Vivere il sacerdozio battesimale
II Relazione
di Mario Delpini *
L’esperienza di un prete
Un prete si presenta in punta di piedi, quasi imbarazzato di dover parlare di sé. Un uomo infatti diventa prete per parlare di Gesù, per fare memoria di Gesù, prendersi a cuore che la gente del suo tempo viva della memoria di Gesù: è dunque imbarazzante che un prete debba parlare del prete.
E’ imbarazzante anche perché del prete tutti si sentono in diritto di parlare e poi del prete parla la sua vita. Infatti è sotto gli occhi di tutti, è esposta in pubblico, la sua vita è uno spettacolo: ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, perché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli, agli uomini (1 Cor 4, 9 ss cfr anche 2 Cor 4,8-12).
A lui quindi è spontaneo muovere critiche, attribuire ogni possibile responsabilità di ciò che non soddisfa nella comunità cristiana, di ciò che non va persino del fatto che ci siano pochi preti.
E’ imbarazzante parlare del prete anche perché tutto quello che si può dire per descrivere il significato cristiano della vita del prete, il suo ruolo nella comunità, tutto può essere usato per ritorcerlo in critica, quando la realizzazione contingente smentisce e mortifica i tratti ideali della vita e della missione del prete e delude le attese (e le pretese) della gente.
Queste constatazioni però già dicono qualche cosa del prete: dicono che il prete interessa alla gente. Provano interesse anche quelli che non partecipano alla vita della comunità cristiana: l’interesse va dalla curiosità morbosa e sospettosa per una scelta di vita pubblica, ma singolare, all’ammirazione lucida per un segno visibile di una dimensione per cui si soffre una insopprimibile nostalgia. Provano interesse per il prete quelli che partecipano della vita della comunità cristiana.
La comunità cristiana avverte nel prete uno dei suoi elementi costitutivi ed esemplari.
Costitutivo perché si avverte che ciò che costituisce la comunità cristiana e l’itinerario di fede di ciascuno è collegato con il prete: cioè l’accedere alla comunione con Gesù è possibile perché viene proclamato il Vangelo, celebrata l’Eucaristia, compiuto il segno della Riconciliazione.
La presenza del prete come un uomo ordinato dal Vescovo con l’imposizione delle mani e dal Vescovo destinato per una missione o comunità particolare dice anche che il costituirsi della comunità è frutto di una iniziativa che logicamente la precede: la comunità cristiana non è dunque il dare espressione visibile e sociale al bisogno religioso di una popolazione, ma la storia che si racconta di una risposta libera alla gratuita missione degli apostoli, dei loro successori e collaboratori.
Nella storia che si racconta le persone che liberamente rispondono alla proposta cristiana accolgono nella loro vita lo Spirito di Gesù che configura la sequela sul comandamento di Gesù nella varietà delle forme che lo Spirito Santo non si stanca di suscitare. La comunione con Dio resa possibile dall’esercizio del sacerdozio ministeriale nella varietà delle scelte personali, che si possono chiamare “vocazioni”, quindi anche in nuove vocazioni al sacerdozio ministeriale.
Anzi, nonostante l’insistenza recente nella comunicazione ecclesiale per attribuire la categoria di vocazione a tutte le scelte di vita cristiana, il linguaggio comune continua a esprimere una preferenza, o piuttosto tendenzialmente a riservare ai preti (più in genere ai consacrati) la terminologia della vocazione. Questa inerzia del linguaggio fa riflettere.
Forse non segnala solo l’eredità di una tradizione ecclesiastica troppo clericale. Forse segnala piuttosto una dinamica della comunicazione e della intelligenza che ha bisogno di ciò che è più determinato per comprendere ciò che è più generale.
Pertanto la vocazione che si distingue di più per qualche tratto che ne determina il ruolo nella Chiesa è quella da cui si parte per intendere in generale che cosa sia vocazione e che cosa sia vita cristiana. In questo senso il prete è sentito come uno tra gli elementi esemplari della comunità cristiana.
Se ne ricava la conclusione che la comunità cristiana considera il sacerdozio ministeriale come un bene prezioso da desiderare, custodire, promuovere, anche se spesso considera i preti una delusione e un facile bersaglio per critiche e pretese.
La comunità cristiana ha bisogno dei preti.
Sembra un’ovvietà, per quanto abbia aspetti preoccupanti e tratti piuttosto inesplorati.
