I Dossier

Visualizza articoli per tag: Dossier

Venerdì, 01 Settembre 2006 01:47

Memoria, azione nel presente (Geneviève Makaping)

Memoria, azione nel presente

di Geneviève Makaping


«L’antisemitismo non è un'opinione. È una perversione. Una perversione che uccide. Non dobbiamo dimenticare quello che non si è potuto fermare». Parole del presidente francese Jacques Chirac.

Nel giorno della memoria, mi suscita angoscia profonda vedere documentari storicamente ben costruiti, libri che ci ricordano quello che fu e che non si poté fermare. Ma perché non si poté fermare? Cercare risposte sarebbe infruttuoso e porrebbe alimentare ritorsione, odio. Più utile chiederci che cosa possiamo fare ora.

Il ricordo, per ambire a dignità, dev'essere attivo, dinamico e vivo Perché tutto non si riduca a ovvie commemorazioni, dovremmo essere capaci di progettare l'azione del ricordo. È così che la Memoria diventa azione nel presente.

Nessuna cultura o comunità è mai minoranza in sé. Ciò implicherebbe che da qualche parte vi sia una maggioranza culturale. Ciascun gruppo è maggioranza rispetto a sé stesso. E poi, l'essere maggioranza o minoranza non ci fornisce nessuna informazione rispetto alla bontà o meno degli intenti. Appartenenza superiore o inferiore: questa visione del mondo in termini gerarchici ha generato razzismo e morte.

Guerre dimenticate, guerre mediatizzate, guerre dell'acqua, della fame e delle malattie. 60 anni fa, il genocidio. Bisogna andare oltre il pianto. Il ricordo da solo non basta. Siamo stati capaci di litigare persino sulle tragedie che abbiamo generato: è più drammatica la Shoah o sono più sconvolgenti le foibe? Vergogna. Vergogna due volte. Abbiamo reso bipartisan i nostri crimini contro l'umanità. Sì, mi vergogno anch'io.

Ah, le foibe!. Lo confesso: non sapevo cosa fossero. Solo a 47 anni, ho appreso l'esistenza del termine infoibare. Ho subito pensato a nok guè, parola bamiléké (la mia etnia; sono camerunese) per significare il grande serpente capace di ingoiare grandi prede. Da buona migrante, ho aperto l'enciclopedia. Foiba (dal lat.. fovèa, fossa). Caverne a grande sviluppo verticale presenti nella Venezia Giulia, con struttura a pozzo, al fonda del quale si accumulano materiali rocciosi o scorrono ruscelli sotterranei. Le F. sono uno dei più appariscenti fenomeni carsici dell’Istria. Tra il 1943 e il 1945 nelle F istriane trovarono la morte migliaia di italiani, massacrati dalle truppe partigiane del maresciallo Tito. Come dire che il buon Dio ha intarsiato e cesellato quel territorio e noi ci abbiamo messo il significato.

Memoria dinamica. Come? Dotandoci di strumenti che ci aiutino a non costruire barriere. Ve ne sono ancora molte.

Tra i gruppi perseguitati dai nazisti vi erano i nomadi, i testimoni di Geova, i tedeschi oppositori del nazismo, i membri dell'intellighenzia polacca, gli omosessuali, i delinquenti abituali, le persone cosiddette antisociali (erano considerati tali i mendicanti, i vagabondi e i venditori ambulanti).

Oggi, questi stessi uomini e donne vivono nella nostra società. Con quali occhi li guardiamo? Con quali stereotipi li rappresentiamo e li teniamo a distanza.? Ancora si perpetrano genocidi. Abbiamo perso la capacità di ricordare, di indignarci e ribellarci di fronte ai soprusi?

Racconta un a internato, che aveva il compito di accudire un carnefice: «Io lo guardavo senza quegli stivali, senza quel cappello e senza quel cappotto, lui era niente - capite? - un niente. Poi gli infilavo gli stivali e il cappotto e il cappello e ritornava a essere l'espressione della morte».

Memoria dinamica. Va costruita senza il sentimento di vendetta. Vendetta contro chi? Contro la nostra storia? La storia appartiene a tutti. Fino ai diciotto anni, vivevo in Africa. Non avevo sentito mai parlare di genocidio; o meglio, non ne avevo sentito parlare in modo da sentirmi parte di quella brutta pagina della storia. Mi ricordo, però, che noi studenti e studentesse ripetevamo in modo ossessivo: «Deutschland Uber Alles». Noi, piccoli neri, lo dicevamo persino con un piglio di fierezza, essendo stati colonizzati dai tedeschi, i più forti d'Europa. I più forti tra i bianchi. Noi eravamo sedati e, inconsapevolmente, servi dei più forti.

Non ricordo di aver mai sentito il numero sei milioni o dieci milioni. Ne avessero parlato o scritto, fossi stata anche in cima a una palma da cocco, me ne sarei ricordata. Neanche i miei genitori potevano ricordarsene: erano analfabeti, come ce ne sono ancora canti nei mondi terzi.

Allora, contro chi dovremmo vendicarci di quanto accadde? Contro noi stessi o contro le nuove generazioni? La verità storica deve far nascere in noi la volontà di ricostruire quello che abbiamo disfatto, senza rancore. Un accessibile linguaggio di pace, che dica cosa sono fame, guerra, odio, stenti, senza necessariamente doverli sperimentare.

Proviamo a contare fino a 10 milioni 860mila. Dicono le statistiche che gli ebrei uccisi nei campi furono 5.860.000 e 5 milioni i civili non ebrei trucidati. E il numero degli infoibati? C'è chi dice da 250 a 300mila, e chi dai 4mila a 5mila. Non sappiamo il numero esatto? Basta la conta.

Proviamo a scavare. Dove? Nella nostra coscienza. Vi saluto, addolorati.

(Tratto da Nigrizia, marzo 2005, pag. 77)

Pubblicato in Dossier Pace

“Se vuoi la pace, prepara la pace”
di Jean Mouttapa *


Un barlume di speranza sembra cominciare a spuntare all'orizzonte del Vicino oriente. Non si osa credervi, tanto gli ultimi due decenni si sono dimostrati disperati… Disperati specialmente a causa dello scarto delirante, mortifero, fra le dichiarazione e gli atti, fra le parole e i fatti. La parola “pace” che era sulla bocca di tutti o quasi è stata macchiata del sangue degli innocenti più che in qualunque altro conflitto. Gli anni che sono succeduti alla stretta di mano di Oslo hanno consacrato questa perversione del linguaggio: dalle due parti si è continuato a porre atti di vera guerra pur invocando un “processo di pace” del tutto privo di senso. La parola, la cui funzione primaria è di disinnescare la violenza degli uomini, non era più altro che la menzogna edulcorata che rivestiva l'orrore. In certi momenti, di fronte all'incuria dei politici, si aveva l'impressione di udire il grido del profeta Geremia che risuonò un tempo su questa stessa terra: “Curano alla leggera la ferita del mio popolo dicendo: 'Pace! Pace!', mentre non c'è pace.

Le grandi dichiarazioni sulla coesistenza pacifica, l'abbiamo visto, non servono a niente. E persino il diritto, se non è sostenuto da una vera educazione alla pace, darà presto la prova della sua impotenza. Tutte le “iniziative di pace” saranno votate al fallimento, tutti i trattati si riveleranno dei gusci vuoti se la cultura non procede: l'insegnamento dell'odio anti-ebraico nelle scuole palestinesi e in una certa stampa araba, il disprezzo nascosto o ostentato in molti discorsi israeliani devono lasciare il posto a una preparazione volontaristica delle popolazioni civili a prospettive di pace. Utopia? Nel caso, sarebbe piuttosto l'idea di poter comporre il conflitto soltanto con i mezzi politico-giuridici a essere irrealistica. Quando la guerra ha preso a tal punto possesso degli spiriti, dei cuori e del linguaggio, la sola politica responsabile è quella di ritornare alla sapienza di Erasmo: “Se vuoi la pace, prepara la pace”. Speriamo che coloro che hanno in mano le decisioni, al di là dei loro discorsi, si ricordino di quell'umanesimo, che è il solo realismo.

(in Le monde des religions, n. 10, p.19)

* Jean Mouttapa, cristiano impegnato nel dialogo interreligioso, è scrittore e editore. L'ultima opera pubblicata: Un Arabe face à Auschwitz. La mémoire partagée, (Albin Michel, 2004)
Pubblicato in Dossier Pace

La guerra o la pace sono per voi
di Raoul Follereau



Giovani di tutto il mondo, o la guerra o la pace sono per voi.
Scrivevo, venticinque anni fa:
O gli uomini impareranno ad amarsi o, infine, l’uomo vivrà per l’uomo, o gli uomini moriranno.
Tutti e tutti insieme
.
Il nostro mondo non ha che questa alternativa: amarsi o scomparire.
Bisogna scegliere. Subito. E per sempre.
Ieri, l’allarme.
Domani, l’inferno.
I Grandi – questi giganti che hanno cessato di essere uomini – possiedono, nelle loro turpi collezioni di morte, 20.000 bombe all’idrogeno, di cui una sola è sufficiente a trasformare un’intera Metropoli in un immenso cimitero. Ed essi continuano la loro mostruosa industria producendo tre bombe ogni 24 ore.
L’Apocalisse è all’angolo della strada.
Ragazzi, Ragazze di tutto il mondo, sarete voi a dire “NO” al suicidio dell’umanità.
“Signore, vorrei tanto aiutare gli altri a vivere”. Questa fu la mia preghiera di adolescente.
Credo di esserne rimasto, per tutta la mia vita, fedele…
Ed eccomi al crepuscolo di una esistenza che ho condotto il meglio possibile, ma che rimane incompiuta.
Il Tesoro che vi lascio, è il bene che io non ho fatto, che avrei voluto fare e che voi farete dopo di me.
Possa solo questa testimonianza aiutarvi ad amare.
Questa è l’ultima ambizione della mia vita, e l’oggetto di questo “testamento”.
Proclamo erede universale tutta la gioventù del mondo. Tutta la gioventù del mondo: di destra, di sinistra, di centro, estremista: che mi importa!
Tutta la gioventù: quella che ha ricevuto il dono della fede, quella che si comporta come se credesse, quella che pensa di non credere. C’è un solo cielo per tutto il mondo.
Più sento avvicinarsi la fine della mia vita, più sento la necessità di ripetervi: è amando che noi salveremo l’umanità.
E di ripetervi: la più grande disgrazia che vi possa capitare è quella di non essere utili a nessuno, e che la vostra vita non serva a niente.
Amarsi o scomparire.
Ma non è sufficiente inneggiare a: “la pace, la pace”, perché la Pace cessi di disertare la terra.
Occorre agire. A forza di amore. A colpi di amore.

I pacifisti con il manganello sono dei falsi combattenti. Tentando di conquistare, disertano.
Il Cristo ha ripudiato la violenza, accettando la Croce.

