Oltre il perbenismo, facciamo spazio ai poveri
di Ina Siviglia
Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, tagliare i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? (Is. 58, 8)
Il richiamo alla giustizia, alla, cura dei più deboli ritorna puntuale in Quaresima e interpella in profondità ogni cristiano. Una Parola forte, che ha il compito di provocare una crisi salutare nel cammino verso la perfezione dell'amore. C'è in questo testo una chiara intenzione polemica nei confronti dl una maniera formale e troppo ritualistica di intendere il digiuno e ogni altra pratica religiosa. Non è tanto questione di astenersi dal cibo, quanto di farsi poveri per condividere la sorte dei poveri del mondo, nella deliberata volontà di ricercare insieme strade di liberazione. Si tratta di rinunziare non tanto e non solo a qualcosa, per donarla agli altri, ma di fare della propria vita un sacrificio gradito a Dio perchè offerto ai fratelli.
La Parola del profeta indica azioni sociali che richiedono la capacità di denuncia, il coraggio di gesti concreti, senza paura del giudizio altrui o di reazioni da parte dei potenti. È richiesto un impegno di lotta per la giustizia, nella piena assunzione della logica divina e dunque nel deciso rifiuto delle logiche umane che tendono a schiavizzare in tante possibili forme l'uomo. Ai cristiani poi è chiesto, oltre alla continuità tra denuncia e azione sociale di liberazione, anche l'impegno di solidarietà a livello personale, affinché risplenda l'interiore conformità a Cristo povero.
Aprirsi alla follia
E la Parola di Dio conduce ancora oltre. Ci è chiesto di lasciarci disturbare dai poveri, di andare oltre ogni schema di vita, di attribuire ai miseri una soggettualità sacra che esige da noi un saper far spazio a quanti, rappresentando Cristo stesso, hanno diritto di irrompere anche nella nostra vita privata e familiare.
Questo vale anzitutto per coloro che, avendo consacrato la propria esistenza a Dio e al prossimo, devono essere sempre vigili nel non rimanere irretiti in schemi di vita che di fatto escludono, nel quotidiano, l'ingresso del povero nella propria vita e in quella della comunità. Le comunità religiose, ma anche quelle parrocchiali, sono chiamate ad essere segno di un'accoglienza incondizionata a chiunque sia in situazione di bisogno.
Ma questo stile di vita è richiesto anche a quanti hanno scelto di vivere un cristianesimo da laici con famiglia, lavoro e impegni sociali: non sono affatto esonerati dalla radicalità evangelica, che esige di "introdurre i miseri" nelle proprie case e non solo l'elemosina. Una tale provocazione deve riuscire a contrastare un certo perbenismo cristiano, che tende a fare della pratica religiosa un elemento di tranquillità e appartenenza scontata, talvolta di distinzione elitaria, e non piuttosto ragione di continua e sana inquietudine, capace di condurre oltre i confini di una certa normalità per aprirsi alla follia che Cristo stesso ha inaugurato con un amore smisurato, specialmente per i più poveri. Gesù non è venuto per anestetizzare le coscienze, ma per svegliarle all'avventura dell'amore e del dono senza misura. Egli è venuto "a portare il fuoco sulla terra" (Lc. 12, 49): lasciamoci incendiare dal fuoco dell'amore, l'unico capace di distruggere le resistenze interiori, le derive perbenistiche, gli stili di vita ambigui, le ragioni della ragione e di seminare nei solchi della storia germi di vita eterna. "Allora la nostra luce sorgerà come l'aurora!".
(da Italia Caritas, marzo, 2005, pag. 5)