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Giovedì, 06 Gennaio 2005 21:05

L'incerta speranza del credente (Massimo Cacciari)

Non si può sperare senza fondamento, "ma come può la speranza essere certa se rimane speranza? Allora il testimoniare questo, predicare questa agonia, questo a me interessa del teologo, cioè di colui che è appeso alla croce, non di colui che la spiega. Qui trovo una differenza con il mio ragionamento che mi spinge alla relazione con l'altro".

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Quattro vie
per l'educazione alla pace


Nel momento confuso che stiamo vivendo, con il terrorismo che ha portato la paura nel quotidiano della gente e con il rischio di scelte politiche sempre più improntate alla chiusura e alla demonizzazione dell'altro/straniero, o ispirate al principio della guerra preventiva, quali possono essere le pedagogie di pace? Quali temi devono avere quelle pedagogie - anche senza intenderle come un indirizzo teorico in senso stretto ¡ che potrebbero contrastare il virus della potenza e del dominio? A nostro parere l'educazione alla pace può passare attraverso quattro vie privilegiate: la pedagogia interculturale, l'ecopedagogia (le pedagogie attente alla terra), la democrazia partecipativa (l'opera delle persone che si associano e si mettono in rete per fare azioni concrete di pace), l'impegno delle religioni.


1. La pedagogia interculturale

La scuola svolge la funzione primaria e insostituibile di dare cittadinanza all'uomo planetario che è già in cammino
. (Franco Cambi)

Anzitutto la pedagogia interculturale: siamo consapevoli che la pace deve essere radicata nella cultura, e non può rimanere come un messaggio isolato e affidato ad un elite di pochi testimoni illuminati. La sfida è inserire la pace nell'ambito della cultura, nella convinzione che solo una cultura che sia capace di meticciarsi con le altre può essere la cultura del futuro.

Conosciamo benissimo cosa accade alle culture chiuse e autoreferenziali, perché abbiamo presente il destino della nostra cultura eurocentrica, che ha prodotto dei modi di pensare che sono serviti a giustificare gli imperialismi e le colonizzazioni. La filosofia del soggetto ha prodotto un uomo che ha "esportato la sua civiltà" tra indios, pellerossa, africani e asiatici, in cambio dello sfruttamento delle risorse altrui; la filosofia della tecnica ha portato l'uomo a imporsi sulla natura fino al punto di violarla, ma anche di mettere a repentaglio l'esistenza delle generazioni umane future. Pedagogia di pace é una pedagogia che sappia affrontare le ombre della nostra cultura (come la presunzione di superiorità e il razzismo), che sappia formare individui capaci di vivere nella complessità, "cittadini del mondo" grazie all'inclusione delle differenze, e non alla loro sottrazione: non tanto passando per la rinuncia all'identità nazionale (che spingerebbe alcuni al fondamentalismo), quanto cercando un'identità che sia plurale e non abbia paura dell'altro.

Perciò concordiamo pienamente con Franco Cambi quando scrive: "nell'interculturalità è posta una sfida alla e della pedagogia; sfida verso un nuovo modello di cultura, radicalmente diverso rispetto a quello tradizionale - occidentale o greco-cristiano-borghese -, capace di revisionare i fondamenti di quello e di proporne dei nuovi, attuando una macro-rottura all'interno dell'Occidente stesso, in quanto ne rimuove millenarie certezze e pone nuove frontiere (etiche, cognitive, antropologiche, prima che sociali e politiche) alla sua cultura, anzi frontiere del tutto nuove" (1). L'intercultura come sfida, come riscoperta e rilancio di valori positivi della cultura occidentale per superare l'etnocentrismo e le tentazioni di egemonia culturale. Questi valori sono il dialogo, il pluralismo, la convivialità delle differenze: immaginiamo una pedagogia interculturale che sia ermeneutica, capace di prestare attenzione al non-detto, al rimosso, all'emarginato capace di dialogare con quelli che la narrazione dominante pone a margine.

