“Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,22).
Questa frase, tratta dalla Lettera di S. Paolo ai Romani, ci indica una grande verità. La sofferenza e il dolore permeano il creato, lo avvolgono. Non è possibile pensare a una vita dove non esistano dolore e sofferenza, non è possibile pensare ad una vita perfetta, senza sbavature ed imperfezioni. Il dolore e la sofferenza non sono astrazioni, ma realtà da cui non possiamo fuggire.
In tutta la creazione troviamo traccia del limite, non è possibile pensare a una natura illimitata. Illuminante da questo punto di vista una frase di A. Baricco, estratta dal romanzo Oceano Mare:
“La natura ha una sua perfezione sorprendente e questo è il risultato di una somma di limiti. La natura è perfetta perché non è infinita. Se uno capisce il limite, capisce, come funziona il meccanismo. Tutto sta nel capire i limiti. Prendete i fiumi per esempio. Un fiume può essere lungo, lunghissimo, ma non può essere infinito. Perché il sistema funzioni deve finire”. La stessa vita cade inesorabilmente sotto questo giudizio. Essa è il dono più alto che ci viene fatto, ma nella sua perfezione, incorre nel limite. La preziosità e la precarietà della vita umana connotano l’esperienza di ogni persona. Due sponde necessarie, due realtà irrinunciabili.
Da una parte la vita mostra tutta la sua precarietà, l’insondabilità, la non-programmazione, d’altra parte paradossalmente, proprio questa precarietà la rende preziosa perché unica e irripetibile. L’uomo, ci ricorda Pascal, prova sgomento “vedendosi sospeso, nella massa datagli dalla natura, tra i due abissi dell’infinito e del nulla”, tra l’abisso del nulla da cui proviene ed in cui teme di sprofondare definitivamente e l’abisso dell’infinito verso cui si sente intenzionalmente spalancato e si protende nella speranza.
In una prospettiva cristiana, però, S.Paolo ci indica la via della speranza che passa attraverso la morte e la resurrezione di Cristo stesso. Le doglie del parto genereranno una nuova vita. Umanamente, però, è difficile vedere tutto questo. C’è una profonda e marcata differenza tra il dolore provocato dalle doglie e la sofferenza nuda e cruda. Il volto tirato e sofferente di chi sta per diventare madre, è il volto di chi sa che una grande gioia da lì a poco esploderà. Il dolore lascerà spazio alla vita, anzi è proprio quel dolore che si tramuterà in una gioia immensa. Il vagito del bambino ci immette nel più bel mistero di tutta l’esistenza umana. È l’ultimo atto di un lungo travaglio, la vita riesplode con tutta la sua forza e il suo vigore. La sofferenza, di contro, sembra non portare da nessuna parte. Non apre nuovi percorsi o nuove strade. La vita non sta rinnovandosi, ma, in una maniera o nell’altra, sembra spegnersi in modo definitivo. Tutto tace, tutto è silente, non può esserci vagito, non esiste sorriso. Lo sguardo sofferente non riesce a guardare lontano, fa fatica ad alzarsi per contemplare nuovi orizzonti. La stanza diviene l’unico luogo dove fermare lo sguardo, il letto o la carrozzina divengono, giorno dopo giorno luoghi troppo angusti per far esplodere di nuovo la vita. Tutti i pensieri vanno a incepparsi; il dolore, forse, non dà l’opportunità di pensare: “Sono stanca” mi continuava a dire mia madre negli ultimi giorni della sua esistenza, “Sono stanca”, incalzava, “e non riesco più a pensare…”
S. Francesco nel Cantico delle Creature chiama la morte “sorella”, era capace di avere con lei un rapporto di vicinanza sublime, la sentiva come parte di sé, la familiarità con essa lo toccava in profondità. Francesco si trova a San Damiano, in una piccola cella fatta di stuoie. Soffre di male agli occhi e una notte mosso a pietà di se stesso, dice queste parole: “Signore, per riguardo alle mie infermità, vi chiedo soltanto di sopportarle pazientemente”. Non chiede di togliere di mezzo le sofferenze, chiede soltanto la forza di poterle sopportare. Il momento, seppur tragico, non gli vieta di lodare il Signore “per nostra sora morte corporale dalla quale nullu homo vivente po’ skappare”.
Nel Cantico la morte è posta sullo stesso piano di “messor lo frate sole”, di “sora luna e le stelle”, di “frate vento”, di “sora acqua”, di “frate foco” e di “nostra madre terra”. In questo modo S. Francesco inserisce la morte in un contesto cosmico che sembra giustificarla. Tutto ha un senso, tutto è al suo posto, la morte non è qualcosa di separato dalla realtà che ci avvolge.
