I Dossier

Giovedì, 06 Gennaio 2005 21:05

L'incerta speranza del credente (Massimo Cacciari)

Vota questo articolo
(1 Vota)

Non si può sperare senza fondamento, "ma come può la speranza essere certa se rimane speranza? Allora il testimoniare questo, predicare questa agonia, questo a me interessa del teologo, cioè di colui che è appeso alla croce, non di colui che la spiega. Qui trovo una differenza con il mio ragionamento che mi spinge alla relazione con l'altro".

È il brano conclusivo della relazione che il filosofo Massimo Cacciari ha svolto alla nona edizione della Settimana Alfonsiana, realizzata a Palermo dal 20 al 28 settembre 2003 sul tema "L'ultima speranza di Dio".

Il foglio di presentazione del convegno spiegava che "l'ultima speranza di Dio è che gli uomini lo amino": dell'amore umano "di fatto Dio non può fare a meno". Certo all'amore neanche Dio può costringere, ma egli "può attendere". Ma "se l'amore non dovesse essere l'ultima parola della storia, per Dio sarebbe una sconfitta bruciante e insostenibile, alla quale non potrebbe sopravvivere. Una sconfitta che coinciderebbe con la sua inesistenza". In questa ricerca sulla "debolezza di Dio", portata avanti dalla Settimana Alfonsiana, a Cacciari è toccato il tema del "fondamento della speranza" che egli ha sviscerato da un punto di vista filosofico in dialettica con un'ottica di fede.

L'intervento di Massimo Cacciari alla "Settimana Alfonsiana"

L'incerta speranza del credente

Voglio fare alcune considerazioni di ordine storico, se non storiografico, e poi eventualmente cercare di ridiscutere con voi e con Bruno Forte in un secondo turno le questioni propriamente filosofico-teologiche che il nostro tema solleva. Ho la sensazione che si parli di speranza, come di fede o di amore, in modo molto generico. Mentre, soprattutto nella tradizione cristiana, il tema va assunto con grande serietà e radicalità e non va niente affatto confuso con una declinazione volgare del termine stesso. Vorrei cercare di mettere in evidenza la radicalità del problema per toccare alla fine le questioni su cui il moderatore si soffermava.

Voi sapete che il termine speranza nella tradizione filosofica classica è un termine estremamente debole, come d'altra parte anche l'agape. In buona sostanza, potrebbe dirsi che sperano coloro che non sanno, perché laddove io so (episteme) - cioè sto sulla cosa, la posseggo, la tengo in mano, ne posso decidere -, sulla base di questo sapere, progetto. Naturalmente si potrebbe dire che vi è anche una "speranza buona": Platone, nel Fedone ma anche altrove, parla di una euelptis, di una "buona speranza", ma anche qui la buona speranza non si avvicina assolutamente al sapere, fa parte delle opinioni, delle doxai; come spiega Platone stesso, è bene opinare che l'anima sia immortale, che l'anima del giusto venga, dopo morta, retribuita e abbia la sua ricompensa. Sperare questo può facilitare, può aiutare una buona vita nel senso che sperare in questo "aldilà" aiuta un comportamento virtuoso in questa vita; ma si tratta di opinioni che non hanno alcun fondamento, noi diremmo, scientifico. La grecità oscilla così tra una visione di speranza assolutamente negativa e una visione di speranza che è derubricata in termini puramente morali. L'uomo virtuoso, l'uomo buono spera che la sua bontà, la sua virtù abbia anche una qualche ricompensa, ma non è affatto necessario perché, sostanzialmente, "virtus ipsa premium est": io sono virtuoso e questo mi basta.

Naturalmente questo accento classico è tutt'altro che relegato nell'ambito classico. Lo si ritrova in Spinoza, non in una cosetta marginale del sapere moderno-contemporaneo. Quindi, quando dico timbro classico non intendo affatto qualcosa che appartiene soltanto all'orizzonte dell'Atene pre-cristiana, ma che continua potentemente lungo tutta la nostra civiltà: per cui speranza è al più questa buona speranza. Ma il vero virtuoso, il "vir" sa e si comporta bene perché, sulla base del suo sapere, ottiene ricompensa, è beato, è felice in quanto bene si comporta, non perché spera qualcos'altro.

