Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

L’educazione religiosa
nella famiglia ortodossa
di P. Vladimir Zelinskij


Direi che il mio compito abbia due risvolti: raccontare la situazione della famiglia ortodossa in Europa Occidentale e dare qualche indicazione sull’educazione religiosa familiare nei paesi di tradizione ortodossa.

Quando parliamo della presenza delle comunità ortodosse in occidente e soprattutto in Italia, dove sono abbastanza numerose, segnaliamo subito una contraddizione fra la presenza fisica delle persone, la loro presenza culturale e la coscienza religiosa. E’ difficile rispondere alla domanda quanti veramente siano gli ortodossi presenti sul territorio italiano, ma se tutti gli immigrati, regolari o clandestini, provenienti dall’Ucraina, dalla Russia, dalla Romania, dalla Moldavia, dalla Bielorussia, dalla Grecia, dalla Serbia, dalla Bulgaria, dall’Albania, dalla Georgia fossero davvero ortodossi, si potrebbe parlare della terza comunità religiosa in Italia dopo il cattolicesimo e l’islam. Ma per la maggior parte di questi immigrati si tratta dei cosiddetti ortodossi anonimi. Non si trovano su una terra piena di memorie storico-religiose, come i cattolici in Italia; non portano sulle spalle tradizioni solide e plurisecolari come i valdesi od i battisti; non hanno comunità compatte e ben strutturate come i musulmani; ma provengono da paesi dove (ad eccezione della Grecia) qualsiasi vita religiosa è stata perseguitata, soffocata o, nel miglior dei casi, emarginata per ben 70 anni (od almeno 50). All’estero, sradicati dal loro ambiente, dalla madrelingua, dall’aria stessa della loro patria, sono anche divisi fra loro per il principio etnico. Una cosa che sembra strana, ma che è abbastanza caratteristica: proprio i greci, che non hanno subito una persecuzione particolare della fede nel XX secolo, sono i meno praticanti fra gli ortodossi. Forse questo è avvenuto perché Chiesa e patria sono, presso di loro, strettamente uniti. I più praticanti, i più attivi ed i meglio organizzati, almeno in Italia, sono i rumeni.

Tenendo conto di questa situazione e del numero crescente di immigrati dai paesi dell’Europa dell’Est, possiamo dire che l’educazione religiosa nella famiglia ortodossa in Italia è un problema che si farà vivo nella prossima generazione. Anzi, questo problema non sarà solo quello degli emigranti, perché anche l’ortodossia italiana pian piano cresce. Grazie all’emigrazione massiccia dell’inizio del secolo scorso, si è formata già l’ortodossia francese, inglese, tedesca, americana, canadese, ecc. che celebra nelle proprie lingue d’origine, che ha le proprie strutture ecclesiali, propri istituti teologici, propri teologi, proprie tradizioni e anche i propri santi. Questa nuova ortodossia occidentale da tempo non dipende in nessun modo dai cosiddetti popoli ortodossi. Nello stesso tempo “les enclaves” della vecchia emigrazione rimangono ancora; in Francia e negli Stati Uniti, per ricordare solo questi due paesi. Con la prima ondata dell’emigrazione russa, chi riuscì a scappare dopo la Rivoluzione Russa del 1917 e dal sanguinoso potere bolscevico (si tratta in totale di due milioni di persone) ha potuto conservare in alcune famiglie fino alla quarta, quinta generazione, la lingua (anche più “pulita”, quella del secolo XIX), la fede, l’ambiente culturale. E’ questo un esempio promettente di conservazione creativa e di vitalità dell’ortodossia. Un altro esempio: l’emigrazione greca dopo l’espulsione dei greci dall’Asia Minore all’inizio del XX secolo. Al momento, la Metropolia Greca che si trova sotto il Patriarcato di Costantinopoli, è una delle più numerose fra le diaspore ortodosse. In totale negli Stati Uniti vivono oggi 6 o 7 milioni di ortodossi di appartenenze e giurisdizioni diverse. A differenza dell’Europa, in America sono riusciti a creare numerose e vive comunità di lingua e tradizione greca.

C’è anche un’altra cosa che gioca un ruolo di primo piano nell’educazione ortodossa in famiglia: la presenza del tempio, del luogo di culto, della celebrazione liturgica. Se possiamo dire – cum grano salis, naturalmente, - che la fede cattolica ha la sua magistranell’istituzione che funziona come magistero nei confronti di tutti gli aspetti della vita; se possiamo dire che maestra della fede protestante rimane la Sacra Scrittura, percepita come un testo che deve essere interpretato alla luce delle moderne ermeneutiche, la fede ortodossa è la fede della liturgia e della tradizione che non ha mai avuto né reinterpetretazione né aggiornamento. La fede ortodossa - celebrata nell’assemblea ecclesiale o nella cella solitaria - comunque è sempre pregata e vissuta nella preghiera, cioè, non tenuta come una somma di dottrine da credere o precetti da seguire. Questo connotato dell’ortodossia è la sua forza, ma anche la sua debolezza. Forza, perché l’intensità della fede, che è inseparabile dalla preghiera, può essere molto profonda e autentica. Debolezza, perché la sua dipendenza dal culto, dal luogo di culto e dal ministro del culto, la fa più vulnerabile delle altre fedi. Basti ricordare che la persecuzione e la distruzione o la profanazione di tante, tante chiese nell’Unione Sovietica, nella prima metà del XX secolo, è stata accompagnata dell’apostasia di massa. Per tantissimi ortodossi “formali”, quando sparisce la chiesa, può sparire anche la fede che è fondata sull’identità pubblica della preghiera in comune.

In occidente, soprattutto in Italia, sorgono oggi ovunque luoghi di culto ortodosso che diventano anche piccole scuole di educazione alla fede. Un noto teologo ortodosso della scuola di Parigi (p. Ciprian Kern) ha detto che il coro delle chiese è la migliore cattedra di teologia perché il contenuto è così ricco e ampio, così antico, patristico, che si può sapere tutto della fede ortodossa anche soltanto ascoltando il coro. Per la maggior parte degli ortodossi praticamente non esiste nessun altro tipo di magistero. Naturalmente, il canto non è testo che deve “entrare nel cervello” (tenendo conto che solo una piccolissima parte del grande tesoro liturgico è cantata in un giorno, durante la celebrazione della Divina Liturgia o dei Vespri e che questa parte cantata, spesso, almeno nell’ambito russo, è in lingua solenne - ma arcaica). Il canto entra nel cuore, in tutto in nostro essere e rimane lì come un deposito della fede vissuta, cantata, poco pensata, però, o meglio, poco ripensata in relazione alla modernità nella quale viviamo. Dunque, il compito dell’educazione religiosa nel paese d’origine, ma anche all’estero, è prima di tutto di iniziare un bambino (a volte anche un adulto, perché nel mondo ortodosso ci sono tanti adulti che scoprono la fede nell’età matura) al mondo della preghiera liturgica e personale.

Nella scuola dell’educazione ortodossa, l’elemento più importante è la preghiera domestica, la preghiera della o nella famiglia. Le nostre preghiere possono sembrare lunghe, antiche e ripetitive. Tuttavia anche questa ripetitività ha il suo senso: il cuore umano si scalda lentamente, non subito, non con le prime parole. Così, con gli adulti o con la comunità ecclesiale il bambino entra in questo spazio sacro della preghiera. Se il bambino impara a pregare ogni mattina e ogni sera, si abitua a vivere da ortodosso e questo ritmo si conserva per tutta la vita. Il primo compito dei genitori è di essere fedeli a questa pratica delle preghiere quotidiane. L’abitudine di pregare il mattino e la sera prima con i genitori, poi da solo, va insieme con il ritmo liturgico che abbraccia tutto il suo cammino, vale a dire l’alternarsi delle feste e i periodi dei digiuni e delle astinenze.

La Chiesa ortodossa ha salvaguardato la pratica dell’ascetismo antico con digiuni abbastanza lunghi (tutta la Quaresima, l’Avvento, qualche settimane prima della festa dei santi Pietro e Paolo, due settimane prima della Dormizione della Madre di Dio, tutti i mercoledì e i venerdì) perché riconosce all’astinenza dal cibo ricco di proteine e da tutti i piaceri carnali (spettacoli e televisione compresi) un senso pedagogico ed ontologico. Il senso pedagogico consiste nell’educazione al dominio sul proprio corpo, sui desideri egoistici, sulla legge del mondo: “io voglio e il mio volere di quell’istante diventa la cosa più importante dell’universo”. Il senso ontologico, mistico, sacramentale, consiste nel ritmare l’esistenza umana con gli avvenimenti più importanti della vita di Cristo, della Sua Madre, dei Suoi servi che chiamiamo santi, commemorati e celebrati liturgicamente. In breve: il ciclo annuale dell’uomo e il ciclo liturgico ecclesiale hanno un unico respiro. Nelle famiglie davvero credenti i bambini entrano in questo ritmo dei digiuni e delle feste a circa 7 anni, a volte più tardi, spesso anche prima. La prima pratica del digiuno è la comunione a stomaco vuoto (cioè senza bere e mangiare niente dopo la mezzanotte), pratica alla quale anche i bambini più piccoli si abituano molto presto. Ma i neonati, che assumono il latte materno, i bambini, e anche adulti malati, sono liberi da questo obbligo.

Il senso dell’educazione religiosa nella famiglia non è l’imporre, ma il risvegliare qualcosa che già esiste. Questo noi crediamo, come tutti i cristiani: portiamo una scintilla di Dio dentro di noi e questa scintilla può essere spenta, oppure può dare un grande fuoco. Allora il compito dell’educazione è quello di accendere questa scintilla, con le preghiere e con l’obbedienza al ritmo liturgico. “Santo è il tempio di Dio che siete voi” – dice san Paolo (1Cor 3,17) e ogni cristiano deve costruire questo tempio con le proprie forze. L’educatore può risvegliare la coscienza della santità che abita nel cuore umano, ma costruire il tempio della fede è compito dello stesso giovane fedele.

Gli ortodossi praticanti (ma questo credo valga anche per i cattolici, o comunque, valeva prima della secolarizzazione occidentale) vivono secondo la tradizione della Chiesa, seguendo il ritmo liturgico che misura non solo l’anno e la settimana, ma tutti giorni della vita. Al centro di questo ritmo liturgico si trova sempre il mistero eucaristico. Questo mistero rimane anche come nucleo della spiritualità, come lo spazio e il luogo del vero incontro con Cristo. Se un giovane cristiano riesce a salvaguardare in sé questo senso religioso che i genitori gli hanno insegnato, può rispondere anche alle sfide del mondo contemporaneo. Nel mondo ortodosso, come nel mondo cattolico e protestante, le sfide della secolarizzazione sono enormi, ma nell’ambiente ortodosso sono percepite in modo più acuto, a volte anche drammatico, perché cattolici e protestanti hanno già qualche esperienza nel resistere ad esse, mentre gli ortodossi erano abituati a vivere in paesi confessionali, come 100 anni fa, e poi in paesi di persecuzione… Adesso che sono liberi quasi dappertutto, gli ortodossi non sanno sempre bene come reggere questa libertà che esiste non solo per loro, ma anche per gli altri. Non intendo con ciò riferirmi agli scontri fra le civiltà e le religioni, ma al clima culturale del mondo laico che è, apertamente o implicitamente, ostile a qualsiasi dimensione dell’aldilà. Per vincere questo conflitto il bambino deve essere educato alla vita spirituale, al centro della quale si trova il controllo su se stesso (il cosiddetto combattimento interiore), che è un altro concetto importante: il combattimento con le proprie passioni e tentazioni, la scuola ascetica non solo del corpo, ma del pensiero e dei sentimenti. Certo, solo veramente pochi sono in grado di raggiungere questo livello interiore, ma tutti i fedeli sono chiamati alla vittoria sulla loro vecchia natura, al controllo interiore, a vedersi sotto l’occhio del Cristo che guarda dentro il proprio cuore.

La differenza profonda ed essenziale tra ortodossi e cattolici non è tanto nella dogmatica, quanto nella tonalità, negli accenti. E’ una differenza abbastanza importante perché riguarda l’orientamento della fede. Vediamo infatti che la fede cattolica si orienta più verso il pratico, l’etico, in altre parole, il concreto della vita. L’orientamento della fede ortodossa è più concentrato su tutto ciò che è sacro (il concreto interiore): il dogma, la tradizione, la celebrazione. Insomma, sulla presenza reale, non in senso strettamente liturgico, ma nel senso ampio della presenza reale del mistero nella fede stessa e nella sua pratica. Da qui proviene anche il culto delle immagini che ha una parte importantissima dell’educazione religiosa. L’icona è un messaggio a colori o una contemplazione a colori, come disse un pensatore russo, oppure, direi, un ritratto del sacro, una visione del Regno che è già venuto...

Un’altra cosa essenziale per l’educazione ortodossa nella famiglia è l’inserimento del bambino nei sacramenti: dopo il battesimo, il bambino ha pieno diritto (e solo lui) a tutti i sacramenti (naturalmente, tranne il matrimonio e il sacerdozio). Ho detto “solo lui”, perché il concetto del “diritto” non è applicabile ai sacramenti ortodossi: gli adulti partecipano alla comunione non per diritto, ma per perdono. Solo un “uomo piccolo”, un bambino, non ha bisogno del perdono o del pentimento. Subito dopo il battesimo, secondo la tradizione antica, il bambino è già “degno” di partecipare alla comunione eucaristica. Il problema della confessione non si pone neanche. Anzi, il battesimo è sempre accompagnato dagli altri due sacramenti: la cresima e la comunione che, secondo la fede ortodossa, hanno carattere ontologico ed oggettivo e non chiedono necessariamente la partecipazione della mente. Nelle famiglie devote, il bambino cresce nella comunione settimanale (ciò che non è un fatto comune per gli adulti). Ma a sette anni – l’età del risveglio della ragione e del senso di responsabilità - la confessione prima della comunione diventa obbligatoria. I bambini portano il frutto del loro crescita spirituale, fino a sette anni, e poi l’offrono alla Chiesa. Dopo, il lavoro diventa doppio: del confessore, del direttore spirituale e del padre e della madre naturali. La confessione a sette anni è una cosa molto importante per i il risveglio spirituale dei bambini ed essi sono tenuti, a differenza degli adulti, a confessarsi sempre, nonostante che i loro peccati facciano sorridere gli adulti… Ma i sacerdoti dicono spesso che non esistono peccati piccoli perché “chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto” (Lc. 16, 10).

