Vita nello Spirito

Domenica, 13 Aprile 2008 20:05

Cieli promessi (Gianfranco Ravasi)

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di Gianfranco Ravasi

C’e un curioso contrasto da segnalare appena ci si meta parlare del paradiso. Da un lato, la Bibbia - che è pur sempre il nostro grande codice di riferimento simbolico, teologico e iconografico - è al riguardo estremamente sobria, per non dire reticente. D'altro lato, la tradizione cristiana successiva si è abbandonata a una fantasmagoria irrefrenabile di immagini e di scene.


Partiamo, dunque, dalle Scritture schiodando innanzitutto dalla mente di molti un luogo comune: il celebre "paradiso" terrestre dell'Eden, descritto dalla Genesi (2, 9-10), non è mai chiamato così nel testo originale ebraico, bensì è un più semplice gan ossia un "giardino", dotato di «alberi graditi alla vista e adatti all'alimentazione».

Tuttavia in mezzo a quella vegetazione fioriscono due piante ignote alla tassonomia botanica, «l’albero della vita e l'albero della conoscenza del bene e del male». E per questo che l'antica versione greca della Bibbia, detta dei Settanta, e la tradizione cristiana hanno denominato quel giardino con un termine raro di origine persiana: pairidaeza pardes in ebraico, paradeisos in greco, il nostro “paradiso". Il vocabolo rimandava a un giardino recintato, fertile e fiorito e, già nell'antica lingua mesopotamica, l'accadico, pardesu indicava un “frutteto recintato", in antico iranico,

Questo vocabolo nell'Antico Testamento ricorre solo tre volte: una nel Cantico dei cantici (4, 13) ove è la raffigurazione simbolica dell'orizzonte magico dell’amore e dell'intimità - e due altre volte per definire un parco reale (Nehemia 2, 8 e Qohelet 2, 5).

L’idea del "paradiso terrestre” è stata, perciò, indotta in questo ritratto del giardino dell'Eden ed è diventata così popolare da dominare nella tradizione successiva.

Non sono mancati, allora, coloro che si sono incamminati verso l’Arabia e lo Yemen o la Mesopotamia alla ricerca del vero giardino di Eden. Certo, l'autore aveva in mente forse qualche scena esotica delle terre d'Oriente; tuttavia quel giardino rimane ai suoi occhi il simbolo di un cosmo pacificato e sereno era un paesaggio esistenziale ideale al cui interno l'uomo è collocato per esserne il custode e il coltivatore.

Che l'orizzonte descritto dall'autore sacro non sia meramente geografico ma simbolico risulta anche - come si è detto - dalla presenza, accanto alla vegetazione normale, delle due piante metaforiche, l’albero della vita e l’albero del bene e del male, segni rispettivamente della immortalità e della scelta morale libera operata dall'uomo tra bene e male.

Il giardino dell'Eden è, quindi, una grandiosa rappresentazione del progetto divino sul creato, un progetto frustrato dalla scelta libera e alternativa dell’uomo. Tuttavia Dio non cessa di operare perché questo suo piano di armonia possa compiersi.

Anzi, la meta verso cui egli punta è quella di vedere «nuovi cieli e nuova terra» in cui la giustizia abbia spazio e uomo e natura vivano in dialogo sereno. È questo il vero “paradiso”, il giardino della felicita e della pace. È curioso notare che, se la Genesi pone questo “paradiso terrestre" agli inizi della creazione e della storia (schema “protologico", come si è soliti dire nel linguaggio teologico), Isaia e altre pagine bibliche lo trasferiscono alla fine (schema "escatologico"). Il profeta canta, infatti, l'era messianica futura come un "paradiso" in cui «il lupo dimorerà insieme con l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme... Anche i loro cuccioli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia come il bue, il lattante giocherà sulla buca dell'aspide, il bambino metterà la mano nel covo dei serpenti velenosi... La sapienza del Signore colmerà la terra come le acque ricoprono il mare» (11, 6-9).

Questa presentazione “escatologica" di un giardino "paradisiaco" come spazio di salvezza ricorrerà a più riprese nella Bibbia. Nel VI sec. a.C. il profeta Ezechiele, per indurre alla speranza gli Ebrei esuli a Babilonia, delineerà una rigenerazione della terra, ricorrendo all’immagine del mar Morto riportato a nuova vita attraverso un'acqua pura e santa che sgorga dal lato destro del tempio di Gerusalemme. Simile ad un'onda fecondatrice - si legge nel capitolo 47 del libro di quel profeta - essa non purifica solo le acque del mar Morto facendole pullulare di pesci, ma trasforma il deserto di Giuda in un giardino: «Lungo il fiume, su una riva e sull'altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui fronde non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina» (47,12).