Mi chiedo, però, come sia possibile chiamare la sofferenza e la morte: “sorelle”. Nessuno vorrebbe a fianco sorelle di questo genere, se ne allontanerebbe subito, le scaccerebbe ponendo distanze abissali. Chi avrebbe il coraggio di guardarle in faccia? La morte è il contrario della vita, la prima non è giustificabile. Ed è proprio questo il problema che sembra emergere all’interno della società odierna.
Non riusciamo più a guardare in faccia il limite che queste “crude realtà” ci pongono dinanzi, tanto che, accanto all'estrema solitudine del sofferente o del morente, emerge una mentalità che non ci aiuta più a supportarle con la presenza. La sofferenza e la morte, a volte, sono consumate in uno stato di profondo isolamento. Si muore sempre più fuori dalla vita quotidiana, in una condizione di emarginazione e di profonda solitudine. La rimozione sembra l’unica realtà disponibile per mettere fuori dalla portata dello sguardo ciò che non fa comodo constatare. A forza di rimuoverle, però, si rischia di non riconoscerle. Esse non sono più al centro della nostra vita, come momento di riflessione, ma rimangono ai margini, quasi abbandonate negli “archivi” delle nostre coscienze e quando, purtroppo, si presentano inappellabili nella nostra vita non sappiamo più accompagnare e sostenere, chi è costretto a subirne le conseguenze. Con questo, non è mia intenzione fare l’elogio della sofferenza e del dolore, non si può cadere in una specie di “masochismo religioso” inneggiando a esse o pensare che chi soffre si merita quella punizione. La sofferenza rimane una realtà negativa della nostra vita; non si può gioire davanti ad essa, ma l’unica strada per riscattarla a livello umano è saperla riconoscere per quello che è, guardarla in faccia, non avere paura di farne momento di riflessione nei vari istanti della propria vita. Purtroppo queste ultime realtà non guardano in faccia nessuno, non guardano il ceto sociale, non fanno distinzione tra più importante e meno importante, arrivano e basta, si pongono nei meandri delle nostre esistenze con una forza esasperante. Quanto è difficile far posto nella nostra vita ad esperienze simili!!! È difficile, già, per chi deve subire piccole sofferenze, ma reputo che sia ancor più complicato per chi si sente “bombardato”, giorno dopo giorno, da quelle atroci e devastanti sofferenze, che lasciano segni sul corpo come immense ferite che stentano a chiudersi o non si chiuderanno più.
Mi domando se sia possibile accompagnare intere generazioni con l’idea che la morte non esista o che il dolore sia solo una pia illusione che forse non coglierà mai la nostra esistenza. E, quindi, le nuove generazioni passano i giorni dedicati ai nostri defunti a colpi di“Dolcetto o scherzetto”! Così non li aiutiamo a riflettere, a pregare o ricordare i cari, coloro che hanno condiviso con noi, per un tratto più o meno lungo il mistero immenso che è la vita. La morte è uno scherzo? Continuando così, non aumentiamo indifferenza e insensibilità nei confronti del dolore proprio e altrui?
Queste realtà hanno in sé qualcosa di tragico che deve essere riconosciuto anche da chi è più giovane!!! L’impressione è che qualcosa nel cervello si sia “inceppato”. Sembrano impermeabili a tutto e, quando sono toccati dalla sofferenza o dalla morte, vivono emozioni intense ma rapide. Queste realtà non entrano a far parte di una riflessione costante e duratura. Il loro mondo non è toccato da tutto ciò, anzi, niente sembra mettere in discussione questa realtà fatta di spensieratezza e leggerezza. Indicativa, in questo senso, è l’esperienza raccontata dal professore Luciano Locci. Girando in Internet mi sono imbattuto nella riflessione di questo insegnante e mi è sembrato opportuno lasciare spazio a quanto afferma: “Qualche giorno fa ho discusso con i miei allievi di una recente lettura, la morte di Ivan Il’ic di Tolstoj. È un racconto dell’ultimo Tolstoj, straordinario,perfetto, cupo, fatto di drammatici contrasti, spietato. La letteratura ha spesso trattato il tema della morte, ma è raro imbattersi in una più sconvolgente compiuta rappresentazione di quell’esperienza. Ivan Il’ic, un uomo qualunque, non malvagio, non crudele, che ha condotto la sua vita all’insegna del conformismo, della ricerca di una vita piacevolmente fastosa e lieta, poco riflessivo, pacatamente edonista, s’imbatte nella morte quasi per caso; la morte si insinua in lui come un tarlo segreto, ma nell’erodere la sua vita, le sue gioie, essa distrugge anche le sue certezze, e lo costringe a pensare se davvero la sua esistenza sia stata spesa nel migliore dei modi. Così Ivan Il’ic comprende la vanità e la fugacità dei suoi pur modesti interessi edonistici e mondani; egli morirà sereno nell’accettazione, tutta terrena, della morte e del dolore…Ovviamente, non intendo discutere di questo straordinario testo letterario, ma vorrei raccontare la reazione di un allievo che con risentimento, quasi con indignazione, con rabbia, mi ha accusato di aver proposto una lettura “diseducativa”. Egli non aveva mai pensato alla morte, ma quella magistrale rappresentazione dell’uomo, solo dinanzi a quell’estrema ineluttabile esperienza, lo aveva turbato profondamente. Secondo questo giovane allievo, di questo suo turbamento io, il docente, ero il responsabile: rivendicava con foga il suo diritto alla spensieratezza, alla leggerezza che io avevo compromesso con il veleno della problematicità che spesso si accompagna alla grande letteratura”.