Gli aspetti preoccupanti si riferiscono ai dati quantitativi, nel senso che la diminuzione del numero dei preti sembra imporre fatiche e mortificazioni alle quali non si è mai preparati e d’altro lato suscitare risentimenti e polemiche alle quali non è facile trovare rimedio.
I tratti inesplorati si riferiscono al contenuto preciso dell’affermazione. Infatti di che cosa propriamente ha bisogno la comunità? Si deve dire che ha bisogno di persone che si mettano a servizio della loro vita cristiana, nel senso che la vita cristiana, cioè l’esercizio della carità di Cristo come culto spirituale gradito a Dio, non sembra possibile, in ogni caso risulta difficile, se non grazie all’esercizio del ministero ordinato. In questa prospettiva si capisce come sia impossibile trovare un senso alle logiche rivendicative che la mentalità mondana introduce anche nella comunità cristiana, per cui .sembra che ci siano persone che rivendicano il ministero come una sorta di diritto a esercitare un potere.
Si deve dunque precisare che la comunità cristiana ha bisogno che venga esercitata una funzione. Il sacerdozio ministeriale è funzione del sacerdozio battesimale.
In questo senso si capisce la preoccupazione di distinguere il sacerdote da Gesù, sommo Sacerdote della Nuova alleanza. Il prete non è Gesù, la sua funzione è di rimandare a Gesù, di essere strumento di Gesù.
Nella storia della Chiesa questa considerazione ha consentito di relativizzare l’importanza della santità del prete, affermando che l’efficacia dei suoi gesti è piuttosto relativa alla intenzione di Gesù che alla sua personale santità? (Pietro battezza. E’ Cristo che battezza; Giuda battezza? E’ Cristo che battezza!).
Una immagine che mi ha aiutato e consolato nell’assunzione spirituale di questa relatività a Gesù Cristo è quella che chiamo la “spiritualità dello zerbino”.
“Cenni della spiritualità dello zerbino”
- Lo zerbino serve per pulirsi le scarpe.
- Lo zerbino si mette all’ingresso delle chiese, delle case e degli uffici e contribuisce a rendere bella la chiesa o la casa o l’ufficio, impedendo che vi si introducano il fango la polvere ecc.
- Esistono zerbini di materiale diverso, di lamiera, di gomma, di strane fibre sintetiche; tutti però servono ad un solo scopo: pulirsi le scarpe.
- Esistono zerbini di varie forme e di vario colore, ma presto le forme si deformano e i colori si cancellano: non è niente. Lo zerbino serve ancora per pulirsi le scarpe.
- Siccome serve a pulire le scarpe, lo zerbino si mette sotto i piedi, e naturalmente lui non si lamenta: quello è proprio il suo posto.
- La pulizia delle scarpe si ottiene sfregando vigorosamente le scarpe sullo zerbino: più sono sporche, più vigoroso deve essere lo sfregamento.
- Lo zerbino non fa distinzioni, e perciò gli passano sopra scarpe delle donne con i tacchi che pungono come spilli, i sandaletti leggeri dei bambini che appena camminano, delicati come carezze e le suole carroarmato delle grosse scarpe invernali, violente come graffi. Lo Zerbino pulisce tutte le scarpe.
- Quando il tempo è bello e non c’è fango né polvere, in quelle mattine limpide di primavera fatte apposta perché tutti si sentano contenti, si potrebbe pensare che lo zerbino sia inutile; e uno potrebbe andare da uno zerbino e irriderlo, dicendogli: “Tu non servi proprio a niente”.
- Lo zerbino invece è molto utile dove piove molto, e donne, uomini, bambini per venire a casa non prendono la macchina che li scarica proprio davanti alla porta, ma devono percorrere strade infangate.
- Lo zerbino non attira l’attenzione, e nessuno, quando si invita a visitare la sua chiesa o la sua casa, vi mostra lo zerbino.
- Non è necessario che lo zerbino sia bello: il suo orgoglio è di essere utile di servire la bellezza della casa di Dio.
- Quando uno zerbino, a furia di pulire scarpe, s’è tutto inzaccherato nessuno gli va a dire: “Poverino! Vieni, che ti consolo”. Piuttosto, perché sia ancora utile, occorre batterlo con violenza da una parte e dall’altra.
- Quando uno ci passa sopra, non si domanda se lo zerbino è contento o depresso. Si pulisce le scarpe e passa oltre.
- Di ogni persona che passa lo zerbino non trattiene che la polvere delle scarpe, ciò di cui uno vuol disfarsi.
- Quando uno zerbino è diventato tutto logoro e sfilacciato lo si butta via. Se ne prende uno nuovo e a quello vecchio nessuno pensa più.
