella seconda parte del libro di Isaia, chiamato "Deutero Isaia" (cc. 40-55).Si tratta di un gruppo di profeti anonimi, che ripubblica la collezione di oracoli del profeta Isaia risalente all’VIII secolo, attualizzandola. Il Deutero Isaia annuncia la fine dell’esilio, e presenta il ritorno nella terra sia come un nuovo esodo, sia come una nuova creazione (Is 43,18-20).


La coabitazione di una profezia di giudizio e di una profezia di salvezza, coabitazione che caratterizza il corpus profetico nell’Antico Testamento , trova così la sua origine in epoca esilica. La maggior parte della letteratura dell’Antico Testamento è dovuta agli esiliati o ai loro discendenti. In compenso, le tradizioni sui patriarchi furono veicolate dalla popolazione rurale, non deportata. Ezechiele 33,24 mostra chiaramente che Abramo era figura di riferimento per la popolazione rimasta nel paese. Questo passaggio suggerisce in realtà che la popolazione dei non esiliati si serviva del patriarca per legittimare il possesso del paese contro le rivendicazioni di un parte degli esiliati: "Abramo era solo, ed ha posseduto la terra; noi che siamo numerosi, è a noi che è stata data la terra". Al tempo dell’esilio egli era dunque già un personaggio conosciuto; ma sembra che la prima stesura in forma scritta del ciclo del patriarca sia avvenuta durante l’epoca babilonese. Il suo autore appartiene forse all’ambiente di Godolia, che i Babilonesi avevano nominato per gestire gli affari correnti del regno di Giuda. Al contrario dei testi deuteronomisti, che esigono una stretta separazione di Israele dalle altre nazioni, la storia di Abramo insiste sulla necessità di una coabitazione pacifica di tutti i popoli della Siria-Palestina, che intrattengono, secondo Genesi 12-25, numerosi legami di parentela attraverso Abramo.


La Torâ come "patria portatile"


Durante l’esilio, le tradizioni sui patriarchi si trovavano in concorrenza con la tradizione dell’esodo (Esodo 1-15) e di Mosè. Mentre il libro della Genesi non è segnato dal lavoro redazionale dei deuteronomisti, la storia di Mosè è fortemente impregnata dello stile e delle preoccupazioni di questa scuola. I primi che riuniscono in uno stesso rotolo le storie dei patriarchi, i racconti sull’uscita dall’Egitto e il soggiorno nel deserto sono degli esponenti dell’ambiente sacerdotale. Verso la fine dell’esilio o nei primi decenni della dominazione persiana, questi sacerdoti pubblicano il nucleo narrativo del Pentateuco distinguendo tre epoche della rivelazione divina (cf Esodo 6,2-4): le origini dell’umanità (quando Dio è chiamato Elohim), l’epoca dei patriarchi (quando Dio si manifesta come El Sadday) e l’epoca di Mosè (quando Dio si rivela sotto il suo nome proprio di JHWH).L’ambiente sacerdotale insiste sull’importanza del culto sacrificale (Levitico 1-9) ma considera la situazione di un popolo disperso. Gli autori sacerdotali stabiliscono il sabato (Genesi 2,1-4), le regole alimentari di base (Genesi 9,4), la circoncisione (Genesi 17) e la Pasqua (Esodo 12) prima della costruzione del santuario, e danno così agli esiliati dei riti di identità facilmente applicabili.


Ciascuno a suo modo, gli autori deuteronomisti e sacerdotali tengono conto della crisi dell’esilio. Essi si ritroveranno in epoca persiana per editare insieme il Pentateuco: il documento sacerdotale fornisce la struttura di base e il Deuteronomio, separato dalla storia deuteronomista, il finale. Il Pentateuco diventa allora una "patria portatile": perché la Torâ fosse letta e praticata sia dalla diaspora (i discendenti degli Ebrei dell’esilio, rimasti all’estero), sia dagli Ebrei rimasti in patria.


(tratto da Il mondo della Bibbia, n.1, 2003)


 


 

Saulo di Tarso
La vita, gli scritti, il pensiero
di Filippo Morlacchi



 