Anche noi adulti, però, non sappiamo più accompagnare i giovani in questa riflessione. La conseguenza immediata è che non riescono a sostare davanti al limite, tutto diventa possibile, tutto diventa superabile e corrono il rischio di rispondere al dolore degli altri con estrema insensibilità.
A parte questa parentesi aperta sul mondo giovanile, il dato che si sta facendo sempre più strada nella nostra vita quotidiana è quello di porre nel dimenticatoio ciò che non rende la vita divertente. Più spingiamo lontano da noi queste realtà è più corriamo il rischio di non sapere dar loro un posto nella nostra esistenza. Questa situazione porta, a mio parere, a due rischi evidenti: da una parte l’incapacità di sopportare la sofferenza e di accompagnarla, dall’altra continuiamo a trovare giustificazioni insopportabili, ci vogliamo mettere dalla parte di Dio, invece di fermarci di fronte ad un mistero che supera la nostra capacità di comprensione.
Il paradosso della croce
La Sofferenza e il dolore sono le esperienze più paradossali della nostra vita. È difficile trovare parole adeguate in grado di esprimere il senso e la ragione di realtà che interferiscono profondamente con il nostro quotidiano, cambiando, a volte, completamente l’esistenza. Parlare della croce è difficile, spesso si rischia di usare parole ovvie e consolatorie, che sono sempre inadeguate e banali per la persona che soffre. Diceva Giovanni Paolo II a migliaia di giovani nell’Aprile del 1988: “la croce è iscritta nella vita dell’uomo, volerla escludere dalla propria esistenza è come volere ignorare la realtà della condizione umana. E così, siamo per la vita, eppure non possiamo eliminare dalla nostra vita personale la sofferenza e la prova…”
Non possiamo, quindi, partendo da quest’ultimo passaggio evitare il confronto con l’esperienza cristiana. Dio per noi cristiani non è rimasto a guardare dal cielo l’umanità che soffre, ma ha mandato il suo figlio, Gesù Cristo, a condividere con l’uomo la sofferenza e persino la morte. Nessuno più di Dio può comprendere ogni nostra piccola sofferenza e nessuno più di Dio ci è vicino nel nostro dolore quando non c’è più nessuna speranza e solo la morte ci aspetta, perché Lui stesso, per mezzo di Gesù Cristo, ha sofferto ed è morto. La riflessione ci ha portato fin sotto la croce. La tentazione è quella di scappare, di fuggire, di chiuderci nella nostra realtà, come hanno fatto gli apostoli. Invece, lo stesso Gesù, ci invita a confrontarci con coraggio con questa nuda realtà. Siamo invitati a rimanere lì sotto come Maria, Giovanni e le altre donne che li hanno accompagnati. Per capire la croce occorre lasciarci guidare da lei stessa. Gesù non ha amato la croce, come nessuno può provare amore per essa o ricercare il proprio dolore. Al contrario, Gesù ha amato l’umanità fino alla croce e attraverso la croce. E, forse, non ci chiederà se avremo amato la croce, ma se essa ci ha condotto ad amarLo di più, a capire e compatire chi soffre, a riconciliarci con i nostri limiti.