Anche Nietzsche parla della speranza come del male maggiore, perché la speranza (e qui si rifà al mito di Pandora che interpreta il mito di Ziodeo che interpreta in questa chiave), è l'ultima a uscire dall'orcio, perché è il male più radicale, il più difficile da estirpare; perché colui che spera, pensa sempre di poter sostituire lo sforzo del conoscere e del sapere, il disincantato appunto, con lo sperare. Per Nietzsche la speranza si configura come il fondamento di quella che diremmo una ideologia, una cattiva coscienza: spero in quanto penso, sperando, di poter sostituire la fatica del sapere e del conoscere. In sostanza, questo timbro è anche il timbro tragico, come nel discorso degli Ateniesi ai Medi: i Medi sperano e gli Ateniesi dicono: ma perché speri, speri perché sei un debole e allora ti affidi alla speranza, perché non hai potenza, se tu fossi potente (si può essere potenti politicamente o perché si è degli scienziati), non spereresti: "Poveri Medi, voi sperate perché non potete".

Bisogna osservare che in qualche lingua potere e sapere (in tedesco können) sono sinonimi. Questo concetto è profondamente greco. Qual è il problema che questa posizione suscita? Che cosa ci chiederebbe un Greco, ma ancora di più un Romano? Ci chiederebbe qual è il fondamento della speranza: "La tua speranza non è fondata, anche se sei un virtuoso che spera e non soltanto un debole" (c'è il timbro tragico di Tucidide, ma c'è anche il timbro platonico). La tua speranza non ha alcun fondamento: questa è la sfida.

La cosa assolutamente eccezionale è che questa sfida è pienamente assunta da Paolo. Paolo di fronte alla fortissima posizione di Atene non si limita affatto a raccontarci "noi speriamo", ma affronta il nocciolo della questione e si pone il problema di un fondamento della speranza. Paolo è del tutto consapevole di qual è il problema che il classico, il pagano suscita. Conseguentemente afferma che il pagano non può sperare, perché chi sa e chi può, ad Atene, non spera. Quindi, quando Paolo dice che è disperato, intende dire che, in quanto sa e può, non spera. Si pone la questione di rispondere al problema: la speranza ha un senso soltanto nella misura in cui è fondata. Questo è essenziale. Paolo allora dice che i pagani sono disperati nel senso che non conoscono la speranza in quanto speranza fondata, basata su un fundamentum incuncussum, non un fondamento qualsiasi, perché in qualche modo potremmo dire che la buona speranza - la buona speranza platonica - ha un qualche fondamento. Cioè assume radicalmente la sfida. Io credo che su nessun termine quanto su questo si possa giocare e vedere la radicalità della relazione polemica, agonica, ma pur sempre relazione. Del resto le vere relazioni, come i veri amori, sono agoniche. Tra Atene e Gerusalemme, qui è proprio un tema chiave, ma tutt'altro che storico nel senso di passato.

A questo problema Paolo risponde indicando il fondamento della speranza, quella fides, quella relazione che mai può venir meno, assolutamente assicurata da questo punto di vista, assicurazione che non esclude per nulla tensioni e contraddizioni, ma relazione "non adventitia" tra Dio e l'uomo: questo il significato di fides.

Fides come fondamento: anche qui miracolo della trasformazione cristiana dei termini classici. Pistis è termine altrettanto debole di elpis, come agape quasi inodori per la grecità, che assumono questo significato così radicale. C'è fondamento nella speranza, ma il greco, il pagano, non lo vedono e quindi sono "disperati". Il fondamento è nella fede che dà piede al mio procedere nell'itinerario verso la salvezza. Il disperato sarebbe colui al quale vengono "mozzati i piedi", che non può muoversi verso la propria salvezza. Ma proviamo a discutere questa posizione.