Sulla scia di questa pagina l'ultimo libro della Bibbia, l'Apocalisse, che è per eccellenza il canto dell'escatologia, ossia del fine ultimo verso cui è orientata la storia, descriverà la città santa, la nuova e perfetta Gerusalemme, segnata proprio da un fiume e da un giardino veramente "paradisiaco". Anche in questo affresco, come in quello di Ezechiele, si delinea un fremito di vita e di speranza. Ecco le parole dell’autore dell’Apocalisse: «Mi mostrò un fiume d'acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell'Agnello. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall'altra del fiume si leva un albero di vita che produce dodici frutti e offre il suo frutto ogni mese mentre le foglie dell'albero servono come terapia delle nazioni (22, 1-2).

Al di là della prodigiosa fecondità degli alberi ora descritti, capaci di fruttificare ogni mese (la simbologia del "dodici"), e della loro energia terapeutica, c'è nell'oasi paradisiaca della città santa un albero gia incontrato nella Genesi, l'albero della vita: il riferimento è al giardino dell'Eden ove questa pianta "teologica" allora vietata all'uomo - incarnava quell'immortalità che adesso è offerta al giusto perché viva sempre col suo Dio nell'eternità beata. È suggestivo che la Bibbia inizi e si concluda con questo segno del nostro destino di gloria che possiamo perdere ma che è sempre disponibile a chi segue le vie di Dio.

In questa luce sono illuminanti i tre unici passi neotestamentari in cui occhieggia il termine "paradiso". Se per san Paolo è l'espressione di un'esperienza mistica di comunione divina e di trascendenza («essere rapiti fino al terzo cielo... essere rapiti fino in paradiso» 2Corinzii 12,3-4), nelle parole che il Cristo in croce rivolge al malfattore pentito è l'esplicita indicazione del destino ultimo del credente che vivrà nell'eternità divina «Oggi sarai con me in paradiso» (Luca 23,43). Idea sottesa anche al terzo passo presente nell'Apocalisse: «Al vincitore darò da mangiare dell'albero della vita che sta nel paradiso» (2, 7).

A questo punto possiamo dare solo uno sguardo alla proliferazione “paradisiaca" della tradizione cristiana. Si pensi, per esempio, che nel 1609 a Lione il gesuita tedesco Jeremias Drexel, per dipingere un ritratto storico-teologico delle sole gioie paradisiache, aveva avuto bisogno delle 640 pagine del suo Tableau des joyes du paradis ("Tavola delle gioie del paradiso"), così da far venire l'acquolina (celestiale) in bocca anche al più renitente peccatore, il quale nel frattempo imparava dal dotto gesuita che l'abisso infernale era allora già popolato da centomila milioni di dannati! Oppure potremmo, in forma ben più rigorosa ma sempre attrattiva, rimandare a uno storico di chiara fama come il francese Jean Delumeau che al paradiso ha dedicato un intero trittico di volumi, componendo in tal modo quella che egli stesso ha chiamato Une histoire du paradis. Lo stesso storico ammoniva però che ormai l'uomo moderno, sempre più scettico, è forse convinto con Voltaire che «il paradiso è dove sono io» e con Sartre che «l'interno sono gli altri».

Delumeau concludeva, allora, nel terzo tomo del suo trittico sulla “storia del paradiso" ricordandoci che il padraiso in passato era un topos, in greco un “lugo” ben delimitato e delineato; oggi esso è diventato un utopos,un non-luogo inesistente e insignificante; sulla spinta del messaggio evangelico delle Beatitudini, dovrebbe essere invece un'utopia, cioè un progetto da tenere come guida per trasformare il mondo e la storia, una realtà che Dio e l'uomo compiranno insieme e che avrà alla fine una sua attuazione piena, oltre il tempo e lo spazio. Anche Cristo aveva affermato che «il Regno di Dio è in mezzo a voi», ma al tempo stesso aveva fatto balenare la sua attuazione piena in un "oltre" la stessa storia, un “oltre" così cantato dall'Apocalisse: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini. Egli dimorerà con loro, ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il "Dio-con-loro". E tergerà ogni lacrima dai loro occhi. Non ci sarà più la morte, ne lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21, 3-4).

Su questa promessa si fonderà la speranza dei credenti, espressa in modo solenne e fin enfatico dal filosofo russo cristiano Pëtr Jakovlevic Caadaev (1794-1856) che così provocava i suoi interlocutori atei: «Tra voi e il cielo non vedete altro che la pala del becchino. Brutta è la filosofia che non vuole comprendere che l'eternità non è altro che la vita stessa e il destino dell'uomo giusto».


Per saperne di più:

Gianni Colzani, La vita eterna. Inferno, Purgatorio, Paradiso, Mondadori, Milano 2001

Jean Delumeau, Il giardino delle delizie, Il Mulino, Bologna, 1994.

Jean Delumeau, Quel che resta del paradiso, Mondatori, Milano, 2001.

Jeffrey B. Russell, Storia del paradiso, Laterza, Bari, 1996.

(da I luoghi dell’infinito)

Letto 2437 volte Ultima modifica il Domenica, 22 Aprile 2012 21:20
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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