L’uomo dei dolori che ben conosce il patire
La frase che ho posto come principio di questa seconda parte è tratta dal Libro del profeta Isaia al capitolo 53. Gesù stesso si pone come l’uomo del dolore, che ben conosce la sofferenza. Diventando “uomo dei dolori”, come afferma Giovanni Paolo II, egli ha stabilito una nuova solidarietà di Dio con le sofferenze umane. Figlio eterno del Padre, in comunione con lui nella sua eterna gloria, nel farsi uomo si è ben guardato dal rivendicare privilegi di gloria terrena o almeno di esenzione dal dolore, ma è entrato nella via della croce, ha scelto come sua parte le sofferenze non solo fisiche ma anche morali che lo accompagnano fino alla morte: tutto per nostro amore, per dare agli uomini la dimostrazione decisiva del suo amore, per riparare al loro peccato e ricondurli dalla dispersione all’unità (cf. Gv 11, 52). Tutto perché nell’amore di Cristo si rifletteva la tenerezza di Dio per l’umanità. Di certo la lancia scagliata dal centurione indica la direzione cui bisogna fissare lo sguardo. Lì sul Golgota Gesù compie per amore il suo ultimo gesto. Si dona fino in fondo, senza riserve, l’uomo dei dolori affida tutta la sua esistenza al Padre. Non ci sono spiegazioni evidenti, non abbiamo grandi discorsi, ma in quel gesto è racchiuso tutto l’amore filiale di Gesù verso il Padre. È l’ultimo atto di una vita dedicata agli altri e specialmente a quelli che soffrono e sono relegati ai posti più infimi della società. Tutto il cammino di Gesù ha avuto questa caratteristica. Non ha scelto le scorciatoie e neppure i potenti, ma ha optato per gli umili, i sofferenti, gli emarginati. Nello stesso tempo ha messo a soqquadro anche le credenze diffuse nell’ambiente. A questo proposito mi torna in mente l’incontro di Gesù con il cieco che troviamo nel Vangelo di Giovanni 9, 1-7. La scena avviene fuori dal tempio, ma non si indicano né il tempo né il luogo; “passando” suppone soltanto che Gesù cammini. È assente un ritratto preciso del cieco, anche se si afferma che la cecità è fin dalla nascita, né il brano indica il nome e la provenienza dell’uomo; i discepoli che l’accompagnano gli pongono una questione che risponde alla mentalità dell’epoca: “chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. Secondo la concezione corrente del giudaismo, la disgrazia era effetto del peccato, che Dio castigava esattamente in proporzione alla gravità della colpa. Era frequente pensare che i difetti corporali congeniti fossero dovuti alle mancanze dei genitori. Gesù rifiuta questa tesi opponendosi in modo deciso. Nessuna caratteristica sociale o economica viene accennata, ma nel proseguo del racconto per la prima volta viene detto che il cieco era un mendicante che chiedeva l’elemosina seduto, immobile. La sua figura si collega con quella degli infermi sdraiati nella piscina dai cinque portici. Più evidente è il comportamento dell’uomo cieco, dopo che Gesù gli mostra compassione, passando all’azione. Gesù fa del fango con la saliva, lo spalma sugli occhi del cieco e lo invita a lavarsi alla piscina di Siloe. L’immobilità dell’uomo termina con il gesto dell’alzarsi e del ritornare sul luogo dell’incontro, vedendo.
Nel racconto l’elemento che colpisce maggiormente è la condizione di emarginazione che subiva chi era affetto da un handicap. Oltre a questo risalta la figura di Gesù che si oppone a questa ingiustizia guarendo l’uomo e andando contro i pregiudizi che erano in vigore in quel periodo. Molto spesso Gesù ha steso la mano, ha protetto, guarito, si è intrattenuto mostrando compassione. Solo chi ha sofferto più essere partecipe della sofferenza degli altri.
Il pianto di Gesù di fronte alla morte dell’amico Lazzaro è uno dei passaggi più belli e commoventi dei Vangeli. Lazzaro di Betania è fratello di Maria e di Marta, è malato. Le sorelle mandano a chiamare Gesù, ma arriva troppo tardi. Quando arriva là dov’è atteso, Gesù è rimproverato da Marta, a cui chiede un atto di fede dicendo: “Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo ? (Gv.11,25). Poi quel grido: “Lazzaro, vieni fuori!” (Gv 11,43) e colui che era morto esce e va. La vicenda di Lazzaro, al di là del miracolo, interpella, appunto sul piano delle emozioni di Gesù che mette esplicitamente in luce. Gesù vuole molto bene a lui e a sua sorella. Poi, vedendo Maria piangere, Gesù “si commosse profondamente e si turbò” (Gv.11,33).
Ancora, davanti a coloro che gli dicono di andare a vedere il sepolcro, Gesù “scoppiò in pianto” (Gv. 11,35). Quando si reca al sepolcro, è ancora “profondamente commosso” (Gv 11,38). Infine, chiamando fuori Lazzaro “gridò a gran voce” (Gv 11,43). Dunque, in questo episodio, accanto al Gesù-Dio del miracolo campeggia un Gesù-Uomo, carne e sentimenti. Così vero….così vicino all’uomo che è venuto a salvare. Il Gesù che resuscita Lazzaro si fa presente - invece di agire a distanza - per non tradire un sincero legame di amicizia, con i vivi e con i morti. Si rende disponibile alle aspettative di chi gli vuole bene. Condivide il dolore, non dice inutili parole di conforto. Sente la lacerazione dell’assenza. Questo Gesù, che si rivela Dio nel far tornare indietro dalla morte l’amico, che passa lui attraverso la morte per vincerla, piange con l’uomo che salva. Come non sentirlo vicino, inoltre, nel momento di maggiore dolore, come quando sta per morire “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Scrive C. Rocchetta nel libro Teologia della tenerezza a p. 249: “È certo che in quell’attimo Gesù non ha più nulla che gli appartenga o possa dire suo. Dopo aver offerto tutto, il suo corpo e il suo spirito, la sua vita e la sua morte, il passato, il presente e il futuro, vive ora la situazione più terribile: sentirsi solo, non sperimentare la filialità unica che lo fa essere una sola cosa col Padre al punto da avvertire la propria condizione al limite del vuoto o dell’insignificanza… Una simile “notte dello spirito” è superata non cancellandola o rimuovendola, ma accettandola e vivendola fino in fondo, bevendo il calice della passione fino all’ultima goccia”.