Una pedagogia di pace prevede quel dialogo tra culture che recepisce le aperture più illuminate della filosofia contemporanea, come le teorie di Lévinas e Derrida, che tematizzano il carattere incondizionato dell'ospitalità e cercano di superare un'aporia del pensiero occidentale, la chiusura di fronte allo straniero, e che rilanciano le categorie dell'alterità e della differenza.

NOTA

    (1) F. CAMBI, Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma 2001, p. 15





    2. Ecopedagogie

    L'uomo non è il padrone della creazione. (...) Bisogna passare all'ecosofia, cioè alla saggezza stessa della terra di cui l'uomo prenderebbe coscienza e si farebbe portavoce. (R. Panikkar)

    La sensibilità verso la terra sta lentamente cambiando, anche se purtroppo talvolta cambia più per la consapevolezza dei pericoli che si corrono (1'euristica della paura di Jonas) che per una maturazione sempre consapevole e diffusa. Una pedagogia della pace deve prevedere l'educazione ambientale e l'alfabetizzazione ecologica: per non ripeterci rimandiamo alle considerazioni espresse su questa rivista da Luigina Mortari (numero di gennaio) e da Carlo Baronoelli (febbraio), e agli articoli che sono stati dedicati alla "Carta della Terra".

    Aggiungiamo un riferimento all'ecopedagogia. Come detto, il punto critico a cui sembra essere arrivato l'uomo nel suo rapporto con l'ambiente obbliga a cambiare necessariamente la nostra mentalità. É necessario guardare al futuro, a una diversa presenza dell'uomo sul pianeta, proiettarsi in una dimensione inedita di cittadinanza planetaria. L'ecopedagogia è la riflessione, oggi necessaria, su una teoria e una prassi educativa che tengano conto che l'uomo ha il diritto/dovere non di essere il dominatore della Terra, ma soprattutto il principale custode delle sue risorse, delle sue bellezze e delle diverse forme di vita.

    Secondo i teorici dell'ecopedagogia, Francisco Gutiérrez e R. Cruz Prado, la chiave di volta di un futuro possibile deve essere una nuova forma di razionalità, che sia all'insegna di una relazionalità flessibile, intuitiva e processuale, in grado di recepire tutte le istanze della vita sulla Terra, in qualunque forma esse si manifestino. La quotidianità è il luogo e il tempo privilegiato dello sviluppo sostenibile. L'ecopedagogia si propone pertanto come una nuova scienza che trascende i modi occidentali di concepire l'universo e coincide sorprendentemente con il pensiero e la visione del mondo delle culture tradizionali di tutte le latitudini.

    Le pedagogie della pace devono porsi il problema di educare le giovani generazioni ad abitare la terra, prendendosene cura e valorizzandone i beni.


    3. La democrazia partecipativa

    Dobbiamo sentirci solidali, corresponsabili: una solidarietà che si impara nelle piccole fraternità per allargarsi sempre di più. (R. Goldie)

    É uno dei dati sociali più importanti di questi ultimi anni, legato ad una teoria di cambiamento che si incontra con la vita pratica: si tratta della crescente voglia di partecipare espressa dalla gente comune, che si esprime non solo attraverso le consuete modalità "politiche" (ad esempio le manifestazioni) ma anche attraverso gesti quotidiani che denotano un cambiamento di coscienza.

    Già da tempo si è rilevato l'impatto positivo della diffusione di buone pratiche come la spesa nei negozi del commercio equo e solidale o l'aprire un conto corrente allo sportello della Banca Etica: l'elemento che vorremmo qui evidenziare è il fenomeno della creazione di reti di collaborazione solidale a livello locale, regionale e mondiale. Si tratta del tentativo di costruire un'alternativa democratica e non capitalista all'invadente globalizzazione, cercando una crescita economica che sia sostenibile sia dal punto di vista ecologico che da quello etico-sociale.

