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Sabato, 19 Giugno 2004 12:32

Il desiderio di Dio. I salmi 42-43 (Sr. Germana Strola o.c.s.o.)

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Il desiderio di Dio
I salmi 42-43
di Sr. Germana Strola o.c.s.o.


Nella sua Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, concludendo la celebrazione del Giubileo del 2000 e dando inizio al Terzo Millennio, il Santo Padre invitava la Chiesa a prendere il largo (Due in altum) nella sequela del Signore Gesù. Una delle sottolineature maggiori di questo documento, come è stato più volte messo in risalto, verte sul primato della contemplazione del volto di Cristo (Cap. II-III), la prospettiva della santità (§ 30-31) e il primato della preghiera, nella vita cristiana (§ 32-34). E come esemplificazione concreta di questa direttiva pastorale, Giovanni Paolo II intraprendeva, nelle sue catechesi del mercoledì, un vero e proprio commentario esegetico-esistenziale al salterio. Facendo tesoro di queste indicazioni autorevoli, sembra quanto mai opportuno riprendere alcuni testi salmici, che si rivelano più vicini alla nostra vocazione monastica, chiamata a vivere interamente nella preghiera, cioè nel desiderio di Dio.


I Sal 42-43 (41-42) sono, insieme ad altri (Sal 26, 62, 84, ecc.) i più significativi a questo riguardo. Il sapiente commento del Papa a questi due salmi è stato oggetto della catechesi di mercoledì 6 febbraio 2002. (1)


L'immagine della cerva che anela ai corsi dacqua ha reso celebre questa bella pagina di lirica religiosa, ma non è facile comprendere in quale senso essa esprima il tema fondamentale del salmo, che celebra il desiderio di Dio come aspirazione alla comunione con Lui, nella celebrazione liturgica del Tempio. Come altre composizioni della stessa raccolta – dei figli di ore, Sal 42-49.84-85 e 87-88 - anche i Sal 42-43 celebrano, sotto una particolare angolatura, la centralità del Tempio di Gerusalemme nella religiosità ebraica e il fascino della sua liturgia. Composti in una situazione di esilio, essi riflettono l'esperienza umano-spirituale di colui che ha perso i beni più cari - Dio, la terra, e tutte le mediazioni di salvezza - ma li recupera nella speranza, cioè nella certezza di fede che Dio ricondurrà il suo popolo all'incontro con il Suo volto.


Mentre i salmi di pellegrinaggio al monte di Sion hanno come dimensione strutturante il rapporto distanza-presenza - il movimento del pellegrino parte da un luogo geograficamente distante dal Santuario, proteso verso l'incontro attraverso il percorso di un itinerario fisico e spirituale. - La dinamica del salmo 42-43 è invece la polarità assenza-presenza. L'esperienza della distanza, del vuoto, appare infatti come una componente particolare della dinamica del desiderio e si rivela una espressione come al negativo - attraverso la percezione della carenza - del richiamo all'incontro con la Presenza.


A livello di composizione letteraria, la sequenza si suddivide in tre parti quasi uguali, grazie alla ripetizione di un ritornello (42, 6.12; 43, 6). Altre riprese minori di termini o locuzioni intermedie collegano la prima e la seconda parte (vv. 4b e 11b, la sfida dei nemici), o la seconda e la terza (vv. 10b; 43, 2b, lamento e questionamento di Dio). Il ritorno costante degli stessi temi e delle stesse immagini non è solo un artificio letterario esterno che conferisce unità allo sviluppo dell'insieme, ma evidenzia soprattutto alcuni elementi fondamentali del messaggio religioso. Il desiderio di Dio si intreccia con la speranza, la fiducia, l'autoesortazione, nell'alternanza emotiva del sentimento spirituale, e deve fare i conti con la conflittualità esterna-interna, la contraddizione, ecc.