È l’ultimo atto umano di Gesù: la morte in croce. Orrendo strumento dove morivano malfattori e briganti. Gesù, per amore, percorre la stessa strada. Vive lo strazio del combattimento: da una parte il corpo martoriato, il dolore che fa impazzire, la voglia di urlare, dall’altra “fare la volontà del Padre”. È proprio il legame con quest’ultimo che sta vacillando, la sofferenza sembra avere la meglio tanto che Gesù sente in profondità l’abbandono totale del Padre. Quante volte siamo messi di fronte a questa possibilità. Quante persone, pur avendo una fede immensa, si sentono perdute, abbandonate, si domandano dove Dio sia finito. Nella lunga notte della sofferenza è difficile sperare, è complicato potere guardare in alto. È questa enorme, immensa sofferenza che rende il Padre distante da Gesù. Il legame costruito pazientemente è divelto in un attimo. In quel grido angosciante c’è la richiesta di vicinanza, di presenza, diviene indispensabile recuperare quel legame per non restare solo e rendere più docile la morte. La fede incrollabile nel Padre, porta Gesù a consegnare la propria vita e a dire “Sia fatta la tua volontà…” Il grido di dolore si ferma. Anche nell’Orto del Getsemani, prima della sua Passione, distaccandosi dai suoi discepoli aveva pregato dicendo: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice, tuttavia non sia fatta la mia volontà, ma la tua” (Lc 22,42). Spiega il biblista Santi Grasso nel suo Commento al Vangelo di Luca a p.574: “Nell’orazione, seppure breve, per ben due volte egli sottolinea la richiesta dell’ allontanamento del calice della volontà paterna… Sebbene vada incontro ad una morte violenta e ingiusta, egli non dubita della volontà del Padre e si rende disponibile a fare la sua volontà, affermando come primario non il proprio desiderio, ma il piano divino…” E aggiunge: “Gesù non è l’eroe o il martire delle descrizioni giudaiche che va incontro alla morte pieno di ardore e di zelo, né tanto meno un autolesionista che gioisce della sofferenza; al contrario egli chiede a Dio di allontanare questo calice…”
Gesù non è, dunque, un autolesionista, non vuole morire, anzi chiede al Padre di allontanare quel calice. Gesù rimane solo, abbandonato anche dai suoi discepoli. Non sono capaci di seguire Gesù in questo momento così triste. Invitati dallo stesso a vegliare, gli apostoli si addormentano. Anche in questa solitudine è capace di riconfermare la fiducia nel Padre. Paradossalmente, seppur solo, perché abbandonato dai suoi amici, non è solo, perché ancora una volta è toccato dalla mano premurosa e accogliente del Padre. Nei due episodi sopra riportati, però, c’è un elemento di fondamentale importanza: la preghiera. Gesù in questi momenti non solo recita delle preghiere, ma è in preghiera, vive un’esplicita e consapevole relazione con il Padre. La tentazione di sottrarsi all’incombente minaccia di sofferenza e di morte non avrà presa sull’umanità di Gesù, perché egli vive questa minaccia incombente e reale dall’interno della sua consapevole ed esplicita relazione con il Padre. La preghiera, dunque, non evita, come in un rito scaramantico, tentazione o sofferenza, ma non ci lascia da soli di fronte all’incombere di queste tristi realtà. Nel legame profondo con il Padre esplicitato dalla preghiera sta la forza di Gesù. Egli prega e invita i discepoli a fare altrettanto. La preghiera acquista il senso di una lotta per comprendere la volontà del Padre anche all’interno di un destino difficile e angosciante. Gesù non vuole andare a morire, ma la preghiera gli fa comprendere come egli sia chiamato a intraprendere questa strada, invitando i discepoli a seguirlo. Ha riposto la sua vita nelle mani del Padre con fede e speranza.