Allontanatevi dai mascalzoni dell’intelligenza, come dai venditori di fumo: vi condurranno su strade senza fiori e che terminano nel nulla.
Diffidate di queste “tecniche divinizzate” che già San Paolo denunciava.
Sappiate distinguere ciò che serve da ciò che sottomette.
Rinunciate alle parole che sono tanto più vuote quanto sonore.
Non guarirete il mondo con dei punti esclamativi.
Ciò che occorre è liberarlo da certi “progressi” e dalle loro malattie, dal denaro e dalla sua maledizione.
Allontanatevi da coloro per i quali tutto si risolve, si spiega e si apprezza in rapporto ai biglietti di banca.
Anche se sono intelligenti essi sono i più stupidi di tutti gli uomini.
Non si fa un trampolino con una cassaforte.
Bisognerà che dominiate il potere del denaro, altrimenti quasi nulla di umano è possibile, ma con il quale tutto marcisce.
Esso, Corruttore, diventi Servitore.
Siate ricchi della felicità degli altri.
Rimanete voi stessi. E non un altro. Non importa chi. Fuggite le facili vigliaccherie dell’anonimato.
Ogni essere umano ha un suo destino. Realizzate il vostro, con gli occhi aperti, esigenti e leali.
Niente diminuisce mai la dimensione dell’uomo.
Se vi manca qualcosa nella vita è perché non avete guardato abbastanza in alto.
Tutti simili? No.
Ma tutti uguali e tutti insieme!
Allora sarete degli uomini. Degli uomini liberi.
Ma attenzione!
La libertà non è una cameriera tuttofare che si può sfruttare impunemente. Né un paravento sbalorditivo dietro il quale si gonfiano fetide ambizioni.
La libertà è il patrimonio comune di tutta l’Umanità. Chi è incapace di trasmetterla agli altri è indegno di possederla.
Non trasformate il vostro cuore in un ripostiglio; diventerebbe presto una pattumiera.
Lavorate. Una delle disgrazie del nostro tempo è che si considera il lavoro come una maledizione. Mentre è redenzione.
Meritate la felicità di amare il vostro dovere.
E poi, credete nella bontà, nell’umile e sublime bontà.
Nel cuore di ogni uomo ci sono tesori d’amore.
Spetta a voi, scoprirli.
La sola verità è amarsi.
Amarsi gli uni con gli altri, amarsi tutti. Non a orari fissi, ma per tutta la vita.
Amare la povera gente, amare le persone infelici (che molto spesso sono dei poveri esseri), amare lo sconosciuto, amare il prossimo che è ai margini della società, amare lo straniero che vive vicino a voi.
Amare.
Voi pacificherete gli uomini solamente arricchendo il loro cuore.
Testimoni troppo spesso legati al deterioramento di questo secolo (che fu per poco tempo così bello), spaventati da questa gigantesca corsa verso la morte di coloro che confiscano i nostri destini, asfissiati da un “progresso” folgorante, divoratore ma paralizzante, con il cuore frantumato da questo grido “ho fame!” che si alza incessante dai due terzi del mondo, rimane solo questo supremo e sublime rimedio: ESSERE VERAMENTE FRATELLI.
Allora… domani?
Domani, siete voi.



Pubblicato in Dossier Pace

La speranza che non delude
card. Godfried Danneels



Come combattere la depressione? Come vivere la speranza, giorno per giorno, in tempi difficili? Da cosa si può riconoscere che noi siamo degli “esseri di speranza”? Perché la speranza non è un pio pensiero, un'ipotesi gratuita ma deve manifestarsi nel comportamento quotidiano. In altri termini, c'è “una spiritualità della speranza”? Tentiamo di discernerne i componenti.

Tutta la vita cristiana è costruita su tre pilastri: fede, speranza e carità. Essi si tengono in reciproco equilibrio. Se si rompe l'equilibrio, il cristiano perde, per così dire, la bussola. Vacilla.

FEDE E SPERANZA

Senza la fede la speranza non può vivere: si trasforma nel sognare. Secondo la lettera agli Ebrei, “la fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” ( Eb 11, 1) . Senza la fede negli eventi salvifici - Antico e Nuovo Testamento - la nostra speranza è solo immaginazione, una chimera.

Al contrario, senza la speranza, la fede è morta: una fossa comune dei fatti del passato che serve solo a popolare la memoria; non c'è più niente da aspettarsi, non c'è più niente di nuovo da vivere. Certamente, un tempo è successo qualcosa, ma la “rivoluzione” a fatto il suo tempo e il vulcano si è spento.

Questo gioco sottile della fede e della speranza è uno degli ingredienti di una spiritualità equilibrata: ne determina il grado di salute. Perché, nella fede, c'è già una parte di speranza: noi crediamo nella Risurrezione del Cristo a titolo di garanzia della nostra propria risurrezione che verrà. Ma nella speranza c'è anche una parte di fede: la speranza trova uno stimolo che gli offre la fede. Poiché la promessa si è già realizzata, essa si può nuovamente realizzare.

DOPPIA TENTAZIONE

In questo ambito il cristiano è sottoposto a due tentazioni: quello della temeraria fiducia nella novità e quella della mancanza d'immaginazione.

Colui che vive solo proteso all'avvenire, che si preoccupa solo delle sue realizzazioni, affrancato da tutta la saggezza trasmessa dal passato, costui è privato della memoria. Non si rende conto del fatto che certe “vie nuove” sono state sperimentate già da molto tempo e si sono rivelate impraticabili. Privato della memoria, egli sperimenta a tutto andare. Questa è la fonte di dolorose delusioni, e più tardi anche di demotivazione. Sono i rivoluzionari senza memoria che si ricongiungono per primi al campo dei conservatori.

Ma, al contrario, c'è anche la mancanza d'immaginazione, l'illusione d'una vita senza rischi. Ci si dimentica che c'è sempre “un di più” che non è ancora stato inventato o sperimentato. C'è qui una speranza insufficiente. Perché il momento presente contiene ancora tante cose meravigliose rimaste inutilizzate.

SPERANZA E CARITÀ

Chi ha fiducia in Dio e spera in Lui, deve come Lui donarsi interamente agli uomini. La speranza si riversa nella carità. Ciò suppone un delicato equilibrio tra i due atteggiamenti: attendere nella fiducia e rimboccarsi le maniche per l'azione. Il cristiano è sempre come seduto sul bordo estremo della sua sedia. Seduto su quello che dispone d'un appoggio sicuro: la speranza. All'estremo bordo della sedia, perché è pronto ad alzarsi e a pagare di persona. La poltrona del fannullone non fa parte dei suoi mobili.

Non si accorda una piena fiducia a Dio se non Lo si ama. E non si può amare Dio se non si ama il proprio prossimo. Così la fede conduce alla speranza e la speranza conduce all'amore. In sovrappiù non si spera mai solo per se stessi. La speranza non ha raggiunto il suo termine finché essa non si estende a tutti gli uomini, all'intero universo. Come posso raggiungere il cielo nella gioia, se so che sarò tutto solo?

Fede, speranza e carità, le tre grandi che non possono fare a meno l'una dell'altra. La fede vede cosa è già, la speranza dice ciò che verrà, la carità ama ciò che è; la speranza si occupa già di ciò che sarà. Per il nostro tempo la speranza sarebbe ugualmente la più grande? Comunque sia le tre si tengono reciprocamente in equilibrio e tutte e tre ci sono necessarie.

VEGLIARE NELLA PREGHIERA

Infatti non c'è che un solo esercizio di speranza: vegliare nella preghiera. L'atteggiamento silenzioso di attesa davanti a Dio è la scuola della speranza. Imparare ad attendere e porsi come una vedetta.

Tutta la Bibbia descrive la preghiera come vigilanza e attenzione: tenersi pronti per il ritorno del Signore presso di Lui e provvedere alle lucerne nella Sua attesa. I salmi sono i libri delle lamentazioni per eccellenza, dell'attesa della giustizia, dell'attesa che il giusto sia protetto e il perdono accordato al peccatore, della perseveranza nelle prove. “Mio Dio, mio Dio, quanto tempo ancora... ?”.

Pregare è anche mantenersi con pazienza tra il passato e l'avvenire. È prendere nelle mani la Bibbia e ricordarsi “le meraviglie che fece il Signore”. È il nutrire la propria memoria e permetterle di lavorare. Ma è anche lo sperare con il cuore ardente ai giorni del compimento, al tempo della ‘liberazione d'Israele' e del ritorno del Signore. “Maranatha”.

Pregare è render grazie per tutto quello che ci ha preceduti ed entrare già nelle promesse di quanto deve ancora venire. È esultare di gioia cantando il Magnificat ed esercitarsi al paziente abbandono del Nunc dimittis . È il sedersi tra Maria e Simeone, tra l'azione delle grazie e la speranza corrisposta.

A dire il vero, esiste per una cultura (e per una Chiesa!) una terapia della depressione diversa dalla preghiera? “È perché voi non pregate, che siete senza coraggio” , potrebbe dire Giovanni alle Chiese in una nuova versione della sua Apocalisse.

IMPEGNARSI

La speranza non giungerà mai se io non m'impegno in niente, se non mi decido a fare qualcosa, se non scelgo. La nostra cultura deve reimparare a legarsi, a scegliere, a risolversi a qualcosa. Si è sviluppata una sorta d'irresolutezza generalizzata: di fronte al matrimonio, di fronte ad ogni impegno definitivo, di fronte a ogni decisione di rendersi disponibili in maniera impegnativa. Può darsi che ci siano delle spiegazioni di questo atteggiamento, delle motivazioni più o meno ammissibili. Ma ci sono anche delle ragioni soggiacenti molto poco eleganti. Una specie di narcisismo che non permette di rinunciare alle proprie comodità, il bisogno di garanzie assolute - questa mentalità che spinge a sottoscrivere un'assicurazione a fronte di qualsiasi cosa - e a volte manifestamente la pigrizia e il “ciascuno per sé”.

Ma bisogna anche rilevare nella nostra cultura il disagio della percezione del tempo. Non solo l'impossibilità di aspettare, la legge del “tutto, tutto subito”, ma anche la diffidenza fondamentale per il credito da accordare al tempo. Dobbiamo imparare di nuovo a fare del tempo un amico... aspettando di ridivenire sensibili a una realtà chiamata classicamente “Provvidenza divina”. Quando vorremo capire che Dio si prende cura di noi molto meglio di quanto lo possiamo fare noi stessi?

LA CRISI DELLA FEDELTÀ

Nella sfera del “provvisorio” nella quale noi evolviamo, sopravviene anche la crisi della lealtà. E questo in tanti ambiti: matrimoni, amicizie, affari, ambienti di lavoro. La fedeltà non la si guarda più con ammirazione, ma tutt'al più con sorpresa, se non con compassione.

Così si degrada il tessuto sociale: è logorato. Da che tempo è tempo, la fedeltà ha avuto un ruolo legato fino a un certo punto con il tragico della condizione umana. La fedeltà di Lefte al suo voto lo portò ad immolare sua figlia. La fedeltà di Antigone alle leggi non scritte dell'amore fraterno la condusse alla morte. Questo tragico era profondamente umano, anche se pagano. Proclamava chiaro e forte che non si può mancare alla parola data. La nostra epoca non conosce più i tormenti di questo aspro dramma pagano. Ne conosce altri. Lo strappo di tanti partner abbandonati e di tanti bambini privati dei genitori, la fatica di dover continuamente riprovare con qualcun altro, i cinici preavvisi significati a delle persone che invecchiando rischiano di costar troppo caro, la rottura dei contratti, quella specie di amnesia che riguarda i propri impegni passati...

L'infedeltà rende una società profondamente deprimente. In più, l'infedeltà ha la tendenza di propagarsi con la velocità dei funghi in una foresta. Un girotondo di streghe. Ogni infedeltà fa venir voglia alla parte lesa di fare altrettanto.

Se vogliamo sfuggire a questo funesto ingranaggio, bisognerà ritrovare la virtù naturale della fedeltà. Ricordandoci che è d'altronde il tratto più caratteristico di Dio: è un Dio fedele.

LA SPERANZA SI PRENDE CURA DEGLI ALTRI

L'esclusione, comunque si manifesti, provoca molta disperazione nella nostra società. Esclusione dal lavoro e dall'avvenire, esclusione da se stesso, dalla patria e dalla cultura, esclusione dalle cure e dall'alloggio. Troppa gente oltrepassa il limite. Questo assomiglia a una spirale che si stringe sempre di più, un laccio attorno al collo. Tutti gli assistenti sociali, gli uomini politici, i sacerdoti e gli animatori pastorali la conoscono bene. È la preoccupazione costante dei servizi sociali, e la Fondazione Re Baldovino l'ha studiata a fondo dal punto di vista scientifico.