Due metafore dominano il poema; quella dell'acqua viva, immagine della vita, in apertura del salmo, e quella dell'acqua travolgente della prova immagine della morte, nella seconda strofa. La prima pennellata che apre Sal 42, 2 non è quindi un quadro idillico e sereno - come spesso siamo portati a credere anche ricordando le bellissime raffigurazioni dei mosaici protocristiani e bizantini (2) - quanto una evocazione che già in se stessa è altamente drammatica. La sete, infatti, è indissolubilmente associata, nella Bibbia, alla minaccia della morte, ma è anche l'ambito esperienziale in cui Dio salva, con l'acqua che sgorga dalla roccia, nel deserto.


Poeticamente, le immagini della cerva assetata del Sal 42 e della rondine che volteggia negli atri del Tempio del Sal 84, sono affini, espressione del desiderio come di una forza esistenziale iscritta nella natura della persona, che supera la sua dimensione strettamente razionale. La cerva in particolare, accompagna nella Bibbia nel Cantico dei Cantici e nei Proverbi, la descrizione dell'amore umano o, altrove, in Giobbe e nei Salmi, l'allusione alle tappe fondamentali dell’esistenza (la procreazione, i piccoli, ecc). Secondo l'esegesi rabbinica tradizionale, può essere letta soprattutto come immagine della sposa, di Israele. L'acqua è vita in un paesaggio assolato: la ricerca di Dio si colora di una evocazione primaria, fondamentale per l'esistenza. E’ questo il punto di partenza del salmo.


Ma all'inizio della seconda parte, il precipitare vorticoso e il fragore delle cataratte di abisso in abisso danno all'acqua un significato opposto; quello dell'evocazione della morte. Il paesaggio esteriore diviene di nuovo specchio, simbolo dell'esperienza interiore dell'orante, non solo quindi evocazione in positivo dell'attrazione verso Dio, ma, come in negativo, rappresentazione della sua angoscia mortale per l'allontanamento dalla sorgente della Vita. Le rocce montagnose dell'Hermon dove l'orante colloca il suo esilio - in località ignote, non meglio precisabili, da leggere probabilmente in chiave simbolica - fanno da sfondo alla metafora del vortice tumultuoso della prova. Gli estremi confini del Nord, indicano essenzialmente la lontananza dal centro vitale (il Tempio di Gerusalemme, da cui sgorga la fonte di Dio, le cui acque scorrono nel silenzio). Senza particella comparativa, il quadro geografico, insieme al vigore sonoro del verso originale, è di una forza espressiva abbastanza rara e fa da contrappunto al ritmo classico delle lamentazioni che percorre i due salmi.


La simbologia che collega le acque impetuose con la morte ricorre con frequenza nelle suppliche ispirate da malattie o angosce mortali (3) e per questo forse evoca essenzialmente, nel Sal 42, 8, l'annegamento che riconduce al caos primordiale. Al di là di una interpretazione realistica, bisogna sottolineare che l'orante, alla ricerca di acqua per la sua sete, la trova: ma non come acqua di salvezza, bensì come acqua di distruzione. Dio, che è per lui principio di vita, diventa inspiegabilmente causa della sua morte: "Dio è Colui che fa la ferita e la fascia, che dà la morte e la vita" (Sal 42, 10 e 43, 2); è Lui che tiene in mano le sorti della vita dell'uomo e che ne determina il cammino (4).


Come in controluce, in uno sfondo in cui si sovrappongono metafore ambivalenti, il dialogo dell'orante con se stesso, descritto nelle ripetizioni del ritornello è soprattutto espressione del suo travaglio interiore che si interroga sull'esperienza sconcertante a cui si trova esposto. Nella sua forzata solitudine e nel turbinio di una tentazione che sembra travolgerlo - per la sua fede, sono un tutt'uno la lontananza da Dio e dalla terra santa, dal tempio e dalla comunione con il Signore presente in essa. - Il salmista percepisce che le onde e i flutti che lo avvolgono sono in definitiva onde e flutti che vengono da Dio, voluti da Dio: una parola di giudizio (Dio di difesa e di fortezza... mi hai dimenticato... mi hai respinto). La prova, più a fondo, non è l'esilio, la perdita delle mediazioni storiche dell'alleanza, ma ciò che queste significano: l'apparente impotenza di un Dio che non lo salva (dov’è il tuo Dio?), la contraddizione stessa di un Dio Amante e Creatore, che sembra essere divenuto nemico della sua persona.