Lo scopo principale dell’educazione di un cristiano ortodosso è creare un’armonia della lex credendi con la lex orandi. Esse poivanno accordate alla coerenza della vita. Si tratta di questa vitache nell’ortodossia è vista sempre sotto il profilo escatologico. La dimensione dell’“aldilà” occupa, nel quadro del mondo orientale, un posto molto più importante che nelle altre confessioni cristiane. Si tratta non tanto della dottrina quanto della mentalità, la quale, per ora, non ha subito “smitizzazioni” e ancora crede che la promessa della salvezza eterna non equivalga per niente ad una garanzia. Perciò l’educazione ortodossa è anche educazione al timore di Dio, che è l’inizio della sapienza. Senza questo timore, nessuna fede può avere profondità e pienezza. La vita su questa terra è vista come preparazione ad un’altra, che è nelle mani del Signore. “Dio è amore”, ma Dio è anche la libertà dell’uomo e il rifiuto dell’amore da parte dell’uomo fa parte inalienabile della libertà umana. Perciò la vita spirituale è innanzitutto un cammino, non facile e mai concluso, di liberazione dal male che ci portiamo dentro.

Il concetto di peccato – parola che, pronunciata poco tempo fa da Rocco Buttiglione, ha spaventato e indignato l’Europa – è più che vivo nella Chiesa ortodossa, che lo prende molto sul serio. Se fosse nel Parlamento Europeo, l’ortodossia sarebbe subito cacciata via perché vede l’uomo come peccatore che si salva per l’immeritata grazia di Dio, ma anche per la sua libertà e il suo pentimento. La grazia e il pentimento vanno sempre insieme, perciò per fare la comunione, nella Chiesa ortodossa occorre ogni volta accedere alla confessione dei peccati. Il Padre accetta solo i figli prodighi che tornano. E tornano ogni volta con i vecchi peccati (che si ripetono infinitamente) e con nuove lacrime. Anche un piccolo peccato – parliamo del mondo del bambino – disubbidienza, inganno, furto di una caramella… può essere visto come segno dell’infedeltà all’amore del Padre celeste. Aggiungo che non tutti sacerdoti sono veramente capaci di ricevere la confessione dei bambini: trovare un contatto con loro, conquistare la loro fiducia chiede un talento educativo che è visto nella Chiesa ortodossa come un dono raro e speciale.

Non si tratta dell’intimidazione e delle minacce del castigo eterno – questo tipo di educazione non è praticato nella Chiesa ortodossa, soprattutto nei confronti dei bambini. L’anima del cristiano va formata per poter sentire ogni sua debolezza, ogni violazione dei comandamenti come un tradimento nei confronti dell’amore di Dio crocifisso. La percezione del peccato non è quindi moralistica, ma piuttosto mistica, cosa che si può percepire nelle lunghe celebrazioni della Settimana Santa. La Chiesa ortodossa crede che dentro di noi esista un’indescrivibile presenza di Dio, ma che esistano anche le forze del male. L’educazione religiosa consiste proprio nella preparazione al combattimento contro queste forze: l’uomo nasce innocente – e in questo siamo in contrasto con la teologia di sant’Agostino – ma poi sceglie il peccato, il suo peccato personale. La vittoria sul peccato significa la riconquista della libertà interiore il cui culmine è lasciar agire Dio stesso nell’anima e nel corpo. Teologicamente lo scopo della vita cristiana si trova proprio nel ritorno alla nostra vera natura iniziale, senza peccato, creata da Dio. Questo dà un grande senso di responsabilità a tutte le nostre azioni, i nostri sentimenti e pensieri. Anche il bambino può essere responsabile e la buona educazione religiosa consiste anche nel risveglio del senso della responsabilità personale.

Una fase più alta dell’educazione è la direzione spirituale, che esiste per gli adulti, come per i bambini. Anche il padre naturale può diventare padre spirituale. L’uomo, il bambino che si sente peccatore e sa che non può non peccare, offre la sua libera volontà ad un’altra persona degna di fiducia ma, soprattutto, ad una persona che rappresenta la presenza reale dello Spirito di Dio. Il vero educatore deve diventare per gli altri un’icona di Cristo. Questo naturalmente può essere pericoloso e, in effetti, gli abusi morali ci sono, ma quando la paternità spirituale mostra la sua forza, il Cristo stesso diventa il vero educatore e gli adulti si sentono bambini che tornano nel Regno del Padre...

Nella visione ortodossa la famiglia ha una grandissima responsabilità davanti a Dio per l’educazione religiosa dei figli: se il figlio non è credente, la scelta è sua, ma la colpa è dei genitori e nessuno può liberarli da questa colpa. Oggi, purtroppo, la maggior parte dei genitori commettono questo peccato per omissione, per negligenza, per pigrizia, per indifferenza, per codardia, per la mancanza totale del senso del dovere, ma sono tenuti a confessare sempre il peccato di non essere riusciti a portare il figlio alla fede. Il sacerdote invita i genitori alla preghiera, ad assumere il compito speciale della preghiera. Soprattutto la preghiera della madre per i figli ha una grazia speciale davanti a Dio. Il padre, però, è ritenuto più colpevole.

Un’altra cosa mi ha colpito: il pastore Paolo Ricca ha ricordato che nella celebrazione della pasqua ebraica c’è una forte attualizzazione dell’uscita dall’Egitto che è attribuita direttamente ai partecipanti: “io sono uscito dall’Egitto…”.

Noi ortodossi viviamo la stessa cosa nelle nostre celebrazioni, particolarmente in quelle del Giovedì santo: “sei tu che hai crocifisso Gesù, sei tu che hai rinnegato e tradito...”. L’uomo deve vivere anche questo, dopo i sette anni: la difficile vita adulta. La stessa cosa so che avviene nella via crucis cattolica del venerdì santo, almeno nella sua versione più tradizionale.

Per finire questa breve esposizione, vorrei ricordare il bellissimo versetto di san Paolo nella Lettera ai Galati, dove esprime la filosofia, il mistero, il messaggio dell’educazione cristiana: “Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!” (Gal 4,19). Questo è il ruolo del padre, della madre, della Chiesa, della società, di tutti noi.

«Formare Cristo dentro di noi». A questo scopo servono la preghiera individuale ed ecclesiale, la confessione dei peccati, i sacramenti, la lettura della Santa Scrittura, la contemplazione della bellezza nelle immagini. Ma anche, soprattutto, la vocazione alla carità come risposta umana all’amore di Dio.

Maria secondo Matteo e Luca
di Èlian Cuvillier


 

I racconti dei quattro evangelisti, Marco, Matteo , Luca e Giovanni, sono le prime fonti storiche che fanno menzione della donna presentata come la madre del Messia. Matteo e Luca, i cui Vangeli sono stati redatti in greco a partire dal 70, sono i soli a riportare il racconto del concepimento verginale di Gesù da parte di Maria. In quale contesto storico è nato questo tema e quale senso gli si deve attribuire?

Vangelo di Matteo:
Maria e le donne della genealogia (M t 1,1-17)

Nel racconto dell' infanzia secondo Matteo, Maria è citata nella genealogia di Gesù: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo» (v. 16). In questa lunga lista genealogica di oltre quaranta antenati maschi, Maria è la quinta donna nominata dopo Tamar (v. 3), Raab e Rut (v. 5) e «la moglie di Uria» (v. 6). All'epoca,pur non essendo eccezionale, la presenza di donne non era molto comune nelle liste genealogiche. Così Luca, peraltro molto interessato in altre parti del suo Vangelo ai personaggi femminili, non ne cita alcuna nella sua genealogia (cf Lc 3,23-38).

La storia di Tamar è nota (cf Gn 38): maritata ai due primi figli di Giuda, si ritrova vedova senza discendenza e Giuda, il suocero, le rifiuta il suo terzo figlio. Lei ricorre allora a uno stratagemma, facendosi passare per una prostituta, per assicurarsi, con Giuda stesso, una discendenza. Perez e Zerach sono i due figli che ella ha avuto con Giuda. Accusata di adulterio, essa è alla fine dichiarata innocente da Giuda stesso che afferma: «Essa è più giusta di me, perchè io non l'ho data a mio figlio Sela» (Gn 38,26). La tradizione ebraica abbonda in questo senso: Tamar appare come colei che, a costo di applicare in modo irregolare la Legge, assicura una discendenza a Israele.

Raab è comunemente identificata con la prostituta di Gerico (Gs 2 e 6). Se si tratta proprio di lei, bisogna sottolineare che questa donna è trattata in modo molto positivo nelle tradizioni ebraica e cristiana. I rabbini lodano la sua bellezza, la considerano come una proselita e una profetessa. Rut la moabita (originaria del paese di Moab, ad est del Mar Morto) è straniera e ha sedotto Booz per farsi sposare. La tradizione biblica vede in lei il modello della proselita (cf Rt 2,12 come indicazione della sua conversione al giudaismo). La genealogia della fine del libro di Rut inoltre fa di lei una delle antenate di Davide. Nella stessa direzione un midraš ricorda che i re Messia è disceso da Rut la moabita.

La quarta donna citata è «la moglie di Uria», Betsabea (cf 2 Sam 11,26; 12,10.1.5; 1 Cr 3,5). Nel caso dell'uccisione di Uria l'Ittita (2 Sam 11-12), essa non appare come la colpevole, ma come l' oggetto che ha spinto al delitto. La vera responsabilità è di Davide (cosa che a suo modo conferma i Salmo 51 ). Perchè parlare di Betsabea senza nominarla e designandola attraverso il suo legame con Uria? Per ricordare il peccato di Davide e l' irregolarità della linea di discendenza?

Di Maria, si tratta di sottolineare semplicemente il carattere illecito del concepimento di Gesù. L'atteggiamento del giusto Giuseppe che progetta di ripudiarla (Mt 1,19) lo conferma: solo coloro che ricevono da Dio una rivelazione possono vedervi una colpa, ma l'intervento decisivo di Dio nella storia del suo popolo e del mondo. L' unione irregolare tra Tamar e Giuda che fa correre a Tamar un rischio, non può non rievocare la storia di Maria che corre il rischio di essere accusata di adulterio. Come Rut mette al mondo un antenato del Messia, Maria mette al mondo Gesù in circostanze che non sono quelle correnti. Raab e la moglie di Uria evocano, anch' esse, l' irregolarità e i cammini distorti della filiazione davidica. Forse è anche un' indiretta evocazione della reputazione incerta di Maria: come Raab, non potrebbe essere una prostituta? Così, scandalosi o no, gli esempi anteriori a Maria mostrano che Dio è capace di vincere tutti gli ostacoli, siano essi di ordine legale o biologico, quando si tratta di realizzare il disegno che deve portare al Messia.

È verosimile che Matteo abbia voluto sottolineare questo punto con una certa enfasi. Messi insieme, questi cinque nomi di donna evocano le circostanze particolari, e, dal punto di vista umano, dubbie, che circondano la nascita di Gesù.

Maria, ci dice l'evangelista Matteo, è, all'inizio, Maria la giustificata. Maria che tutto condanna, Maria rifiutata dalla società perchè, compromessa da Dio, non è più in regola con la Legge dei suoi Padri (Mt 1,18-25). Maria è, come le sue sorelle Tamar (M t 1,2), Raab (Mt 1,5), Rut (Mt 1,5) e Betsabea (Mt 1,6), integrata nella linea del Messia per pura grazia: con loro, essa diventa parte necessaria del progetto di salvezza di Dio. Con le sue antenate, essa diventa colei attraverso la quale l'Incarnazione è resa possibile.

Il concepimento verginale: origine e attualità

Matteo sottolinea il concepimento di Gesù «per opera dello Spirito Santo» (vv. 18 e 20) da una vergine (cf in M t 1,23, la ripresa del termine parthénos del testo della traduzione greca di Is 7,14, termine che designa chiaramente una vergine), cosa che presuppone la passività di Giuseppe ( confermata esplicitamente nel racconto di Matteo, cf vv. 16 e 18).

Anche supponendo, dietro il racconto di Matteo, l'eco di una polemica giudaica legata all'origine illegittima di Gesù contro la quale Matteo prenderebbe posizione (un' ipotesi in ogni caso non verificabile), l'evangelista sviluppa l' idea di un concepimento verginale di Maria (tesi chiaramente confermata da Luca, cf Lc 1,26-38). Si pongono allora due questioni: di dove Matteo ricava questo tema e che significato gli attribuisce? Alla prima domanda si può rispondere che il concepimento del Messia per opera dello Spirito divino è uno sviluppo, influenzato da apporti estranei, del messianismo giudaico e della cristologia della Chiesa primitiva. Le influenze delle religioni pagane non possono in realtà essere escluse. Il bacino del Mediterraneo è, alla fine del I secolo, il luogo di un vero crogiolo culturale e religioso. Nè il giudaismo nè il cristianesimo nascenti sono sfuggiti, poco o molto, all'influsso di altre correnti religiose. Così alI' epoca è molto diffuso il motivo della nascita di un bambino provvidenziale: «Nel giorno del solstizio d' inverno, Elios si è impadronito del potere e sotto il suo regno avviene sulla terra la nascita di un bimbo maschio e di un' era nuova» (Testo egizio legato al culto del Sole e al culto di Iside). Che le tradizioni giudaiche non siano estranee a questo tipo di influsso, lo mostrano i Targumim (versioni aramaiche) o lo Pseudo-Filone (nome attribuito allo sconosciuto autore delle Antichità bibliche) attraverso le leggende che riferiscono a proposito della nascita miracolosa di Isacco o di Mosè. In Filone, la nascita di Isacco è intesa come una nascita verginale e la LXX (versione greca dei «Settanta», prima traduzione dell' Antico Testamento in greco) intravede probabilmente una tale ipotesi in Is 7,14. A Qumrân, si conosce il concepimento di uomini da parte degli angeli e forse del Messia da parte di Dio. Rimane il fatto che non è necessario postulare una diretta influenza delle religioni pagane su Matteo. Il Vangelo di Matteo si colloca nella linea del giudeo-cristianesimo primitivo che interpretava le profezie di Isaia in senso cristologico. Egli inserisce la sua interpretazione sullo sfondo di un messianismo già impregnato di influenze pagane.

La risposta alla seconda domanda discende logicamente dalle osservazioni precedenti: Matteo amplia il tema del concepimento verginale per dire alcune cose di Gesù. Sotto forma narrativa, egli sviluppa un discorso cristologico: Gesù è non soltanto l'inviato di Dio nel senso del messianismo cristologico, ma proprio il «Figlio di Dio» in una relazione unica di fili azione.

Vangelo di Luca
Maria la credente

Il Vangelo di Luca sconvolge la vita dell' individuo e lo mette in cammino su nuove vie, la cui proprietà è di seguire sentieri già tracciati per camminarvi in modo diverso: è in qualche modo il messaggio che l' evangelista vuole trasmettere attraverso la sua costruzione del personaggio di Maria.