Lo vide e ne ebbe compassione
L’espressione più alta di come sostenere e accompagnare la sofferenza, però, la troviamo nella parabola del Buon Samaritano. L’episodio è raccontato da Gesù nel contesto di un colloquio con un maestro della legge che gli chiedeva quale fosse il metodo per ereditare la vita eterna. Sebbene questo dibattito sia riportato da tutti i vangeli sinottici, soltanto Luca protrae il dialogo con lo scriba ponendo sulle labbra di Gesù questo racconto di notevole intensità:
Un dottore della legge, abituato alle sottigliezze della scuola rabbinica, si alza tra la folla e lo interroga: “Maestro, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?”. La risposta di Gesù è immediata: “Che cosa sta scritto nella legge? Che cosa vi leggi?”. Dopo un momento l’interlocutore recita a memoria: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. Ribatte Gesù: “Hai risposto bene; fa questo e vivrai”. Il dottore della legge rimane male, pensava di aver sollevato una domanda di difficile soluzione e invece viene liquidato con poche battute. Volendo allora giustificare e far vedere a tutti che la risposta di Gesù era tutt’altro che conclusiva, incalza: “E chi è il mio prossimo?” Il dottore della legge con questa domanda pensa di impegnare Gesù in un’alta disputa teologica, costringendolo a prendere posizione. Gesù evita di considerare il prossimo come un oggetto di studio o di disquisizioni sommarie, non fornisce definizioni scolastiche di “prossimo”. Egli presenta il prossimo in “situazione”, il prossimo concreto, storico, che interpella e impegna ciascuno in scelte decisive, collocandolo in una pericolosa curva tra Gerusalemme e Gerico (vv.30-37). Contrariamente alle attese di questi, Gesù non traccia una classifica di prossimi, meno-prossimi e non prossimi Gesù risponde raccontando una parabola (Lc 10, 30-37). “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…”
La parabola parla di un uomo senza ulteriori precisazioni. “Un uomo” equivale a ogni uomo che si trova nel bisogno, al di là dei connotati della nazionalità, di livello sociale, di ideologia o di religione.
Il Samaritano scorge un uomo in pericolo di vita, che fosse di un altro popolo è irrilevante. Ignorarlo, voltargli le spalle, passare oltre, come il sacerdote e il levita, è non riconoscere la sua dignità umana. Il samaritano, considerato di razza inferiore, appartenente a un popolo con il quale i giudei non volevano avere nessuna relazione, “lo vide e ne ebbe compassione”. Gli si fa vicino, adoperandosi completamente per lui. Si interessa in prima persona del ferito e si fa carico della sua situazione. Lo medica e gli fascia le ferite, lo prende su di peso e lo carica sulla sua cavalcatura; gli cammina a fianco e lo affida al custode della locanda. È evidente che il Samaritano va al di là del semplice appello del dovere. Non solo cura il ferito e lo conduce all’albergo, ma lascia all’albergatore del denaro, affinché il ferito sia completamente curato. Questa parabola così articolata potrebbe essere riassunta con due parole: “Lo vide e ne ebbe compassione…”. Gesù indica una strada precisa per poter star a fianco alla sofferenza.
L’unica strada percorribile è quella del vedere e avere compassione. Non sembra esserci altro. Ma in realtà Gesù ci testimonia un Padre che non ama la sofferenza. Dio non è sofferenza. In nome di che cosa si può pretendere che un Dio d’amore organizzi una corsa alla sofferenza per salvarne i superstiti e condannarne i vinti? La volontà di Dio è che noi operiamo, al limite delle nostre possibilità, per il sollievo delle sofferenze del mondo e dell’uomo. Lenire la sofferenza è opera che piace a Dio. Dio non ama la sofferenza che rende lo sguardo perso, gli occhi smarriti, il corpo contorto, lo spirito vacillante e il cuore rattristato. Non dice “Soffrite e mi riconoscerete”. È difficile, però, stare vicino a chi soffre. È forza quasi sovraumana. E se chi soffre non apre la porta? Se è aggressivo? A volte è meglio non vedere la sofferenza dell’altro, è meglio girarsi da un’altra parte. Per lo più si prova imbarazzo, non ci sente abbastanza preparati. Il disagio è spesso più forte della volontà di impegnarsi in un cammino irto e complesso. Lo vide e ne ebbe compassione. Questa è la strada che Gesù indica per “umanizzare” la sofferenza: Vedere evoca un modo diverso di porsi di fronte all’altro, non come un estraneo o con indifferenza. La sofferenza non ha nome: “un uomo” equivale ad “ogni uomo”, un uomo in pericolo di vita. L’altro ci provoca in un’accoglienza oblativa. Rischio: “Se mi fermo per aiutare quest’uomo che potrà succedermi? Vedere significa assumere tutta la nostra fragilità. Non siamo onnipotenti, non abbiamo sempre la risposta pronta, non sempre sappiamo cosa fare.
Significa, inoltre, relazionarsi con umiltà, fidarsi dell’altro, non cercare di offrire un’immagine perfetta e meravigliosa di sé. È anche imparare a ritirarsi se si ha l’impressione in certi momenti di disturbare.
