Vivere il sacerdozio battesimale
III Relazione
di Giuseppe Anzani *
Il sacerdozio del battesimo
Mi era sembrato facile, all’inizio, preparare una riflessione sul sacerdozio dei laici, o almeno non troppo difficile. In fondo, mi dicevo, è come ripassare un catechismo elementare; e poi i testi sul sacerdozio regale e profetico che viene al cristiano dal suo battesimo sono lì, belli e chiari. Per giunta, proprio ieri ho assistito a un battesimo, ripassando la lezione del vero: tre bambini, uno più bello dell’altro, sulle braccia di padrini e madrine, e le preghiere, i segni, i simboli, la vestina bianca e la candela accesa, e l’acqua sulla testa.
E diventano cristiani. Io pensavo al mio tema “sacerdotale” e mi dicevo guarda, diventano cristiani e neanche si vede. I segni mi davano emozione (quanto si ha bisogno di segni fisici, umani, rituali, solenni, per accostarsi all’invisibile), e per un attimo mi è parso di aspettare che si facesse visibile il mutamento. Accade così; e così spontaneo il bisogno di una traduzione sensibile, di un contatto certificante quando si tocca il mistero. Ho lasciato le briglie, senza volerlo, a questa mia trasognata attesa, mentre il rito seguitava. Agli occhi non giungevano che i segni; inseguivo con la mente il rimando catechistico “ex opere operato”; dentro, il cuore gonfiava il mysterium fidei. La fede.
La fede, si ma di chi? Dei bambini no, dei genitori e padrini forse. Ma che ne è sicuro? Fortuna che non mi hanno chiesto di fare il padrino, con la mia fede da un giorno sì e un giorno no. Eppure lo straordinario è che a battezzare potrebbe trovarsi persino un non credente, purché la sua intenzione sia quella di battezzare come fa la Chiesa. Dunque la fede nella Chiesa. Mi placa infine il pensiero della preghiera di pace quando dice “non guardare ai miei peccati, ma alla fede della tua Chiesa”.
Intanto che mi distraggo così, il rito è terminato. Abbiamo tre nuovi cristiani tre nuovi sacerdoti, anzi in questo caso un sacerdote e due sacerdotesse. Regalità e profezia, nel mistero della fede, appartengono a loro.
Ci vuole qualche trepidazione a raccontare l’invisibile. Lo si contagia fatalmente di modelli antropomorfi. Solo la contemplazione non lo sciupa, e la contemplazione è silenzio. I teologi (cioè, letteralmente, gli studiosi di Dio) dovrebbero essere più discreti, nel dire. Resta sempre l’emozione di un “oltre”, di un diverso dominio dell’essere. Il sacro resta inaccessibile; e per raggiungerlo, toccarlo, occorre un ponte. Un sacerdote, ecco quello che è, appunto: un ponte, fra la terra e il sacro che abita oltre i cieli.
L’unico sacerdote
Dopo il battesimo, c’è la Messa, e tutti questi pensieri, riposti in buon ordine e contenti, si sono messi di traverso. La lettura del vangelo (la Passione) parlava infatti proprio di sacerdoti, anzi di somma sacerdoti. E questi facevano la stessa paura che fa il “sacro” quando incombe sull’uomo come qualcosa che può annientarlo. Loro, i sacerdoti, in nome della religione mettevano a morte, reo di bestemmia, che aveva osato affermare una cosa così inauditamente eretica, che Dio ha mandato suo Figlio, Dio ha tanto amato il mondo da mandare suo Figlio … E lo schernivano, mentre quello moriva in croce, e invece il centurione pagano del supplizio toccava come in un lampo la verità di quel Dio Figlio.