    L'obiettivo è ambizioso: convincersi che un altro mondo è possibile a condizione che i consumatori passino ad un consumo solidale, cioè scelgano i prodotti delle reti di collaborazione solidale anche se, in qualche caso, dovessero costare più di quelli della rete capitalista. Consumo solidale significa essere sempre consapevoli che le nostre scelte commerciali possono conservare o danneggiare gli ecosistemi, condizionare occupazione e disoccupazione, mantenere o ostacolare lo sfruttamento dei lavoratori.

    Ci sembra significativo citare il caso italiano della Rete di Lilliput, un'associazione di gruppi e cittadini impegnati nel volontariato, nel mondo della cultura, nella cooperazione Nord/Sud, nel commercio e nella finanza etica, nel sindacato, nei centri sociali, nella difesa dell'ambiente, nel mondo religioso, nel campo della solidarietà, della pace e della nonviolenza che, di contro alle leggi imperanti del mercato/profitto e alla perdita di credibilità delle istituzioni democratiche, hanno unito in un'unica voce le loro molteplici forme di resistenza contro le scelte economiche che concentrano il potere nelle mani di pochi e che trascurano la vita in nome del profitto e del consumismo.

    Adottare una strategia lillipuziana significa che è possibile per tutti i cittadini dare il proprio contributo al cambiamento delle istituzioni sociali. Per questo diventa necessario costruire le reti locali. La strategia lillipuziana può diventare uno dei modi per unire i luoghi e le forze, per mettere in rete i gruppi, laici e cattolici, e quindi per globalizzare la solidarietà.

    Del resto, l'aumento della complessità sociale richiede un aumento del livello di coordinamento dei soggetti e delle risorse. Come tutti sanno, il nome di "Rete di Lilliput" richiama la favola I viaggi di Gulliver (1725) dello scrittore e politico irlandese Jonathan Swift, e in particolare la situazione in cui i minuscoli "lillipuziani", alti appena pochi centimetri, catturano Gulliver, il gigante (metafora della globalizzazione), legandolo nel sonno con centinaia di fili. Gulliver avrebbe potuto schiacciare qualsiasi "lillipuziano" sotto il suo stivale, ma la fitta rete di fili lo immobilizza e lo rende impotente.

    4. Religioni per la pace

    Non ci sarà pace nel mondo finché non ci sarà pace tra le religioni. (Hans Küng)

    Anche senza entrare nell'analisi della complessa situazione geo-politica attuale dal punto di vista dei rapporti con il mondo islamico, purtroppo non possiamo ancora consolarci pensando che le Crociate e le guerre di religione appartengano ad una pagina che è stata definitivamente voltata. Come ricorda Gianni Novelli: "non è religioso, ma ha una forte connotazione confessionale, il sanguinoso conflitto nord-irlandese tra cattolici e protestanti. Le guerre balcaniche hanno registrato un aspro antagonismo tra cattolici (croati) ortodossi (serbi) e musulmani (maggioranza bosniaca). Nelle repubbliche baltiche e in molte parti dell'ex-Unione Sovietica la lotta tra cristiani ortodossi e uniati (1egati a Roma) è sempre aperta. In Asia (pensiamo all'Iran o all'Afghanistan) e in Africa (pensiamo al Sudan ma pure al Rwanda) le lotte politiche e pure le stragi assumono connotazioni religiose intrecciandosi con le ragioni etnico-tribali. Sovente queste tristi pagine di storia non sono sottoscritte dalle gerarchie delle diverse parti religiose che non hanno altra responsabilità se non quella del silenzio e della mancata educazione alla pace dei loro fedeli" (2). Si può dire, in generale, che le voci dei pastori che richiamano le vocazioni pacifiche delle religioni restano inascoltate laddove gli interessi della politica e del potere sono preponderanti. Eppure il compito di essere educatori di pace deve essere proprio delle religioni, che devono essere sufficientemente chiare da non farsi strumentalizzare e da essere tenute fuori dai conflitti religiosi (non dimentichiamo che nei messaggi lanciati all'Occidente da Bin Laden si parla ancora di "crociati").