Cosa dovremo fare se vogliamo dare delle possibilità alla speranza? Certamente dei provvedimenti di giustizia s'impongono alla collettività. Molti responsabili politici ci lavorano d'altronde con prudenza. Ma si è creata anche una rete di punti d'ascolto e soccorso, troppo numerosi per enumerarli, che funzionano spesso grazie al numero di benefattori, e ricevendo migliaia di persone, giovani e vecchie, con tutti i loro possibili problemi. Poiché i servizi pubblici non bastano, né per il numero, né per l'efficacia, né soprattutto per questa prossimità affettuosa necessaria a chi soffre. Pensiamo al corpo umano: quando un'arteria s'incrosta e si ostruisce, sono dei piccoli vasi sanguigni che ne sostituiscono la funzione. Quindi, a fianco degli organismi pubblici, agiscono delle migliaia di piccoli centri di speranza. La speranza si prende dunque cura degli altri. Questo è sufficiente?

LA SPERANZA ANTICIPA

La speranza non può accontentarsi di limitare o riparare i danni quando il danno è fatto. La speranza è anche previdente. Vuole agire preventivamente. Se noi non agiamo preventivamente, in effetti trascuriamo le vittime ed esponiamo il contribuente a degli oneri sempre più pesanti. Poiché la vittima è già ferita e riparare costa molto più che prevenire. Oltre tutto la società avrà la tendenza a scindersi in assistenti e assistiti. La frattura sociale diventerà sempre più profonda.

Dove si colloca la prevenzione? Nelle scuole e nelle famiglie. Non bisogna investire di più in questa azione? Non solo dal punto di vista finanziario, ma anche psicologicamente? La mancanza di speranza nella nostra società è spesso imputabile al fatto che genitori ed educatori abdicano. Da ciò la necessità di lanciare questo appello profetico: “Aiutate i genitori e i maestri” . Tutto quello che non si fa a casa e a scuola, si iscriverà automaticamente un giorno al debito della società.


(Il testo è tratto dalla lettera pastorale: Espérer?)
Pubblicato in Dossier Speranza

Fa’ di me un arcobaleno di pace
di Dom Helder Camara

Signore, fà di me
un arcobaleno di bene e di speranza
e di Pace.
Arcobaleno che per nessuna ragione
annunci
le ingannevoli bontà,
le speranze vane,
le falsi paci.
Arcobaleno incarnato da te
quale annuncio
che mai fallirà
il tuo amore di Padre,
la morte del Tuo Figlio,
la meravigliosa azione
del Tuo Spirito, Signore.

Pubblicato in Dossier Pace

Educare alla pace

Conferenza Episcopale Italiana
Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace


INTRODUZIONE

1. - La pace è una promessa e insieme un'invocazione, che nasce nel profondo dell'essere di ogni uomo e ogni donna. In essa si proiettano immagini di tranquillità e di sconvolgimento, di fratellanza e di conflitto, di vita e di morte; essa vive della memoria del dolore, della paura che il dolore si rinnovi, della speranza di esserne risparmiati. La pace appare come la condizione e la sintesi di ogni altro bene desiderato.
Eppure c'è uno scarto tragico fra la sincerità dell'invocazione e la realtà della vita. Si fa la guerra affermando di avere in cuore la pace. In nome del proprio sogno si contrasta il sogno dell'altro e non gli si fa posto. Il conflitto è contrabbandato come il prezzo inevitabile da pagare per la quiete e l'ordine, spesso identificati con la vittoria e la tranquillità del più forte. E il sangue di Abele continua a gridare dai solchi della terra (cf. Gen 4,10).

2. - È allora spontaneo chiederci: perché questa contraddizione? Se la pace, sempre inseguita, sembra sempre sfuggire al possesso dell'uomo, non ci sarà nella stessa condizione umana qualcosa che impedisce il realizzarsi del sogno?
Certo la pace chiama in causa le istituzioni, nelle quali si esprimono e vengono regolate la vita e le relazioni dei popoli. Ma è sempre il cuore dell'uomo che è chiamato a scegliere tra la forza e il dialogo, la competizione e la solidarietà. La guerra non è altro che la massificazione dei gesti di ostilità fra uomo e uomo, quotidianamente vissuti e dispersi nelle inimicizie, nelle sopraffazioni, negli egoismi individuali. Cambiare le istituzioni è quindi necessario, ma resta impresa vana e impossibile se non cambia il cuore dell'uomo.
Infatti il volto definitivo dell'uomo non è quello del carnefice né quello della vittima, perché entrambi si mostrano disumani. Nel profondo dell'esistenza personale l'uomo avverte che la propria "verità totale" è una sorta di traguardo: egli "diventa" uomo, nella continua tensione verso la pienezza del proprio essere. Poiché dunque il dinamismo che accompagna tale crescita è l'educazione, se si vuole che il seme dell'invocazione alla pace diventi frutto, occorre educare alla pace.

3. - È questa la prospettiva nella quale intendiamo metterci, concludendo un itinerario di riflessione e proposta, che è iniziato con il tema dell'educazione alla legalità (1991) ed è passato attraverso il tema dell'educazione alla socialità (1995).
Le pagine che seguono si propongono anzitutto di ascoltare, raccogliere e condividere con ogni uomo e donna le contraddizioni e le attese contenute nell'invocazione umana alla pace. Nelle ambiguità che accompagnano l'invocazione si profilano infatti appelli rigorosi alla conversione, che coinvolgono insieme credenti e non credenti. Nella tensione costruttiva, che comunque l'invocazione rivela, spuntano valori umani che vanno condivisi e stimati per se stessi, ma che - per chi crede in Gesù di Nazaret - si manifestano pure come germi del regno di Dio che cresce nella storia, fino alla pienezza di novità del giorno ultimo (cf. Parte prima).
I credenti in Cristo sanno di dover condividere l'invocazione di pace di tutta l'umanità, ma anche la ricchezza del messaggio evangelico sulla pace, donato loro per grazia, rivolto però a tutta l'umanità. Una sintetica proposta di tale messaggio viene quindi offerta fraternamente, come contributo al crescere della speranza e della responsabilità collettive (cf. Parte seconda).
Dall'ascolto e dallo scambio nasce infine la proposta di alcune linee per un progetto di educazione alla pace, con l'unico desiderio di contribuire all'elaborazione di un itinerario educativo che si mostri condivisibile e vivibile. Le sue ragioni vanno perciò fondate sull'invocazione umana più vera e drammatica, e vanno alimentate ai valori di vita che la fede cristiana aiuta a riconoscere e a vivere come dono dall'alto, ma che ognuno può scoprire scrutando il proprio cuore. La pace infatti è di tutti e può nascere solo con l'opera convergente di tutti (cf. Parte terza).

PARTE PRIMA

IN ASCOLTO DEL GRIDO DI PACE CHE NASCE DAI CONFLITTI

4. - Il secolo che si va chiudendo ha conosciuto esperienze terribili di guerre di sterminio e di ecatombe nucleare. Ma quando sono caduti i muri della contrapposizione tra blocchi politici e ideologici, la guerra - per certi versi diventata "fredda" e per altri spesso dislocata sui fronti dei popoli emergenti - ha mutato volto. Essa si è come frantumata e disseminata in una miriade di conflitti particolari, così orrendi da suscitare perfino il pudore di nominarli, nel timore che la ripetizione diventi "informazione consumatoria" e impedisca di sussultare e di gridare lo sgomento.
Si possono infatti usare con sufficiente distacco termini come conflitti locali o etnici o tribali, guerra civile, terrorismo, sfruttamento economico di massa... Ma con quali parole si possono nominare i genocidi e le violenze delle "pulizie etniche" di ogni tipo e colore? o le stragi sanguinose degli scontri tribali e delle azioni terroristiche organizzate contro i civili? Come parlare dei corpi dilaniati dalla bomba che esplode nel mercato? o delle masse dei disperati costretti a fuggire da una terra desertificata dallo sfruttamento operato da poteri economici estranei e incontrollabili?
La stessa religione può essere utilizzata come motivo per innescare o inferocire lo scontro, talora offrendo una specie di "bandiera" che serva a identificare il "nemico", o più spesso in nome di radicalismi e fondamentalismi che offendono il volto di Dio predicando l'odio per l'"altro" in nome di Dio. Quando poi il fondamentalismo nega la libertà religiosa, esso insidia la pace perché perseguita l'uomo e gli impedisce la libera ricerca dell'Assoluto, seminata da Dio stesso nel cuore umano.
Episodi di violenza, di razzismo, di esclusione, di rifiuto, di disprezzo della vita sono ormai ogni giorno sotto i nostri occhi, dentro la quiete apparente delle nostre città e delle nostre case; si consumano nelle relazioni politicihe ed economiche, nei rapporti sociali che mettono a confronto le diversità di ogni genere. Essi esplodono nella concorrenzialità efficientistica e spietata che - in ogni campo - espelle i deboli e i vinti, nei ricatti di una vita di coppia e di famiglia sempre più attraversata da linee di frattura, nella violenza fisica e psichica esercitata sulle donne e sui bambini, nell'aggressività cieca che devasta perfino i momenti del gioco e della competizione sportiva.

5. - Pure la situazione italiana Paese presenta forme di conflitto che mettono insieme radici antiche ed espressioni nuove. Permane la violenza indotta dalla criminalità organizzata, ma lo scontro tradizionale fra gruppi di potere per il controllo del territorio assume le strategie più raffinate delle vendette "trasversali", dei "veleni" riversati sulle istituzioni, dell'investimento nel mercato di morte della droga.
Più in generale, la vita politica risente della mancanza del senso dello Stato come mediatore dei conflitti e non come erogatore di vantaggi sulla base dei rapporti di forza. Il "bipolarismo incompiuto" della politica è vissuto come polarizzazione contrappositiva di forze e non come competizione democratica e progettuale. Il conflitto fra le istituzioni (magistratura, parlamento, partiti...) offre spazi e giustificazioni apparenti a rivalse personali o di gruppo. Le rivendicazioni localistiche sono spesso frutto delle inadempienze di un sistema statale centralistico e lontano dalla vita della gente, ma mostrano anche il volto duro della difesa ad ogni costo di un benessere costruito con il proprio sudore, diventato però a sua volta estraneo alle radici solidaristiche tradizionali. Così, problemi oggettivamente gravi e difficili, quali la regolamentazione saggia e solidale dei fenomeni migratori e l'armonizzazione dello sviluppo fra Nord e Sud del Paese, mancano del contesto sociale, e non solo politico, necessario alla loro soluzione.
La stessa "diaspora politica" dei cattolici non si configura come opportunità per l'animazione di progetti legittimamente diversi, ma alimenta scontri e diffidenze incrociate, che si riproducono talora anche all'interno delle comunità cristiane, le rendono incerte e quindi silenziose e assenti.

6. - È dunque profondamente mutato il volto di ciò che fino ad ora è stato chiamato "guerra" e, di conseguenza, non può non mutare il volto di ciò che si continua a chiamare "pace".
Un aspetto è certo: se il conflitto sta perdendo sempre più i caratteri della generalità e dell'ideologizzazione, tipici di un recente passato, ciò significa che esso si sta sempre più avvicinando al vissuto dei gruppi sociali e degli individui. È quindi sempre più un problema personale e di relazioni interpersonali. È sempre più un problema di educazione. Per questo la volontà di ascoltare e raccogliere il grido di pace, che nonostante tutto si fa strada nei conflitti del tempo presente, si orienta verso alcuni appelli rilevanti e coglie alcuni fatti significativi.