Seguivo il resto della lettura del vangelo come assorto in quel pensiero angoscioso. In fondo, il momento cruciale è davvero lì. Ho sempre fatto fatica a capire la centralità del mistero della croce, a fidarmi che lì sopra c’è una glorificazione; che il passaggio (la pasqua) è un tutt’uno di morte e resurrezione; che il Vivente è il Crocifisso Risorto. Davvero sfida la fede, il nocciolo. E’ scritto anche che quella croce Lui l’ha volutamente abbracciata. Però sono quei sacerdoti, che gliela hanno preparata; che cosa significa malvagità sacerdotale?
D’un tratto, mi sono riscosso; la voce che leggeva il vangelo era arrivata al punto che dice: “Allora il velo del tempio si squarciò da cima a fondo”. E la spina mi è esplosa fuori dal cuore, come un urto di giubilo. E’ finita; il vecchio sacerdozio della paura e del sangue è terminato. Come prima, mai più. Potremo tornare ancora a parlare di sacerdozio, ma con uno stacco infinito. Dovremo confinare nello spazio della memoria antica la parola stessa di sacerdozio umano, frequentata dalle religioni (e mi vengono in mente non solo gli Ebrei, ma gli Egizi, i popoli mesopotamici, o gli Aztechi, con le loro analogie e omologie sacerdotali). Nell’era nuova, nel testamento nuovo, non c’è che un solo sacerdote, Gesù Cristo.
Penso che dovremmo concentrare l’attenzione contemplativa su questa unicità. A volte ho l’impressione che psicologicamente siamo tentati di ricucire quel velo del tempio, di rammendarlo. Dopo Gesù, il sacerdozio non vuol dire più la stessa cosa.
Potremo chiamarci sacerdoti solo diventando una cosa sola con Lui, che ci partecipa il suo sacerdozio. E anche questo nostro sacerdozio “diffuso” resta radicato nel Suo sacerdozio, in virtù della linfa che fa vivi i tralci della stessa vita del tronco. Siamo sacerdoti perché facciamo con Cristo “un solo corpo”.
Anche la metafora del ponte che collega il cielo alla terra,ormai sbiadisce. L’incarnazione del Figlio di Dio annuncia l’unico Regno, che è vicino, che già qui, che è cielo e terra insieme, e che deve compiersi nell’attesa della storia affidata anche alle nostre mani, fino al giorno in cui Egli tornerà e vi saranno nuovi cieli e nuova terra. Il sacerdozio dei cristiani è ciò che rende sensibile, visibile, il sacerdozio di Cristo invisibile, che pure è Presente, e Vivente, ogni giorno, fino alla fine.
Non possiamo dunque sostituire quel sacerdozio con qualcosa d’altro, escogitato da noi, quasi di nuovo scivolando nello stile antico. Lo stile sacerdotale non è l’incombenza di offrire vittime o incenso: Gesù ha offerto se stesso, il cristiano-sacerdote deve offrire se stesso.
L’antinomia dell’uomo diviso e del mondo spezzato
Anch’io sono un battezzato, dunque un sacerdote. Nel dire come vedo il sacerdozio dei laici provo imbarazzo, se dovessi parlare di me. So che tra la mia anagrafe cristiana e il resto cè uno scarto tale che se ci penso mi viene la vertigine. Solo in forma problematica posso parlare delle prospettive che affacciano la vita di ciascuno, secondo le diverse esperienze, al sacerdozio comune.
La mia esperienza di vita è il lavoro di giudice. E’ facile farsi idee sbagliate su un lavoro così, se, lo si analizza materialmente, fra lo studio della legge e la redazione delle sentenze. Non è di questo che voglio dire, ma piuttosto dell’approccio psicologico fra il mestiere e la realtà del mondo. Ogni mestiere è una finestra diversa sull’orizzonte del mondo. Il lungo affaccio sulla medesima prospettiva finisce per diventare una visuale, una lente; quel che vi filtra dentro finisce per disegnare un”profilo” della realtà intera. Ciascuno può dire che conosce il mondo da quel profilo; non che conosce tutto il mondo (ognuno conosce una piccola parte della realtà), ma che “il mondo lo conosce così”.