In che senso sono disperati i pagani? Il pagano è disperato nel senso che nella sua ricerca egli è essenzialmente in-securus cioè l'elemento scettico, nel senso etimologico del termine skepsis (indagine, ricerca), è essenzialmente infinito nell'ottica della filosofia classica. Questo è chiaro anche in Aristotele: la differenza tra dogmatismo e scetticismo è una differenza del tutto scolastica, come ormai e stato ampiamente appurato anche in sede storiografica, perché i principi propriamente dogmatici della filosofia classica hanno segnato anche i principi su cui procede la skepsis, l'indagine. Dunque, propriamente la disperazione del pagatiti è il non poter terminare mai la ricerca, quella che Nietzsche chiamerà la "skepsis infinita" come il proprio di una filosofia pagana. Ciò complica il nostro quadro, e lo complica di più se noi ci interroghiamo ancora: è veramente possibile disperare? Possiamo concepire una vera disperazione? I pagani dicevano appunto che la speranza era un atteggiamento pressoché incoercibile dell'essere umano. La dimensione dell'esserci comporta una dimensione di infondata speranza. Per quanto perfetto filosofo tu sia, questo elemento del tuo esserci che ti fa infondatamente sperare è un elemento incoercibile. Qualsiasi vera fenomenologia del nostro esserci comporta il riconoscimento di questo sperare: è una passione, direbbe Spinoza o Cartesio, pressoché incoercibile. Nessun fondamento inconcusso filosofico-scientifico evita la ricerca, ferma l'indagine. L’uomo è essenzialmente qualcosa di insecurus, è sempre in affanno, si preoccupa sempre di qualcosa. Dunque è possibile la "perfetta disperazione"? Certamente no. Ciò comporterebbe accidia totale; un perfettamente disperato sarebbe un perfettamente securus, senza preoccupazione. Se io fossi perfettamente disperato sarei perfettamente tranquillo. Tommaso d'Aquino, che da questo punto di vista è un grande fenomenologo, dice appunto che la disperazione è figlia della accidia. La perfetta accidia equivale praticamente alla disperazione. Come fa il pagano a essere disperato?

Paolo, e questa non è una critica, fa capire lo scontro falsificando radicalmente l'atteggiamento pagano. Per il pagano non può esservi disperazione, è filosoficamente impossibile. Allora non è la disperazione come tale, ma dal punto di vista pagano la mia ricerca, la mia indagine, è interminabile. La ricerca del pagano, per quanto ciò avvenga secondo principi inconcussi (di cui parlano Aristotele e Platone), non arriva mai a conclusione, non salva mai dalla cura. Dovremmo affermare che il filosofo pagano è colui che dispera di potere disperare: sa che sarà eternamente in cura. Da questo punto di vista si vede la paradossalità e forza della risposta cristiana. Da un lato Paolo, di fronte alla sfida pagana, indica il fondamento della speranza, dall'altro non può eliminare la "loro" speranza, visto che dare un fondamento alla speranza equivaleva a mettere a tacere o a svalorizzare l'inquisitio (quello scetticismo radicale e universale che è l'anima, la forza del pensare). È talmente paradossale lo sforzo di Paolo che egli, in buona sostanza, ci dice che questo fondamento certissimo della speranza - ma che non può togliere la speranza nel senso della spes - noi non lo possiamo ridurre a una dimensione discorsiva, ci è stato donato, rivelato.

La dimensione teologale di questa speranza è essenziale, ma non viene affermata da Paolo, come da Agostino, perché sono dei religiosi e credono; proprio perché invece si confrontano con il timbro pagano filosofico del termine speranza. Non possono venirne a capo diversamente, e allora è necessario che all'uomo divinitus si aggiunga qualcosa affinché si possa affermare fondata la speranza: la fede per cui gli rivengono credibili le cose che non può vedere; sulla base di questa virtù, la speranza per cui può ordinare alle cose che non può vedere la propria volontà. E alla fine caritas per cui quelle cose verso cui può ordinare la sua volontà malgrado non possa vederle le può anche amare, anzi trasformarsi in esse. Quindi solo divinitus, divino auxilio, dice Tommaso, noi possiamo fondare la speranza. La speranza a sua volta possiamo fondarla su quel fondamento, che in nessun modo ci diamo, che è la fede.