Lo sfogo dell'amarezza assume i toni di un abbattimento tutto ripiegato all'interno (non è uno sfogo davanti a Dio) (5); sembra, tuttavia, dalle immagini descritte in Sal 42, 5, che l'identificazione tra desiderio di Dio e lo splendore della celebrazione sia ancora troppo piatta e materialistica (quasi che l'orante confonda ancora la gratificazione emozionale procurata dalla celebrazione antica, con l'autenticità dell'incontro con il Dio Vivente). Prevale forse la nostalgia della festa (sonus epulantis!) sul suo significato propriamente religioso. Così, il ritornello maggiore descrive l'abbattimento, il lamentarsi su se stesso, pur aprendo già verso dimensioni di speranza la lode, la salvezza donata dalla presenza di Dio, il voto di rendimento di grazie. Tuttavia, nostalgia e scoraggiamento diventano l'occasione per una riscoperta della fiducia e della certezza interiore.


Se Dio fa sentire dolorosamente la sua assenza, questa diviene stimolo e occasione di crescita, proprio al cuore della prova. Il modo in cui Dio è presente, ora, non è più lo splendore del culto, ma - precisamente - la dolorosa percezione della sua assenza e il rimpianto. Se l'assenza non provasse duramente la fede, non procurerebbe dolore; ma quando fa soffrire, la stessa assenza rende colui che è Assente presente nell'intimo, proprio con la sua lontananza. Il ripiegamento interiore trova spazi di salvezza quando si apre, ripercorrendo nella memoria la gioia della festa e la memoria di Dio presente in essa. Il modo in cui Dio riemerge come certezza interiore dell'orante non è più lo splendore della liturgia, ma la forza del desiderio, di cui Egli è misteriosamente il principio. Anche le sfide dei nemici acuiscono la sofferenza dell'allontanamento e approfondiscono la nostalgia. In riferimento ad esse, la metafora della sete di Dio viene rovesciata nell'immagine del pane di lacrime, nell'inghiottire lacrime amare. L'orante, invece di poter estinguere la sua sete di Dio, deve portare le sfide beffarde dei nemici, che lo provocano all'ateismo. Al cuore della sua cattività, Dio si rivela come il Signore dell'esistenza e significato del suo misterioso svolgersi nel tempo. Si direbbe che Dio si comunica più intensamente attraverso il suo essere lontano.


Le coordinate del tempo e detto spazio emergono in tal modo in questi due salmi, come le dimensioni strutturanti del desiderio. La lettura della prima e della terza strofa orientano chiaramente verso l'incontro con il Dio vivente, che si rende presente nel culto: ad esempio, in Sal 42, 5 viene descritto impressionisticamente il pellegrinaggio verso la casa di Dio, nel giubilo e nella lode, nell'esultanza della festa; nel Salmo 43, 3-4 il testo poetico delinea a grandi tratti il Monte Santo, la dimora, l'altare, la festa del rendimento di grazie. La prima strofa ricorda nostalgicamente un passato già remoto e impossibile da recuperare; mentre la terza desidera e spera un futuro già percepito come ormai prossimo. E la seconda strofa? La situazione presente, la prova, media tra l'esperienza del passato e l'anticipazione del futuro. Se oggi si levano davanti agli occhi la visione delle montagne dell'esilio (opposte al Monte Santo), le sfide e gli schemi dei nemici, il tumultuare fragoroso delle cascate, la dinamica del desiderio si protende tanto più intensamente dal passato verso il futuro. Al centro della seconda strofa (Sal 42, 9), la supplica e il canto al Dio della vita, che continuano ad accompagnare il salmista, di giorno e di notte, aprono la fonte della speranza, pur nell'incessante scorrere delle lacrime. Nell'oggi di un nuovo diluvio (Sal 42, 8), dal travaglio della memoria che si ripiega nostalgicamente sul passato (Sal 42, 5), si riaccende la speranza che rilancia verso il futuro (Sal 42, 6). Dai confini della terra (Sal 42, 7), la forza del desiderio si protende verso il centro del mondo, il luogo della Presenza, e anticipa le immagini dell'esaudimento della preghiera (Sal 43,3-4). Viene in tal modo descritta una trasformazione interiore, nel passaggio dalla prima alla terza strofa, proprio in forza della continuità della preghiera di fede, che invoca grazia (Sal 42, 9), nel crogiolo della prova.