Per me, il profilo del mondo che arriva alla mia finestra, è l’esperienza che l’uomo è l’uomo diviso. Sui tribunali, c’è scritto “palazzo di giustizia”, e a volte penso che sia come scrivere sugli ospedali “palazzo della salute”. Ci sono i palazzi di giustizia perché la terra è piena di ingiustizie. Nelle aule penali si fa giustizia dei delitti; e la presenza di delitti (tre milioni di fascicoli ogni anno, in Italia) è il segno della presenza del male, tra fragilità e cattiveria. La giustizia penale e una giustizia spezzata; può castigare, ma non riparare; il piano della vittima è senza conforto.
Nelle aule civili, si fa giustizia delle liti che affannano i contendenti, ciascuno intento a mostrare la sua ragione e il torto altrui. La bilancia pesa l’uno e l’altro, la decisione mette fine al conflitto. Ma poiché genera una vittoria e una soccombenza (e talvolta, persino, perdono tutti) la sentenza non sempre genera pace nei cuori. Disarma ma non riconcilia.
Così, dunque, la visione del mondo è la visione di un mondo conflittuale e sofferente, di un mondo in lotta, dominato da forze dualistiche. Paradigma di una verità che si intuisce negli squilibri che travagliano la vita e le relazioni umane. Si intuisce la misteriosa antitesi di compresenza del bene e del male, dell’amore e dell’odio, della virtù e del vizio, della felicità e del dolore, del senso e dell’assurdo, della fedeltà e del tradimento. Tutto questo fa affiorare quello sconcerto primario che affatica il cuore dell’uomo di fronte alla contraddizione che ravvisa nel cosmo, e anche più nel microcosmo della sua coscienza; racchiude come un emblema quel bisogno di risposta “religiosa” al mistero, quel bisogno costante di purificazione, di rigenerazione.
Come non avvertire che proprio nei territori dell’uomo diviso, dell’uomo in pezzi e disperato e confuso, la fede è il primo compito sacerdotale? La fede è ciò che salva, la fede è il cemento di ogni sforzo e di ogni impegno, delle minuscole cose che riusciamo a fare, e che il più delle volte non riusciamo a fare. La fede testimoniata è dunque il primo contenuto del sacerdozio laicale, che è sacerdozio profetico. Ma appunto qui cominciano gli sconforti, perché la nostra fede è gracile e dubbiosa, magari intermittente; è una fede anoressica, che non si alimenta e non prega. E’ una fede smentita dalla incoerenze quotidiane, che allontanano gli altri, i dubbiosi op gli indifferenti, come una ipocrisia.
Ma c’è la fede della Chiesa. Quella per cui ha pregato Gesù, perché non venga meno. Nei momenti della stanchezza e del dubbio, è necessario rinfrescare il pensiero di questa nostra appartenenza alla Chiesa, al popolo di Dio.
La seconda prospettiva sacerdotale che vedo offerta al laico cristiano è quella della riconciliazione. S’intreccia alla prima: l’immagine dell’uomo diviso invoca l’uomo nuovo, il peccato invoca la grazia, la ferita invoca la guarigione, la morte invoca la vita. Si è parlato molto in passato, sull’impegno laicale per una “consecratio mundi”. In realtà, la redenzione di Gesù ha già investito di per se stessa il cosmo, e non c’è più nulla di profano da mutare in tempio, il tempio è dovunque. Mas è un tempio, il mondo e la vita, che patisce di continuo l’incuria e il degrado e la profanazione, e spesso gli uomini non lo riconoscono più perché lo hanno reso irriconoscibile. Il laico cristiano è sacerdote di questo tempio; è il sacerdote del mondo e della vita moderna, del lavoro, della famiglia, della politica, dell’economia, di ogni settore dell’umana attività. Con il compito incessante di ridare colore all’affresco prezioso della creazione, deturpato dall’insipienza, dalla fragilità o dalla cattiveria umana.