    Serve un impegno convinto all'interno delle comunità religiose, da parte dei pastori e da parte dei laici, perché vivano la loro dimensione religiosa sempre accompagnandola con un messaggio di pace per tutti. In coerenza con quanto recita il Messale Romano nella Messa per la pace e la giustizia: "Dio della pace, non ti può comprendere chi semina la discordia, non ti può accogliere chi ama la violenza: dona a chi edifica la pace di perseverare nel suo proposito, e a chi la ostacola di essere sanato dall'odio che lo tormenta".

    NOTA

        (2) L. Bettazzi, Ecumenismo e pace: le Chiese e la pace, in V. Savoldi (a cura), Mai più guerra. Per una teologia della pace, La Meridiana, Molfetta 1998, pp. 252-253.



          BIBLIOGRAFIA

          Cambi F., Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma 2001.

          Derrida J. (con A. Dufourmantelle), L'ospitalità, Baldini e Castoldi, 2002,

          Elamè E., Intercultura, ambiente, sviluppo sostenibile, Emi, Bologna 2002,

          Gallie W.B., Filosofie di pace e guerra, Il Mulino, Bologna 1993.

          Gutierrez F-Cruz Prado R., Ecopedagogia e cittadinanza planetaria, Emi, Bologna 2000.

          Lévinas E., Umanesimo dell'altro uomo, IL Nuovo Melangolo, Genova 1998.

          Mance E. A., La rivoluzione delle reti. L'economia solidale per un'altra globalizzazione, Emi, Bologna 2003.

          Salvoldi V. (a cura), Mai più la guerra. Per una teologia della pace, La Meridiana, Molfetta 1998.

          Ucodep (a cura), Pace, Emi, Bologna 2004.

          Ucodep (a cura), Diritti umani, Emi, Bologna 2004.

          Ucodep (a cura), Sviluppo, Emi, Bologna 2004.

          Ucodep (a cura), Intercultura, Emi, Bologna 2004.

          (da Cem Mondialità, maggio 2004)


          Pubblicato in Dossier Pace
          Venerdì, 24 Dicembre 2004 00:40

          Nonviolenza. Gesù non era scemo (Enrico Peyretti)

           Nonviolenza
          Gesù non era scemo
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          Amare i nemici, diceva. Quelli ti odiano e tu li ami. Furbo! Prestare senza aspettarti restituzione. Fallimento assicurato! A chi ti dà uno schiaffo, porgi l’altra guancia. A chi ti prende la tunica, dai anche il mantello. Così lo incoraggi a continuare! Se uno ti costringe per un miglio, tu vai per due. Sì, e poi?

          Tanti bravi cristiani mettono silenziosamente da parte queste esagerazioni di Gesù: va bene, voleva dire di essere generosi, ma se dovessimo prenderlo alla lettera… E chi è meno pio giudica che Gesù insegnasse a sottomettersi ai prepotenti. Tre volte bon — dicono a Venezia — con quel che segue... Non è così che si sta al mondo.

          Come capire questi insegnamenti?

          Walter Wink, nel libro Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un mondo di dominio, edizioni EMI, dà alcune interpretazioni interessanti. Giorgio Barazza, che ringrazio molto, me ne fornisce una sintesi, che io qui restringo ancora.

          Questi consigli di Gesù offrono una misura pratica e strategica per dare agli oppressi un potere nonviolento e liberante (pag. 308).