Questo vuol dire separare le due dimensioni? No, significa sapere distinguere. Lo sforzo della filosofia è un costante sforzo di distinguere senza separare, però laddove non si distingue, o si separa o si confonde. In tal modo sono nettamente distinti il timbro della speranza divinitus assunta e quella disperazione impossibile di cui ho parlato. Da questo punto di vista mi ha sempre molto colpito la Lettera ai romani, perché lì si mostra come il movimento e la dinamica di quella disperazione, che non può mai essere perfetta, definita, conclusa, possa a un certo punto aprire a una dimensione altra. Il filosofo qui può fare solo fenomenologia, ma è importantissimo perché attraverso questa fenomenologia si comprende come si possa distinguere senza separare. Il movimento della ricerca interminabile e infinita, il movimento che ti rigetta sempre di fronte e contro la tua finitezza, il tuo peccato nel senso greco del termine (mancare il bersaglio, non essere mai ciò che vuoi, fallire sempre ciò che desideri: questo il significato dell'amartano greco); proprio questo tratto, che non è mai disperazione perfetta perché tu hai costantemente cura di qualcosa che non riesci a raggiungere, può, al culmine dell'angustia, come dirà Tommaso, cioè quando ti senti soffocare da questa condizione, aprirti. Vi è insomma in Paolo una dinamica in cui egli recupera straordinariamente quel discorso sulla disperazione che sembrava volto soltanto al negativo.

Lo recupera come elemento di una dinamica che appare nella Lettera ai romani, nei primi capitoli, essenziale per l'affermazione di quella fides che fonda o rifonda la stessa speranza. Quindi anche da un punto di vista discorsivo-filosofico non c'è nessuna separazione; perché, una volta stabilito che non può esserci perfetta disperazione, rimane totalmente aperta la possibilità che il disperare "infinito" possa aprirsi ad altro da sé. È una possibilità che necessariamente devo concepire pensando radicalmente la disperazione in quanto infinita. Questo punto è di fondamentale importanza, tanto che sta al centro di certe straordinarie analisi di Tommaso: il rapporto tra angustia e spes. Quindi, vi è una parte strettamente teologale nel discorso, ma dall'altra parte non è che la disperazione (nel senso che ho spiegato) rimane come cosa a sé; insieme alla indagine della speranza come virtù teologale, vi è anche la fenomenologia della disperazione, dell'angustia come possibilità della speranza.

Il filosofo potrebbe fermarsi al punto in cui sono giunto, anche se non necessariamente, poiché anche lui deve dialogare con quella possibilità che gli è apparsa al punto in cui la sua inquisitio infinita minaccia di soffocarlo. Dunque, se per il filosofo vale quanto detto, anche per il teologo, giunto a questa soglia, non può più valere il limitarsi a indicare il fondamento della speranza, perché deve rispondere al problema che quel fondamento della speranza non può togliere la speranza.

Io credo che il senso e il valore di questa discussione stia nel punto dove (non so se ci si incontra o meno) il mio pensiero viene radicalmente provocato. C'è qualcosa che non riesco a risolvere, né in chiave filosofica nè teologica. Nel senso di una articolazione del discorso che comunque compete alla teologia, intesa non come semplice apologia o predicazione. Così mi pongo il problema. E con grande umiltà, nel senso che non penso che quei problemi che mi si presentano siano qualcosa che alla fine si possa comprendere o risolvere definitivamente. Laddove, invece, mi pare che le questioni si possano porre in modo assolutamente comprensibile e risolvibile, lo scandalo fra me cessa e diventa un dialogo tra filosofia e teologia nel senso banale del termine, cioè una parola su Dio e non parola di Dio.