La gloria di Dio è l’uomo vivente
La prima via per compiere questo servizio, con passione affettuosa,è l’uomo. C’è differenza tra il testimoniare la fede in Gesù Cristo, e ridurre il messaggio a un puro codice etico, agitato con minaccia e rampogna, come un codice giuridico. Non è così il vangelo0. i principi si fanno salvi e si obbediscono; l’uomo si ama. Il laico cristiano è fedele al suo sacerdozio quando incontra i fratelli con amore. Di fronte alle miserie del mondo non è l’indignazione che salva, ma la commozione e la riconciliazione.
Del resto, quando viene il momento dell’offerta (perché nel sacerdozio è immanente il concetto dell’offerta) gli occhi non possono più cercare l’oggetto del sacrificio nel catalogo dei simboli: è la vita, che deve essere offerta, la propria vita. L’esitazione che ci prende, di fronte al dilemma se godere la vita o donarla, si deve immergere nella misteriosa parola di Gesù, sulla vita perduta e guadagnata. La vita interamente vissuta, interamente goduta, è in realtà la vita interamente donata.
I giorni, il lavoro, i gesti, rimangono gli stessi, ma il senso cambia. La fede li trasferisce dentro l’economia del Regno, e dilata la pienezza del loro significato. I nostri obiettivi terrestri si inscrivono nell’unico grande obiettivo (ad maiorem Dei) e il mondo è quotidianamente riconsacrato. Diviene il mondo destinato a glorificare Dio. In questo compito i cristiani sono come un pugno di lievito, e dall’interno del mondo, fratelli tra i fratelli, a guisa di fermento, rendono visibile quella riconciliazione santificante che viene dal Signore Gesù.
Di nuovo la fede ci assicura che questa offerta della vita non è la proiezione di una sociologia: è una vocazione essenziale.
In passato, si è speso molto tempo a rivendicare e chiarire la legittima autonomia della realtà “laica”, quasi difendendola dall’espansione del sacro. Era giusto, era urgente, scioglieva gli equivoci di una contrapposizione, rivelava che l’impegno terreno del cristiano, quando costruiva la città terrena, con gli attrezzi terreni e le regole di quell’arte, aveva la sua dignità intrinseca, e non si sottraeva alla fatica comune. Il Concilio ha dato a questo tema una chiarezza che mi pare definitiva.
Oggi l’urgenza ha mutato segno. Oggi l’uomo chino, indaffarato, secolarizzato, non vede più che sopra il suo orizzonte terrestre c’è il cielo. Oggi la realtà del cosmo (che è sacra perché viene da Dio creatore ed è stata redenta da Gesù Cristo) appare dissacrata. L’uomo troppo sollecito della terra dimentica che “porro unum est necessarium”. Persino i grandi valori accessibili al cuore di tutti gli uomini di buona volontà, credenti o non credenti, sono diventati scipiti, hanno cambiato registro.
Prendete ad esempio il valore della giustizia: nella stagione presente si va identificando con l’efficienza (lotta al crimine, sveltimento dei processi); pochi pensano alla radice che rigenera l’ingiustizia, e che senza il mutamento del cuore i meccanismi costrittivi non ci fanno diventare virtuosi. Prendete ad esempio l’assistenza, banco di prova di tutti i progetti costituzionali di “solidarietà”: sarà sempre in affanno, sempre inadeguata, frigida e deludente, se non diventa carità.
Ecco, così vedo il sacerdozio dei laici cristiani: l’animazione, in virtù della fede, delle infinite strade del mondo; i fermenti sapidi della sapienza dello spirito, affogati nella pasta a lievitarla, a darle il sapore della verità; o forse ancor più le sinapsi infinitamente protese, con totale flessibilità, al contatto con la vita, sì che essa ritrovi l’indirizzo, per quel tramite sacerdotale, della Fonte della vita.
* Magistrato, presidente di sezione del Tribunale di Milano