Questa comunione, infine, richiede una capacità di incontro in profondità, un desiderio di ascolto e comprensione, una disponibilità al dialogo. Qui si innesta il senso profondo della comunicazione.
Comunicare non è scambiare delle parole, ma è molto di più. Si comunica quando non ci limitiamo a raccontare delle cose, ma desideriamo partecipare qualcosa della nostra vita all’altro. Quando amiamo una persona, infatti, non ci accontentiamo di stare sulla soglia della sua vita, ma desideriamo mettere in comune la nostra vita con la sua. Dare la parola all’altro è lasciare tutto lo spazio di cui ha bisogno, è rispettarlo, dare fiducia, mettersi nell’atteggiamento di avere molto da imparare e capire. L’ascolto esige non solo rispetto, ma anche pazienza, attenzione, tempo. A volte il dialogo si trasforma in un monologo a due: ognuno dei due ascolta se stesso e non l’altro. L’attenzione passa anche attraverso un niente che è molto: un sorriso, una stretta di mano, uno sguardo nuovo. Ogni malato è unico al mondo. Una unicità che parte dalla cura e dall’attenzione.
La compassione invita a percorrere strade diverse, ad amare con passione. A questo proposito è importante fermarsi su una riflessione della teologa Lilia Sebastiani, sulla distinzione tra compassione e pietà. Sembrano due parole simili, quasi sinonimi, ma in realtà sono diverse. La pietà, afferma la teologa : “è distante, la compassione è vicina; la pietà è paternalistica, la compassione è fraterna e “sororale”; la pietà è sottilmente superba e paga di sé, la compassione è cosciente e solidale in modo illimitato; pietà significa chinarsi su qualcuno dall’alto della propria rispettabilità, delle proprie sicurezze e del fatto che comunque non si è personalmente toccati dalla sua miseria, mentre compassione significa aprire il cuore, accogliere l’altro dentro di sé, riconoscere nelle sue sofferenze le proprie”.
La prossimità, quindi, non è una distanza colmata, né una distanza che richiede di essere colmata e neppure un preludio all’identificazione o alla fusione; la prossimità si accontenta di essere ciò che è: prossimità. È pronta a restare stato di attenzione permanente, qualunque cosa accada. L’attenzione è attesa, se aspettare. Non è sforzo, tensione o mobilitazione del sapere attorno a qualcosa di cui ci si preoccupi. L’attenzione aspetta senza fretta, lasciando vuoto ciò che è vuoto ed evitando che la nostra fretta, il desiderio impaziente e, ancora di più, il nostro orrore del vuoto lo colmino anzi tempo. Una tale attenzione, una tale attesa, non è possessiva, non mira a privare l’altro della sua volontà, della sua identità. La prossimità in questo caso è pronta a rimanere tale: stato di attenzione permanente, responsabilità mai finita, mai esaurita, mai passata. È un’uscita da se stessi, è un esodo per incontrare l’altro con il suo carico di sofferenza, è rinunciare alla tentazione di scappare, di fuggire dalla smorfia di dolore disegnata sul corpo di chi c’è vicino. Dio ci chiama a essere roccia, a far sì che l’altro possa contare pienamente sulla nostra presenza e partecipazione. In Dt 32,4 Mosè canta: “Egli è la Roccia che ci protegge…” Nell’essere roccia concorrono insieme tante realtà. L’altro che soffre, che è scoraggiato, viene accolto sotto l’ala protettrice di chi deve in quel momento rendersi sostegno. La delicatezza, il saper accompagnare, il camminare a fianco, il far sentire la propria presenza senza tante parole o discorsi, il partecipare al dolore dell’altro è assolutamente necessario. L’altro che soffre si deve sentire supportato, incoraggiato, affiancato e magari sollevato. Rialzarsi non è cosa facile, quando il dolore penetra dentro, quando le giunture non sono capaci di sorreggere. In momenti come questo è necessario sentire una presenza che sa sorreggere, che dà la forza per ricominciare.
Tutto questo alimenta la speranza, aumenta il coraggio, fa rinascere la voglia di ricominciare. La speranza, in questo caso, sa farsi carico della vita dell’altro, pur se dolorosa e problematica, si radica
Totalmente in essa, anche se in queste situazioni difficili e intollerabili sarebbe più facile guardare altrove e trovare situazioni più gratificanti. Nulla della vita, anche nel suo grande carico di dolore, è estraneo alla speranza. Essa spinge ad assumersi in pienezza tutto il bagaglio dell’esistenza dell’altro.