Pace e giustizia

7. - Ci sono situazioni in cui l'ordine regna; ma non sempre l'assenza della guerra è sinonimo di pace. C'è infatti assenza di conflitto anche nelle situazioni di oppressione, quando il debole soggiace alla prepotenza del forte e non è in grado di reagire e di opporsi. In tal caso la pace apparente è la maschera iniqua di un ordine perverso, fondato sulla forza e sull'ingiustizia: essa sconta la propria menzogna nella minaccia di rivolta che si genera dentro alla disperazione degli oppressi.
Il giogo dell'ingiustizia infatti non è sopportabile a lungo e l'uomo che la subisce è spinto a scuoterlo, anche a costo della vita. La rivolta per la libertà e la giustizia, così frequente nella storia, è sempre stata investita di significato ideale e di una forte carica etica, anche se la bontà dei fini porta talora a giustificare un'azione violenta che non si cura della bontà dei mezzi. L'umanità comincia dunque a capire che senza giustizia non c'è pace, che per fare pace occorre cominciare a fare giustizia. Anche la giustizia però è per l'umanità un'invocazione e un sogno, che deve faticosamente farsi strada fra la resistenza della malvagità presente nell'uomo e nella storia e la debolezza delle istanze e degli strumenti che dovrebbero fronteggiarla e impedirne, o almeno delimitarne, gli effetti degeneranti.
Il dinamismo della pace impone dunque una strategia di movimento, che si armonizza con il dilatarsi degli orizzonti della giustizia, sia nel tessuto ampio e complesso dei rapporti fra uomini e fra istituzioni sia, soprattutto, nel cuore dell'uomo. Infatti la coscienza etica progredisce quando passa dall'obbedienza imposta con la sferza dei castighi alla giustizia abbracciata e praticata nella gioia. Dentro a un mondo minacciato e divorato dai conflitti, la pratica della giustizia come virtù è un fattore dinamico e operoso della costruzione della pace: i giusti sono i veri operatori di pace.

8. - La ferita più profonda inferta dall'ingiustizia è quella della violazione dei diritti umani, e quindi dei diritti dei popoli. La pace infatti non può realizzarsi quando tali diritti propri sono oppressi da una relazione prevaricatrice, o quando sono trascurati o dimenticati dal silenzio e dall'indifferenza. Anche questa intuizione, per quanto possa apparire ovvia, riceve consensi finché rimane principio astratto e viene spesso contraddetta nei fatti, specialmente quando il grido di rivolta è debole o muto. Basta pensare al diritto alla vita, violentato fin dallo sbocciare dell'essere umano nel grembo materno o manipolato da pratiche di eutanasia, segno radicale dell'incapacità dell'uomo di affrontare da solo il mistero del dolore.
La stessa logica si verifica poi quando il godimento di diritti vitali - quali la salute, la casa, l'istruzione, il lavoro... - viene abbandonato all'incontro casuale con opportunità positive o negative e con la sollecitudine o con l'indifferenza degli altri. Diversi modelli di "Stato sociale" mostrano il limite dei progetti assistenziali certo a causa della scaltra usurpazione da parte di alcuni dei benefici preparati per altre povertà, ma anche e soprattutto perché l'apparato confida nell'efficienza organizzativa e dimentica che l'uomo, prima che un catalogo di bisogni, è un cuore che chiede ascolto.
Ritardare la promozione umana è dunque ritardare la pace. La strategia minimale che si appaga di avari e misurati consensi alle istanze di giustizia e quasi ne teme le rivendicazioni, deve cedere il passo alla radicalità del principio che la promozione dei diritti umani è il criterio fondante della speranza di una pace durevole.

9. - Lo sviluppo della condizione umana sulla terra sta anche mettendo in luce nuove frontiere della giustizia, che scavalcano il tempo e lo spazio e interpellano l'umanità sui diritti delle generazioni future. Ogni generazione consegna all'altra un mondo che a sua volta ha ricevuto: può essere un mondo migliore o peggiore, segnato dalla giustizia e dalla pace o prenotato alla tribolazione e alla sventura. Per questo quanto più crescono la conoscenza e il dominio dell'uomo nei confronti del cosmo, tanto più essi si caricano di responsabilità e di doveri.
La sensibilità per questi problemi, tenuta desta dagli allarmi ecologici, ripropone l'immagine dell'uomo come custode e non dèspota del creato, impegnato a non creare condizioni di vita per il pianeta che risultino irreversibili e immodificabili di fronte alle esigenze e ai rischi del futuro. La violenza alla natura prepara altre violenze.

Pace e solidarietà

10. - La pace è opera della giustizia, e la giustizia è legata all'osservanza della regola. Può accadere però che la legge sia osservata in modo solo astratto e formale, o sia subìta come un tributo alla paura della frusta. L'uomo intende invece il linguaggio della pace quando impara il linguaggio dell'amore, quando si affaccia sulla realtà dell'altro, lo riconosce e lo accoglie nella sua somiglianza e diversità, si fa solidale con lui.
La coscienza e l'esperienza comuni avvertono infatti che l'atteggiamento di pace contiene il senso della prossimità, della fratellanza. Nel loro nome la diversità non ispira diffidenza, ma dilata il dialogo, apre alla scoperta della natura umana nella sua pienezza, accoglie e condivide l'originalità di ogni fisionomia e cultura, arricchisce l'orizzonte della collaborazione. Lo scambio di un gesto d'amore diventa riconoscimento reciproco che rassicura e ridona il senso del proprio valore. Il rifiuto di tale gesto invece fa sentire esclusi e rifiutati, e quando l'essere dell'uomo viene squalificato - da sé o da altri - nasce l'odio. Esso è un veleno piantato nel cuore che mostra un'incredibile capacità riproduttiva e genera la coazione alla vendetta: è il "nemico ereditario" della storia dell'uomo, dei popoli, delle fazioni, dei gruppi ostili. Quanto più l'odio distende le radici, tanto più vi è ostacolo alla pace.
Non solo l'odio tiene l'uomo lontano dai sentieri della pace: c'è anche il nemico, più sottile ma non meno devastante, che si chiama indifferenza. Essa nasce dalla perdita delle radici e del senso di sé e delle cose, e diventa noia, livellamento delle coscienze nel vuoto dei significati, disamore per la vita, trasgressione vissuta senza nemmeno la consapevolezza dei propri motivi, fuga nella realtà "virtuale", talora anche violenza rivolta contro sé stessi mediante la droga, le malattie anoressiche, la sfida assurda del rischio, il brivido dell'autodistruzione. È sotto gli occhi di tutti il costume di vita disumanizzante delle metropoli fatte di "folla solitaria", dove l'indifferenza è eretta a sistema e lo svuotamento dei valori e dei rapporti avviene con la pura forza della suggestione e dell'abitudine.
Una società disintegrata, che non coltiva le ragioni dell'amore alla vita, non può essere una comunità di pace. La tempra dell'uomo costruttore di pace non si manifesta sulla soglia che distingue chi odia da chi è indifferente all'odio, ma su quella che separa chi ama da chi resta indifferente all'amore.

11. - La pace nasce dalla liberazione dall'odio e dal superamento dell'indifferenza, perché ambedue rimandano all'altro un messaggio di squalificazione e impediscono il riconoscimento reciproco. Nello stesso tempo bisogna riconoscere che il conflitto esprime in modo naturale e realistico la non eliminabile presenza di interessi concorrenti o divergenti, anche dotati di una propria razionalità, per quanto parziale.
Ci sono infatti interessi simili, che si trovano a spartire risorse insufficienti per tutti, e affermano simmetricamente il proprio diritto e il proprio bisogno, in concorrenza con l'altro e non necessariamente "contro". Ci sono poi interessi contrapposti che si escludono a vicenda, per cui la soddisfazione degli uni comporta la sconfitta degli altri. La pace quindi non può essere sognata nell'annullamento dei conflitti, ma nella costruzione paziente delle vie per la loro composizione, nella giustizia e nella solidarietà, per evitare che all'interno di questi meccanismi si insinui la dinamica dell'odio e che la percezione del bene e della verità si deformi nell'esclusione dell'"altro", visto come una minaccia potenziale. La realtà dei conflitti chiede un sistema di giustizia che abbia la forza di tenere in equilibrio le rivendicazioni concorrenti o contrapposte, temperandole e convogliandole nella ricerca di soluzioni concordate nel rispetto dell'altro e del metodo democratico. Ma tale sistema rivela a sua volta la necessità di educare coscienze che riconoscano l'antagonista come un uomo dotato di pari diritti e dignità, e sappiano chiedersi se le proprie "giuste pretese" non siano calcolate sulla misura o dismisura del proprio avere attuale e se non siano la contropartita della sottomisura o dell'esclusione di altri al banchetto dei beni della terra.
Né va dimenticato infine il conflitto che nasce dallo scontro ideologico (anche di origine religiosa) e assume forme diverse ma ugualmente insidiose e implacabili. In tal caso la pace non domanda di barattare la verità con una quiete a ogni costo, né di dissiparla nell'equiparazione di ogni opinione soggettiva. L'amore per la verità sa invece distinguere l'errore dall'errante e ha la forza di mantenere l'irriducibilità delle diverse prospettive, senza compromettere la relazione umana, fatta di rispetto e di accoglienza nei confronti di ciascuno.

12. - La pace nasce dal riconoscimento reciproco e si sviluppa nel sentirsi uniti in un vincolo comune, entro un cerchio di relazioni definito e carico di interessamento affettuoso, che inizia dal rapporto familiare e si allarga sempre più fino ad abbracciare l'umanità intera.
La storia insegna come spesso la guerra sia stata scongiurata dallo stringersi di alleanze tra famiglie, gruppi, nazioni, e come la pace sarebbe definitiva se l'umanità trovasse le vie per un'alleanza globale e stabile. Per quanto però la realtà sia oggi diversa, non è comunque vano auspicare che il processo di unificazione umana continui attraverso l'ampliamento dei trattati e delle istanze di governo internazionali, non per imposizione, ma per lo sviluppo libero e condiviso della coscienza di fraternità universale.

Scelte e gesti di pace

13. - L'ascolto attento di quanto risuona nell'invocazione umana alla pace rivela anche alcune scelte e alcuni gesti già concretamente realizzati e visibili, nei quali è possibile riconoscere con gioia i germi di un futuro di speranza. Attorno a questi "semi di pace" sono anche nati movimenti di opinione a favore della pace, che si impegnano su diversi fronti per influenzare le scelte degli Stati e rivelano la loro incisività e credibilità nel riferimento a valori umani universali, non a letture ideologiche o "schierate" dei problemi. È giusto allora richiamare e riconoscere tali percorsi.
a) Il rifiuto della logica delle armi: fa ormai parte della coscienza comune la distinzione fra la violenza, che aggredisce e opprime, e la forza, che difende e soccorre. Così anche l'intervento armato può assumere il volto dell'intervento umanitario, quando più nessun'altra ragione umana si rivela capace di fermare lo sterminio e le atrocità contro gli indifesi. Non è però pensabile che la soluzione dei conflitti possa essere demandata al confronto tra i potenziali bellici messi in campo. In più la corsa agli armamenti continua a rappresentare oggi una delle piaghe più gravi dell'umanità e una delle cause più acute delle povertà nel mondo. Anche per quanto riguarda l'Italia si sa a sufficienza, malgrado i troppi e fitti silenzi, che molte armi impiegate altrove per seminare morte (comprese le micidiali mine-giocattolo che straziano i bambini) recano il marchio di fabbriche italiane. È quindi legittimo e doveroso che nel dibattito democratico siano presenti voci e strategie mirate a far cessare la produzione e il commercio delle armi, perché i loro ricavi grondano sangue.
b) La non-violenza: l'opzione per la pace si fa visibile nello stile di vita personale e di gruppo. Lo stile della non-violenza rivela una singolare capacità di provocazione. L'uomo non violento non distoglie il volto dalla brutalità dell'oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole "nemico" perché altri lo hanno definito come tale.
c) L'obiezione di coscienza al servizio militare: è una scelta che non sottrae alla responsabilità verso il proprio paese e non smentisce il principio della liceità di quel servizio. Essa si propone dunque non come disobbedienza alla legge, ma come obbedienza a una norma superiore, che vincola la coscienza; non nasce dalla semplice ripugnanza per la guerra né dalla volontà di fuggire la complicità e i rimorsi, ma è profezia di valori e di atteggiamenti non manipolabili dalle leggi dell'uomo. La stessa cultura giuridica moderna riconosce ormai in modo generalizzato l'esistenza del diritto soggettivo al rispetto della coscienza e, in numerosi Stati, l'obiezione al servizio militare è regolata per legge attraverso la sostituzione con il servizio civile. Si fa anzi strada un'ulteriore tendenza secondo la quale le ragioni della coscienza non possono essere sottomesse al vaglio di un'autorità amministrativa, per cui la scelta fra servizio militare e civile diventerebbe una pura opzione individuale. Al di là di ogni giudizio sulle scelte giuridiche che potranno essere compiute, l'originario valore di profezia dell'obiezione di coscienza non dev'essere comunque stemperato in una scelta, priva di prezzo, fra pari opportunità giuridiche. Essa deve invece suscitare la ricerca di forme più rigorose di generosità, affinché l'adesione al valore affermato (la pace) si traduca in vita reale (essere operatori di pace). Il significato autentico dell'obiezione infatti si misura sulla condotta effettiva dell'obiettore: un servizio civile offerto coscienziosamente in risposta generosa e sincera a bisogni umani reali, si propone come stile di vita che annuncia e costruisce la pace.
d) La cooperazione internazionale: si articola e si sviluppa nei rapporti fra le istituzioni mondiali, ma conosce pure la fecondità delle realizzazioni promosse dal volontariato organizzato o individuale e da esperienze del genere "non profit", quali le "banche etiche", il "commercio equo e solidale", ecc. Spesso anzi proprio le "organizzazioni non governative" raggiungono gli avamposti dove i soccorsi ufficiali non arrivano (magari perché prosciugati o dirottati strada facendo), dove "uomini senza frontiere" accostano direttamente il dolore e il bisogno, impegnando la vita per amore e non per calcolo. La cooperazione internazionale è seme di pace, perché restituisce visibilità all'appartenenza all'unica famiglia umana, scioglie la diffidenza e il timore reciproci, sostituisce la rapina con il dono.