Un gigante spesso frainteso

Nella storia del cristianesimo, forse nessun personaggio ha giocato un ruolo così fondamentale come Saulo di Tarso. Pur senza cedere alle esagerazioni di chi ha voluto vedere in lui un "secondo fondatore del cristianesimo" (1), magari stravolgendo il senso originario dell'insegnamento di Gesù, (2) la sua personalità e la sua visione teologica hanno plasmato in modo decisivo la storia del cristianesimo tanto in oriente quanto in occidente. Fu uomo dl formazione intellettuale raffinata e cosmopolita: educato a Gerusalemme presso la prestigiosa scuola rabbinica di Gamaliele, cresciuto a Tarso (città ellenistica imbevuta del pensiero della Stoà), e infine fiero cittadino romano, Šaul / Saul / Paulus appartenne consapevolmente a tre diverse culture, e tale apertura mentale fece di lui il primo e più grande teologo del cristianesimo: "Paolo ha assicurato per sempre al cristianesimo il diritto di pensare" (A. SCHWEITZER). Le lettere che scrisse alle comunità cristiane da lui fondate o visitate esprimono ad abundantiam il vigore del suo pensiero e la ricchezza anche umana della sua personalità. Tuttavia, essendo l'epistolario paolino formato da vere e proprie lettere, indirizzate a destinatari concreti, e non da epistole fittizie composte come esercitazione letteraria, è difficile ricostruire il nucleo centrale del suo pensiero teologico. Il loro carattere occasionale fa sì che ognuna di esse riporti solo un frammento, più meno parziale, del suo sistema. Solo un confronto dei diversi scritti, unitamente alle altre fonti che ci parlano della visione teologica di Paolo (in primo luogo gli Atti degli Apostoli) possono aiutarci a ricostruire l'insieme, in modo sempre precario e imperfetto.


Impossibile in questa sede addentrarsi nel ginepraio delle varie interpretazioni della teologia paolina, divergenti fino all'inverosimile. Perciò, dopo aver riassunto per sommi capi la sua vicenda biografica, e aver presentato brevemente l'insieme dell'epistolario, tenterò di offrire una panoramica del patrimonio concettuale teologico di Paolo spiegando alcuni termini chiave da lui ripetutamente utilizzati, senza la pretesa di enunciare "il nucleo centrale" del suo pensiero - nell'ipotesi che ve ne sia uno. Cercheremo solo di avere in mano gli strumenti di base che ci permetteranno una lettura spirituale, ma non ingenua, delle lettere ai Galati e agli Efesini, che ho scelto (3) per accostarci più direttamente al "Vangelo di Paolo", ossia all'annuncio di Gesù Cristo così come l'Apostolo delle Genti lo ha compreso e trasmesso.


 


(1) W. WREDE, Paulus, Tübingen 1904; piü recentemente A.N. WILSON, Paul. The Mind of the Apostel, London 1997; tr. it. Paolo. L'uomo che inventò il cristianesimo, Milano 1997.


(2) «Già la parola 'cristianesimo' è un equivoco - in realtà è esistito un solo cristiano, e quello èmorto sulla croce. Quello che da quel momento in poi si chiama "Vangelo" era già il contrario dl ciò che egli aveva vissuto: una "mala novella", un dysangelium. [...] Alla "buona novella" seguì da presto la peggiore di tutte: quella di Paolo. In Paolo si incarna il tipo opposto al "buon nunzio", il genio in fatto di odio, di inesorabile logica dell'odio! Che non ha sacrificato all'odio questo disangelista? Innanzitutto il redentore: egli lo inchiodò alla sua croce. La vita, l'esempio, la dottrina, la morte, il significato e il diritto dell'intero Vangelo - nulla esistette più, quando questo falsario per odio comprese che cosa poteva servirgli [cioè la dottrina della vita oltre la morte... ] Ciò che egli stesso non credeva, credettero gli idioti tra i quali aveva diffuso la sua dottrina... L'invenzione di Paolo, il suo espediente per la tirannide dei preti: la credenza nell'immortalità - vale a dire la dottrina del giudizio. [...] Ciò che Paolo condusse a termine più tardi, col cinismo freddo del rabbino, non fu tuttavia che un processo iniziato con la morte del redentore» (F. NIETZSCHE, L'anticristo, §§ 39.42.44). Ancora vedi H. MACCOBY, The Mythmaker. Paul and the Invention of Christianity, New York 1986.


(3) Giustificherò più avanti le ragioni di questa scelta.



Una vita intensa, segnata da un incontro


È difficile ricostruire nel dettaglio la cronologia paolina, anche se il quadro generale della sua vita ci è sostanzialmente chiaro. È possibile seguire due schemi cronologici: quello tradizionale, che si basa sul racconto degli Atti, e quello "critico" che privilegia i dati offerti dalle lettere. La contrapposizione frontale tra il Paolo degli Atti e quello delle lettere, sostenuta soprattutto dagli studiosi che seguono il metodo storico-critico, rivela però un approccio di fondo che non sarà il nostro: a noi interessa - pur con la dovuta attenzione ai dati documentabili della storia - la figura canonica, ispirata di Paolo, così come emerge dall'insieme della Sacra Scrittura, e non la figura smunta e ridotta al "minimo storicamente verificabile" dal metodo storico-critico. (4)


Il punto di riferimento più sicuro è l'iscrizione dl Delfi, da cui risulta che il proconsole romano Gallione, fratello del filosofo Seneca, risiedeva a Corinto nel 50/51 o - al più tardi - l'anno successivo. Secondo At 18, l2ss, Paolo incontrò Gallione, anche se non sappiamo se all'inizio o al termine del suo mandato; perciò di sicuro Paolo era a Corinto verso il 51. A partire da questa data si lavora per ordinare la cronologia paolina. Ecco i dati riconosciuti più o meno unanimemente. (5)