Ora voi mi domanderete: “Ma se io vivo la spiritualità dello zerbino… che ne sarà della mia dignità, della mia personalità? In che senso mi realizzo?”.
Davanti a queste domande troppo intelligenti e troppo difficili per un vecchio zerbino come me, rimango senza parole. Certo non posso fare a meno di ricordare che il Vangelo dice: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato (Lc 14,11), e in un altro passo Gesù dice: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27).
Tracce di speranza
I segni della potenza di Dio che opera nel nostro tempo si ritrovano anche nel constatare che tutte le possibili alternative non distolgono dei giovani dallo sperare di diventare preti. Io ritrovo in questi giovani quelli che amo definire i segni di una nuova fierezza.
Ci sono giovani che s’azzardano a partire (per le missioni, per il seminario), mentre tutto congiura a sconsigliare, a suggerire rimandi e cautele: sei troppo giovane … considera bene a che cosa dovrai rinunciare … ma lo sai che vita ti aspetta? … diventerai come il nostro prete? …Eppure i giovani partono, un poco ingenui, un poco confusi, ma partono…
Sono pochi: non più l’invasione disciplinata e di uniforme colore nero per cui si aprivano – di rado – le porte dei seminari, ma un gruppo sparuto, multicolore, spesse di viaggio. Ad ogni modo partono il piccolo numero non basta a impensierirli.
Non più incoraggiati dalle madri, dalle nonne, dalla schiera delle zie suore; non più accompagnati da coetanei e compaesani anche loro incamminati verso una vita di sicura fatica e di indiscusso prestigio, piuttosto frenati da molte obiezioni, circondati da una ammirazione più simile alla sorpresa (talora anche allo schermo) che all’invidia e all’emulazione. Eppure partono.
Io li vedo questi giovani: credono di sapere che cosa sia la fatica e dicono che sono pronti.
Hanno già provato – qualche volta – il fallimento delle iniziative, la desolazione della solitudine, l’impressione di non essere aspettati da nessuno. Ne hanno sofferto: sono vulnerabili e sensibili, persino suscettibili. Eppure partono.
Partono, sapendo che si va come a una guerra dove sparano da tutte le parti e il nemico è inafferrabile; sanno anche che alcuni sono caduti e sono convinti di non essere migliori di loro. Eppure partono, come a dire: eccoci qui, a prendere il posto e fare fronte.
Credono in Dio.
Io li ammiro.
Resto ammirato di quella che mi sembra una “nuova fierezza”: un farsi avanti senza i complessi che hanno conosciuto altre generazioni, anche se non senza paure e trepidazioni, perché – glielo dicono tutti – sono fragili. E’ un dirsi pronti, senza presunzione – la maggior parte -, ma non senza esitazioni.
E mi sembra che la fierezza abbia le sue buone ragioni.
La fierezza è motivata dall’originalità, vissuta non come stranezza, ma come luminosa testimonianza. Sono originali perché vivono la loro vita come una vocazione e il loro futuro ha una direzione, uno scopo desiderabile: e tutt’intorno, come un’epidemia, appesta l’aria la paura del futuro e l’unica filosofia sopravvissuta sembra d’essere cauti, di argomentare giustificazioni per le proprie viltà e l’arbitrio delle proprie scelte, di garantirsi angoli tranquilli.
La fierezza è motivata dalla certezza che ci sono ragioni per vivere, fare fatica a sperare.
Credono in Dio, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Partono dunque non solo per sé, ma anche per altri: sanno di avere la responsabilità di custodire la speranza degli altri, di questo mondo smarrito. Sono disposti a rischiare la vita su questa speranza, su “questo Gesù, la pietra che scartata da voi costruttori è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza” (At 4,11).
Sono disposti a soffrire solitudine e fallimento, anche se hanno paura: sanno che questo mondo ha un disperato bisogno di salvezza. Essi conoscono il nome di questa salvezza e sono disposti a spendere la vita per annunciare questo nome. Per questo partono: io li ammiro.
Conclusione
Le considerazioni svolte sulle attese della comunità cristiane, sulla spiritualità di chi esercita il sacerdozio ministeriale, sui tratti distintivi e provocatori dei giovani che si preparano a diventare preti dichiarano in modo convincente la qualità cristiana della vita del prete, il valore che questo ministero rappresenta per tutta la Chiesa, la simpatia e la speranza con cui vale la pena di sostenere coloro che sono chiamati a diventare preti.
* Rettore del Seminario di Teologia della Diocesi di Milano