In questo senso, l'idea di speranza come opposta a disperazione non mi fa alcun problema, perché semplicemente non è concepibile "disperazione": non occorre nè fede nè altro per non disperare La perfetta disperazione è qualcosa di assolutamente inconcepibile, perché coinciderebbe con la totale assenza di ogni cura e non è possibile alcuna analitica dell'esserci che elimini completamente la dimensione della cura. Non è che io sia preoccupato di non disperare. Non è un problema di alcun rilievo filosofico-teoretico il problema vita-morte. È evidente che il Signore della vita è anche il Signore della morte. Che vita sarebbe senza morte? La dimensione del morire appartiene alla dimensione della vita vera, non della vita che banalmente e volgarmente l'opinione ritiene separata dalla morte. Un Dio tutto vita, non sarebbe vita. Questo non mi crea nessun problema, come non mi crea alcun problema che il mio pensiero sia pensato.

Ma una interpretazione simile non ha alcun fondamento nemmeno nel cogito cartesiano (che pur certamente presta il fianco a quella critica), perché anche il cogito cartesiano è un Mit-sein, svolgendosi in una dimensione, noi diremmo ermeneuticamente linguistica, ma in realtà all'interno di un ragionamento geometrico matematico, che lo sostiene e quindi appartiene ad un discorso. Nel momento stesso in cui dico cogito, io cogito, perché uso un linguaggio che non è mio: sono parlato dal mio linguaggio nel momento stesso in cui lo parlo. Non è pensabile una dimensione di cogito puro: è una cattiva riduzione fenomenologica, non è una riduzione autentica. Se pensassimo di giungere ad un cogito puro saremmo dei cattivissimi cartesiani, dei cattivissimi husserliani. Anche qui il teologo pensa come il filosofo.

Il problema che a me fa scandalo è la connessione fra la speranza e la certezza che ne sta a fondamento. Per poter pensare veramente questo fondamento certo della speranza, che contraddice la formidabile critica teoretico-filosofica alla speranza che domina lungo tutto il percorso del pensiero "pagano", devo pensare che il fondamento stesso di questa speranza sia speranza, ma nello stesso tempo questo fondamento della speranza non può mettermi in dubbio la dimensione della certezza. Così come la dimensione della certezza non può evacuarmi la dimensione di speranza che mantenga fino in fondo tutti i tratti della speranza, e cioè imprevedibilità, indicibilità, etc...

A me pare che tener fermo questo paradosso in quanto tale sia, in qualche modo, praedicare verbum. E qui si coglie una contraddizione vera in termini: bisogna tener ferma la dimensione della certezza perché altrimenti si cade nel "predicozzo". Così come se eliminassi il tener fermo il termine di speranza, si parlerebbe di teologia. La differenza sta nel tenere insieme i due, non nell'eliminare l'uno a discapito dell'altro. Questo è lo scandalo per l'ateniese. Invece se enfatizzo l'elemento della indicibilità e imprevedibilità della speranza, o viceversa l'elemento quasi epistemico che pure insegue questa grande teologia occidentale, perdo la dimensione in cui le due prospettive contraddittorie ne convivono e si contraddicono in uno.

Lo sforzo da fare nel nostro colloquio è quello della assoluta precisione nella distinzione, perché solo così può nascere un colloquium fecondo. La magia è il tenere la relazione nel distacco. Se il cristianesimo giunge lì, verrà sempre in qualche modo hegelianamente compreso, ma se nel cristianesimo il momento della sintesi è lo stesso del momento dell'abbandono, il momento della conciliazione è lo stesso del momento della croce, lì c'è il problema. Però deve essere il momento del patibilis; che rende certo il fondamento della mia speranza. Ma come può la speranza essere certa se rimane speranza? Allora il testimoniare questo, predicare questa agonia, questo a me interessa del teologo, cioè di colui che è appeso alla croce, non di colui che la spiega. Qui trovo una differenza con il mio ragionamento che mi spinge alla relazione con l'altro.

(da Adista)

Letto 5271 volte Ultima modifica il Martedì, 26 Aprile 2016 10:20
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search