Saulo-Paolo nasce a Tarso, in Cilicia (Turchia meridionale) nei primi anni dell'era volgare, presumibilmente una decina d'anni dopo Gesù. Lascia Tarso per continuare i suoi studi a Gerusalemme tra il 25-30 d.C., e vive nella città Santa diversi anni formandosi alla scuola di Rabbì Gamaliel. Da buon fariseo, si accanisce contro la nascente setta dei Nazirei, seguaci di un certo Gesù che pretendeva di essere il Messia (Gal 1,13). La sua conversione sulla strada di Damasco deve essere avvenuta negli anni 34-35: è l'evento chiave che spezza in due la sua vita, l'incontro decisivo che determina tutta la sua missione. Gli Atti narrano ben tre volte il fatto: nel c. 9 il racconto è in terza persona, nei cc. 22 e 26 Paolo stesso ne riferisce in maniera autobiografica. Almeno tre passaggi delle lettere accennano a questo incontro: 1 Cor 15,8: "è apparso anche a me..."; Gal 1,15-16: "Dio si compiacque di rivelarmi suo Figlio..."; Fil 3,12: "sono stato catturato da Gesù Cristo". L'incontro con il risorto comportò "un ridimensionamento totale e un'autentica trasfigurazione di tutto il sistema mentale di Paolo". (6) Il suo immediato ritiro in Arabia (Gal 1, 15-17) ha luogo nei mesi seguenti la sua chiamata, per poi tornare a Damasco. Tra il 37 e il 39 Paolo sale una prima volta, da cristiano, a Gerusalemme; è una visita di 15 giorni per prendere contatto con Pietro /Kefas. Vi incontra anche Giacomo, fratello del Signore (Gal 1,18-21). ma non altre persone della comunità. Ecco perché rimane sconosciuto alle chiese della Giudea, che sentono solo parlare dell'antico persecutore divenuto ora apostolo (Gai 1,22-24). Subito dopo si trasferisce ad Antiochia di Siria, trattenendovisi diversi anni. In questo periodo va collocato il primo viaggio missionario (durato un paio di anni, tra il 44 e il 49), intrapreso da Paolo sotto la direzione di Barnaba e su incarico della chiesa antiochena (At 13,1-3). L'itinerario tocca Cipro, patria dl Barnaba, e numerose regioni della penisola Anatolica meridionale.


Quattordici anni dopo la prima salita a Gerusalemme, dunque tra il 49 e il 50, Paolo vi fa ritorno per trattare la grave questione dell'osservanza della legge ebraica da parte dei pagani convertiti alla fede; porta con sé Barnaba e Tito, un credente non circonciso. È il cosiddetto concilio di Gerusalemme (At 15), in cui la tesi paolina, secondo cui l’osservanza della legge e della circoncisione non è una propedeutica necessaria alla fede, sembra prevalere. Dopo il concilio, Paolo e Barnaba tornano ad Antiochia; qui Paolo si scontra con Pietro perché - sembra dl poter ricostruire così la vicenda - a Gerusalemme e anche ad Antiochia stessa stavano diffondendosi opinioni "tradizionaliste" che imponevano ai pagani convertiti condizioni più pesanti di quanto concordato al concilio. È il cosiddetto incidente di Antiochia (riportato da Gal 2,11-21 e omesso da At). Il carattere dì Paolo si rivela focoso quando, poco dopo, litiga con Barnaba: I due partono per un nuovo viaggio apostolico. ma separatamente. È il secondo viaggio missionario, databile tra il 50 e Il 52: Paolo torna a visitare le chiese da lui fondate in Asia minore; poi, dopo una sosta in Galazia per malattia, su invito del Signore intraprende l'evangelizzazione del continente europeo: arriva in Grecia, e visita Neapoli, Filippi, Tessalonica, Atene e infine Corinto, ove rimane un anno e mezzo, ospite del coniugi Aquila e Priscilla, giunti da Roma a causa dell'espulsione dei giudei per ordine di Claudio (49 d.C.). A Corinto Paolo viene accusato di sedizione dalla comunità ebraica locale, a causa dei successi che la sua predicazione riscuote; il proconsole Gallione lo assolve, ma prudentemente Paolo abbandona la città. Accompagnato da Timoteo e Sila (Silvano), si imbarca per Efeso, prosegue alla volta di Cesarea Marittima, da dove sale a fare un saluto alla comunità dl Gerusalemme, e poi torna ad Antiochia.


Verso il 53 Paolo intraprende il suo terzo viaggio missionario. Vuole tornare a Efeso, ma stavolta per via di terra, tornando a visitare le chiese dell'Asia minore. Paolo rimane ad Efeso circa tre anni (53-56), poi riparte alla volta della Grecia. Nuovo soggiorno a Corinto, poi a Filippi, dove raccoglie fondi destinati ad aiutare la chiesa madre di Gerusalemme. Via mare torna a salutare gli anziani della chiesa dl Efeso, pronunciando un memorabile discorso d'addio (il suo "testamento pastorale": At 20).