L’Annunciazione (Lc 1,26-38)

Nel racconto dell' Annunciazione, Maria è descritta come un' adolescente di un' oscura regione della Galilea, la cui storia è delle più banali: data in matrimonio dalla sua famiglia ad un uomo, la sua esistenza è già interamente tracciata, senza sorprese. Il suo solo onore sarà di dare la vita ad una discendenza maschile evitando così il disonore che fu a lungo quello di Elisabetta, «la sterile» (Lc 1,25). L'espressione «vergine, promessa sposa di un uomo» (Lc 1,27) indica in realtà che Maria ha raggiunto I' età di dodici anni e che, secondo l'uso del tempo, è stata data in sposa senza che sia stato richiesto il suo parere. Il destino di Maria è inscritto in un contesto storico e culturale che non lascia alcuno spazio all' immaginazione pia: il cammino di questa giovane è già tracciato da coloro che l'hanno preceduta, e prima di tutto dai suoi genitori. Nessuno spazio di libertà nella vita futura di questa donna: fidanzata a Giuseppe, ella conosce già la vita che I' aspetta guardando vivere intorno a lei le donne del suo villaggio. Per esprimerci con le nostre categorie moderne, Maria è l'esatto contrario di una donna «libera».

In questa storia determinata, senza sbocco e senza sorpresa, Dio, ci dice Luca, interviene. Interviene attraverso una parola per mezzo della quale fa irruzione nella vita di Maria, nella sua storia, per orientarla in modo nuovo. Quello che le tradizioni più tenaci, il patriarcalismo più pesante o la volontà dei genitori hanno previsto per Maria - tutte queste parole che la precedono e che costruiscono inesorabilmente la sua esistenza -, di tutto questo Dio, attraverso la parola che rivolge a Maria, si fa carico e lo dispone diversamente. Maria sente e comprende che Dio si interessa, o meglio, si inserisce nella sua storia. E in questa storia in cui nessuno le aveva mai dato la parola, Dio è il primo a entrare in dialogo con Maria! Così Dio fa di Maria una donna libera. Non nel senso attuale di questo termine, cioè come un individuo che costruirebbe da solo la propria esistenza, nell' illusione di un' autonomia che esiste solo nel sogno. Dio fa di Maria una donna libera dandole la parola, invitandola ad accogliere il progetto che Lui ha per lei, un progetto che s'inserisce nel cuore stesso della sua storia e dei suoi determinismi.

Madre o credente?

L'agire di Dio è così, secondo Luca, doppiamente diverso dall' agire degli uomini. Prima di tutto perchè consiste in un progetto di grazia, che bandisce la paura e invita alla gioia: «Rallegrati» (v. 28), «Non temere [...] perchè hai trovato grazia presso Dio» (v. 30). In secondo luogo perchè è un agire che presuppone una risposta da parte dell'uomo, una parola di ritorno (cf v. 38). Maria probabilmente non si aspettava tanto, condannata, senza averlo scelto e senza poterlo rifiutare, ad un quotidiano senza sorpresa. Un quotidiano nel quale si vorrà chiuderla per sempre, sia pur con le migliori intenzioni del mondo. Ne è testimonianza, già nel Vangelo di Luca, un testo che si colloca oltre nella narrazione: «Una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: "Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!". Ma egli disse: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!"» (Lc 11,27-28).

Questo passo riecheggia i Vangeli dell' infanzia: ancora una volta qualcuno vuole chiudere Maria nel suo ruolo di donna ebrea; ecco Maria imprigionata in ciò che identifica una donna (la maternità) e che le rende onore (mettere al mondo un figlio maschio). Come nel racconto dell' Annunciazione, una parola irrompe - questa volta quella di Gesù - che eleva Maria al rango di un essere libero perchè obbedisce non più alle regole degli uomini, ma alla parola di Dio: ciò che fa la beatitudine di Maria non è più la sua maternità, ma la sua fedeltà a questa parola a cui si è sottomessa nel primo incontro (1,37), benchè non senza difficoltà ed ulteriori prove (2,35.48).

Quello che è vicino resta sem pre vicino e, proprio per questo, è reale, esiste. Quello che è lon tano, proprio perché è tale, ci ap pare spesso irreale e insignificante. È terribilmente più fastidioso un vicino di casa che batte sul muro di notte, della notizia di un terre moto o di un'alluvione in qualche Paese lontano.

Marta e Maria di Betania
L'integralità incompiuta
di Lilia Sebastiani

 

Occupano un posto di rilievo tra le discepole di Gesù (chi scrive tenderebbe a collocarle subito dopo Maria di Magdala, se mai tali graduatorie fossero possibili), un posto di genere particolare, perché chiaramente non appartengono al gruppo itinerante, e tuttavia sono discepole a pieno titolo. Anche loro, come altre donne più vicine a Gesù, nella tradizione cristiana hanno subito un processo di stilizzazione deformante. Una sorte simile pur nella diversità è toccata a Maria di Magdala - la quale, del resto, per circa millecinquecento anni è stata identificata con Maria di Betania -; o a Giovanna moglie di Cusa, ricordata (quando poi qualcuno la ricordava) come una brava vedova dedita all'assistenza materiale degli uomini di Dio.

Dati evangelici

Marta e Maria di Betania sono ricordate da Luca (10,38-42) e, con intenzione teologica diversa, anche dal quarto evangelista (Gv 11,1-44; 12,1-8). Qui seguiremo il racconto di Luca, non però in modo esclusivo: quantunque infatti sia esegeticamente scorretto integrare un evangelista con un altro, sappiamo come, in una riflessione di ordine spirituale, affinità e differenze possono aprire orizzonti ulteriori di senso.

Secondo il quarto evangelista le due sorelle risiedono a Betania, che è praticamente un sobborgo di Gerusalemme. Se si disponesse solo della testimonianza di Luca, si sarebbe indotti invece a considerarle galilee, anche se ciò non viene specificato: l'episodio che le riguarda è collocato dall'evangelista all'inizio della sezione del viaggio verso Gerusalemme, che costituisce il fulcro anche teologico della narrazione lucana. Il quarto evangelista parla del loro fratello Lazzaro come di una persona cara a Gesù, quantunque l'unico protagonismo effettivo nella vicenda sia quello di Marta e Maria; Luca invece, che ignora Lazzaro, mostra le due sorelle come donne sole e, si direbbe, autonome (ma lo stesso vale per le altre discepole): un 'immagine abbastanza insolita nell'ambiente storico di Gesù.

La tradizione cristiana poi ha sempre attribuito alle due sorelle un ceto sociale ed economico elevato: non che ci siano indizi in proposito nella stringatissima narrazione di Luca, ma si supponeva che costituisse un onere non trascurabile accogliere in casa Gesù e tutto il gruppo dei discepoli che lo seguiva. Inoltre le donne di condizione elevata che si fanno seguaci di Gesù, mettendo anche i loro beni materiali al servizio della causa del Regno, costituiscono quasi un topos ricorrente nell'opera lucana (Vangelo e Atti), fin dalla pericope relativa alle discepole galilee (Lc 8,1-3).

Allora: in un villaggio di cui non si dice il nome, «una donna di nome Marta lo accolse...» (1). Marta è stata spesso considerata la maggiore delle due, la più autorevole, perché sua sembra l'iniziativa di ospitare, sue le responsabilità materiali connesse. Naturalmente questo non vuol dire nulla dal punto di vista storico, e l'evangelista non si dà molto pensiero della precisione ambientale e biografica di quanto racconta.

Importante è la differenza di atteggiamento delle due sorelle, che Luca interpreta o elabora, e comunque utilizza in funzione ecclesiale: Marta è tutta presa dai molti servizi («intorno al molto servire»: peri pollèn diakonìan), mentre Maria è seduta ai piedi di Gesù e intenta ad ascoltare la sua parola. Marta si lamenta dell'assoluta indifferenza della sorella nei confronti del proprio affannarsi, e Gesù le risponde che una sola cosa è necessaria, e Maria ha scelto la parte buona, che non le sarà tolta.

Maria, o l’ambigua predilezione

Per molti secoli Maria è stata vista come simbolo della vita spirituale. La spiritualità è la «parte buona», nei termini del vangelo di Luca, a patto che non venga resa sinonimo di non-concretezza, disimpegno, evanescenza, fuga (in alto o in fuori o in dentro); a patto che lo spirito non diventi il pretesto per separare, ritagliare, rifiutare... La mentalità religiosa patriarcale è costantemente esposta a questi rischi, e la consuetudine religiosa non aiuta la crescita della fede. Risultato, in questo caso: Maria di Betania è stata ristretta, irrigidita, dimenticata come discepola di Gesù, ciò che sempre avviene quando l'infinito di una persona viene limitato nel senso unico di un simbolo, quale che sia l'importanza del simbolo. Maria si trova così a essere un personaggio molto amato e rispettato e tuttavia evanescente, senza volto, senza carattere, senza autorevolezza..., attraente ma latitante, come lo Spirito.

Tra l'altro, abbiamo già accennato che nella tradizione d'Occidente è stata confusa con un'altra Maria anche più famosa di lei: Maria di Magdala, discepola prediletta e apostola della Risurrezione, ciononostante entrata nella tradizione cristiana e nell'immaginario religioso come peccatrice pentita. Sulla base dell'identità del nome, tanto diffuso in Israele in epoca neotestamentaria, e di qualche incertezza (sovrapposizione o fusione o sdoppiamento) in cui incorrono gli evangelisti, narrando tutti e quattro ma in diverso modo l'episodio in cui Gesù viene unto con olio profumato da una donna, per l'Occidente cristiano Maria di Betania diventò, almeno da Gregorio Magno in poi, Maria di Magdala «dopo la cura». Le eventuali isolate perplessità che si incontrano nella storia della tradizione a questo riguardo sono di ordine geografico - come faceva a essere «di Magdala», ovvero Galilea, una che era di Betania? - , e tanti predicatori attraverso i secoli sprecarono fiumi di non disinteressata eloquenza per commentare il preteso passaggio: peccatrice prima, poi contemplatrice-mistica («Quale stato, e quale stato!», esclamava Bossuet). Il passaggio sarebbe comunque meno strano di quanto sembri, perché ad accomunare peccatore e mistico vi è una certa idea di irregolarità, di extra-istituzionale, di fuori schema, che si accentua quando peccatore e mistico sono declinati al femminile.

Maria, dice Luca, «seduta ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola». Questa notazione è sempre piaciuta molto nel corso di una tradizione cristiana tutta elaborata da uomini chierici: suona infatti così affettuosa e devota, così sottomessa... Tanto che, nell'impatto istintivo sul lettore-ascoltatore, il fatto di essere ai piedi, insomma l'abbassamento, finisce col predominare rispetto all'ascolto e alla Parola.

In realtà questa notazione affettuosa e devota costituisce nel suo contesto una trasgressiva novità. Stare «ai piedi di» qualcuno, nella lingua ebraica del tempo di Gesù, è espressione quasi tecnica che indica la situazione del discepolo rispetto al maestro, e qui Maria è riconosciuta come discepola - per di più con accenti solennemente positivi -, in un'epoca che escludeva le donne dallo studio della Legge, raccomandato invece e quasi prescritto a ogni uomo. Nella lingua ebraica e aramaica del tempo, la parola «discepolo» non aveva il femminile. Lo stesso Luca, che tra gli evangelisti è probabilmente il più aperto alle donne (anche perché scrive rivolgendosi a cristiani di cultura ellenistica e non provenienti dal giudaismo), alle donne accorda indirettamente il discepolato e l'apostolato, anche usando a loro riguardo certi termini chiave come «seguire» e «servire»; ma non usa nel suo vangelo il termine «discepola» (2).

In questo passo Gesù, lodando Maria che trascura i suoi doveri casalinghi, a preferenza della sorella che ad essi invece si immola, rigetta in modo solenne e definitivo gli schemi patriarcali, apre anche alle donne, nella logica del Regno, gli spazi dello studio e della riflessione spirituale.

«Maria, il silente sogno degli uomini, contiene dinamite», dice Elisabeth Moltmann-Wendel (3).

La sorella esemplare e squalificata

Nel vangelo di Luca, sia che questo fosse o non fosse esplicitamente nelle intenzioni dell'evangelista, Marta «tutta presa dai molti servizi» si conforma all'atteggiamento femminile tradizionale. Certo per noi sarebbe necessario distinguere tra femminile nel senso di «proprio delle donne» - per natura, quindi? - e femminile nel senso di «raccomandato alle donne», quindi culturalmente indotto.

Non vi è dubbio che, secondo l'evangelista, anche Marta ama moltissimo Gesù ed è felice della sua presenza; ma il suo amore e la sua gioia si esprimono col moltiplicare i servizi e preoccuparsi in primo luogo per questioni connesse con la vita materiale. Non si vorrebbe psicologizzare a oltranza, procedimento anacronistico e scorretto che i Vangeli non supportano quasi mai; eppure non possiamo fare a meno di rilevare che la frase di Marta - «Signore, non t'importa che mia sorella mi abbia lasciata da sola a servire? Dille che mi aiuti...» -, quand'anche semplicemente fabbricata dall'evangelista allo scopo di creare un contesto all'importante detto di Gesù sull'unica cosa di cui c'è bisogno, rifletterebbe una costante del vissuto femminile. Sì, come tante altre donne qui Marta sembra compiere i suoi pretesi doveri domestici con efficienza e dedizione, ma anche con segreta sofferenza e comunque, a un certo punto, con insofferenza palese.

Non certo Marta donna del vangelo, ma il personaggio-Marta, il simbolo di Marta è una creazione della società patriarcale, con un fenomeno del tutto analogo a quello che si verifica per Maria: l'una e l'altra sorella sono ridotte a una sola dimensione e artificiosamente contrapposte. Tra l'altro contrapporre le donne l'una all'altra, creare o enfatizzare conflitti femminili - sempre intorno a un uomo, o a valori maschili, siano essi la fecondità fisica o il denaro o il potere o altro... - è un modo di neutralizzarne la possibile autorevolezza. Ispirano oggi tristi riflessioni certi dipinti sacri che, soprattutto dal Quattrocento in poi, raffigurano Marta vestita da ricca massaia (cioè, metà da signora e metà da domestica), sempre con qualche utensile domestico in mano e con grossi mazzi di chiavi alla cintura, illuminata da uno sguardo che molto ottimisticamente potremmo definire «corrucciato», se non proprio obliquo e invidioso.

Marta è stata patrona attraverso i secoli del personale di servizio domestico, soprattutto femminile, degli ospizi, degli infermieri e, più recentemente, delle collaboratrici domestiche dei preti. Ancora oggi in America si richiamano a santa Marta certi gruppi femminili ipertradizionalisti che vorrebbero per la donna l'esclusività del ruolo familiare e casalingo.

A partire dal tardo Medioevo Marta viene anche elogiata dai predicatori, che sviluppano la sua fisionomia prendendo in prestito i tratti della «donna perfetta» di cui si legge nel libro dei Proverbi (31,l0ss.). La cura della casa, i molti servizi, sono oggetto non solo di lode ma di raccomandazione, di imposizione: insieme alla maternità sembrano la vocazione femminile per eccellenza, a cui si sottraggono solo le vergini consacrate. Eppure nella tradizione che risale ai Padri della chiesa, a cui si rifanno più o meno direttamente tutti i predicatori successivi, le parole di Gesù relative all'unica cosa che conta, parole di solenne rivelazione, venivano caricate in senso sprezzante e de-qualificante, e andavano oltre la figura evangelica di Marta per ricadere su tutte le donne «normali»; anche se queste incorrevano nel biasimo più accorato quando rifiutavano il loro ruolo di addette alla vita materiale per cercare altre vie di realizzazione di sé.