Vedere e avere compassione significa spendere fino in fondo la propria vita per lenire la sofferenza. Chi si impegna sceglie di percorrere un cammino vissuto umilmente nell’incontro personale accanto a ciascun malato. È andare verso l’altro gratuitamente, è un richiamo a vivere nella certezza dell’amore premuroso di Dio per ogni essere umano, in particolare per ogni malato. Dare la propria vita non è un comportamento suicida, ma è il frutto di un amore gratuito che non si dà mai per vinto e punta al cuore stesso della speranza cristiana. L’incontro con la figura di Gesù diviene fondamentale nell’esperienza del cristiano. Anche Gesù vuol scappare da ciò che è assurdo, inspiegabile, ma il suo legame profondo con il Padre lo conduce alla speranza. La speranza della Risurrezione, la speranza che tutta quella sofferenza non è stata vana. Gesù ci dice, inoltre, che la sofferenza è un male; umanamente è un non senso, perché tutto in quel momento sembra annullarsi, non solo per chi sta soffrendo ma anche per chi sta assistendo impotente a quello che sta succedendo. È l’impotenza, forse, il male maggiore. Non riusciamo a far niente, possiamo seguire solamente con il nostro sguardo la lunga o lenta agonia di chi sta terminando la sua vita terrena. Qui, però, sembra aprirsi la strada della compassione, del percorso doloroso fatto insieme, del tirar fuori tutte le nostre forze per appoggiare, sostenere. Per chi crede si apre anche la strada della non solitudine, del non temere, perché Gesù promette di essere sempre al nostro fianco qualunque cosa succeda. Quanto è difficile in quei momenti sentire e vivere tutto questo. La fede tende a incepparsi, la barca sembra vacillare irrimediabilmente, imbarca acqua e come i discepoli di fronte alla tempesta, temiamo di affondare per sempre, senza appello e senza un minimo di speranza. Quello che è più terribile in questi momenti, è che ciò che è puramente umano si scontra con la grazia che proviene da Dio; l’uomo si deve confrontare con la propria fede quando tutto umanamente sembra perduto. Il grido di dolore di Gesù è il nostro grido di dolore quando soffriamo, quando perdiamo un caro, un amico, un affetto custodito e coltivato per lunghi anni. Subentra la tristezza del non avere più accanto quel gesto, quella carezza, quello sguardo, quel calore che solo l’amore sa irradiare. Gesù continua a dirci “non temere”, ci sarò, resterò con te, chi ti ha lasciato è nella casa del Padre. La casa del Padre: lì ci vedremo di nuovo, lì ci diamo appuntamento. La realtà, però sembra essere un’altra. Il vuoto, la mancanza, lo smarrimento, in quei momenti, sembrano padroni della nostra esistenza. Quando abbiamo di fronte la salma, quel corpo inerme, ma ancora presente, ci sembra di potere ancora parlare, dialogare e, seppur non più in vita ancora riempie di calore la nostra esistenza. E quando ti stai allontanando dalla stanza dentro di te lo saluti: “Ciao, ci vediamo domani…”. Però, ci sono due strappi tremendi, impressionanti: la messa del corpo nella bara e la tumulazione. I legami umani sono strappati definitivamente, un muro è ormai innalzato, un blocco di cemento crea distanza e separazione. Gesù, ancora ci invita alla speranza, prima di noi ha sentito la sofferenza, è stato vicino alle persone, donando fiducia, anche nei momenti più tristi. Non si è fatto irretire dal pensiero di quei tempi, dalla certezza che se una persona soffre una colpa ci deve essere, magari non sua, ma sicuramente dentro alla famiglia. Gesù ci testimonia che nessuno è destinato da forze misteriose a soffrire, che tanto meno Dio dispensa in modo cieco e sadico sofferenze di qua e di là. Questo papà è pronto attraverso il figlio a lenire, curare, a farsi compagno di strada specialmente di chi è nella sofferenza, di chi vive il dolore, di chi ha perso qualunque speranza.
È questa la nostra certezza nonostante il dolore straziante che proviamo umanamente.
Affidarsi a Chi ha dato la propria vita è, come scrive G. Blanquiere, percorrere strade: “di dolore, di gioia, ancor più grande, strade in cui molto spesso ci è venuta in aiuto una presenza senza che noi sapessimo ancora riconoscerla, proprio quando, delusi dalle nostre speranze e dai nostri segni cercavamo di fare marcia indietro, volgendo le spalle alla Gerusalemme della nostra speranza! Possiamo esserne certi: Gesù ci ha accompagnato, ci accompagna e ci accompagnerà su tutte le strade dell’amore, fino al giorno in cui passeremo nella luce della Vita! Allora di che cosa dovremmo aver paura?…”
Come essere umano mi ribello alla sofferenza, non la condivido, non l’accetto, piango, ma come credente non posso che tacere, chinar la fronte al Mistero più grande dell’esistenza, sentendo tutto il mio limite e la mia incapacità di dare una risposta plausibile. Non voglio entrare a far parte del Club degli amici di Giobbe che con il loro vano turpiloquio non sanno essere compassionevoli e condividerele sofferenze altrui.
Luca Tosoni