Consapevole dell'incertezza del suo futuro, portando il denaro della colletta in favore della comunità gerosolimitana, Paolo giunge alla Città Santa nella pentecoste del 57 o 58. Viene arrestato, condotto in carcere a Cesarea, sede dell'autorità romana. È in prigione quando avviene il cambio di procuratore da Felice a Festo, nel 59 o 60. Appellatosi a Cesare, viene imbarcato per essere giudicato a Roma; il fortunoso viaggio si svolge di autunno (periodo ritenuto già pericoloso per la navigazione) tra il 59 e Il 61. Dopo aver fatto naufragio a Malta, Paolo giunge a Roma probabilmente nella primavera del 61; vi rimane agli arresti domiciliari fino alla sua morte, avvenuta in data imprecisabile tra il 64 e il 67.


 


(4) Cfr E. Rossi DE GASPERIS, Paolo di Tarso evangelo di Gesù, Lipa, Roma 1998, p. 15. Si tratta di un ottimo volumetto che sviluppa soprattutto il rapporto di Paolo con la sua matrice ebraica. Per la biografia di Paolo, anche se superata da studi più recenti, rimane vivacissima e sempre affascinante l'opera di G. RICCIOTTI, Paolo apostolo, Roma 1948. Una difesa intelligente, appassionata e ragionata del valore storico degli Atti si trova in M. HENGEL, La storiografia protocristiana, Paideia, Brescia 1985: "Sono le lettere autentiche di Paolo a rendere possibile una valutazione storico-critica degli Atti degli Apostoli; e, a loro volta, appaiono interamente comprensibili nel loro proprio contesto storico-cronologico solo grazie all'infomazione fornita da Luca. (...L'opera di Luca), pur non consentendoci dl scrivere senza lacune una "storia del protocristianesimo", ci dà tuttavia la possibilità di tracciare per sommi capi il processo che dalla prima comunità di Gerusalemme giunge alla missione universale di Paolo" (pp 61.98).


(5) Capire la vita di Paolo significa conoscere un po' anche la geografia del vicino e medio oriente: è utile trovare su una cartina le località citate, per dare concretezza a quanto descritto.


(6) F. ROSSI DE GASPERIS, cit, 32.



Gli scritti


La collezione dei testi tramandatici con il nome dl Paolo consta di 13 lettere, a cui si deve aggiungere la cosiddetta lettera agli ebrei, che pur non essendo scritta da lui, gli è stata attribuita. Delle tredici, sette sono ritenute da tutti autentiche (lTs; 1 e 2Cor; Gal; Rm; F'il; Fm): scritte tra gli anni 50 e 60, esse sono gli scritti più antichi del cristianesimo. Nelle altre lettere la maggioranza dei critici è incline a ravvisare la mano di qualche discepolo, se non addirittura la pesudoepigrafia (7) secondo una usanza in voga in quei secoli. Ecco uno schema del cosiddetto "corpus paolinum":





























Autenticità sicura Romani

protopaoline

 1-2 Corinzi
  Galati
  1 Tessalonicesi
  Filippesi
  Filemone


 

















Autenticità problematica Colossesi

deuteropaoline

 Efesini
  2 Tessalonicesi


 













Autenticità improbabile 1-2 Timoteo

tritopaoline

 Tito


 









Non paolina Ebrei




Per quanto riguarda la cronologia delle lettere, possiamo ritenere abbastanza sicuro quanto segue:




50 d.C. 1Ts (per chi ne ammette l’autenticità, 2Ts subito dopo)


54/56 d.C. 1 Cor


56 ca. d.C. Gal e 2Cor (che però racchiude almeno due lettere)


56/58 d.C. Rm


62 ca. d.C. Col e Fm


Il Paolo autentico va cercato in questi scritti; le lettere deutero e tritopaoline sono da considerarsi ovviamente ispirate e canoniche, dunque "parola di Dio", ma sono espressione di quello che è stato chiamato il paolinismo, ossia la corrente teologica influenzata dalla straordinaria personalità di Paolo. Per quanto riguarda la ricostruzione del pensiero paolino più originario, occorre ricordare che egli fu, si, teologo, ma non un sistematico: non ha prodotto una summa theologica, e la stessa lettera ai Romani, che è la sua opera più completa, rimane uno scritto di occasione. "Si è occupato invece dl concrete situazioni delle sue chiese e ha inteso risolvere, in maniera teologicamente fondata, problemi storici particolari che progressivamente si imponevano al suoi interlocutori e a lui stesso. In breve la sua potrebbe essere definita una teologia applicata". (8) Non dobbiamo dunque illuderci di poter ricostruire un sistema teologico organico e completo; e tuttavia la sfiducia di poter risalire a cosa pensava Paolo risulta ingiustificata.