PARTE SECONDA

CON IL DONO DELLA PACE CHE VIENE DA DIO

14. - I cristiani sanno di dover condividere con ogni uomo e ogni donna di questa terra la speranza per la pace che cresce e la responsabilità per gli ostacoli che essa incontra. Essi però sanno anche di aver ricevuto un messaggio capace di illuminare e sostenere il cammino dell'umanità e di essere quindi chiamati a testimoniarlo e a condividerlo, perché contribuisca a far fruttificare la speranza e l'impegno.
Il messaggio evangelico sulla pace infatti va incontro alla domanda dell'uomo, il quale - nell'apparente irraggiungibilità di una mèta tanto sognata - è tentato di vedere e gridare una sorta di imperfezione di sé e del cosmo, che sembra condannare all'assurdità le attese più profonde. Tale messaggio infatti rivela la fonte ultima di ogni possibilità di pace nell'amore di Dio Padre, che "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16). Per chi crede in Gesù di Nazaret, la sua croce e la sua resurrezione sono la promessa, la via, il compimento della pace, già operanti nel cuore della storia, anche se non ancora nella pienezza dei frutti.

La pace: continua offerta di Dio nella storia dell'uomo

15. - Nel racconto biblico della Genesi, i giorni della creazione sono scanditi dalle parole: "E Dio vide che era cosa buona" (Gen 1,4ss). Il cosmo dunque è uscito buono dalle mani di Dio. La pace - come assenza di morte e pienezza di vita, di bontà, di armonia (shalom) - è un costitutivo essenziale del mondo così come è uscito dalle mani del suo Creatore. Nello stesso tempo Dio ha deciso di affidare all'uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, la responsabilità di coltivare e custodire il giardino del mondo; gli ha chiesto pure di accogliere questo compito come una libertà ricevuta in dono, non come spazio di chiusa autosufficienza (cf. Gen 2,15-17).
L'uomo aveva però - e ha costitutivamente - il potere di accettare o rifiutare il disegno di Dio e la sua risposta è stata negativa. Così il peccato delle origini ha scatenato il conflitto nei rapporti umani, nei confronti di Dio e del creato (cf. Gen 3). Caino uccide il fratello Abele (cf. Gen 4,1-16) e nella prima città si innalza il canto sinistro di Lamech "Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette" (Gen 4,23-24). La violenza e la divisione si estesero poi al punto che troviamo scritto: "Il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra" (Gen 6,6) e decise di mandare il diluvio. Ma Dio è Dio della vita e non della morte: quando il mondo, con il piccolo nucleo dei salvati, riemerse dall'abisso delle acque, l'amore infinito di Dio tracciò nel cielo l'arcobaleno, promessa di un nuovo e definitivo patto di pace (cf. Gen 9,12-17).
Così tutta la storia della salvezza, testimoniata dalla rivelazione biblica, è la storia dell'appassionata ri-offerta all'uomo della possibilità e della responsabilità di aderire al "regno di Dio", cioè al progetto di costruire la storia umana come storia di pace. La chiamata di Abramo, promessa di benedizione per tutte le genti (cf. Gen 12,1-3), è l'avvio di questo cammino. La liberazione di un popolo di schiavi - con l'offerta di un patto d'amore e con la proposta di una legge che temperasse l'istinto della violenza - è il gesto decisivo e rivelatore di una via ormai aperta (cf. Es 3,7-12; 21,23-25).
L'annuncio profetico del Messia attraversa tutta la storia di Israele come una promessa di pace (cf. Is 11,1-9) e culmina nella figura del Servo di Jahweh, che prende su di sé la violenza dei propri carnefici e li redime (cf. Is 52,13-53,12). Alla coscienza scoraggiante dei fallimenti umani, è offerta la promessa del dono di un "cuore nuovo", che cambi dall'interno i passi e le vie dell'uomo (cf. Ez 11,19; Sal 51,12).

La pace: dono di Dio in Cristo crocifisso e risorto

16. - Il dono divino della pace culmina nella persona, nell'insegnamento e nella vicenda di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, l'uomo nuovo che può dare al mondo una pace diversa da quella che il mondo stesso pensa di offrire e che risulta impossibile senza la conversione del cuore (cf. Gv 14,27). Infatti la pace offerta da Cristo è il frutto della sua decisione, libera e amorosa, di dare la vita sino al termine estremo della morte di croce, accompagnata dal perdono per i crocifissori: "Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia... per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia" (Ef 2,14-16). Chi opera in questo modo non è lo sconfitto, ma il vincente, perché Dio garantisce per lui. La risurrezione di Cristo infatti è la conferma della fedeltà di Dio e il primo saluto del Crocifisso-Risorto ai discepoli diventa il nucleo stesso del messaggio evangelico: "Pace a voi!" (Gv 20,19).
Ogni giorno, di fronte alle sconfitte che la pace conosce anzitutto nella vita personale di ciascuno, possiamo lanciare verso il cielo la domanda, che anche Paolo di Tarso ha sperimentato: "Io non riesco a capire neppure ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto... Sono uno sventurato. Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?" (Rm 7,15.24).. Di fronte all'annuncio di Cristo risorto però possiamo anche sperare nella possibilità che la nostra domanda non si perda in un cielo vuoto, ma incontri un dono e divenga grido di riconoscenza: "Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!" (Rm 7,25). Se il sangue di Abele continua a gridare dalla terra le sconfitte generate dall'odio, il sangue di Cristo, "dalla voce più eloquente di quello di Abele" (Eb 12,24), grida più forte la speranza di pace.

La pace: dono di Dio affidato all'invocazione dell'uomo e alle sue mani

17. - La pace del Signore Gesù Cristo ci è già donata, ma l'uomo ha il potere tremendo di respingere il dono e il seme, per quanto rigoglioso, deve conoscere i tempi lunghi e incerti della fioritura, prima che si possa mietere la spiga (cf. Mc 4,26-29). L'attesa umana della pace allora si colloca al crocevia fra l'invocazione alla grazia divina che cambia il cuore e il proposito di non rinnegare il compito affidato da Dio alla nostra libertà, alla nostra sapienza, alla nostra generosità.
Perciò il discepolo di Cristo deve fare propria con decisione la logica della croce, cioè la logica del dono di sé e non del dominio e del possesso (cf. Mc 10,32-45); e in tale cammino scopre una giustizia "nuova" e "superiore", che trasforma radicalmente le dinamiche di ogni rapporto umano, fino a chiedere forme d'amore inattese e impensabili (cf. Mt 5,20-48). Di conseguenza l'impegno a edificare la pace diventa testimonianza resa all'amore di Dio (cf. Mt 5,9), perché si alimenta al distacco dall'ansia dell'avere, proprio di chi si sa affidato all'amore del Padre (cf. Lc 12,22-32) ed è quindi capace di condivisione fraterna (cf. 1 Gv 3,16-18). La fatica quotidiana della riconciliazione nell'unità, diventa segno offerto al mondo, perché possa credere che Cristo è venuto (cf. Gv 17,20-21).

La pace: dono di Dio offerto nella speranza

18. - La croce di Cristo ci pone in cuore la fiducia che il regno di Dio già opera come lievito nella storia e che alla fine ci saranno "un nuovo cielo e una nuova terra" (Ap 21,1), nei quali giustizia e pace regneranno e ogni lacrima sarà asciugata. Ma tutto ci è donato nella forma del "già e non ancora". È quindi nostro compito rendere ragione di fronte alla storia della speranza che è in noi (cf. 1 Pt 3,13) e assumere la fatica fiduciosa di orientare tale storia al suo traguardo, contro ogni pronostico disperato e con la consapevolezza che fino all'ultimo le tracce del male renderanno la pace incompiuta.
Tale impegno coinvolge i gesti e i pensieri della vita quotidiana, nei suoi aspetti più semplici e in quelli più alti, per cui coloro che lo assumono devono mettere in conto il rischio di trovarsi "come pecore in mezzo ai lupi" (Mt 10,16), di suscitare divisioni, di offrire pace e di ricevere rifiuto, ostilità, persecuzione e morte (cf. Mt 10,1-25). Ma, come Cristo risorto, i discepoli continueranno portare al mondo il saluto di pace (cf. Mt 10,12s), a dire con efficacia: "Pace a voi" (1 Pt 5,14), così che la pace augurata diventi dono maturo.

La pace: dono di Dio e frutto del perdono

19. - L'ascolto dell'invocazione umana alla pace e della risposta che ad essa offre l'amore di Dio conduce alla soglia di una parola grande e tremenda: il perdono. Esso è desiderio di un abbraccio che rigenera e domanda di riparazione e riconciliazione; non distrugge la memoria di ciò che è accaduto, ma proprio perché non dimentica, può misurare per intero l'irreparabilità del dolore e della violenza e compiere il miracolo dell'andare oltre. L'uomo che tenta di chiedere o di dare il perdono sa che nessuno ha forza e vita bastanti per compensare il male inflitto o subìto, ma riconosce che anche un solo ultimo respiro può bastare a strappare il peso dal cuore e a tentare un nuovo azzardo d'amore.
La via del perdono rimane comunque una via che appare talora assurda per l'uomo, e lo sarebbe se fosse affidata soltanto alle sue forze. Il perdono invece corrisponde sì a una delle aspirazioni umane più profonde, ma è anzitutto dono e grazia da accogliere, perché è attributo dell'amore di Dio. Dio infatti perdona perché sua è l'onnipotenza dell'amore che crea ogni cosa e, sola, può ri-fare il cuore traviato dell'uomo. Gesù di Nazaret manifesta tale onnipotenza perdonando il peccato nel gesto stesso di guarire il male fisico dell'uomo (cf. Mc 2,1-12), perché ha riscattato personalmente ogni male e ogni crudeltà, morendo per amore sulla croce.
Non si può dunque annunciare al modo la pace se non si annuncia il perdono. Il nostro perdonare è partecipazione al perdono di Dio: a Lui lo chiediamo con la preghiera del "Padre nostro"; da Lui lo riceviamo per le nostre colpe e lo impariamo giorno per giorno vivendo gesti umili e concreti di riconciliazione, di giustizia, di solidarietà e di misericordia; nel suo nome lo doniamo, per rinnovare il miracolo di una nuova creazione che cancella l'inimicizia nel mondo. Sul canto sinistro di Lamech, che prometteva settanta volte sette vendetta, si impone il comando di Cristo di offrire settanta volte sette il perdono (cf. Mt 18,21s).