Dai servizi al servizio

Il fatto è che i molti servizi (lo si vorrebbe dire senza man­care di rispetto alla generosità e all'abnegazione di tante donne che la storia ha dimenticato) non sono ancora «il servizio»: quello che è vocazione comune per uomini e donne se vogliono essere discepoli e discepole di Gesù «venuto per servire» (Mc 10,45), in mezzo ai suoi «come colui che serve» (Lc 22,26), quel servizio che non somiglia per niente a qualsivoglia servitù - ché anzi solo dopo essersi liberati dalle varie servitù vi si può giungere davvero.

Per ragioni non troppo misteriose, nella tradizione cristiana la pur dequalificata Marta di Luca veniva preferita a quella giovannea: infatti nel cap. 11 del quarto vangelo (racconto della risurrezione di Lazzaro), Marta non appare in faccende ma parla, eccome; è l'interlocutrice di Gesù, innegabilmente più importante della sorella, in un colloquio di grande spessore teologico che costituisce un evento progressivo di rivelazione ed è uno dei più lunghi colloqui che i vangeli ricordino (4).

Confrontandosi in un colloquio alla pari con Gesù, per di più in un momento drammatico, sia per lei (ha appena perduto il fratello) sia per Gesù (dinanzi a opposizioni accentuate e a un più deciso tentativo di eliminarlo, che sarà coronato da successo nel giro di pochi giorni), Marta, non più presa dai molti servizi, è ancora «attiva» in senso forte, in quanto si pone come soggetto e rivendica la parola. In questo senso è certo significativo, al di là del puro dettaglio narrativo, che sia Marta a mediare per sua sorella l'appello di Gesù (il quale rimane inespresso nel racconto giovanneo): «il Maestro è qui e ti chiama» (Gv 11,28).

La cultura patriarcale è stata sempre restia ad accordare alle donne «la parola». La parola, s'intende, autorevole e dialogica: ben altra cosa rispetto alla disimpegnata loquacità - alias chiacchiera -, che alle donne è stata invece sempre attribuita, fino a diventare un luogo comune, ingiusto spesso come tutti i luoghi comuni. Anche rivendicare la parola, e assumerla per comunicare, è un modo di esercitare il servizio; ma anche aprirsi all'ascolto della Parola è pane del servizio.

La «parte migliore»: considerazioni patristiche

L'interpretazione tradizionale di Marta e Maria come simbolo rispettivamente della vita attiva e di quella contemplativa, che poi resterà dominante anche se in termini scritturistici è impropria, risale in sostanza a Basilio di Cesarea e viene poi ripresa, approfondita e consolidata da Gregorio Magno.

Basilio, nella raccolta di scritti comunemente conosciuta come Esercizio di ascesi, e in particolare nelle cosiddette Regole ampie, rispondendo a una domanda relativa alla mente non dissipata, afferma: «Quell'esercizio per piacere a Dio che è secondo il vangelo di Cristo, si attua per noi con l'allontanarci dalle cure mondane e con l'estraniarci assolutamente dalle distrazioni che causano affanno» Si ha qui una citazione implicita dell'episodio di Marta e Maria: il termine che indica le distrazioni affannose infatti è perispasmon, lo stesso adoperato in Lc 10,39 (5).

Anche in un altro punto delle stesse Regole, condannando le raffinatezze della mensa particolarmente sconvenienti per coloro che fanno esercizio di ascesi, Basilio squalifica e limita la figura di Marta, e in modo veramente un po' banale, come se la sollecitudine di lei fosse di ordine gastronomico.

In modo più significativo riprende il tema di Marta e Maria nelle Costituzioni asceticheAsketikài Diatàxeis) rivolte agli «asceti che vivono solitari oppure in comune». Proprio nel cap. I, dove si afferma che la preghiera dev'essere anteposta ad ogni altra occupazione, porta l'esempio evangelico delle sorelle di Betania, ammettendo che in tutt'e due vi era un desiderio buono – kalé prothymìa -, ma di diverso valore:

«L’una ristorava la parte visibile, ma l’altra rendeva servizio all'invisibile. Infatti non per questo scopo siamo venuti, sdraiarci su letti, nutrire il ventre..., ma siamo qui per pascerci con la parola di verità e la contemplazione dei divini misteri. Gesù in verità non disse a quella di smettere quanto aveva intrapreso; ma lodò questa per la sua attenzione.
Allora, stammi bene a sentire: per mezzo di due donne si intende parlare di due stati di vita, l'uno però inferiore, perché riguarda più il servizio corporale (quantunque molto utile anch'esso), l'altro migliore perché, innalzandosi alla contemplazione dei misteri, è più spirituale. Tu che mi ascolti, intendi queste cose nel senso spirituale e scegli delle due quella che vuoi».

Ricorda poi che rendere servizio agli altri, anche nelle necessità materiali, è un agire raccomandato da Cristo, e aggiunge:

«Se poi desideri servire, servi nel nome di Cristo. (...) Sia che tu accolga i forestieri, sia che ristori i mendicanti, sia che abbia pietà di chi soffre, sia che stenda la mano per aiuto a coloro che si trovano nel bisogno e nella sventura, sia che renda servizio agli ammalati, Cristo riceve tutte queste cose in se stesso».

Ma subito dopo questa sottolineatura quasi d'obbligo, torna con fervore al suo tema preferito:

«Se invece vuoi imitare Maria, la quale - lasciato il servizio del corpo - si innalza alla contemplazione delle meraviglie celesti, svolgi questa attività in modo avveduto [gnésiòs mètelthe to pràgma]. Lascia andare il corpo, abbandona la coltivazione dei campi e la preparazione e l'abbondanza delle vivande, e siediti ai piedi del Signore, ascolta la sua parola per diventare partecipe dei segreti delle cose divine. Infatti la contemplazione [theorìa] degli insegnamenti di Gesù supera il servizio reso al suo corpo. (...) Al primo posto è la parola spirituale, tutte le altre cose sono secondarie» (6) (traduzione nostra).

Sarà però Gregorio Magno, in diversi scritti e soprattutto nelle Homiliae in Hiezechielem, a codificare e consegnare ai secoli futuri la valenza simbolica delle due sorelle di Betania. Nella terza omelia del libro I, Marta e Maria esprimono le due scelte di vita possibili per un operaio della Parola, tra cui Gregorio si sente diviso: predicare (ciò che può essere di maggiore utilità per gli altri ma implica sempre un rischio di esteriorità e dissipazione), oppure meditare e pregare in solitudine?

«Due sono poi le forme di vita dei santi predicatori, cioè l'attiva e la contemplativa; ma l'attiva precede nel tempo la contemplativa, perché dall'operare il bene tende alla contemplazione. Quella contemplativa poi è superiore all'attiva quanto al merito, perché questa si affatica per l'utilità del lavoro presente, quella invece già assaggia nell'intimo sapore il riposo che verrà. (...) Lo esprimono bene nell'Evangelo quelle due donne, Marta e Maria. Marta infatti era occupata dai molti servizi; invece Maria sedeva ai piedi del Signore e ascoltava le sue parole. Dunque l'una era intenta al lavoro, l'altra alla contemplazione. L'una coltivava la vita attiva attraverso il servizio esteriore, l'altra quella contemplativa attraverso la tensione del cuore alla Parola. E quantunque l'attiva sia buona, tuttavia migliore è la contemplativa, perché quella viene meno insieme con la vita mortale, invece questa nella vita immortale cresce a maggiore pienezza. Perciò si dice: Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta. (...) Infatti, anche se realizziamo qualcosa di buono per mezzo della vita attiva, per mezzo della contemplativa voliamo alla nostalgia del cielo» (7) (traduzione nostra).

Nella seconda omelia del libro II l'argomentazione viene ripresa in termini quasi identici, all'inizio, ma poi con maggiore approfondimento.

«Ci hanno espresso bene entrambe queste forme di vita quelle due donne, Marta e Maria: di loro una era occupata dai molti servizi, l'altra invece sedeva ai piedi del Signore e ascoltava la parola dalla sua bocca. E lamentandosi Marta di sua sorella perché trascurava di aiutarla, il Signore le rispose dicendo: Marta, ti affatichi e ti occupi di tante cose, ma una sola è necessaria. Maria invece ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta.che non le sarà tolta». Infatti la vita attiva viene meno insieme al corpo. Chi può offrire del pane all'affamato nella patria eterna, dove nessuno ha fame? Chi dar da bere all'assetato, dove nessuno ha sete? Chi seppellire un morto, dove non muore nessuno? La vita attiva ci viene tolta insieme al mondo presente, invece quella contemplativa viene iniziata qui per essere portata a compimento nella patria celeste; perché il fuoco dell'amore che qui comincia ad ardere, quando avrà visto colui che ama, divamperà con più forza. La vita contemplativa dunque non viene tolta, perché, una volta allontanata la luce del mondo presente, diviene perfetta» (8) (traduzione nostra). Ecco, la parte di Marta non viene biasimata, ma si loda quella di Maria. Infatti non è detto che Maria ha scelto «la parte buona», ma «la migliore», affinché anche la parte di Marta fosse giudicata buona. Perché poi la parte di Maria sia la migliore, si deduce quando viene detto: «

Di grande interesse il paragrafo successivo della stessa omelia, nel quale viene introdotta in funzione simbolica l'altra coppia di sorelle bibliche, Lia e Rachele:

«Tutt'e due queste forme di vita, come è stato detto anche prima di noi*, furono espresse in figura dalle due spose del beato Giacobbe, cioè Lia e Rachele».

Vi è un 'intuizione importante: così come avvenne a Giacobbe per volere di Dio, l'uomo di Dio deve prendere in moglie entrambe le sorelle,

«perché chiunque si rivolge al Signore aspira alla vita contemplativa, desidera la quiete della patria eterna, ma prima è necessario che nella notte della vita presente operi il bene che può, che sudi nella fatica, cioè che sposi Lia, affinché dopo, per “vedere il principio”**, si riposi nell'abbraccio di Rachele. Infatti Rachele aveva buona vista, ma era sterile, Lia invece aveva gli occhi malati, ma era feconda; Rachele era bella e infeconda, perché la vita contemplativa è affascinante nell'animo, ma, siccome desidera star quieta nel silenzio, non genera figli dalla predicazione» (9) (traduzione nostra).

Il parallelo tra Rachele contrapposta a Lia e Maria contrapposta a Marta appariva anche in una lettera indirizzata alla principessa Teoctisto (sorella dell'imperatore d'Oriente Maurizio): qui Gregorio esprime il proprio rammarico per essere stato strappato alla quiete della contemplazione dal servizio pontificale, da lui non ricercato e nemmeno desiderato, accettato però per obbedire a Dio.

«Ero innamorato del fascino della vita contemplativa, come di Rachele, sterile ma di buona vista, e bella (Gen 29); essa, quantunque nella sua inerzia generi meno figli, tuttavia vede la luce con più acutezza. Ma, non so per quale ragione, nella notte è stata fatta congiungere con me ha, cioè la vita attiva, feconda ma dagli occhi malati; Lia che ci vede di meno, anche se fa più figli. Mi affrettavo a sedere ai piedi del Signore con Maria, ad assorbire le parole della Sua bocca, ed ecco che sono sospinto con Marta a servire in ciò che è esteriore, a far fronte a tante cose (Lc 10,39 ss)» (10) (traduzione nostra).

Gregorio riprende il tema di Marta e Maria in un'altra lettera indirizzata a una nobildonna della corte di Bisanzio, ma in modo molto diverso: concentra l'attenzione su Maria, che però identifica (come anche in alcune omelie sui Vangeli) con l'anonima peccatrice Galilea e con Maria di Magdala. Ratifica con il suggello della sua autorità e del suo prestigio una confusione che ammiccava da tempo ma, dopo di lui, sarà stabile e indiscussa in Occidente per quasi quindici secoli. Nel commentare le parole di Gesù, «le sono rimessi i suoi molti peccati perché ha molto amato» (Lc 7,47), aggiunge:

«Come poi le siano stati rimessi ci viene mostrato anche in ciò che avvenne dopo, perché sedeva ai piedi del Signore e ascoltava la Parola dalla sua bocca (Lc 10,39). Infatti, rapita nella vita contemplativa, aveva ormai oltrepassato quella attiva che ancora conduceva Marta sua sorella (ivi, 40). Con grande slancio andò anche a cercare il Signore dopo che era stato sepolto» (11) (traduzione nostra).

Servizio di mensa, servizio della Parola

Occorre sempre tener presente che, come si accennava, il terzo evangelista, quando contrappone le figure così stilizzate delle due sorelle di Betania, non intende affatto ragguagliare sul loro temperamento - per noi irraggiungibile - o sulle loro abitudini. È probabile invece che abbia in mente due diversi tipi di convertito, due diversi tipi di impegno nella chiesa. Diciamo «convertito» e «impegno nella chiesa», sottolineando che non si tratta qui di decidersi per Dio o contro Dio, di dare o non dare l'assenso al messaggio di Gesù: le persone di cui si parla qui hanno già fatto un'opzione cristiana, anzi sono fedeli convinti e di prima linea, e forse proprio per questo la riflessione ecclesiale dell'evangelista risulta più delicata e complicata.

Una specie di illuminazione aggiuntiva, se non del tutto perspicua, potrebbe venirci dal cap. 6 degli Atti, là dove si parla dell'istituzione dei Sette (abitualmente chiamati «diaconi», benché nel testo il termine non si trovi).

Al di là della notazione sul malcontento dei cristiani ellenisti verso quelli provenienti dal giudaismo, qui ci interessano le parole dei Dodici: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense» (At 6,2). Evidentemente era un'antitesi ben presente alla mente di Luca e alla sua sollecitudine pastorale: non certo l'antitesi tra azione e contemplazione, che si sarebbe diffusa più tardi soprattutto per impulso monastico, ma quella tra servizio di mensa e servizio della Parola - quantunque sentiti l'uno e l'altro, e giustamente, come «servizio» (12). È evidente che Luca attribuisce un'importanza molto maggiore al servizio della Parola: oggi intuiamo che anche il concetto di «mensa» potrebbe e deve essere dilatato, ben oltre il senso puramente assistenzialistico.

Per sentirsi provocare a fondo dalle due sorelle di Betania, occorre affrancarsi il più possibile dall'antitesi tradizionale azione-contemplazione: in primo luogo, perché i due poli si tradiscono a vicenda se assolutizzati e non integrati; in secondo luogo, perché né Gesù né gli evangelisti pensavano in questi termini. La contrapposizione tra vita attiva e vita contemplativa è di remota origine classica, successivamente intrecciata con preoccupazioni ascetiche e contemptus mundi, ma rimane abbastanza estranea alla mentalità biblica.