          «Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente. Io invece vi dico di non resistere al male, anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche la sinistra» (Matteo 5, 38-39). Per colpire la guancia destra, l’altro avrebbe dovuto usare la sinistra, il cui uso era vietato, riservato ai soli compiti impuri. Dovendo usare la destra, il colpo sulla guancia sinistra poteva essere solo un manrovescio. Questo colpo, più che una percossa inflitta ai propri pari, era un’umiliazione, destinata agli inferiori: schiavi, figli piccoli, donne. Gesù parlava a povera gente, che conosceva questa umiliazione. Ora, offrire l’altra guancia era privare l’oppressore della sua pretesa superiorità. Era come dirgli: «Prova ancora. Io non ti riconosco il potere di umiliarmi. Sono pari a te. Tu non riesci ad offendere la mia dignità». Questa reazione avrebbe messo l’offensore in difficoltà: come può colpire ora la guancia sinistra (ovviamente con la propria destra)? Non più con un manrovescio (impossibile), ma con l’interno della mano, come farebbe in una rissa con un proprio pari. Anche se facesse flagellare l’inferiore per quella reazione, questi avrebbe comunque mostrato in pubblico la sua uguaglianza naturale con chi si crede superiore. Un debole ha impedito a un prepotente di svergognarlo, ed anzi ha svergognato lui. Dirà Gandhi: «Il principio dell’azione nonviolenta è la non-collaborazione con tutto ciò che si prefigge di umiliare».

          Leggiamo poi: «A uno che vuole trascinarti in giudizio per prenderti la tunica, dagli anche il mantello» (Matteo 5, 40). Questa disgrazia poteva capitare a un povero, carico di debiti. Ce n’era certamente, tra la gente che ascoltava Gesù. L’indebitamento era una piaga endemica nella Palestina del primo secolo. I romani tassavano pesantemente i ricchi. Questi investivano in immobili, cioè in terre, per mettere al sicuro il denaro. La legge e l’uso ebraico erano contrari alla vendita della terra, il bene più ambito. La politica di innalzamento degli interessi rendeva sempre più difficile ai contadini piccoli proprietari il saldo dei loro debiti e li costringeva a vendere la terra ai ricchi. Ai poveri così derubati, impotenti a pagare nuovi debiti, Gesù consiglia di dare via anche l’ultima veste. Sarebbero usciti dal tribunale completamente nudi. C’è da immaginare che la folla in ascolto del discorso della montagna a questo punto sia scoppiata a ridere. Nella scena abbozzata da Gesù, il creditore è lì con gli abiti del debitore in mano, mentre questo esce nudo. La situazione si ribalta a favore del debitore. La legge lo condanna a quella condizione, ma, denudandosi, egli eleva un’aspra protesta contro il sistema che lo riduce così. La nudità era tabù in Israele ma più del nudo era censurato chi lo guardava e chi l’aveva causato. Il creditore è posto nella condizione di voyeur, quella per cui Cam fu maledetto (Genesi 9). Il sistema che opprime i piccoli proprietari è smascherato. Il creditore, se comprende, può pentirsi della durezza di cui ha approfittato. Il povero che si riteneva impotente scopre di poter avere l’iniziativa, e, anche se l’ingiustizia legale rimane immutata, ne dimostra l’assurda crudeltà, la ridicolizza. Il vero denudato è il creditore e la legge che lo favorisce.

          «Se uno ti vuol costringere per un miglio, va’ con lui per due» (Matteo 5, 41). Chi può costringere così un altro? Il contesto è l’occupazione militare. I soldati romani occupanti potevano imporre questa angaria (corvée, lavori forzati) ai locali, per esempio facendo portare carichi pesanti. Per le popolazioni soggette ai romani, ciò era motivo di forte risentimento. Ed era già un provvedimento benevolo la limitazione ad un miglio. La quale indica pure che dovevano essere frequenti gli abusi dei soldati, che imponevano percorrenze maggiori. Gesù non propone né la rivolta né la sottomissione. Propone un atto con cui l’oppresso riprende l’iniziativa e afferma la propria dignità. Immaginiamo la scena: passata la prima pietra migliare, il soldato si sente dire dall’ebreo con fermezza e dignità: «Te lo porto un altro miglio», e deve pensare: cosa diavolo ha in mente? mi vuole provocare? vuole denunciarmi, farmi punire? Dalla situazione servile, l’oppresso ha ripreso la sua libertà d’azione. Il soldato è disorientato davanti all’imprevedibile. Oggi non riesce a sentirsi superiore ai civili. Si abbassa a pregare l’ebreo di restituirgli il carico! Lo humor di questa scena può sfuggire a noi, ma non sfuggiva agli ascoltatori di Gesù, ben esperti di questa prepotenza, bisognosi di riscattarsi.