PARTE TERZA
PER UN PROGETTO CONDIVISO DI EDUCAZIONE ALLA PACE

20. - L'invocazione di pace che sale dalla terra chiede di essere tradotta in coerenza di vita; il dono della pace che viene dall'alto attende di essere accolto e custodito. La via da percorrere è quella dell'educazione alla pace, perché su questa via la pace diventa possibile.
Ci si può chiedere, talvolta con scetticismo, se i tempi siano maturi per tale progetto, ma per chi ha cuore e occhi trasparenti i segni della speranza sono visibili nella nostra storia e il "vangelo della pace", che abbiamo condiviso, apre vie nuove e insospettate a chi si lascia raggiungere da Cristo, a ogni uomo e donna di buona volontà. È dunque possibile, ed è necessario, che l'educazione alla pace diventi una scelta decisa.
Ora si può "imparare la pace" anzitutto esercitandosi a praticarla ogni giorno, all'interno di ogni relazione e in ogni àmbito di vita. L'educazione alla pace però si propone pure come processo esplicito, intenzionale e permanente, che prevede spazi di ricerca, di elaborazione e di esperienza organicamente strutturati all'interno dell'itinerario educativo globale. Ci sono poi contesti umani (la famiglia, la scuola...) che sono per natura ordinati allo sviluppo libero e responsabile della persona umana, e quindi a far crescere uomini e donne di pace, con una proposta educativa continua e consapevole.
L'educazione alla pace deve quindi anche tradursi in un progetto formale, che determini gli obiettivi e le condizioni per il loro raggiungimento, individui i soggetti da chiamare in causa e i percorsi da compiere. Tale progetto deve però nascere come esito condiviso di un confronto libero e sereno, nel quale le diverse opzioni culturali vengono sinceramente vissute e offerte come contributi alla crescita comune e non come motivi di contrapposizione. Per questo sembra utile definire qui alcune linee essenziali, rimandando ad altri àmbiti e ad altre competenze l'individuazione di itinerari più precisi e specifici.

Il contesto sociale dell'educazione alla pace

21. - Un progetto di educazione alla pace richiede un contesto sociale che offra le condizioni necessarie per un'esperienza quotidiana di relazioni costruttive e per una proposta educativa non resa vana dalle circostanze nelle quali si compie. In continuità con il precedente documento Educare alla legalità quindi, si vede necessario mettere a fuoco l'esigenza di promuovere un'adeguata cultura della regola, al di là di ogni prospettiva puramente formale. L'illegalità infatti è nemica della pace e ogni giorno verifichiamo i frutti amari di questa realtà, specialmente quando essa diventa organizzazione e logica di vita, propone modelli esistenziali di sopraffazione e di facile arricchimento, destabilizza con il terrore e il sospetto il tessuto delle relazioni sociali, inquina i processi della politica e dell'economia.
La cultura della regola (o della legalità) diventa invece via di educazione alla pace anzitutto e normalmente attraverso la prevenzione, ma anche proponendo vie di riconciliazione là dove le contese già insorte chiedono una soluzione pacificante e non soltanto tecnica. In questa linea il mondo della legge ha introdotto la figura del giudice di pace, che dovrà comunque esprimere sempre meglio il volto del compositore dei conflitti, non l'immagine tradizionale di chi alla fine sentenzia in forza della legge. Per quanto riguarda invece il processo penale va incoraggiata la ricerca di "mediazioni" che - accanto alla specifica dinamica processuale e punitiva, nella quale non c'è spazio per la composizione - pongano attenzione al tema della riparazione, non per risarcire perdite inguaribili, ma per stabilire uno spazio di incontro e di possibile pacificazione fra il reo e la sua vittima. Lo stesso fenomeno del "pentitismo" dovrà sempre meglio configurarsi dentro questo orizzonte, al quale concorre in modo determinante anche la proposta evangelica del perdono.
In ogni caso ciò che passa per le aule dei tribunali è pur sempre una parte minima della conflittualità già esplosa e che attende riconciliazione. Per questo vanno sostenuti gli organismi di mediazione (consultori familiari, altre iniziative di volontariato per l'"ascolto", alle quali può contribuire anche la comunità ecclesiale), che aiutino i cittadini a sanare le fratture e a evitare il senso della sconfitta che diventa voglia di rivalsa. Infatti quando un equilibrio infranto si ricompone per una scelta non subìta ma condivisa, un reale esercizio di pace si è compiuto.

22. - Un secondo aspetto da considerare è lo sviluppo di una cultura politica che sia supporto autentico all'educazione alla pace. La competizione anche dura è parte integrante del gioco politico, ed è anzi garanzia della democraticità del sistema. Quando però la competizione non si colloca sul piano del confronto democratico fra progettualità diverse e assume le forme dell'aggressione personale e della contrapposizione preconcetta e senza scambi fra blocchi, o quando diventa l'arena di singoli protagonismi o di interessi di parte, allora la politica degenera e i cittadini non possono che smarrire il senso dello Stato e delle sue finalità. Se quindi le recenti vicende della politica italiana hanno inferto un duro colpo alle connivenze fondate sullo scambio di favori, va ora incoraggiato ogni sforzo destinato a far ritrovare alla politica il suo profilo alto, che significa capacità autentica di governare democraticamente lo sviluppo del Paese, in spirito di servizio nei confronti del bene comune e nel contesto di una globalizzazione sempre più ampia dei problemi e dei rapporti.
Ci sono in particolare due àmbiti nei quali la cultura e la prassi della politica devono oggi mostrare la propria capacità di essere strumenti di educazione alla pace. Il primo riguarda lo sviluppo effettivo della partecipazione, attraverso la definizione di un sistema compiuto di autonomie, che faccia arretrare lo stato dall'invasione burocratica della società civile e riapra la "vicinanza" e la corresponsabili fra cittadini e istituzioni. La seconda riguarda la capacità di comporre le autonomie in un quadro unitario di responsabilità e di solidarietà, che garantisca in tutto lo Stato eque opportunità di sviluppo e non abbandoni i rapporti reciproci alle spinte egoistiche locali o di gruppo. Una comunità di pace infatti è una comunità di uomini liberi e responsabili, capaci di costruire insieme rapporti di condivisione e di scambio.

23. - Una terza condizione per l'educazione alla pace è lo stabilirsi di un contesto caratterizzato da un'economia per l'uomo e per la comunità. Anche l'economia infatti è una realtà strutturalmente conflittuale, perché si trova a soddisfare bisogni molteplici con risorse sempre limitate e perché la distribuzione dei beni è talora inestricabilmente legata a rapporti di forza. Già la precedente riflessione su Stato sociale ed educazione alla socialità aveva messo in luce che molti conflitti sociali nascono proprio dallo squilibrio nell'accesso ai beni della terra e possono essere affrontati solo con la rimozione delle ingiustizie, a livello mondiale e locale. Il problema però si pone dentro a ogni uomo, quando l'avere è vissuto come segno di successo e di autoaffermazione; quando il rifiuto della condivisione viene giustificato con il "merito" di chi ha accumulato beni con la propria intraprendenza, anche se la bilancia del merito è spesso truccata da condizioni di partenza disperatamente diseguali; quando la legittima soddisfazione dei bisogni personali viene sopraffatta dalla bramosia dilagante che diventa rapina e sfruttamento sistematici.
Esiste quindi un nesso profondo fra la pace e la "questione sociale" della giusta distribuzione dei beni, secondo criteri dinamici di valutazione, che tengano conto dello sviluppo tipicamente umano dei bisogni, ma anche delle condizioni di reciprocità del loro soddisfacimento, in un contesto di effettiva condivisione fraterna, che riceve forza dalla scoperta della paternità universale di Dio. Inoltre una sapiente politica economica, orientata alla pace sociale, non può accontentarsi di moltiplicare i beni materiali, ma deve contribuire all'innalzamento generalizzato della qualità della vita, al rispetto dell'ambiente e alla diffusione dei beni spirituali, che salvano dalla tristezza del consumo diventato costrizione priva di senso umano.
Una particolare attenzione va riservata al tema del lavoro, che si rivela sorgente continua di conflitti e postula il confluire delle rivendicazioni contrapposte in un "patto" condiviso. Appare dunque provvida la rete di regole dettate direttamente dallo Stato a tutela di diritti non negoziabili che toccano l'integrità e la dignità della persona che lavora (rifiuto delle discriminazioni, difesa della salute, libertà sindacale...). Al di là di tale rete però si pone il campo della contrattazione collettiva, nel quale si definiscono altre regole di condotta, non imposte dall'alto ma generate dal consenso. Educare alla pace quindi significa maturare la coscienza che lo strumento della contrattazione deve servire a fondere interessi divergenti in un obiettivo comune; a stipulare accordi che non dimentichino o cancellino le giuste rivendicazioni di altri settori, magari troppo deboli per farsi sentire, come quello dei senza-lavoro. Il controllo dell'asprezza del conflitto e del suo dilagare sociale, chiede pure che vengano utilizzati metodi di lotta adeguati al fine, senza che improvvise negazioni di servizi essenziali si ritorcano contro la comunità invece che diventare mezzo di pressione sulla reale controparte.

24. - Ma c'è un'ultima condizione, che oggi si rivela assolutamente necessaria per educare alla pace, ed è la comunicazione, intesa non semplicemente come gestione di mezzi informativi, ma come via privilegiata alla fraterna messa in comune dei pensieri, dei sentimenti, delle ragioni di vita, in un incontro libero dall'inganno e dalla violenza.
Esistono infatti conflitti interpersonali, generazionali e sociali che derivano o sono resi più acuti da una comunicazione mancante o scorretta, per cui diventa necessario approfondire e stabilire concretamente il rapporto fra educazione alla pace e comunicazione. Tale rapporto va anzitutto definito sul piano personale e interpersonale, quando la comunicazione innesca una ricerca continuamente sollecitata dalla più profonda istanza veritativa, che non prescinde dalla domanda sull'Assoluto; favorisce la formazione di convinzioni e atteggiamenti responsabili, liberi e coscienti; permette la condivisione e l'interscambio di valori comuni in base ai quali costruire la convivenza, a partire dalle comunità originarie; assicura il riconoscimento effettivo dei diritti della persona e l'educazione a viverli in modo solidale e non contrappositivo.
Sul piano invece dell'organizzazione e della gestione dei mezzi, la comunicazione educa alla pace quando offre conoscenze che garantiscano alla persona di crescere in dignità e di non essere ingannata su se stessa e sul mondo; rende possibile un'effettiva integrazione tra persone e comunità, in un contesto ormai definito di globalizzazione integrale del mondo; consente agli utenti di non essere fruitori passivi e deresponsabilizzati, ma li stimola ad essere artefici e protagonisti di cultura nella propria comunità.
C'è una comunicazione che educa alla partecipazione e quindi alla pace, perché la partecipazione induce alla condivisione e alla corresponsabilità, genera democrazia. C'è invece un circolo di informazioni nel quale troppi uomini non sanno e troppo pochi sanno e determinano ciò che gli altri devono sapere; ma esso serve soltanto a consolidare emarginazioni e sopraffazioni che minano alla radice ogni reale possibilità di pace.