Non si tratta nemmeno della moderna riedizione dell'antitesi in termini di preghiera/impegno, diffusa negli anni Sessanta e Settanta, assai meno oggi perché avvertita, pur nella generosità dei presupposti, come semplicistica e insoddisfacente. Si tratta piuttosto di due diverse linee di impegno: da un lato, quella che mette in primo piano l'annuncio del Vangelo e della vita nuova in Cristo, dall'altro, quella che privilegia l'assistenza caritativa e la sollecitudine nei confronti dei più deboli.

Le due sorelle sono state spesso lette anche, ed è giusto, come paradigma dell'ospitalità; e questa è una declinazione specifica dell'accoglienza. L'una e l'altra sorella hanno un atteggiamento e un intenzione di accoglienza: sono indiscutibilmente felici di accogliere Gesù in casa, ma differiscono nelle priorità. Marta tende soprattutto a fare qualcosa per lui, Maria ha intuito che c'è qualcosa di più: aprirsi al dono di Dio che viene attraverso lui. Ciò potrebbe riferirsi anche ai casi in cui l'ospite non è Gesù e la sua «parola» è tutta diversa, talvolta parola senza parole, talvolta senza nulla di affascinante, come è spesso il messaggio della povertà e del bisogno. Entrambi gli atteggiamenti (darsi da fare per l'altro affinché stia bene; aprirsi al dono recato dall'altro) hanno una loro intrinseca dignità, e il «fare qualcosa per» non è affatto inferiore: anzi m certi casi risulta urgente e non trascurabile.

Naturalmente né sul terzo né sul quarto vangelo ci si può appoggiare per capire qualcosa di più, biograficamente parlando, su Marta e Maria. Le lettura dei due passi che le riguardano, soprattutto di quello di Luca, nel corso dei secoli è stata alquanto ideologica. E gli stessi evangelisti sono un po' ideologici (inconsapevolmente?), nella trasmissione dei fatti e dei detti di Gesù e nella selezione dei materiali di cui dispongono; quanto meno, sono condizionati dai propri schemi mentali e da considerazioni di opportunità pastorale, tanto più quando si parla di donne.

L'uno e l'altro vangelo non riportano di Maria nemmeno una parola (13); forse non occorreva, e tuttavia di quella parola in qualche modo sentiamo oggi la mancanza.

Oggi sappiamo che azione e contemplazione non sono ambiti contrapposti che si escludono a vicenda, ma due accentuazioni nello stesso progetto di esistenza redenta: non tanto nel senso di «fare un po' tutt'e due le cose», ma nel senso unitario, più profondamente cristiano, di trasformare il mondo con la propria preghiera e di pregare con il proprio lavoro.

Azione e contemplazione sono strade di salvezza; non però al punto di non poter essere cammini perversi, quando agire e contemplare isolati e assolutizzati diventano modi opposti e pure affini di generare divisione e sospetto nell'esperienza umana. La contemplazione non vale più nulla se assomiglia a un'evasione; l'azione non vale più nulla se priva di anima, di profondità e di autocoscienza.

Lo stesso Gesù ha offerto anche in questo un esempio di magnifica integrazione: sarebbe difficile dire, senza forzature, se nella sua vicenda di uomo dominassero la dimensione attiva o quella contemplativa. E nella sequela autentica di Gesù, nel discepolato che egli può chiedere o accettare, le due dimensioni convergono.

Un commento spirituale senza parole

Nel chiostro di San Marco a Firenze, l'affresco del Beato Angelico che raffigura la preghiera di Gesù nel Getsemani rivela una scelta singolare e importante rispetto all'iconografia consueta. Come in tanti altri dipinti sullo stesso tema, Gesù è raffigurato in alto, isolato in una drammatica solitudine; nella parte centrale campeggiano le figure piuttosto pesanti (più per l'atteggiamento che per le dimensioni) di Pietro,

Giacomo e Giovanni, immersi nel sonno. Il fatto nuovo è che in primo piano nell'affresco si trovano Marta e Maria, inequivocabili perché i nomi sancta Maria e sancta Martha sono iscritti in cerchio nell'aureola. Proprio la presenza delle due sorelle, in quanto si discosta da ciò che narrano i Vangeli, è chiaramente intenzionale e trasmette un messaggio teologico più preciso.

Marta e Maria, in abito bigio di terziarie domenicane, sono separate e raccordate da un muro rispetto al resto della scena. Evidentemente l'artista vuole sottolineare che si tratta di una presenza spirituale: possono ben trovarsi a Betania, in casa loro, ma sono lì, e ben sveglie e presenti a quanto accade; invece i tre discepoli maschi sono riusciti a rimanere svegli poiché non comprendono. Sono sedute accanto, in atteggiamento consapevole, corrispondente ma non speculare, serio ma non drammatico, concentrato ma non intimistico. Maria è immersa nella lettura di un libro (ciò significa, secondo la convenzione pittorica del tempo, che sta meditando), mentre Marta fissa lo sguardo pieno di affetto e di attenzione sulla sorella che legge: nulla di più lontano da quella specie di rivalità velata - gelosia femminile, sotterranea lotta per la predilezione - che è stata fatta emergere dal vangelo di Luca. Qui Marta e Maria simboleggiano non solo il discepolato intrepido, fedele e veggente, ma anche l'integrale, riconciliata solidarietà in cui esso si incarna.

Note

1. «Nella sua casa» è aggiunta di alcuni codici antichi.

2. Lo usa invece, quantunque in modo più generico, nel libro degli Atti: «A Giaffa c’era una discepola chiamata Tabità...» (At 9,36).

3. E. MOLTMANN-WENDEL, Le donne che Gesù incontrò, Queriniana, Brescia 1989, p. 66.

4. Valutando a occhio, ovvero senza andare a contare le righe, abbiano l'impressione che in tutto l’insieme dei vangeli ci sia un solo colloquio più lungo di questo: quello con la Samaritana, nel cap. 4 dello stesso vangelo. Notiamo di passaggio che anche qui l'interlocutrice di Gesù è una donna, e per di più, sono diversi aspetti, irregolare.

5. He Màrtha de periespato peri pollen diakonian. C’è anche un riferimento a 1 Cor 7,35, in cui Paolo affermava che la vergine, a differenza della donna sposata, può servire il signore senza preoccupazioni (aperispàstôs).

6. PG XXXI, 1326-1327

7. GREGORIO MAGNO, In Hiezechielem I, hom. III, 9: Due autem sunt sanctorun praedicatorum vitae, activa scilicet, et contemplativa, sed activa prior est tempore quam contemplativa, quia ex bono opere tendit ad contemplationem. Contemplativa autem maior est merito quam activa, quia haec in usu praesentis operis labor, illa vero sapore intimo ventura iam requiem degustat. (...) Quod bene in Evangelio duae illae mulieres designant, Martha scilicet et Maria. Martha enim satagebat circa frequens ministerium; Maria autem sedebat ad pedes Domini et verba sua audiebat. Erat ergo una intenta operi, altera contemplationi. Una activae serviebat per exterius ministerium, altera contemplativae, qui ista cum mortali vita deficit, illa vero in immortali vita plenius excrescit. Unde dicitur: Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab ea (...) Nam etsi per activam boni aliquid agimus, ad caeleste tamen desiderium quam contemplativam volamus. (Corpus Christianorum – series Latina CXLII, Brepols, Turnholti MCMLXXXII, 37-38; cfr PL CX,809).

8. GREGORIO MAGNO, In Hiezechiel. II, hom. II, 9: Bene has atrasque vitas duae illae mulieres signaverunt, Martha videlicet e Maria, quarum una satagebat circa frequens ministerium, alia vero sedebat ad pedes Domini et audiebat verbum de ore eius. Cumque contra sororem Martha quereretur quod se adiuvare negligeret, respondit Dominus dicens: Martha, occuparis et satagis circa multa, porro unum est necesarium. Maria autem optimum partem elegit, quae non auferetur ab ea. Ecce pars Marthae non reprebenditur, sed Maria laudatur. Neque enim bonam partemm elegisse Maram dicit, sed optimum, ut etiam pars Marthae iudicaretur bona. Quare autem pars Mariam sit optima, subinfertur, cum dicitur: Quae non auferetur ab ea. Activa enim vita cum corpore deficit. Quis enim in aeterna patria panem esaurienti porrigat, ubi nemo esurit? Quis potum tribuat sitienti, ubi nemo sitit? Quis mortuum sepeliat, ubi nemo moritur? Cum presenti ergo saeculo vita aufertur activa, contemplativa autem hic incipitur, ut in celesti patria perficiatur quia amoris ignis qui hic ardere inchoat, cum ipsum quem amat viderit, in amore ipsius amplius ignescet. Contemplativa ergo vita minime aufertur, quia subtracta saeculi luce perficitur. (CC-SL CXLII, 230-231; cfr PL CX, 954).

* [Citazione implicita da AGOSTINO, Contra Faustum manichaeum XXII, pp. 52 ss.].

** [Gregorio si riferisce all'etimologia corrente, accettata anche da Agostino, secondo cui il nome Rachele significa «principio di visione» e Lia “laboriosa”]

9. GREGORIO MAGNO, In Hiezechiel. II, hom. II, 10: Has utrasqae vitas, sicur et ante nos dictum est,, duae beati Iacobi mulieres signaverunt, Lia videlicer et Rachel. (...) Quia videlicet omnis qui ad Dominum convertitur contemplativat vitam desiderat, quietem aeternae patriae appetit, sed prius necesse est ut in nocte vitae praesentis operetur bona quae potest, desudet in labore, id est Liam accipiat, ur postea ad videndum princium in Rachei amplexibus requiescat. Erat autem Rachel videns, et sterilis, Lia vero lippa, sed fecunda, Rachel pulchra et infecunda, quia contemplativa vita speciosa est in animo, sed dum quiescere in silentio appetit, filios non generat ex praedicatione... (CC-SLCXLII, 230-231; cfr PL CX, 954).

10. GREGORIO MAGNO, Epist. I ad Theoctistum, 5: ...Contemplativae vitae pulchritudinem velut Rachelem dilexi, sterilem, sed videntem e pulchram (Gen 29); quae etsi per quietem suam minus generat, lucem tamen subtilius, videt. Sed, quo iudicio nescio, Lia mihi in nocte coniuncta est, activa videlicet vita; feconda, sed lippa; minus videns, quamvis amplius parens. Sedere ad pedes Domini cum Maria festinavi, verba oris eius percipere; et ecce, cum Martha compellor in exterioribus ministrare, erga multa satagere (Lc 10,39 ss.). (CC - SL CXL, 6).

11. GREGORIO MAGNO, Epist. VII ad Gregoriam, 22: ... Quomodo antem fuerint dimissa, in hoc etiam monstratum est, quoci postmodum est secutum, quia ad pedes Domini sedebat et verbum ex ore illius audiebat (Lc 10,39). In contemplativa enim vita suspensa, iam activa transcenderat, quama adhuc Martha illius soror tenebat (ibid., 40). Sepultum quoque Dominun studiose conquisivit... (CC - SL CXL, 54).

12. Tra parentesi, stando al racconto di Luca, i Sette vengono eletti in modo specifico per il Servizio delle mense, ma forse le cose non stavano esattamente così: gli unici due, di quei sette di cui sappiamo qualcosa, vengono presentati (Stefano nei capp. 6-7, Filippo nei cap. 8) in atto di predicare, e degli altri servizi che pure potevano esercitare non viene detto nulla, evidentemente perché considerati meno caratterizzanti.

13. Vi è l'eccezione apparente di Gv 11,32 («Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!») ma, qualunque che sia l'intenzione dell'evangelista, è semplice duplicato della frase attribuita a Marta (Gv 11,21).

(da Vita Monastica, n. 229, ottobre/dicembre 2004)


Giovedì, 25 Agosto 2005 02:46

Non passare oltre (Timothy Radcliffe op)

«Amerai il prossimo tuo come te stesso.
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico»

Siamo chiamati ad elaborare
una nuova cultura di pace
di Massimo Toschi




Noi sappiamo che nel secolo XX la guerra è radicalmente cambiata. Dalla guerra di Spagna non c'è più lo scontro tra eserciti, ma il vero e sempre più crescente obiettivo diventa l'uccisione deliberata dei civili. Nelle guerre combattute dal 1945 ad oggi sono stati uccisi 25 milioni di civili. Negli ultimi dieci anni, su 100 morti nelle decine di guerre in atto, 7 sono militari e 93 civili, di cui 34 bambini. Sempre più le guerre non finiscono con la firma di un trattato, perché le mine anti-uomo continuano a ferire e a uccidere ben oltre gli armistizi, e l'inquinamento ambientale prodotto dalle bombe ha effetti devastanti sulla vita della popolazione civile sopravvissuta, com'è avvenuto nel caso dell'Iraq, nel caso Kosovo e probabilmente nella stessa vicenda dell'Afghanistan ancora in atto.

Il magistero di Giovanni XXIII

È questo orizzonte che spinge Giovanni XXIII nel 1963, con la Pacem in terris, non solo a porre fine alla teologia della guerra giusta, ma anche a rifiutare in radice ogni futura possibilità di guerra. Dice Roncalli, in quello che appare il suo testamento, che, scritto due mesi prima di morire, è la pienezza della sua parola per la chiesa e per il mondo: "Riesce impossibile pensare (alienum est a ratione) che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia". Egli comprende con assoluta chiarezza che l'era atomica cambia totalmente la qualità della guerra, non solamente nel senso che viene aumentata in senso geometrico la sua potenzialità distruttiva, ma che a causa di questo i civili e la loro uccisione diventano l'obiettivo primario dell'azione militare. Questo è stato vero a Hiroshima, ma anche in tutte le guerre successive, dove pure non è stata usata direttamente la bomba atomica. Questa intuizione porta papa Giovanni a spezzare definitivamente il legame tra guerra e giustizia: la guerra senza aggettivi, dunque ogni guerra.

Egli non contrappone dottrina a dottrina, ma, leggendo in profondità la storia, assume e fa proprio il grido muto delle vittime innocenti che la guerra sempre produce. È da qui che viene la sua consapevolezza della pace come parola assoluta e indivisibile, che contiene in sé l'unità e la radicalità di tutto il Vangelo. Questo grido diventa come il segno dei tempi che domanda alle chiese di convertirsi, di chiedere perdono per aver giustificato la guerra, di comprendere meglio il Vangelo della pace.

Oltre la dottrina sociale

Il Concilio è stato l'evento per mezzo del quale Giovanni XXIII ha rimesso il Vangelo al cuore della storia e ha chiesto alla Chiesa di vivere il servizio all'Evangelo, condividendo la sorte e il patire dei popoli, in particolare di quelli più piccoli e più poveri. Perciò la pace ha abbandonato per sempre i capitoli della teologia morale e della logora dottrina sociale, per tornare ad essere luogo decisivo della confessione della fede.