          L’amore verso il nemico vuol dire anche portarlo in condizione di incertezza e di ansia, che possano aiutarlo a cambiare comportamento. Quando Gesù, nella sinagoga di Nazareth (Luca 4, 14 e seguenti) inaugura la sua missione attribuendosi la realizzazione della profezia di Isaia (cap. 61): «Lo Spirito del Signore … mi ha inviato … a liberare gli oppressi», non fa dello spiritualismo disincarnato, tanto meno propone una “religiosa” rassegnazione alla violenza. Gesù non era né scemo né vigliacco, come dimostrò fino in fondo. Era anche un leader della lotta nonviolenta.

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          La tragica stupidità della guerra
          presente-prossima-ventura
          di don Gianfranco Formenton



          Se qualcuno ricorda la polemica del crocifisso di qualche mese fa potrà ancora meglio comprendere la tragica sequenza che da sempre accompagna le guerre e i disastri mondiali. Ricordate? Uno sconosciuto fondamentalista-estremista islamico chiede provocatoriamente alla competente autorità di rimuovere un crocifisso da una scuola materna di un qualunque paese italiano. Immediatamente, nel Paese del "lei-è-favorevole-o-contrario?", si scatenano i fondamentalisti-estremisti cristiani, calano dal nord le squadracce di Ordine Nuovo, intervengono i politici, il presidente della Repubblica, il papa... Il vicepresidente del Senato si applica un crocifisso da prete al bavero della giacca, Bossi fa la sua professione di fede cattolica-tradizionalista, Bruno Vespa organizza la sua liturgia notturna invitando il gotha della cultura televisiva... e inizia la sagra della stupidità.

          Nascono sempre così le guerre, quando la ragione viene obnubilata dalle ideologie e dalla stupidità. Esattamente così abbiamo marciato verso la tragedia della seconda guerra mondiale quando dopo due decenni di farneticazioni fondamentaliste-fasciste-naziste, logicamente si è arrivati ad un bagno di sangue epocale. C'è sempre un crocifisso di plastica, un velo islamico, un muro israeliano, dietro le tragedie di questa umanità e la tragedia è che le voci libere vengono messe a tacere, chi si ostina a credere che questa stupidità è pura follia, a chiedere: "Ma di che cosa stiamo parlando?"... non trova patria nella politica tutta tesa ad organizzare il grande duello.

          È esattamente la tragedia che stiamo vivendo. Oramai ci siamo. La strage è stata programmata, i crocifissi di plastica, i veli islamici, i muri israeliani sono pronti a fare da bandiera per la nuova barbarie. Il presidente del Senato della nostra Repubblica ha indetto la nuova crociata, un "patto per l'occidente", quella guerra tra civiltà già pronosticata da Silvio Berlusconi. Il grande condottiero dell'impero Statunitense ha lanciato il grido: "Vinceremo!". Il governatore della California cita Terminator-se stesso e risponde: "l'America è tornata!". Il nuovo zar di Russia fa eco: "Non ci arrenderemo mai!"... Quasi improvvisamente udiamo di nuovo urla di guerra preventiva, le stesse da secoli, da millenni... lugubri presagi di stragi annunciate.

          La guerra nasce quando si arriva al punto di non ritorno. I fondamentalisti-estremisti islamici od occidentali hanno questo di tragico, che sono convinti di possedere la verità e costringono milioni di persone a dover scegliere, ad un certo punto, se stare dalla parte della loro verità o dalla parte della verità degli altri fondamentalisti-estremisti. In questo il fondamentalismo-estremismo occidentale non è diverso da quello islamico. L'Occidente delle democrazie totalitarie non si differenzia dal fondamentalismo-estremismo degli ostaggi uccisi e degli aerei abbattuti. Non c'è nessuna differenza, se non nelle parole e nelle proporzioni, tra un terrorismo degli eserciti regolari e un terrorismo fatto di bande armate al servizio di qualche mente malata. Uccidono, inesorabilmente, implacabilmente, gli uni e gli altri. Gli uni con bombe da duecentocinquanta chili, con attacchi mirati, con le guerre preventive, con le torture "comprensibili", gli altri con i coltelli, i Kalasnikov, gli aerei, le bombe nelle scuole e i kamikaze. Gli uni e gli altri hanno bisogno di alimentarsi da ideologie mascherate di ragionevolezza (i valori occidentali, la democrazia, la libertà, un dio della violenza e della guerra...) Non a caso una delle prime operazioni di guerra in Iraq si chiamava: "Colpisci e terrorizza"!