Nell'intimo dell'orante, la voce di Dio emerge dapprima sotto forma di sete, e quindi nella certezza che ispira l'autoesortazione a permanere, fedelmente nell'attesa. Dio gli si dona nell'anelito del suo desiderio, nella scintilla interiore che accende il dono della preghiera (come dice Sant'Agostino; non potresti desiderare se già non ti fisse dato in qualche modo Colui che tu desideri). Già nel travaglio interiore, nel confluire della memoria, della nostalgia e della speranza, agiscono nell'orante la fedeltà, la verità e la luce di Dio. Il suo dialogo interiore lo conduce come per mano. Secondo tale dinamismo, il ritornello cambia di volta in volta risonanza e tonalità. Infatti alla fine della prima strofa è voce timida e soffocata, alla seconda è affermazione e rimprovero e nella terza professione sicura della fede. La soluzione della prova avviene quando, anche nel movimento alterno del suo mondo emotivo, l'orante recupera la certezza che Dio invia grazia, verità e luce (Sal 25, 21), e difende la causa dell'oppresso (Sal 79; 26, 1 35, 24). La fiducia e la speranza permettono di intravedere e di gustare in anticipo il compimento del desiderio: il ritorno al monte santo, al tempio, all'altare, la gioia della Presenza: Mio Signore e mio Dio! Pur restando ancora lontano, nell'alternanza di scoraggiamento e autoesortazione (Sal 43,5), si dilata un orizzonte di comunione piena nella presenza reciproca con Dio.


L'affermazione centrale che quindi soggiace all'intero svolgimento della sequenza, mette in risalto che il Dio Vivente, principio fondamentale dell'esistenza dell'Antico Israele, è presente, secondo la teologia tradizionale, nel dono che egli fa di se stesso nella Liturgia del tempio. All'immagine della sete - istinto primario per l'autoconservazione - si sovrappone il desiderio della visione del Volto, espressione più classica nell'Antico Testamento per significare la pienezza della comunione (cf Es 33, 14) Secondo il contesto, il desiderio di vedere il volto di Dio significa essere protesi verso l'incontro con la sua Presenza, nella comunione vivificante percepita nello splendore del culto.


Il fondo della prova è raggiunto – ma anche risolto - quando l'orante intravede e raggiunge orizzonti di abbandono, di gratuità e di fiducia, proprio nella contraddizione della fede. Anche nella morte, Dio è il Dio della vita, della luce, della verità e della grazia. Le lacrime inghiottite di giorno e di notte diventano supplica, domanda di grazia, riconoscimento che la prova misteriosa viene da Dio, ma che Egli ci può salvare proprio da essa. Dio è l'autore della vita e della morte, e proprio nella morte - come rivela pienamente la Pasqua di Cristo - si rivela come il Signore della gratuità, della risurrezione, del dono originario, preveniente e gratuito, del vivere.


Ma come leggete questa pagina salmica alla luce del compimento delle Scritture, la morte e la risurrezione di Gesù? Come assumere in dimensione cristiana la dinamica del desiderio, nella sua dialettica di assenza e presenza? Si potrebbe rispondere a diversi livelli, e tentiamo qui di abbozzare solo alcune prospettive interpretative.