La Parola di Dio deve essere assunta come sostanza viva e vitale di tutto quello che la chiesa e i cristiani sono chiamati a dire sulla pace. Questo avviene quando le vittime hanno autorità sulla chiesa che legge la Scrittura.

Così si comprende con assoluta chiarezza che la pace è al cuore della cristologia, la pace è una persona, è Gesù nella totalità del suo mistero. Dunque la pace evangelica è coestensiva alla presenza del Messia povero e pacifico in tutta la storia degli uomini. In questo senso la centralità assoluta della pace diventa coestensiva alla centralità assoluta dell'Eucarestia. E la pace e l'Eucarestia diventano coestensive nel mistero della Vittima, che nella storia si rivela nel volto concreto delle vittime della violenza. E la loro voce che la chiesa deve assumere, è a partire dal loro grido che essa è chiamata a comprendere meglio il Vangelo della pace e a testimoniarlo in debolezza, senza appoggi e sostegni umani.

Nasce da qui il drammatico senso di responsabilità e di coerenza spirituale che non fa indietreggiare la chiesa e il credente di fronte alle conseguenze della fedeltà all'Evangelo, riletto dentro i conflitti della storia.

Se la guerra, ogni guerra è l’antivangelo, nessuna guerra può essere più giustificata dal punto di vista della fede, né quelle compiute contro il diritto internazionale, né quelle avvallate dalle organizzazioni internazionali, neanche quelle costruite con l'avvallo di una mozione dell'Onu. Questo significa percorrere altre vie per risolvere i conflitti internazionali, per piegare dittature e regimi violenti, per combattere il terrorismo. Arrendersi alla cultura della guerra come extrema ratio, significa fare della guerra la ratio di ogni politica. A maggior ragione con la guerra preventiva, quando essa diventa la prima ratio di ogni politica, e dunque il fallimento e la sconfitta della politica.

A tutto questo la chiesa e i cristiani partecipano, testimoniando l’alterità del Vangelo ad ogni guerra e ad ogni sua giustificazione. [……]

Uuna nuova cultura della pace

Elaborare una nuova cultura di pace è compito di molti. Ciascuno è chiamato a portare l'originalità del suo pensiero, la ricchezza della sua tradizione culturale e spirituale. Anche le chiese e i cristiani non possono sottrarsi a questa fatica. Ecco alcuni punti essenziali da cui partire:

1) il non uccidere

La parola biblica deve di nuovo assumere tutta la sua forza profetica. Si spezza davvero il circolo della violenza quando si decide di dare la vita per i nemici. Dunque il non uccidere i nemici ha il suo punto d'arrivo nel dare la vita per essi. Solo così la violenza non diventa più padrona della nostra vita. Quando si uccide, anche se questo avvenisse per un motivo giusto e nobile, si moltiplica l'odio e l'inimicizia nel mondo e dunque si rilancia la causa della violenza, di quella violenza che vorremmo colpire e reprimere.

2) il fare la pace con mezzi pacifici

Sta qui la grande questione della nonviolenza attiva. La pace non può essere costruita con qualunque mezzo: dev'essere costruita con mezzi coerenti con il suo fine. Tutto questo porta a rifiutare i mezzi violenti, le armi, a maggior ragione le armi con devastante potere distruttivo. Oggi, rispetto a cinquant’anni fa, si può dire che il regime sovietico, come diversi regimi autoritari in Asia e America latina sono caduti, senza uso delle armi o della guerra. Lo stesso muro di Berlino, che è stato il simbolo dell'inimicizia e del mondo diviso in due, è caduto a partire dalle manifestazioni nonviolente dei giovani evangelici della Germania Est. Il regime dell'apartheid in Sud Africa si è frantumato quando Mandela ha scelto la nonviolenza.

Tutto questo ci dice che sono possibili altre vie rispetto all’azione militare, alla violenza e alle armi. I regimi autoritari spesso sono rafforzati dalla guerra, mentre sono sempre destabilizzati dal dialogo della nonviolenza, che punta non a distruggere, ma a cambiare le coscienze. Se pensiamo per un attimo alla Palestina, è sempre più chiaro oggi che l'affermazione dei diritti dei palestinesi non passa attraverso il terrorismo o l'insurrezione militare. Il terreno delle armi e delle azioni militari sta sfigurando l'anima e il cuore d'Israele, ma la lotta violenta, promossa da molte organizzazioni politiche dei palestinesi, ha ottenuto l'unico risultato di distruggere la vita e la speranza di un popolo. …

3) stare nella storia dalla parte delle vittime

Quando si legge e interpreta la guerra dalla parte di un computer o di una sala ovale o dalla stanza dei bottoni o di una facoltà di teologia o di un palazzo di curia, è facile dimenticare che oggi la guerra significa, prima di tutto e innanzitutto, uccidere delle vittime innocenti, che sono l'obiettivo deliberato di ogni azione militare.

La guerra diventa impossibile se siamo capaci di guardare il volto dei bambini delle donne, degli anziani iracheni o afgani o di qualunque altra parte del mondo. Il loro volto e la loro sofferenza invocano pace non guerra. Il loro patire diventa il discernimento più grande sulla guerra e sulle sue apparenti e sofisticate ragioni.

4) il perdono e la riconciliazione

Solo una cultura del perdono e della riconciliazione può sanare le ferite dell'inimicizia e dell'odio. L'esperienza del Sudafrica con la “Commissione sulla verità e la riconciliazione” ha indicato una strada decisiva per fare la pace. Non la via della vendetta, che mai costruisce, ma quella del riconoscimento del dolore dell'altro, il confessare la propria colpa rispetto ad esso. Allora ci si accorge che la divisione non passa più tra bianchi e neri, ma all’interno del cuore di chiunque abbia condiviso la violenza contro il fratello. Questo apre un processo profondo dì ricomposizione del tessuto della vita comune, senza il quale l'odio non è sconfitto.

Una strada analoga dovrebbe essere con coraggio intrapresa nei Balcani, per spezzare il muro di separazione delle coscienze, ancora oggi molto evidente. Lo stesso accadrà tra israeliani e palestinesi, se davvero avranno il coraggio di scommettere sulla pace, che nasce dalla fiducia e non dal potere delle armi.

Sono quattro punti. Indicano la ”via stretta della pace” senza la quale non c'è futuro. Si legge nell'introduzione della Leggenda Maggiore, a proposito di Francesco d'Assisi: "Angelo della vera pace, anch'egli a imitazione del Precursore, fu predestinato da Dio a preparargli la strada nel deserto dell'altissima povertà e a predicare la penitenza con l'esempio e la parola".

Le chiese oggi sono chiamate ad essere angeli della vera pace, facendosi povere, ponendo la parola della conversione e imparando dalle vittime. Ci sono già cristiani che indicano, con la loro vita e con la loro morte martiriale, questa strada.

(in L’Angelo della Pace, Il Vangelo nel tempo della guerra, Brescia, Quaderni di Missione Oggi, Ottobre 2002, pp. 2-7)


Piccola introduzione
alla teologia dell'icona
di Olivier Clément




Nella tradizione "ortodossa", l'icona fa parte integrante della celebrazione. Si tratta di un'arte liturgica che non può essere isolata dal suo contesto ecclesiale: la Scrittura e il suo ampio commentario innografico, ricco di dottrina e di spiritualità.

Le immagini (icona, eikônin greco, significa immagine) sono apparse molto presto nel mondo cristiano: si conosce l'arte delle catacombe, arte funeraria piena della gioia della risurrezione. Ma quest'arte riprende la sua tecnica dall'arte romana o ellenistica del suo tempo e si limita a cristianizzarla tramite il gioco dei segni e dei simboli. A partite dal IV e dal V secolo appare l'icona che include i simboli nei volti, mentre la teologia trinitaria include l'essere nella comunione.

Tuttavia una corrente ostile alle immagini persiste nel cristianesimo, attinge argomenti di interdizione nell'Antico Testamento e nella paura (talvolta giustificata) dell'idolatria, spingendosi fino a uno spiritualismo dematerializzante: Altro argomento contro le immagini è il carattere pan-umano di Cristo, da cui l'impossibilità di rappresentarlo.

La crisi esplode intorno al 726 e va avanti fino all'843. Alcuni imperatori energici, strappando lo Stato dal caos che si era creato. ingaggiano una lotta contro il monachesimo il quale, di fatto, limita il loro potere e sembra compromettere la vita sociale. Profezia del Regno di Dio, testimonianza di un Signore crocifisso, l'ideale monastico si inscrive nell'icona. Un'ampia politica di secolarizzazione appoggiata dall'esercito e dai teologi spiritualisti diventa allora iconoclasmo.

La crisi ha permesso di fondare e di purificare la venerazione delle sacre immagini. Contro una concezione puramente speculativa della trascendenza, la Chiesa sottolinea che il Dio vivente trascende la sua stessa trascendenza per rivelarsi in un volto d'uomo. L'icona per eccellenza, quella di Cristo, si giustifica con l'Incarnazione, anche perché il Figlio non è solo la Parola, ma anche l'Immagine (consustanziale) del Padre, "fonte della divinità". «Nei tempi antichi - scrive san Giovanni Damasceno - Dio, incorporeo e senza forma, non poteva essere raffigurato sotto nessun aspetto; ma ora, poiché Dio è stato visto mediante la carne ed è vissuto in comunanza di vita con gli uomini, io raffiguro ciò che di Dio è stato visto» (Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. Discorsi apologetici contro coloro che calunniano le sacre immagini, I, 16, tr. it. di V. Fazzo, Roma 1983, p. 45). Perché, così come il Verbo si è fatto carne, la carne si è fatta Verbo. Il Damasceno respinge l'obiezione di chi considera la materia indegna e sottolinea che la grazia, in Cristo, ha penetrato la materia e ha liberato la sua potenziale sacramentalità. «Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, che è diventato materia a causa mia… Venero la materia attraverso la quale è avvenuta la mia salvezza, poiché essa è piena di potenza e di grazia divina» (Ibid. pp. 45-46).

Così, «quando colui che è immenso e sussistente nella forma di Dio si è invece ristretto alla misura e alla grandezza, dopo aver preso la forma di schiavo... riproduci la sua forma su di un quadro, ed esponi alla vista colui che ha accettato di essere visto. Di lui riproduci l'inesprimibile condiscendenza…» (Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. I, 8, ibid., p. 37).

Questo è l'argomento fondamentale da Dionigi l'Areopagita a Teodoro Studita: in Cristo l'invisibile si fa vedere perché il Segreto è anche Amore. Antinomia che doveva sistematizzare nel XIV secolo san Gregorio Palamas, per il quale Dio è totalmente inaccessibile - essenza o sovraessenza - eppure si rende totalmente partecipabile nelle sue "energie".

Da qui l'importanza nella teologia dell'icona del tema della trasfigurazione e dell'immagine "non fatta da mano d'uomo".

«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte» (la tradizione ha precisato che si trattava del Tabor). « E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce ». Una variante dice: «come la neve» (Mt 17,1-2). Luca precisa: «candida e sfolgorante» (9,29).

Quando un cristiano, monaco o laico non importa, accede al ministero di iconografo, il sacerdote recita su di lui l'essenziale dell'ufficio della Trasfigurazione. I teologi dell'icona non hanno cessato di commentare i testi evangelici consacrati a questo episodio. Dice Atanasio il Sinaita: «Cosa c'è di più sconvolgente di vedere Dio nella forma di un uomo, il volto risplendente, radiante più del sole?» (Omelia sulla Trasfigurazione, PG 84, 1376).

In Cristo, d'altra parte, il tempo è ricapitolato e l'icona implica memoria e anticipazione, una sorta di visione che guida la mano dell'artista. "Cristo stesso ha trasmesso la sua immagine alla Chiesa", scriveva all'inizio della crisi iconoclasta Giorgio di Cipro (Nouthesia, ed. Mélioniransky, p. XXIII). La memoria di questo volto - il Santo Volto - è evocata da due racconti significativi: in occidente, quella del velo con cui Veronica (da vera in latino e eikôn, "immagine", in greco) avrebbe asciugato il volto di Gesù durante la Via Crucis; in oriente, quella del Mandylion, un velo anch'esso, sul quale Gesù avrebbe volontariamente impresso la sua immagine rispondendo al desiderio del re Abgar di Edessa, ammalato. Effettivamente qualche cosa è stata scoperta ad Edessa nel VI secolo e trionfalmente portata a Costantinopoli nel 944, qualcosa che ha precisato fin nei particolari la rappresentazione di Cristo. Un sudario forse, di cui non si può dire esattamente che legame avesse con la Sindone di Torino, tanto studiata oggi. Più ampiamente il Volto di Cristo è detto acheropita, "non fatto da mano d'uomo", così come Maria concepisce in modo verginale, perché la mano dell'artista, se questi si è preparato con la preghiera e il digiuno, è guidata miracolosamente dallo Spirito (cfr Giorgio di Pisidia, Poemi, in «Studia Patristica et Byzantina», 1960, p, 91).

La proibizione di rappresentare Dio (nell'Esodo e nel Deuteronomio) non vale più non solo per Cristo. Non vale neanche per sua Madre, per i suoi amici, le membra dei suo Corpo sacramentale. L'uomo creato "ad immagine" di Dio è predestinato a diventare «conforme all'immagine del Figlio suo» (Rm 8,29), «trasformato in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18). Egli si deve rinnovare sempre «ll'immagine del suo Creatore» (Col 3,10). Fondata nell'incarnazione del Figlio eterno, l'icona si moltiplica tramite la santificazione degli uomini nello Spirito: le icone della Madre di Dio e del santi anticipano la trasfigurazione finale: «quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3,4).

È quanto riassunte meravigliosamente il ritornello liturgico (kontakion) della Domenica dell'Ortodossia, prima domenica di Quaresima in cui la Chiesa celebra solennemente il ristabilimento definitivo del culto delle sacre immagini nel 843: «L'incircoscrivibile Verbo del Padre, incarnandosi da te, Madre di Dio, è stato circoscritto, e, riportata all'antica forma l'immagine deturpata (cioè l'uomo), l'ha fusa con la divina bellezza» (tr. it. Anthologhion II. Roma 2000, p. 596).

I teologi dell'icona hanno chiaramente distinto l'icona dall'idolo, sottolineando che l'icona non pretende affatto di afferrare colui (o colei) che rappresenta: "immagine artificiale", l'icona non è in niente della stessa natura del suo modello. Non appartiene all'ordine magico del possesso, ma all'ordine propriamente cristiano della comunione. Non rientra nella categoria del sacramento in cui la maceria riceve una forza santificante, ma rimanda alla categoria della relazione, di un incontro interpersonale. Il prototipo, che è divino-umano (Cristo) oppure l'umano deificato (il santo) sfugge ad ogni opacità, separazione. Al contrario si rende presente e accogliente nell'immagine che rappresenta la sua "somiglianza". La presenza iconica è dunque una trasparenza personale, «secondo la somiglianza dell'ipostasi» (Teodoro Studita, Antirrheticus II, 3,1), cioè della persona allo stesso tempo unica e in comunione. L'icona permette l'incontro degli sguardi (da cui l'importanza della pupilla dell'occhio, [Strana coincidenza: Guillaume Apollinaire nella poesia "Zone" all'inizio della Raccolta Alcools scrive: «Pupilla, Cristo dell'occhio»] proprio come punto della trascendenza) in cui, più che guardare, sono io ad essere guardato. Sono guardato da uno sguardo di santità, uno sguardo al di là della morte che mi trascina verso questo aldilà. Uno sguardo da risorto che sveglia in me la mia resurrezione e l'immagine di Dio come una chiamata alla libertà e all'amore.