          Per le vittime, sempre le stesse, sempre gente che non c'entra niente, sempre bambini, sempre innocenti... nessuna pietà se non quella formale dei telegiornali e delle candeline accese nella notte, ma nessun rispetto per la loro vita, né da parte di chi li sequestra né da parte di chi fa i blitz per "liberarli" a costo della loro morte... liberi da morire per l'orgoglio dei cesari di turno! E ogni volta le stesse dichiarazioni folli: la lotta al terrorismo globale! La parola d'ordine che giustifica ogni nefandezza in nome dei valori occidentali. "Loro" sono i cattivi... E televisioni a iosa per le vittime "occidentali" del terrorismo, nessuno a testimoniare il martirio quotidiano della gente che ogni giorno muore sotto le bombe della guerra democratica e per un sistema economico folle che pianifica, con folli politiche sancite dal Fondo Monetario Internazionale, la morte per fame di milioni di persone ogni giorno.

          Non è più tempo di candeline e di fiaccolate, di ipocrite riunioni di "unità nazionale", di equilibrismi politici, di palloncini di solidarietà lanciati verso il cielo... È tempo di dire la verità sulla guerra presente-prossima-ventura, sulla violenta, cieca, ignorante politica guerrafondaia degli Stati Uniti d'America e dei suoi vassalli, valvassori e valvassini sparsi in tutto il mondo, sulle farneticazioni dei giornalisti di guerra, sui calcoli dei politici in cerca di legittimità, dei personaggi dello spettacolo...

          Qualche giornalista e intellettuale, ogni volta che si parla di Cecenia, o di Ossezia, o di Iraq, o di Sudan... ci spieghi la storia di queste nazioni, il terrore quotidiano delle innocenti vittime di questi Paesi e di tutti i Paesi che giacciono sotto il giogo dell'oppressione economica e politica dell'Occidente, ci dica chi sono queste donne vedove che si fanno uccidere pur di vendicarsi di chi gli ha ucciso il marito, o costrette da falsi valori islamici, ci parli dei petrolio, del colonialismo russo, della folle tirannia dei mercati, delle borse e dello strapotere delle multinazionali...

          Il male è la guerra, la stupida, inutile, ideologica guerra che è seguita allo stupido, inutile, folle, ideologico undici settembre. Il male è la violenza che si erge come sistema di governo globale e che nasconde gli interessi di pochi e la tragedia di molti. I criminali-terroristi sono tra le grotte delle montagne dell'Afghanistan e tra i palazzi del potere occidentale. Gli uni e gli altri si alimentano a vicenda. Sì, proprio criminali e terroristi... sia gli oscuri personaggi barbuti di Belsen sia i folli reggitori della politica-mercato di questo villaggio globale. Non c'è nessuna differenza tra i bambini immortalati dalle televisioni e i bambini che muoiono nel silenzio della povertà normale per la maggioranza dell'umanità.

          Baldoni, Simona e Simona... non si meritano questa sagra della stupidità, questa fiera di banalità. Non sono "pacifisti" come intendono "Libero" e "Il Giornale". Sono operatori di pace, gente che se ne fregava del perbenismo nazionale di questi "integralisti nazionali" e hanno messo sul conto che il loro impegno comprendeva anche la morte. In questo sono grandi, hanno rifiutato le logiche nazionalistiche, l'ideologia della violenza e della guerra. Hanno accettato la logica dell'essere "con" e "per" e non "contro"...