Obiettivi per un progetto di educazione alla pace

25. - L'articolazione di un organico progetto di educazione alla pace chiede la definizione formale di un insieme coerente di obiettivi, che si presenti strategicamente organizzato e si traduca poi in percorsi più propriamente culturali, pedagogici e didattici, da elaborare in altre sedi. È qui sufficiente offrire alcune indicazioni essenziali, e la prima riguarda l'obiettivo del dialogo, con tutto ciò che esso comporta.
A tale proposito occorre anzitutto denunciare i limiti di una tolleranza di matrice illuministico-borghese, che presuppone un soggetto umano individuale così sicuro di sè da poter "portare" (o sop-portare) l'altro e il diverso "anche se" diverso, con magnanimità e distacco. Nella prospettiva invece di una soggettività in relazione (alla quale concorre anche il volto di Dio-Trinità e il continuo definirsi di Gesù di Nazaret in relazione al Padre), l'altro diventa un elemento di costruzione dell'identità individuale, "perchè" diverso, in quanto la sua diversità apre e arricchisce. Così perdono di significato i razzismi e le esclusioni di ogni tipo e maturano possibilità di pace in una convivenza effettivamente interetnica, interculturale, interreligiosa.

26. - Un altro obiettivo dell'educazione alla pace è individuabile nel "circolo virtuoso" che deve stabilirsi fra sobrietà e solidarietà, allo scopo di ridurre i conflitti che si generano nell'accedere al banchetto dei beni della terra. Infatti la globalizzazione e l'interdipendenza dei problemi economici ed ecologici fanno sì che ogni scelta personale abbia ripercussioni molto ampie e si traduca spesso in un aggravio di peso sulle spalle di chi è meno fortunato. Di conseguenza educare alla sobrietà nell'uso dei beni (evitando sia l'accumulo che lo spreco) diventa condizione per una più giusta distribuzione degli stessi, per oggi e per domani, e colloca la solidarietà in una prospettiva di giustizia e non di elemosina.

27. - Un'ultima indicazione può essere data circa l'obbiettivo dell'educazione alla gestione dei conflitti. Essi infatti sono un'esperienza ineliminabile del rapporto interpersonale e sociale, e la loro presenza esige che le persone maturino atteggiamenti, convinzioni e strumenti per vivere dentro la tensione in modo non distruttivo. A questo proposito sembra opportuno segnalare due percorsi. Il primo riguarda la consapevolezza dei diritti e dei doveri, che genera rapporti paritari, non permette di sbilanciare le attese soltanto sui bisogni individuali, impone che ciascuno faccia la propria parte e apre a istanze più alte, come quella del perdono. Il secondo si riferisce all'assunzione competente e responsabile del metodo democratico, in base al quale i conflitti vengono risolti non semplicemente con la forza dei numeri, ma con l'accettazione sincera e consapevole di una regola che cerca di garantire il maggior bene possibile per il maggior numero possibile di persone.

Luoghi e soggetti dell'educazione alla pace

28. - In un progetto di educazione alla pace emerge in primo luogo e con forza la responsabilità della famiglia, modulo primo e naturale della vita, cellula e paradigma della convivenza sociale. In essa l'educazione alla pace inizia con l'esperienza del "prendersi cura" della diversità di ciascuno rispetto all'altro. Ciò accade anzitutto nella relazione coniugale, quando le inevitabili ferite reciproche - tanto più crudeli perché inferte in un contesto di "prossimità" intensamente voluto - vengono riconosciute sinceramente e lenite nell'esercizio quotidiano della comprensione, della riconciliazione, del perdono.
Il percorso di accoglienza reciproca e di continua riconciliazione della coppia, ha anche il potere di ripercuotersi positivamente sui figli, per sé esposti ai traumi derivanti dalle tensioni dei genitori e talora al rischio di essere usati come "ostaggi" o oggetti di ricatto nella contesa. Nel contesto del "prendersi cura" dell'altro va però inserito anche il tema dell'accoglienza della vita, di fronte al fenomeno inquietante della denatalità che si manifesta in Italia. Tale fenomeno infatti è contrario alla cultura di pace perché spesso è segno di un conflitto fra la responsabilità verso una nuova vita e la conservazione della libertà e del benessere personali; e perché riduce le possibilità di sperimentare l'"essere fratelli" nel suo contesto primario e naturale.
L'educazione alla pace in famiglia si sviluppa poi nel modo di vivere le relazioni e i conflitti generazionali, tra genitori e figli, superando da una parte l'autoritarismo che impone senza motivare e dall'altra la tentazione di liquidare facilmente la saggezza maturata dall'esperienza di vita. Per questo occorre definire regole semplici e condivise di vita familiare, dove ciascuno possa conoscere e sperimentare diritti e doveri; e soprattutto occorre stabilire un dialogo che affronti i temi forti della vita, superando l'impaccio delle differenze in un clima fatto di accoglienza, ascolto, rispetto e amore donati senza riserva. In tale clima si rivela particolarmente il "genio" femminile dell'educare alla pace, perché la contiguità della relazione educativa con quella connessa al dono della vita (fin da quando essa è custodita nel grembo) può fondare un rapporto che porta in sé l'offerta e la certezza dell'essere accolti e amati.
Infine, la famiglia educa alla pace quando rifiuta ogni chiusura egoistica, in nome della propria quiete, e diventa luogo nel quale trovano risonanza, ascolto e risposta le sofferenze e le attese del mondo, con la collaborazione di tutti i membri. Ciò comporta scelte quali la determinazione del livello di benessere familiare con attenzione ai bisogni altrui e non solo al calcolo delle risorse possedute; la disponibilità a mantenere nell'àmbito familiare i membri che hanno bisogno di cure particolari e di aprire la casa a forme di affido, di adozione o simili; la capacità di assumere responsabilità negli spazi di partecipazione civile ed ecclesiale, particolarmente in quelli che richiedono l'esperienza di coppia o di genitori (scuola, consultori matrimoniali, ecc.). Ovviamente, perché la famiglia possa far fronte alle proprie responsabilità verso la vita e verso l'educazione, occorre anche una politica familiare che risponda all'esigenza di conciliare il lavoro con la maternità e le cure parentali; e che ponga le condizioni per un effettivo esercizio del diritto alla casa, alla salute, al lavoro e alla libertà educativa, anche in riferimento alla scelta scolastica.

29. - Accanto alla famiglia, un progetto di educazione alla pace chiede il coinvolgimento della scuola. Infatti, in un contesto di corretta sussidiarietà, la scuola si affianca alla responsabilità primaria della famiglia per proseguire l'educazione alla pace, attraverso un intervento pedagogico che ha al suo centro l'esperienza culturale. Tale compito (dal quale non va ritenuto assente il mondo universitario, pur con la specificità che lo caratterizza) riguarda anzitutto i modi concreti nei quali sono vissute le relazioni scolastiche e nei quali la scuola si inserisce nel più ampio contesto sociale, coinvolgendo i diversi soggetti in una prospettiva di "comunità educante". Si può allora "imparare la pace" a scuola, vivendo processi effettivi di partecipazione, democrazia e responsabilità nel lavoro, nel rispetto dei diversi ruoli e competenze; prendendosi cura di chi è più debole ed evitando che l'apprendimento diventi puro spazio di competizione per il successo personale e quindi radice di conflitti, invece che strumento di relazione e di aiuto reciproco.
In secondo luogo la scuola risponde al progetto di educazione alla pace con l'offerta di un "sapere per la vita", identificato nell'apprendimento dei percorsi cognitivi-valutativi e delle conoscenze che rendono possibile il distacco critico e l'autonomia personale, senza dei quali non ci sono libertà e responsabilità, e neppure cultura di pace. Ciò non significa ovviamente che il tema della pace debba configurarsi come contenuto di una particolare disciplina scolastica. È invece necessario che nella didattica e nei contenuti dei diversi saperi siano fatti emergere esperienze comunicative, quadri di riferimento e significati valoriali che possono dar vita a un'organica cultura di pace. Nella programmazione di particolari saperi poi si potranno prevedere utilmente alcune unità didattiche finalizzate ad esplicitare organicamente il tema della pace nel contesto della ricerca storica, letteraria, religiosa, filosofica, economica, geografica, ecc.

30. - L'educazione alla pace costituisce però un itinerario di formazione permanente, che deve coinvolgere tutte le esperienze nelle quali si realizza lo sviluppo integrale della persona umana, valorizzando anche dimensioni interiori e "gratuite", quali la contemplazione, la creazione e ri-creazione estetica, la riflessione sapienziale, e non solo ciò che riguarda gli aspetti sociali del conflitto.
Per questo un progetto di educazione alla pace interessa il vasto e complesso mondo dell'associazionismo, nel quale le persone di ogni età si raccolgono spontaneamente per rispondere al bisogno di continua crescita personale, di comunicazione e di socializzazione, di cultura, di esperienza religiosa, di sport e tempo libero, ecc.; o per mettere a disposizione competenze ed energie in varie forme e organizzazioni di volontariato sociale e di impegno civile, sindacale e politico. Anche tali aggregazioni infatti possono offrire percorsi esperienziali, animati dai valori che fanno crescere le possibilità di pace ad ogni livello.

Comunità cristiana e educazione alla pace

31. - La comunità cristiana si riconosce come un popolo di fratelli e di sorelle riconciliati per grazia dall'amore di Dio, nonostante le continue resistenze e cadute, attraverso la morte e la resurrezione di Cristo e con l'opera incessante dello Spirito di carità e verità. Essa quindi risponde all'invocazione umana di pace anzitutto accogliendo e celebrando nella storia il mistero della pace che viene dall'alto, e sottoponendosi alla sua potenza rinnovatrice per rendergli testimonianza davanti a tutti.
I segni di questo cammino sono dunque l'ascolto della Parola, che convoca l'umanità attorno allo svelarsi del progetto di Dio; la partecipazione, soprattutto domenicale, al banchetto del Corpo e del Sangue di Colui che ha dato se stesso per riconciliare i dispersi; la gioiosa esperienza del perdono del Padre, reso presente nel sacramento della riconciliazione; l'appartenenza a una comunità che vive, custodisce e manifesta - anche se con mezzi e gesti poveri e compromessi - una comunione che è partecipazione alla vita stessa di Dio e si apre a una fraternità senza confini; la possibilità di posare sul mondo uno sguardo che riconosce in ogni "ultimo" la presenza di Colui che si è fatto servo di tutti per amore, e quindi di offrire gesti di carità che diventano annuncio e svelamento del volto di Dio, perchè solo a Lui sia resa gloria.
L'esperienza del dono divino della riconciliazione, accolto e testimoniato, diventa per la Chiesa possibilità concreta di uno stile di vita che educa alla pace.
a) Il dono della pace va chiesto con insistenza nella preghiera e va accolto in modo particolare nella liturgia, dove Dio attualizza il suo fare grazia. È quindi importante valorizzare i segni liturgici che esprimono e fanno sperimentare il dono e l'impegno della pace, in particolare nella sequenza penitenziale di gesti di riconciliazione che preparano alla celebrazione sacramentale del perdono di Dio e da essa promanano. Il tema della pace poi, con le sue valenze di fede, trova il suo spazio naturale nei momenti formativi della vita comunitaria, nelle occasioni che convocano tutto il popolo di Dio (come la celebrazione della Giornata mondiale della pace), nelle esperienze di catechesi per ogni età e condizione, negli itinerari di formazione propri di gruppi, associazioni e movimenti ecclesiali, nelle "scuole di pace" promosse dalla comunità ecclesiale.
b) Le comunità cristiane sono chiamate a una costante attenzione verso i problemi della pace nel mondo, con un duplice obbiettivo: operare su di essi un discernimento sapienziale di fede, dal quale derivino motivi di conversione e di impegno; e esprimere nei loro confronti prese di posizione e gesti di partecipazione visibili e coerenti, anche incoraggiando scelte generose come quelle della non violenza, dell'obiezione di coscienza, dell'autotassazione a vantaggio dei poveri ecc. Questo impegno, che ha la sua sede naturale nei Consigli pastorali parrocchiali e diocesani, chiede la valorizzazione delle competenze dei laici cristiani e delle aggregazioni laicali ecclesiali e un dialogo fiducioso e collaborativo con i movimenti e le organizzazioni a favore della pace che operano nella società civile.
c) Nella comunità cristiana si incontrano gruppi e persone che interpretano in modi diversi il cammino di fede e il rapporto con il mondo; non di rado tale diversità diventa motivo di dubbi incrociati e di scarsa collaborazione, rischiando anche di rendere meno efficace la testimonianza della comunione. Lo stile di pace esige allora che ogni posizione accetti di subordinarsi

Pubblicato in Dossier Pace

L'esperienza vissuta a contatto con persone immigrate in un Centro di ascolto della Caritas di Roma, nell'ostello, ma anche in servizi sociali pubblici, nel mondo del lavoro, in paesi dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina nella cooperazione o in missioni operative di ONG, ha sollecitato un gruppo di persone a riflettere su questi temi, sulle contraddizioni che caratterizzano la società e a voler fare qualcosa per promuovere i diritti umani, i valori della solidarietà della giustizia e della pace, per vivere la città con persone immigrate in modo creativo e solidale.