 


(7) Uno scrittore poco noto poteva attribuire la paternità della sua composizione ad un autore famoso, e far circolare la sua opera sotto il patrocinio e l'autorità altri, assicurandole così una maggior diffusione.


(8) G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, Borla, Roma 1980, 60s.



Perché Galati ed Efesini?


Mi sembra che un primo approccio con la complessità della figura di Paolo possa essere svolto bene attraverso la lettura integrale e successiva di Gal ed Ef. Già il semplice confronto di queste due lettere - una autentica e l'altra deuteropaolina - potrà aiutarci a cogliere elementi preziosi. Galati affronta un problema concreto, quello della libertà dalla legge, che diede molto da fare alle primitive comunità cristiane, divise tra il desiderio dell'accoglienza del pagani e le istanze giudeocristiane più tradizionaliste e legate alla torah. Affrontando questo problema specifico, Paolo però ci offrirà uno spaccato interessante dl tutto il suo pensiero. Inoltre gli abbondanti tratti autobiografici presenti in Gal ci aiuteranno a gustare lo stile sanguigno e concreto dell'apostolo dei pagani.


La lettera agli Efesini presenta una visione teologica più ampia e pacata, che rivela una mano diversa. Si tratta dl uno degli scritti più rilevanti del paolinismo, e ci darà occasione di meditare sull'intera storia della salvezza e sul progetto di comunione universale che il Padre ha voluto realizzare con il dono del suo Unigenito.


Certo, scegliendo queste lettere non avremo occasione di leggere la complessa trattazione della giustificazione del giusto mediante la fede, presente in Rm, nè la presentazione della logica della croce di 1Cor, nè il sublime inno all'amore della medesima lettera, nè le infiammate parole sull'attesa imminente del ritorno glorioso del Risorto vergate da Paolo in lTs...: tutti temi paolini che meriterebbero un approfondimento. Ma Gal ed Ef, lettere di lunghezza contenuta e straordinaria ricchezza teologica, costituiscono una via di accesso interessante alla figura di Paolo e al suo pensiero.


Ovviamente, il modo di pregare su queste pagine sarà ben diverso da quello utilizzato finora! Le pericopi narrative dei vangeli ci hanno abituato a contemplare la scena, i personaggi, la figura di Gesù ecc. Ora si cambia registro; la meditazione dovrà concentrarsi su frasi, concetti, situazioni da approfondire con una lenta ruminatio. Dovremo imparare a riflettere pregando, ovvero cogliere il riflesso del Signore Risorto presente nell'esperienza personale di Paolo, nelle soluzioni da lui offerte ai problemi della vita comunitaria, nelle abbondanti sezioni parenetiche. Per fare questo saranno necessarie alcune chiavi interpretative, o concetti chiave, che ci apriranno il tesoro della spiritualità di Paolo.



Chiavi della teologia paolina


Paolo non ha conosciuto Gesù di persona, e temi centrali della predicazione gesuana - come l'annuncio del Regno di Dio - sembrano assenti nella sua teologia. Il suo pensiero si concentra sulla fede nel Kyrios, il Signore Gesù morto e risorto, e da qui sviluppa una riflessione sull'amore provvidente del Padre e sul dono dello Spirito che edifica la Chiesa fino al compimento del progetto di salvezza universale. Questo è quello che egli stesso ha chiamato "il suo vangelo" (cfr Rm 2,6; 2Tm 2,8).


In passato, molti studiosi hanno tentato dl fornire un quadro d'insieme della teologia di Paolo; ma - come già accennato - dobbiamo ammettere che probabilmente lui stesso non ha elaborato una simile teologia in modo compiuto. Per accostarci ai suoi scritti mi sembra dunque più saggio presentare alcune idee portanti, che ricorrono spesso nel corpus paolinum e che possono aiutarci. Un po' come abbiamo fatto con l'evangelista Giovanni - altro autore che può essere utilmente accostato a partire da alcuni termini chiave - avremo cosi a disposizione delle "griglie interpretative" per cogliere il senso delle espressioni - spesso oscure (9) - di Paolo. Il complesso del pensiero paolino emergerà più dalla costellazione di queste idee chiave che dall'identificazione di un nucleo essenziale - pur nella consapevolezza che questo nucleo esiste, ed è la persona di Gesù risorto, il risorto da lui incontrato sulla via di Damasco. Ma non si tratta più di un semplice nucleo teologico: è la persona viva di Cristo. Chi cerca altrove il cuore della riflessione paolina non lo troverà mai.


 


(9) La difficoltà nel seguire alcuni ragionamenti di Paolo è riconosciuta da sempre: "...il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data: così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta dl queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano..." (2Pt 3,15-16).



Ecco dunque le Intuizioni basilari del Paolo storico e del paolinismo.