          Risparmiategli, per favore, quest'ultima offesa alla loro integrità morale che è l'esatto contrario dell"'integralismo" dei loro defilati e vigliacchi detrattori.

          Che Dio-Jawhe-Allah ci liberi dai crocifissi di plastica, dai veli islamici e dai muri israeliani, dai fondamentalisti-estremisti cristiano-occidentali, dai fondamentalisti-estremisti islamici, dai fondamentalisti-estremisti israeliani, dagli scrittori accecati dalla "rabbia e l'orgoglio", dai giornalisti ignoranti e rozzi e dai politici senza memoria storica e senza cultura.

          (da Adista n. 66, 25 settembre 2004)


          Pubblicato in Dossier Pace
          Giovedì, 18 Novembre 2004 00:49

          Se la pace viene tradotta online

          La strada che da un'idea porta a un progetto spesso attraversa itinerari tortuosi. E ci sono idee che nei cassetti mettono radici. Fino a quando non si realizzano eventi che accelerano di colpo la storia, piccola o grande che sia.

          Pubblicato in Dossier Pace
          Etichettato sotto
          Giovedì, 18 Novembre 2004 00:35

          Se vuoi la pace, offri il perdono

          di Enzo Bianchi


          A scorrere solo i titoli di questa monografia ci si rende conto di un'amara realtà: «guerra» è un sostantivo che si declina sempre al plurale; «pace» esiste solo al singolare (perfino il programma di scrittura con il quale sto redigendo questo pezzo mi segnala come errato «paci»!).

          Pubblicato in Dossier Pace
          Lunedì, 01 Novembre 2004 21:09

          Essere testimoni credibili della pace

          di Samuel Kobia 1

          La pace è un bene sempre più raro nel mondo d'oggi. Guerre, conflitti armati, attacchi terroristici: ogni genere di violenza sconvolge quotidianamente il pianeta. E non è solo a partire dall'11 settembre 2001 che la violenza nelle sue varie forme colpisce qualunque popolo e nazione.

          Pubblicato in Dossier Pace
          Etichettato sotto
          Domenica, 24 Ottobre 2004 17:11

          Bruno Hussar. Abitare i confini

          Il mio popolo abiterà un Nevè Shalom (Oasi di pace) Is 32, 18.

          Una breve biografia

          Domenicano, padre Bruno Hussar è morto nel 1996 a 85 anni e la sua vita, fin dall’origine, l’ha portato ad essere uomo di frontiera. Nato al Cairo da famiglia israelita non praticante, poliglotta, laureato a Parigi in ingegneria, riceve il battesimo a 24 anni (1935)e nel 1950 è ordinato sacerdote. Quarantenne, approda in Israele per aprire, in accordo col Padre Provinciale dei Domenicani, un centro di studi sull’Ebraismo, poi denominato Casa di Sant’Isaia.

          Pubblicato in Dossier Pace
          Domenica, 24 Ottobre 2004 15:51

          Quale cultura di speranza oggi?

          Relazione di Carlo Molari

          I tempi sono tristi: è tempo di speranze!

          Il compito affidatomi è di presentare la prospettiva teologica cristiana sulla speranza. Non intendo fare una panoramica della cultura della speranza nelle chiese cristiane, ma vorrei chiarire come un credente viva la propria speranza e come ne possa dare testimonianza, secondo l'invito della prima lettera di Pietro: "Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1Pt 3,14). Rendere ragione non è però possibile se non si vive in modo personale il rapporto con Dio e il riferimento a Cristo in modo che costituisca ragione di speranza. Questa si chiama speranza teologale ed è stata una delle prime caratteristiche della esperienza cristiana. La speranza teologale non è un semplice desiderio buono portato avanti con costanza.

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          Sabato, 23 Ottobre 2004 20:25

          La speranza

          di Angelus Silesius


          La speranza è una fune: potesse sperare, un dannato,
          Dio lo trarrebbe dal fango nel quale è sprofondato.
          (Da Il pellegrino cherubico, I, 222)

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