L'iscrizione del Nome sull'icona (épigraphé) sottolinea questa relazione con la persona rappresentata. Così san Teodoro Studita può affermare che l'icona di Cristo è Cristo, senza la minima confusione magica: «l'immagine di Cristo secondo la relazione» (Antirrheticus I, 11).

L'icona esige dunque un elemento ritrattistico, alcuni "caratteri" concreti che distinguono tale individuo «dagli altri individui della stessa specie» (Antirrheticus III,1,34). La circoscrizione, cioè la possibilità stessa di rappresentare, è «composta di alcune proprietà» (Antirrheticus III 1, 17). Il paradosso tipico della fede cristiana è che Cristo da una parte «ricapitola», racchiude in sé tutta l'umanità; eppure la sua umanità d'altra parte sussiste, si lascia vedere «in un individuo preciso» (atomos) (Antirrheticus II, 18). Ecco per ché, nelle icone, da una parte il bambino Gesù è rappresentato con una fronte alta, segno della Sapienza, e dall'altra l'ipostasi del Verbo è circoscritta nei tratti individuali di un volto d'uomo. L'arte dell'icona unisce realismo e astrazione per suggerire, con san Giovanni, l'identità dell'umiliazione e dell'elevazione, la morte in croce come vittoria sulla morte. Né dolorismo dunque, né trionfalismo secondo una concezione umana della gloria.

Nell'essenziale, questa teologia dell'icona ha trovato la sua sintesi nella definizione (l'horos) del Settimo Concilio Ecumenico, o Concilio di Nicea II (787). Il "modello rappresentato" deve accordarsi con il Vangelo e l'icona per eccellenza, quella di Cristo, «serve a confermate l'Incarnazione, reale e non illusoria, del Verbo di Dio». Così Scrittura e icona «rimandano l'una all'altra». Le immagini rinviano significativamente al mistero della Croce - sempre, contro l'idolo, questa identità della gloria e della Croce - e di tutto l'insieme del culto di cui l'icona, come abbiamo detto, fa parte integrante. I gesti e i segni che avvolgono l'icona - il bacio, l'inchino, la candela e l'incenso - non significano affatto adorazione, che «si deve solo alla divinità», ma sono i segni della stessa venerazione accordata alla Croce e al Vangelo. Per due volte l'horos, riprendendo una formula di san Basilio, ricorda che «coloro che guardano le icone sono guidati al ricordo e al desiderio dei prototipi» e che «l'onore reso all'icona riguarda il prototipo», di modo che «chi si inchina davanti all'icona lo fa davanti all'ipostasi (la persona) di colui che vi è rappresentato».

Attraverso la crisi iconoclasta, l'arte dell'icona si è dunque precisata e purificata per suggerire, nell'uomo e nel cosmo, la luce trasfigurante del Regno, quel Regno che è in noi e in mezzo a noi, dice Gesù. La santità anticipa questo regno di cui aspettiamo e prepariamo la piena manifestazione nella Gerusalemme nuova, la città cubica dalle mura di pietre preziose che uniscono la più alta densità e la luminosità più grande.

Questa luce è l'essenza della bellezza e la bellezza è un Nome divino, un' "energia" tramite la quale Dio si "estasia" nella sua creazione; offuscata dalla nostra cecità, è pienamente ritrovata, diffusa da Cristo, non solo sul Tabor, ma nella notte del Getsemani e del Golgota. Si conosce la leggenda della "scelta della fede" da parte di Vladimir, gran principe di Kyiev, alla fine del X secolo. Si convinse di aderire al cristianesimo di Bisanzio a causa di ciò che raccontarono i suoi inviati: avevano visto una liturgia nella chiesa di Santa Sofia, e davanti a tale bellezza non sapevano più - dicevano - se erano in cielo o sulla terra. Dunque la bellezza è criterio e prova della verità. Anche nel XX secolo, un grande scienziato e teologo russo, Pavel Florenskij, scriveva che la Trinità di Rubliev è prova dell'esistenza di Dio. Tale bellezza non è una categoria estetica ma ontologica, perché nella teologia orientale l'essere ha la sua fonte nella comunione, L'iconografo è tenuto quindi ad una grande responsabilità ed una grande sobrietà. Deve superare ogni soggettivismo, ritirarsi nella preghiera, nel digiuno, unire l'intelligenza e il cuore, favorire nel silenzio l'incontro con colui o colei che sta per rappresentare sull'icona. Regole precise determinano la composizione delle scene e permettono di riconoscere i volti. Il genio creatore, liberato dai fantasmi individuali, non perde niente: basta pensare alle opere straordinarie di un Teofane il Greco, o a quelle completamente differenti di un Mahmoud Zibawi, stili iconografici così diversi secondo la loro epoca e il loro luogo.

Tutto nell'atteggiamento e nell'espressione del personaggio rappresentato deve indicare la sua intima partecipazione alla "luce taborica". Il corpo, esageratamente lungo, non è che uno slancio verso il volto segreto, il volto interiore, aperto simultaneamente a Dio e al prossimo. E il volto stesso diventa «tutto sguardo» (Pseudo-Macario, Prima Omelia, 2). Il più delle volte la rappresentazione frontale, in segno di presenza e di accoglienza. Le rocce, come tanti piani, suggeriscono il deserto di questo mondo, ma per la grazia della santità questo deserto fiorisce in vegetazioni fantastiche. Gli animali sono stilizzati secondo la loro essenza paradisiaca come nell'arte celtica o in quella degli sciti. Le architetture, sempre in secondo piano, diventano un gioco surrealista, sfida evangelica alla pesantezza e alla potenza di questo mondo.

Certo, la rappresentazione della gloria non può che essere simbolica. Ma è l'originalità di quest'arte che il simbolo si incorpori al volto e che l'eternità si inserisca all'infinito nella comunione delle persone senza spersonalizzare. Il Concilio Quinisesto (692) riunitosi in oriente, ha proposto che i simboli della prima arte cristiana (l'Agnello ad esempio), venissero sostituiti da ciò che essi prefiguravano, ossia il volto umano di Cristo […].

La Gerusalemme nuova, sulla quale si apre l'icona, «non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello» (Ap 21,23). Nell'icona, dunque, la luce non proviene da un punto preciso: è diffusa dappertutto senza creare ombre, come se tutto fosse interiormente illuminato dal sole. Spesso la prospettiva è rovesciata: le linee non convergono verso un punto di fuga, lì dove si chiude lo spazio decaduto che separa e imprigiona, ma si dilatano verso la luce, «di gloria in gloria».

Quando l'icona descrive una scena, contrae in una simultaneità liturgica vari momenti spesso lontani nel tempo. Nell'icona della Natività, ad esempio, si vede come in un'armonia gioiosa l'annuncio degli angeli ai pastori, la cavalcata dei re Magi, il Bambino nella grotta (anticipazione della discesa agli inferi del Sabato santo) e in braccio alle donne che lo lavano in un modo quasi battesimale.

L'icona non ha soltanto un valore pedagogico, ma anche "misterico", dischiude una benedizione della Chiesa. Si apre così alla teologia un altra prospettiva oltre a quella del concetto.

L'arte dell'icona non è affatto estranea alla tradizione occidentale, almeno fino al Trecento. Dopo, l'occidente che scopre esplora e libera l'umano, preferisce a quest'arte della trasfigurazione ciò che chiamerei un'arte dell'esodo in cui si esprimono le ricerche, le angosce, la sensualità, anche le intuizioni dell'umanità, intuizioni che a volte ritrovano spontaneamente lo spirito dell'icona, da Fra' Angelico a Rembrandt e Rouault. Oggi il fallimento a una certa arte "religiosa", sentimentalista e pietista, apre all'icona le chiese cattoliche e anche alcuni templi protestanti. L'icona allo stesso tempo corrisponde alla cultura dell'immagine e la esorcizza («guardare un icona è un digiuno degli occhi»). Apre alla teologia delle vie nuove, sostituendo il concetto che vuole possedere, con il volto che chiama alla comunione.


(da "Contacts" n. 181, 1998, pp. 25-32)


...il giusto mio servo giustificherà molti

Credo che sia essenziale dare agli immigrati, e soprattutto ai giovani, la possibilità di vivere in mezzo alla gente del posto e di condividere la quotidianità; è la miglior maniera di costruire insieme un progetto comune e una comune cittadinanza.

Mercoledì, 24 Agosto 2005 02:09

Donne che incontrano Gesù (Stefania Cantore)

Donne che incontrano Gesù
di Stefania Cantore

Nel momento in cui il centurione vedendo il modo di spirare di Gesù riconosce: «Veramente questo uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39), viene anche ricordata la presenza delle donne:

«C'erano anche alcune donne che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Joses, e Salome, che lo seguivano e servivano quando erano ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme» (Mc 15,40s).

Se, in Marco, la Buona Novella è sintetizzata nell'annuncio che l'uomo Gesù è il Cristo il Figlio di Dio (Mc 1,1), le donne mostrano di aver intuito fin dalla Galilea che quell'uomo era anche per loro (e non solo per gli uomini!) «buona novella», invito alla conversione, al ambio di mentalità per «vivere» nella sua luce (Mc 1,14s). Il loro seguire, servire Gesù, salire con lui a Gerusalemme ne sono il segno più chiaro proprio perché esse lo fanno, non su un imperativo-chiamata di Gesù, ma come conseguenza e risposta libera all'incontro con lui.

Infatti, alle donne Gesù non dice «seguimi» o «seguitemi», non chiede di servire ne lui ne altri, non dice esplicitamente come ai Dodici: «Saliamo a Gerusalemme» (Mc 10,32-34 e parr .), eppure le donne fanno tutto questo. Anche Luca nota la presenza di donne al seguito di Gesù:

« Egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni» (Lc 8,1-3).

Restate con Gesù fino alla sua morte, le donne sono le prime testimoni e annunciatrici del Risorto.

Come mai delle donne hanno seguito Gesù fino ad assistere alla sua morte? Come l'hanno incontrato?

Benché meno numerosi di quelli con uomini, i vangeli ci tramandano molti incontri di Gesù con donne. Vediamone alcuni in cui la donna serve, loda, ascolta e profetizza.

La suocera di Pietro (Mc 1,29-31)
Dalla malattia al servizio di colui che serve

Il primo incontro di Gesù con una donna, nel vangelo secondo Marco, avviene di sabato, in casa, nell'ambiente della vita e della «liturgia» familiare in cui la donna, secondo la tradizione, esplica la sua attività più appropriata.

Dopo la Sinagoga, dove il suo insegnamento con autorità e la liberazione di un uomo dallo spirito impuro avevano suscitato stupore e interrogativi sulla sua identità, Gesù si reca a casa di Simone (Mc 1,29-31 ). Ora, qui, il sabato, il giorno donato da Dio, è «velato»: la suocera di Simone è a letto con la febbre, e non può assumere il suo compito ordinario. Aveva potuto accendere la lampada? preparare i pasti da consumare nella gioia?

Sono gli uomini, i primi quattro «chiamati» alla sequela, ad informare subito Gesù della malattia della donna.

E Gesù le si fa vicino, la fa alzare prendendola per mano. Non più ostacolata dalla febbre che la lascia, la donna «risorta», di nuovo in piedi, si mette a servire gli ospiti.

Se nulla si era detto della nuova vita dell'uomo liberato dallo spirito impuro nella sinagoga, di quella della suocera liberata dalla malattia si dice espressamente che viene dedicata al servizio. La vicinanza di Gesù, il prenderla per mano permettendole di rimettersi in piedi, portano solo, anche se in modo straordinario, al ricupero dello stato di salute, col conseguente ritorno al servizio abituale? Certo la quotidianità della sua vita di donna rimane esternamente la stessa, ma è attraversata da una pienezza nuova: liberata da Gesù, il suo servire è comprensione e partecipazione al Regno di Dio, che in lui si è fatto vicino (Mc 1,14-15).

Non poter celebrare il sabato era un po' come tornare al tempo della schiavitù, in cui il Dio liberatore e creatore non può essere «riconosciuto» e servito nella lode. Celebrare il sabato invece la faceva collaborare alla venuta del Messia, che ripristina la situazione di armonia con Dio e rinnova la creazione secondo il piano originario. Una antica credenza, diffusa già nel primo secolo.

« afferma che se tutto Israele osservasse in modo perfetto due sabati consecutivi, la redenzione dell'umanità sarebbe immediatamente effettuata. È quanto dire che l'osservanza perfetta di due sabati equivarrebbe all'avvento del Regno di Dio. Se poi, incapace d'un tale sforzo, Israele riuscisse ad osservarne uno solo senza alcuna negligenza, ciò sarebbe sufficiente per la venuta del Messia, annunciatore del Regno ».

Gesù celebra il sabato «senza negligenza» e la donna entra nella sua celebrazione, nel suo Regno caratterizzato dall'essere liberi (liberati) per il servizio.

Servire l'altro sostituisce il dominare l'altro, tipico della situazione di peccato e della «solitudine» che ne consegue. La relazione di aiuto reciproco, su piano paritario, di ogni essere umano, esemplificata nella alterità gioiosa della coppia delle «origini», viene ricuperata sotto forma del farsi prossimo nel servizio. Nel deserto delle sue tentazioni, sono gli angeli a servire Gesù; nel «primo sabato» della sua vita pubblica è la suocera di Simone a servire lui e i suoi chiamati; durante tutto il cammino dalla Galilea a Gerusalemme sono le donne a servirlo. Se il rapporto di servizio mette in luce un operare in funzione del benessere dell'altro, considerato più importante di se, Gesù sceglie proprio di operare da servo, sceglie di porsi come gli ultimi perché nessuno «sfugga» al suo servizio.

«Voi sapete (i dodici) che coloro che sono ritenuti i capi delle nazioni le dominano, (...) chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,42-45).

In Marco, soggetti del servire sono solo gli angeli e le donne che servono Gesù (e coloro che stanno con lui) e Gesù stesso.

Entrare nel Regno di Dio fattosi presente in Gesù e portarne I'annuncio e la realtà, significa allora «servire» sia per coloro che già stanno servendo, sia per chi non è abituato a farlo. E servire significa veramente servire, fare qualcosa di utile per la vita dell'altro, un servire scelto non subito, un servire possibile solo da parte di chi è stato «liberato».