1. Il disegno salvifico del Padre (pròthesis)


All'origine di tutto sta li disegno salvifico del padre ispirato da un amore eterno e comunicativo, il quale chiama tutti gli uomini - ebrei e pagani - e la creazione stessa alla grazia e alla gloria. E in conseguenza di questa elezione ab aeterno che Dio chiama nel tempo. Il termine pròthesis. "progetto" ricorre 6 volte nel corpus paolinum, soprattutto in Ef (1,9.11;3,11) e Rm (8,28; 9,11). Tutta l'iniziativa della salvezza è del Padre, il Dio trascendente e misterioso che ama le sue creature. È un progetto vagheggiato dall'eternità, più da artista che da ingegnere, più creativo che calcolatore. Tutta la disputa sulla predestinazione viene da un fraintendimento del senso di questo progetto: il pro- non indica un prima nel tempo, ma una trascendenza nell'essere. Il testo che esprime In modo più compiuto questa idea dominante è Rm 8,28-30:


Rm 8,28 Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. 29 Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli: 30 quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati: quelli che ha chiamati li ha anche giustificati: quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.



2. Il "vangelo" (euanghèlion)


Il termine vangelo (euanghélion) compare 76 volte nel Nuovo Testamento; 60 occorrenze (il 79%!) sono negli scritti paolini. Questo semplice dato statistico rivela quanto il concetto sia caratterizzante il nostro autore. Il termine stesso è probabilmente coniato da Paolo, anche se in qualche modo circolava nella comunità dl Antiochia (dove, tra l'altro, "per la prima volta i discepoli furono detti cristiani": At 11,26). Paolo padroneggiava perfettamente la lingua greca e la sua creatività linguistica è frequentemente attestata (10) nulla di più facile che sia stato lui a compendiare l'annuncio della fede nel termine sintetico ed icastico "buona notizia". Questo vangelo è un messaggio trascendente che l'apostolo ha ricevuto in dono, e dunque è "Vangelo di Dio" (Rm 1,1); ma poi egli lo ha fatto suo, lo ha "personalizzato", tanto da poter dire senza scrupolo "il mio vangelo" (Rm 2,6). L'euanghélion non è solo una "buona notizia", ma:



  • 1. annuncio di Cristo morto e risorto "per...": la pasqua è per la salvezza di ogni uomo;
  • 2. Interpella l'uomo raggiungendolo dove è: il vangelo non impone una trafila penitenziale, ma si offre ad ogni uomo così come egli si trova a vivere;
  • 3. l'uomo interpellato deve scegliere: sì o no. Dinanzi al vangelo è necessario prendere posizione.
  • 4. Da questa scelta dipende la salvezza o perdizione finale dell'uomo: chi si chiude al vangelo si perde, chi lo accoglie si realizza come persona.

 


(10) Basti pensare ai numerosi termini composti con la preposizione syn (con) da lui inventati per esprimere la comunione del credente con Cristo: con-morire, con-risuscitare, ecc. (Rm 6,8; Col2,12...).



3. Fede (pìstis)


Se nel IV vangelo il verbo credere ricorre con straordinaria frequenza, il corpus paolinum è invece caratterizzato dal sostantivo fede. Giovanni, il contemplativo, sembra più interessato a mettere in luce l'atto costante di abbandono fiducioso a Dio; Paolo, l'apostolo dal carattere di fuoco, mette al centro dell'attenzione la decisione dell'uomo davanti alla sorprendente proposta dell'annuncio. La fede e la risposta positiva dell'uomo interpellato dal vangelo, l'apertura totale al contenuto del vangelo. Si sviluppa in tappe progressive:



  • 1. Adesione iniziale: è il sì all'annuncio che sfocia nel sacramento del battesimo (cfr 1 Cor 15,11: "cosi abbiamo annunciato e così avete creduto").

    2. Assimilazione progressiva: la fede ricevuta si estende e gradualmente investe tutta la vita del credente. Ciò che non si lascia trasformare dalla fede "va in necrosi", diventa errore e peccato.


    3. Espressione comunitaria: la fede della chiesa si fonda sulla fede dei singoli; ma "quando siamo insieme scatta qualcosa di nuovo e diverso. Questo "di più" è la chiesa. Il linguaggio proprio della fede ecclesiale è la confessione di fede e la celebrazione liturgica.


    4. Spinta missionaria. L'annuncio ricevuto, che ha trasformato la vita del singolo e della comunità, chiede di essere condiviso con tutti.


  • La trasformazione dell'uomo (o giustificazione, come ora vedremo) avviene grazie alla fede nella persona di Gesù risorto e Signore, e non grazie alla realizzazione delle opere prescritte dalla legge. Anzi, solo l'uomo interiormente trasformato dalla fede può avere la forza di compiere le opere della legge; e tuttavia la fede "opera mediante la carità" (Gal 5,6), cioè si manifesta necessariamente nelle opere dell'amore. È importante però rispettare l'ordine delle cose: è il cuore nuovo, rinnovato tramite la fede, che - solo - può compiere le opere dell'amore.