Nel Nuovo Testamento, il significato che il Tempio assumeva nell'Antico Testamento riceve una particolare forza e pienezza cristologica, ecclesiologica ed escatologica. Il Padre si è donato, si è rivelato definitivamente a noi nella persona di Cristo, In Lui, via, verità e vita, è possibile adorare il Padre, nello Spirito. La presenza di Dio in Gesù Cristo, secondo l'insegnamento del Vangelo (Mt 18, 20), si dà a noi in molteplici forme (cf SC 7) E tuttavia Dio non è a nostra disposizione: l'incontro con Lui non è automatico né direttamente alla portata dei sensi, né si può dare per scontato, quando lo vorrebbero le nostre pretese emotive.


Nella crescita della fede, i tempi di assenza si alternano alla gioia dei momenti della presenza, secondo una sapiente pedagogia che purifica, accresce e affina il desiderio di comunione. L'assenza è una componente ineliminabile dell'esperienza del tempo presente. La polarità presenza-assenza è costitutiva, nella rivelazione dell'Essere (secondo la filosofia contemporanea). Dio è sempre più grande del nostro cuore ed anche la sua vicinanza permette solo di affacciarci a una insondabile e infinita profondità. Quanto più il Signore è presente, tanto più fa sentite la sua irraggiungibile assenza. Dio non resta un ricordo dell'emozione del passato: il suo avvicinarsi è venuta, presenza, ed è l'imminenza dell'ultimo "Incontro". I mistici di tutti i tempi, del resto, sono coloro che hanno più intensamente sperimentato ed espresso tale mistero.


La vita cristiana è di conseguenza interamente attraversata dal mistero del già e del non ancora, dell'anticipo della promessa già sperimentabile e della pienezza definitiva che ci descrive l'Apocalisse, usando proprio le immagini dei salmi 42 e 43. Dal trono di Dio scaturisce il fiume dell'acqua viva (Ap 22) a cui sono invitati ad attingere, gratuitamente, tutti coloro che hanno sete (Ap 22, 17; 21, 6). Lo stesso fiume costituisce il pieno fluire della fonte vitale che ha dischiuso per noi il costato di Cristo (Gv 7, 37; 19, 31-34). E solo nel pieno compimento dell'escatologia, il desiderio di vedere il Volto di Dio potrà essere definitivamente saziato (Ap 22, 4), perché Gesù è sempre vivo ad intercedere per noi, davanti al Volto del Padre (Eb 9, 24).


Il nostro pellegrinaggio nel tempo verso questi orizzonti definitivi resta sempre determinato dal mistero dell'abbandono del Figlio, che, proprio per aver attraversato la morte, ha aperto per tutti noi il miracolo della vita nuova, la sorgente che zampilla per la vita eterna (Gv 4). E’ molto significativo che il testo del Nuovo Testamento riprenda, per l'orazione di Gesù al Gethsemani, "l'anima mia è triste fino alla morte", proprio la versione greca di Sal 42, 6.12; 43, 5 e che il libro degli Atti alluda al Salmo 42, 8 quando dice, al cap. 3, 9; "Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte". Gesù ha assunto nella sua carne tutto il mistero umano - nella tensione estrema della presenza e della assenza: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato" - non risparmiando a noi di attraversarlo, ma conducendoci con lui attraverso di esso, nella fede e nella speranza della sua vittoria. La contraddizione, il limite e la morte restano per noi, suoi discepoli, il luogo dove si dispiega la potenza della Risurrezione, il sovrabbondante miracolo della gratuità, la pienezza dell'esultanza dell'incontro definitivo.


Note


1) Cf. L’Osservatore Romano di giovedì 7 febbraio 2002.


2) Cf. SANT’AGOSTINO: Corri alla fonte, aspira a questa sorgente viva (la Torah, lo Spirito). Non correvi tuttavia come un animale qualsiasi, ma con la rapidità prodigiosa e la leggerezza veloce del cervo...


3) Cf Gio 2, 4; Salm 88, 8, ecc.


4) Dt 43, 39b; 1 Sam 2, 6; Is 42, 8; Sap 16, 13; ecc.


5) Cf Sal 62, 9; 102, 1; 142, 3.

Letto 5830 volte Ultima modifica il Sabato, 19 Giugno 2004 13:10

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