È il cambio di mentalità richiesto per entrare nel Regno. La suocera di Simone, servendo, lo accetta evi entra. È il servizio di sempre? Sì, ma è proprio quello che ora «serve» per la celebrazione del sabato definitivo iniziato da Gesù. Come donna libera, in piedi, essa offre tutto quello che può e sa fare, il suo servizio per la celebrazione di questo sabato.

La donna curva (Lc 13,10-17)
Dal ripiegamento alla lode di Dio

Siamo di sabato, in una sinagoga, durante il viaggio di salita verso Gerusalemme. Gesù sta insegnando. Tra i presenti alla preghiera vi è anche una donna venuta alla sinagoga benché malata da molti anni: è curva, piegata in due, nella assoluta impossibilità di assumere-ricuperare la posizione eretta (ha uno spirito di infermità). Nessuno, ne la donna, ne gli altri, ne il capo della sinagoga, fanno notare la limitazione che grava su questa persona.

Lo sguardo di Gesù raggiunge la donna e apre l'incontro.

Avendola vista, Gesù interrompe - o completa? - il suo insegnamento, col chiamarla a se, dirle «Donna, sei liberata dalla tua infermità» e imporle le mani. La donna è subito raddrizzata.

Ormai diritta, la donna è di nuovo in grado di entrare in relazione con gli altri nella posizione propria della persona umana. La donna, che vive in se stessa la ri-creazione del suo essere, lo legge come opera di Dio e risponde a Dio con la lode: pubblicamente, nella sinagoga «glorificava Dio».

Il capo della sinagoga, però, non legge affatto a sua volta l'avvenimento come opera di Dio, ma lo critica come contrario alla «realtà» del giorno di sabato. La donna, la guarigione, il cantico nuovo che da lei si leva a Dio proprio di sabato, non lo «toccano».

La reazione ufficiale a questo suo «incontro» con la donna è per Gesù l'occasione di proseguire il suo insegnamento, chiarendo qual è il modo giusto di vedere insieme e quella donna malata e il sabato. Nel giorno in cui si ricorda la liberazione del popolo dalla schiavitù, ha senso lasciare la donna «legata da satana», dimenticando così di considerarla come parte del popolo, nella sua dignità di «figlia di Abramo»?.

La donna fa parte di un popolo che nella storia ha il compito di testimoniare la realtà del Dio unico, del Dio liberatore dalla schiavitù: il popolo di Israele, i figli di Abramo, attualizzano la liberazione cessando da ogni lavoro per ricordare per sempre nella lode le grandi opere del Signore.

«lo sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione servile. (...) Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore tuo Dio ti ha comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno ne tu, ne tuo figlio, ne (...). Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato» (Dt 5,6.12-15).

Se ricordare è rendere «presente» la propria situazione di schiavi resi liberi, la liberazione della donna dai legami di «satana» è la visibilità nell'oggi della forza liberante del Dio dell'esodo di cui si sta facendo memoria.

L 'insegnamento di Gesù nell'ambito della liturgia sinagogale del sabato, sfocia in una liberazione nuova in cui le parole sono la mano possente e il braccio di Dio. In Gesù le meraviglie dell'esodo si compiono di nuovo. Egli vede la donna curva nella sua vocazione profonda e originaria di figlia di Abramo e nella sua realtà attuale di persona fisicamente «ridotta», dove il limite fisico è legame schiavizzante, distorsione e opposizione al disegno creativo di Dio. Gesù libera la donna e la restituisce alla sua vocazione di figlia di Abramo. In lei «raddrizzata» la liturgia sinagogale di lode riacquista verità: è il segno vivente e visibile dell'operare di Dio in favore dell'oppresso. In lei, è veramente presente il popolo dei figli di Abramo che, cosciente della propria impossibilità a liberarsi, riconosce l'irrompere di Dio nella sua vita e lo loda per sempre. Ora, mentre gli avversari di Gesù si vergognano, tutti gli altri riconoscono con gioia «le meraviglie da lui compiute» (Lc 13,17).

La donna curva che di nulla può vantarsi, come donna e come inferma, diventa lode pura e continuata del Signore.

Maria di Betania (Lc e Gv)
Donna rimproverata, discepola e profetessa

Maria, con Marta sua sorella, è ricordata nel vangelo di Luca (10,38-42) e di Giovanni (11,1-12,11). Non si sa come le due sorelle abbiano incontrato per la prima volta Gesù e nessun tipo di guarigione è indicato all'inizio della loro conoscenza. In entrambi i vangeli, Marta e Maria appartengono già alla cerchia dei conoscenti-amici di Gesù.

In Luca, durante il cammino verso Gerusalemme Gesù viene accolto da Marta nella sua casa. In questa occasione, Maria sedendosi ai piedi di Gesù, si mette ad ascoltare la sua parola (Lc 10,38s).

Con la parabola del seminatore Gesù aveva già in precedenza invitato ad ascoltare «la parola con cuore buono e perfetto», a custodirla e produrre frutto, a fare attenzione al modo di ascoltare (Lc 8,15.18; cf Mt 7,24; Mc 6,47-49). Aveva anche dichiarato che il legame creato dall'ascolto era più importante del legame naturale: «Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21).

In questa linea correggerà il «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte» con «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc Il,27s).

Gesù appartiene al popolo dell'ascolto, «Ascolta, Israele» (Dt 6,4ss), al popolo che si impegna a tradurre in azione la parola ascoltata: «Quanto il Signore nostro Dio ti avrà detto, noi lo ascolteremo e lo faremo» (Dt 5,27). L 'attenzione amorosa verso I 'unico Dio, verso la sua parola ascoltata, messa in pratica, ripetuta di generazione in generazione, tramandata da maestro a discepolo è propria del credente israelita. La donna entrava in questa catena rendendola possibile (col mettere al mondo i figli), col curarne la sussistenza (degli adulti e dei piccoli) con il suo lavoro casalingo ed anche con l'introdurre alla fede i figli piccoli (la trasmissione della fede era poi affidata al padre e ai maestri).

Marta, accogliendo Gesù, si inserisce in questa catena secondo il modello abituale dell'azione casalinga della donna. Inoltre, riconoscendo probabilmente in Gesù un ospite di particolare importanza, si preoccupa di presentargli molte cose.

Maria, invece, ha un atteggiamento insolito che non si accorda con la tradizione. «Ricevendo» Gesù in modo nuovo, Maria mostra di vedere in lui un rabbi diverso dagli altri, con una parola sua. Per lei questo rabbi, con la sua parola, rinnova «l'ascolta, Israele» e, allora, sceglie di ascoltare la sua parola ed agire secondo questa parola-persona nuova. Maria, sedendosi ai suoi piedi, è consapevole di assumere liberamente nei confronti di Gesù la posizione e il compito di discepola.

La novità di Gesù crea la novità di Maria discepola. ..e la sostiene!

Marta, però, non approva affatto la sorella, ma rivolge la protesta non a lei, bensì a Gesù. Il rimprovero, a modo di leggero ricatto affettivo, è molto chiaro: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti» (Lc 10,40). Gesù è il «colpevole» che non si rende conto ne che la sua presenza comporta un gran lavoro supplementare, ne che Maria non compie il suo doveroso compito di donna ospitale. Secondo l'imperativo di Marta, Gesù dovrebbe autorevolmente rimettere Maria «al suo posto».

Maria non dice nulla: resta seduta ad ascoltare la parola di Gesù. Lascia al «Signore» la valutazione del suo agire e del rimprovero che le giunge indirettamente. Gesù non la «difende» in senso proprio. Nella risposta a Marta, egli dà la lettura giusta di ciò che sta avvenendo: con la sua venuta nella «nostra casa», una cosa sola è necessaria e «rimane»: ascoltarlo; non sono più necessarie molte cose, anzi queste sono dispersive, portano solo agitazione senza costruire, non servono più, appartengono al passato. La risposta rinvia chiaramente a una presa di posizione nei suoi confronti: ospitandolo ci si chiede quale sia la pietanza da lui preferita? chi si vuol servire servendo lui?

Maria sceglie un'unica cosa, il Signore, l'ascolto della sua parola, e si pone con tutta se stessa ai suoi piedi, al suo servizio senza disperdersi in altro/i.

Maria è riconosciuta, accettata e confermata «discepola» dal Maestro stesso e, quindi, autorizzata a vivere e trasmettere la parola ascoltata, il «messaggio» da lui ricevuto.

In Giovanni, Marta e Maria sono sorelle di Lazzaro di Betania, l'amico di Gesù (Gv 11,1). Marta, sapendo dell'arrivo di Gesù, si muove per andargli incontro. Ella è convinta che Gesù sarebbe stato in grado di guarire Lazzaro malato, «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,21), ma, nonostante la fede in lui, «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo» (Gv 11,27), non «vede-spera» come egli possa ora farlo tornare in vita. Infatti, di fronte al comando di togliere la pietra del sepolcro di Lazzaro, Marta, molto realisticamente, avvertirà Gesù: «Signore, già manda cattivo odore, poi che è di quattro giorni» (Gv 11,38-39).

Maria, invece, anche se informata dell'arrivo di Gesù, non si muove, resta «seduta» in casa. Quando, però, la sorella le viene a dire che il Maestro la chiama, si alza in fretta per andare da lui. E a lui esprime la stessa convinzione di Marta, «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,32). Ora, però, le parole escono cariche di lacrime da Maria che si è gettata ai piedi di Gesù.

Maria non chiede nulla, ma, piangendo, rende palpabile quanto sia per lei dolorosa la morte di Lazzaro. Con se stessa, pone tutta la propria sofferenza ai piedi di Gesù... è qui che ha ascoltato, è qui che parla, è qui il riferimento ultimo del suo essere.

«Gesù allora quando la vide piangere...» (Gv 11,33): il pianto di Maria, e il pianto di coloro che sono con lei, provoca Gesù che si commuove e piange a sua volta. «Paradossalmente», Maria induce Gesù ad attuare ciò che egli aveva già previsto, che la malattia fosse per la gloria di Dio e per la fede in lui (cf Gv 11,4.15). Ed ecco che Gesù, mostrando la gloria di Dio che in lui porta la vita anche nella morte, ridona la vita a Lazzaro... e toglie il motivo delle lacrime.

Il pianto, che mette in evidenza l'amore e il grido contro la distruzione e il distacco provocati dalla morte, non ha, dunque, l'ultima parola, bensì la vita e la mensa comune che la celebra.

Gesù torna a Betania, dove i suoi amici, con Lazzaro e le sorelle, offrono una cena a lui e ai suoi discepoli. Marta si dedica ancora al servizio, ma senza .preoccuparsi, dando così il suo apporto alla riuscita dell'incontro (Gv 12,1-2).

Maria coglie l'occasione della cena per esprimere la sua riconoscenza amorosa che diventa atto profetico. Maria non chiede nulla; con l'ungere di profumo i piedi del suo Signore, mostra in modo femminile la sua adesione piena, non contata, a colui che non calcolerà il dono di sé.

Ma il modo di agire di Maria ancora una volta sconvolge. Che Maria si avvicini a Gesù, che lo tocchi per bagnargli i piedi, che poi gli asciughi i piedi con i suoi stessi capelli (sciolti? !) non sembra creare difficoltà, ma che, per fare questo, usi un olio prezioso e, per di più, in grande quantità, questo, sì, crea scandalo!

Nel vangelo di Giovanni si fa interprete del disappunto proprio Giuda, il futuro traditore, «Perché quest'olio profumato non si è venduto per trecento danari per poi darli ai poveri?» (Gv 12,5; cf Mt 26,6-13; Mc 14,3-9).

Maria non giustifica il proprio atto. È Gesù che la sostiene contro chi la critica: «Lasciala fare» (12,7). È di nuovo Gesù che mette in luce il valore profetico del gesto di Maria che, nello spirito del servizio-dono per amore, rimanda al dono della sua vita, alla sua morte e sepoltura. Come il profumo versato da Maria in grande quantità riempie tutta la casa, così il profumo della salvezza, «versato» da Gesù, invaderà la casa-mondo.

Non ha alcun senso di fronte a Gesù fare un calcolo di che cosa valga o no la pena di dargli; non ha alcun senso mettere la sua persona a confronto coi poveri in una gerarchia di precedenza di persone da «aiutare». Quando l'amore verso Gesù non viene mai manifestato in un dono eccezionale, probabilmente Gesù non è riconosciuto e amato come Signore e potrà essere lasciato ed anche tradito.

Maria riconduce tutto, a Gesù: lo ascolta, si muove secondo la sua chiamata, gli si apre nel dolore, gli offre tutto il prezioso profumo del suo amore. Come nel tempio la vedova aveva dato tutto a Dio (cf Mc 12,41-44), così Maria dà il suo tutto perché tutto in lei è rivolto a Gesù.

Col suo dono ricco (nardo) e umile insieme (ai suoi piedi) Maria è segno che rimanda a Gesù, amato e riconosciuto come Signore.

Aldilà del pianto
Annunciatrici del Vivente

«Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto» (Gv 20,13) è la risposta di Maria di Magdala agli angeli che, dall'interno del sepolcro di Gesù, le chiedono «Donna, perché piangi?» (Gv 20,13). L 'assenza del suo Signore lascia nel pianto Maria di Magdala che, liberata da ogni sua malattia, aveva accompagnato Gesù dalla Galilea a Gerusalemme (cf Lc 8,1-3).

Nel «giardino» è la donna ora che vuol sapere dove è il suo Signore che «si nasconde». Maria rivela nel pianto il suo amore verso colui che è entrato come Signore nella sua vita: nulla può arrestare il suo pianto se non il Signore stesso, nulla e nessuno può ormai sostituire il Signore nonostante sia stato deposto. La donna non se ne va, non nasconde il suo dolore... e Gesù la chiama per nome... e nel giardino non c'è più ragione di piangere. Maria è di fronte al Signore e vorrebbe rimanere con lui: lo ama. Nel giardino, dalla terra che ha ricevuto il Signore della vita, dalle lacrime della donna, rinasce la vita.

Ma quel giardino « dell 'incontro » si deve allargare: «Va' dai miei fratelli» (Gv 20,17). Non c'è ombra di indugio in Maria: colei che, testimone del Risorto, può annunziare «lo ho visto il Signore», va subito a comunicare ai discepoli il compimento della salita di Gesù al Padre suo e loro (Gv 20,18).

La donna (le donne) che annunzia che il Signore è vivo, risorto, è colei che è stata vista e accolta come donna dal Signore stesso. Come persona malata o impura è stata guarita, come bimba morta è stata restituita alla vita di adulta, come vedova è stata consolata, come peccatrice è stata perdonata, ...come donna è stata accolta tra i servi del Regno, come donna è stata accolta tra i discepoli, come donna è stata accolta nelle sue espressioni d'amore.

Ri-creata, persona libera, porta Gesù ai fratelli come solo lei può portarlo, come donna.

(da Parole di Vita)

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