    4. Giustificazione (dikàiosis) e giustizia


    Si tratta di un tema di importanza assolutamente centrale nel pensiero paolino, ma che spesso è stato male interpretato (basti pensare alla controversia con i protestanti!). Il senso del termine giustificazione e di tutta l'area semantica legata al verbo greco dikaiòo (giustificare) viene del tutto frainteso se lo si assume a partire dal significato forense e legale; Paolo infatti deriva il termine non dalla matrice greca, ma da quella giudaica. Il termine di riferimento è l'ebraico s daqah, giustizia. L'immagine che soggiace a tale idea è quella del "pareggio del bilancio", del portare una realtà alla sua misura: da sempre la bilancia a due bracci è simbolo della giustizia. Dio ha un progetto - come sappiamo - per l'uomo e per l'intero creato; questo ideale possiamo chiamarlo "il peso forma" della creatura, la "formula uomo". Quando questa misura pensata da Dio viene attuata nella realtà, si compie la giustizia: il "pareggio tra la formula ideale e la realtà storica". La giustizia divina è il pareggio tra ciò che Dio ha liberamente promesso e ciò che egli attua nella storia. Autore della giustificazione dell'uomo è perciò necessariamente solo Dio, "giusto è giustificante" (Rm 3,26). Non si tratta perciò di una "giustificazione forense", estrinseca, come se Dio volesse trovare delle attenuanti al fatto che l'uomo è peccatore e non conforme al suo progetto originario; è una trasformazione oggettiva e reale dell'uomo, che - grazie alla fede nella risurrezione di Cristo - riceve l'adozione a figlio e il dono dello Spirito, diventando capace di amare come Gesù e dunque raggiungendo la "piena statura di Cristo" (cfr Ef 4,13), la vera "formula uomo".



    5. Chiesa (ekklesìa)


    Nella fede dl Israele, la comunità riunita da Dio (l'assemblea, la qahal JHWH) trova la sua piena realizzazione neLla liturgia del tempio: nell'attività cultuale Dio si accosta al suo popolo, l'uomo abbandona le attività quotidiane per purificarsi e accostarsi al suo Dio: questo contatto con la realtà di Dio rivitalizza il popolo e lo rinnova. Per Paolo, la funzione del tempio è ora svolta da Cristo risorto, presente nel suo nuovo popolo: chi si riunisce nel nome di Cristo ne riceve l'influsso vitalizzante e rinnovatore. È il dono dello Spirito che rende i credenti un solo corpo, pur nell'articolazione dei diversi carismi (cioè dei "doni" che lo Spirito elargisce ai singoli per il bene di tutti). Il corpo non è affatto disprezzato da Paolo (11): il corpo è la concretezza relazionale, ciò che rende possibile entrare in comunione, ed è dunque realtà preziosissima. La Chiesa è dunque l'insieme di coloro che partecipano già ora della risurrezione di Cristo: la chiesa è il corpo di Cristo, nel senso che coloro che partecipano della vitalità del Risorto sono il suo corpo. In fondo non esiste che una sola resurrezione: quella di Cristo, che viene partecipata a tutti i credenti. Quando questo procedimento, già incoativamente in atto nella storia, sarà compiuto, allora Dio sarà tutto in tutti, il Regno sarà perfettamente realizzato, la Chiesa sarà giunta alla sua pienezza.


     


    (11) Ciò va fermamente ribadito contro tutti coloro che hanno voluto vedere nel cristianesimo una religione del disprezzo del corpo in favore della superiorità dell'anima: in realtà è l'influsso di certo platonismo che ha portato alcuni padri della Chiesa a sviluppare una opposizione anima-corpo che è invece del tutto assente negli scritti del Nuovo Testamento.



    6. Dimensione escatologica


    La redenzione che si acquisisce in Cristo è per Paolo una salvezza attuale e presente, ma il suo compimento rimane ancora nell'attesa. Non si avrà che con la resurrezione completa dei nostri corpi mortali, quando ci sarà la manifestazione gloriosa di Cristo che, vinta ogni resistenza del male e della morte, consegnerà il Regno al Padre (cfr 1Cor 15,25). È diventato usuale nel gergo cristiano esprimere questa situazione paradossale e stimolante con le espressioni "già" e "non ancora". Qui si innesta il dinamismo della speranza, fondamentale nell'esistenza cristiana secondo San Paolo: "nella speranza siamo stati salvati" (Rm 8,24).


    È possibile leggere in concatenazione i 6 punti sopra esposti, a mo' di schema della teologia di Paolo: tutto prende le mosse dal progetto di Dio, da lui concepito fin dall'eternità, che vuole la salvezza e la pienezza di vita per ogni uomo. Tale progetto, data la condizione reale dell'uomo, segnato dalla debolezza e dal peccato, si può realizzare soltanto grazie al dono del Figlio: il vangelo è l'annuncio che Gesù è il Figlio di Dio morto e risorto per l'uomo, l'annuncio della possibilità dl realizzare il progetto di Dio. La fede è l'accoglienza incondizionata del contenuto del vangelo, l'accoglienza di Cristo nascostamente operante nel cuore dell'uomo. Si realizza cosi la giustificazione del peccatore: Cristo libera l'uomo dal male e trasforma in figlio di Dio e tempio dello Spirito. L'uomo inizia così finalmente ad essere proporzionato alla sua "formula originaria", realizzando il "pareggio" tra il reale e l'ideale. Si forma cosi la chiesa, l'insieme degli uomini vitalizzati dal contatto con la resurrezione di Gesù. La chiesa però non è statica nè perfetta: cammina nel tempo verso il compimento definitivo, quando tutto il creato sarà permeato della forza della risurrezione, quando tutto sarà "spiritualizzato" e Dio "sarà tutto in tutti".



    7. Antropologia paolina


    Da tutto ciò risulta una visione della realtà umana eccezionalmente dinamica. Il dinamismo contraddistingue l'esperienza umana. Si trova in Paolo un conflitto di realtà nel cuore dell'uomo; ma tale conflitto non avviene tra anima e corpo, tra realtà materiale e realtà immateriale. Esso si gioca tra lo spirito (pnèuma) di Dio (o di Cristo), ossia la realtà divina già presente nell'uomo che crede, e la carne, ossia la realtà umana (corpo e psiche, sentimenti e pensieri) che si ostina a non lasciarsi permeare dalla vita nuova del Risorto:


    1Cor 2,14 L'uomo naturale (psychikòs ànthropos) però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. 15 L’uomo spirituale (pneumatikòs) invece giudica ogni cosa.


    La lettera ai Romani presenta ai capitoli 7 e 8 lo scontro tra l'uomo succube della propria carne e l'uomo giustificato che vive la libertà dello Spirito.



    Il testamento pastorale di Paolo (At 20, 16-38)


    Per introdurci alla spiritualità di Paolo ho pensato di iniziare con un testo - paradossalmente - non di Paolo ma di Luca. È il discorso di addio agli anziani di Efeso, ambientato da Luca nella città di Mileto. Paolo ha vissuto a lungo ad Efeso, ed ora va a Gerusalemme con il triste presentimento di dover affrontare pericoli gravissimi e forse, come il Maestro, la morte. Al termine del suo terzo viaggio apostolico vuole passare a salutare i suoi amici e "cedere il testimone". Egli è stato padre e pastore in quella comunità; altri ora devono assumere il suo compito, raccogliere la sua eredità, trasmettere alle generazioni future il messaggio del Risorto. È un congedo doloroso che ci presenta il cuore dell'Apostolo e del pastore, ma anche dell'uomo e dell'amico.


    Dobbiamo chiederci: è un discorso di Paolo o di Luca? Indubbiamente, anche se a pronunciano è Paolo, le parole sono di Luca: "è possibile trovare in esso anche Paolo, ma solo a livello dei materiali impiegati". (12) Tuttavia il nostro approccio, lo abbiamo già detto, è quello spirituale, che considera tutta la bibbia nel suo insieme come testo ispirato che ci comunica la Parola di Dio. Ricordiamo certamente dagli scorsi anni che, se Marco è "il vangelo di Pietro", Luca è "il vangelo di Paolo". Ebbene, stasera è San Luca, l'evangelista che fu più legato all'apostolo delle genti, a presentarci un suo ritratto. Un ritratto che ce lo presenta al culmine del suo zelo pastorale e consapevole di dover seguire fino in fondo il Signore sulla via della croce. (13) Accogliamo stasera questo prima immagine, cercando nel prossimi incontri di ricostruire i tratti più autentici ed autobiografici dell'apostolo nella lettura della lettera ai Galati.


    Il Paolo che emerge da At 20 è molto simile a quello delle lettere pastorali (l-2Tm e Tt): un uomo che vuole "portare a termine la sua corsa", che si sente responsabile delle persone della comunità, che vuole annunziare loro "tutta la volontà di Dio" (ossia il Vangelo nella sua integralità e con le sue esigenze), ma soprattutto consapevole del primato della grazia e fiducioso nell'affidare i suoi cari alla "potenza della Parola": anch'essi sanno ormai che solo l'amore e il dono di sé può riempire di gioia il cuore dell'uomo.


     


     


    (12) J. DUPONT, Il testamento pastorale di Paolo, Ed. Paoline, Roma 1980, 24. Il volume è un eccellente e massiccio (500 pp.) commento al discorso.


    (13) Paolo è tratteggiato da Luca in tutto il libro degli Atti come "il discepolo che segue in tutto il Signore". Sappiamo bene infatti come tutto il Vangelo di Luca sia costruito sulla base del "viaggio di Gesù verso Gerusalemme"; non a caso il Paolo di Luca conclude il suo terzo viaggio con una "salita a Gerusalemme": per portare il denaro alla comunità madre giudeocristiana, certo, ma - è questo l'intento di Luca - anche e soprattutto per compiere anche lui il suo "viaggio verso Gerusalemme" seguendo fino alla fine le orme del Maestro.

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