Pubblicato in Dossier Multicultura
Etichettato sotto

Quei bambini, che non possono disegnare
la riga del cielo e della terra
di Ettore Masina

Non c'è niente di peggio per i poveri (i "dannati della Terra come li chiamava lo psichiatra francese Franz Fanon) che essere condannati al ruolo di astrazioni: cifre e non persone doloranti, talvolta sino allo spasimo, problemi da risolvere con scelte politiche ed economiche invece che padri, madri, figli, nonni, case distrutte, patrie abbandonate in seguito a minac­ce terrorizzanti, violenze, talvolta torture; e fame e freddo e disperazione, e necessità assoluta di attenzione e di tenerezza. Le statistiche possono essere esaminate con un minimo di pietà; e quanto più rivelano tragedie immani, tanto più finiscono per essere messe in conto dell'utopia: c'è bisogno di un governo mondiale, di imponenti esborsi da parte dei cosiddetti Paesi del benes­sere. Ma un governo mondiale non c'è, le potenze imperiali non pagano all'Onu se non quote infinitesimali, i governi dei Paesi sviluppati tagliano progressivamente gli aiuti allo sviluppo. A cominciare dall'Italia, che ormai è in testa alla classifica dell'egoismo internazionale.

I profughi nel mondo sono circa 22 milioni e già in quel "circa" c'è una condanna all'insignificanza. Se si mettessero a gridare o anche a piangere tutti insieme, nelle nostre strade, non potremmo lavorare, ridere, portare a scuola i bambini, scrivere poesie e tanto meno dormire. Ventidue milioni di bocche sarebbero un coro da apocalisse. Ma i campi dei profughi, quando ci sono, sono ben lontani dalle nostre città, nei terreni più aridi che nessuno coltiva, nelle periferie più misere, dove confinano con le discariche, nelle aree flagellate da insetti, su altipiani in cui gli aiuti arrivano a stento, quando arrivano; in zone in cui sono ancora attivi campi minati o in cui penetrano facilmente i persecutori.

Milioni di bambini nascono, crescono, diventano adulti, se ci riescono, dentro i recinti di baraccamenti che avrebbero dovuto essere provvisori e hanno ormai mezzo secolo e più. Fanno parte di quei 50 milioni di piccoli che, secondo l'ultimo rapporto dell'Unicef, risultano invisibili ai governi ma anche a noi. Piccini venduti, trattati come piccole bestie da soma o da piacere, insidiati, mutilati della propria infanzia... Pensavo a queste cose, giorni fa, visitando una mostra di disegni dei bambini dei campi profughi palestinesi nel Libano. Mia moglie mi ha fatto notare un elemento inquietante: la maggior parte di quei disegni non aveva la linea di base, del terreno. Ne ho parlato con quel grande pedagogo che è il vecchio ma ancora lucidissimo Mario Lodi, che mi ha risposto con accenti di profonda pietà. Tutti i bambini, di tutti i Paesi del mondo, appena cominciano a disegnare - dice Lodi - tracciano due linee che contengono la loro realtà: la linea del suolo su cui vivono e la linea del cielo. La mancanza di una di quelle due linee indica che il bambino vive una vita inquietante, non ha una sua terra. Ma terra, penso io, terra significa spazio di vita, patria, socialità, sicurezza, base per la costruzione del futuro. Quei bambi­ni che sembrano fluttuare in un immenso vuoto indicano che la nostra è una civiltà potente e spietata.

(da Jesus, gennaio 2006, p. 25)

Pubblicato in Dossier Speranza

Dichiarazione universale dei diritti umani:
versione popolare
di Frei Betto



Tutti nasciamo liberi e siamo uguali in dignità e in diritti.

Pubblicato in Dossier Pace
Venerdì, 05 Maggio 2006 00:47

I cristiani e la guerra (Massimo Toschi)

I cristiani e la guerra
di Massimo Toschi

In un tempo di grande stanchezza per la nostra chiesa e anche per la società, siamo chiamati a vivere il tema della fede come resistenza e della resistenza della fede. Questo ci costringe a guardare con coraggio dentro noi stessi, le nostre scelte, le nostre omissioni. Troppe volte abbiamo fatto passare come resistenza ciò che invece aveva il volto cinico di un adeguamento astuto al mondo. Basterebbe guardare al fatto che la profezia si è svuotata, nella chiesa, in proclamazione di astratti principi e che la dignità della politica si è frantumata in una logica di opportunismo e di piccola furbizia.

Attualizzazione di una pagina di Bonhoeffer

Scrivendo a dieci anni dall’avvento di Hitler in Germania, Bonhoeffer si pone il problema di chi resiste di fronte all’ostensione del male, nella sua abissale malvagità. Si cercherà di leggere questo testo, provando a farne un’attualizzazione rispetto alla situazione di oggi, con tutti i limiti di un’operazione di questo genere. In modo particolare prenderemo come riferimento le guerre di oggi, a partire dalla guerra del Kosovo. Questo testo, presente in Resistenza e resa, presenta una tipologia di coloro che pensano di resistere.

1. Bonhoeffer denuncia innanzitutto il fallimento degli "esseri razionali", di chi cioè crede che la ragione sia qualcosa al di sopra delle parti, capace di regolare e di trovare soluzioni adeguate al conflitto delle parti.

Sono coloro che quando il conflitto diventa supremo, non hanno più parole da dire né gesti da compiere, ma si arrendono, diventandone partecipi e giustificatori, ai meccanismi sottili della forza e del dominio. Sono gli illusi che pensano di contenere la guerra con la forza della ragione, e si trovano a predicare le ragioni della forza.

2. C’è poi il fallimento del "fanatismo etico". Sono coloro che si accontentano dell’astratta declamazione dei principi, dei loro principi, senza assumersi la fatica e la responsabilità di analizzare i reali meccanismi di violenza e di dominio. Essi non sanno guardare lontano, oltre le pareti della loro ideologia, non si piegano su chi si trova nella prova, ma si ritengono soddisfatti di comprimere il mondo nelle loro idee.

Sono inevitabilmente destinati a stare nel coro di chi canta le lodi dei più forti. Essi arrivano sempre dopo gli eventi e cercano di affermare ad alta voce le loro ideologie, nella convinzione che questo basti a cambiare il mondo.

3. C’è poi l’uomo di coscienza", che da solo pensa di combattere contro le contraddizioni e le complessità della storia. "S’accontenta di avere una coscienza salva, invece che una buona coscienza, finché non mente alla propria coscienza per sfuggire alla disperazione".

Sono coloro che non sanno misurarsi con la durezza della realtà, che arrivano a manipolare la realtà, per avere la coscienza tranquilla. Pur di custodire la coscienza, si preferisce credere a ciò che altri ci fanno credere. Basti ricordare, nel nostro paese, un certo solidarismo a buon mercato e consolatorio, che è stata l’altra faccia di una guerra fatta credere come umanitaria.

4. Viene poi indicata "la via del dovere": "Ciò che viene ordinato viene inteso come la cosa più certa; la responsabilità dell’ordine è di chi l’ha impartito, non di chi lo esegue. Ma attenendosi strettamente al dovere, non si giunge mai al rischio di agire sotto la propria responsabilità, che è la sola maniera di colpire in pieno il male e per superarlo".

È la via di chi nasconde le proprie responsabilità dietro al rispetto comodo e astuto delle alleanze e degli impegni presi, che usa dei conflitti e della guerra per accreditarsi come colui che è capace di rispondere agli obblighi dati. La tipicità di questo atteggiamento si trova in coloro che fanno dell’obbedienza alle alleanze il paravento dietro cui porre il loro opportunismo politico, che li esenta dalla fatica di trovare vie impervie e originali alla pace.

5. Ci sono poi coloro che si vogliono "sporcare le mani, per trovare una qualunque soluzione ai conflitti": "Chi è disposto a sacrificare lo sterile principio al compromesso fruttuoso, la sterile saggezza della moderazione al radicalismo fruttuoso, badi che la sua libertà non lo porti alla rovina. Egli accetterà il male per allontanare il peggio e non sarà più in grado di riconoscere che proprio il peggio, che egli vuole evitare, potrebbe essere il meglio. Qui sta la matrice originaria di tante tragedie".

Dietro questa descrizione stanno i difensori del minor male, che in questo modo hanno giustificato i mali peggiori. Sono i padri e i figli di una cultura di guerra, che pensano che la guerra sia l’unico strumento capace realisticamente di produrre la pace. E dunque hanno inventato degli aggettivi nobili per dare dignità di pace alla guerra: dalla guerra giusta alla guerra umanitaria. Volendo resistere alla guerra, ne hanno fatto l’unico strumento per realizzare la pace, rendendo così credibile ogni guerra, anche la più terribile.

6. C’è infine chi pretende di resistere "chiudendosi nello spazio della sua interiorità, lasciando che la storia prosegua il suo corso, con il risultato o di rimanere schiacciato sotto la responsabilità per quello che non fa e potrebbe fare o di assumere la logica del fariseo, che trova la sua autogiustificazione nelle sue leggi religiose".

Basti pensare all’uso che si è fatto delle infinite veglie di preghiera per la pace, all’uso civile di liturgie riparatrici quando c’è un grande lutto nel paese, quasi che si potesse usare la preghiera per coprire le nostre omissioni e le nostre responsabilità. La preghiera in queste situazioni sembra darci una coscienza tranquilla, che ci permette di riprendere il cammino senza che nulla cambi nella nostra vita, senza sentire la responsabilità di cambiare nel profondo la storia.

Il vero resistente

Il testo si conclude con una domanda: chi resiste? La risposta di Bonhoeffer è netta: "Soltanto colui che non ha come ultima istanza la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma è disposto a sacrificare tutto questo, quando viene chiamato a un’azione responsabile e obbediente, nella fede e in un vincolo esclusivo con Dio: il responsabile, la cui vita non vuole essere che una risposta all’interrogativo e alla chiamata divini".

Il vero resistente, allora, è colui che vive in modo radicale la chiamata di Dio e la sua obbedienza a lui. È proprio questa sottomissione assoluta alla signoria di Dio che genera una fecondità storica, che dona al credente di compiere azioni che operano nella storia secondo il realismo dell’Evangelo, non temendo l’opposizione del mondo.

Ma ci sono testimoni di questa resistenza? La domanda di Bonhoeffer rimbalza su di noi, senza offrire risposte consolatorie. Anzi la sua conclusione è ancora più drammatica: "Siamo stati testimoni muti di azioni malvagie, ci siamo lavati con molte acque, abbiamo imparato l’arte della mistificazione e del discorso ambiguo, l’esperienza ci ha resi diffidenti verso gli uomini e spesso abbiamo loro mancato nella verità e nella libera parola; conflitti insopportabili ci hanno reso arrendevoli e forse persino cinici. Serviamo ancora a qualcosa? Ci sarà rimasta tanta forza di resistenza interiore contro le situazioni imposteci, ci sarà rimasta tanta spietata sincerità verso noi stessi da poter ritrovare la strada della semplicità e della rettitudine?".

La fede come resistenza

Scrive Pietro: "Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà la grazia agli umili… Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi. E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi" (1 Pt 5,5-10).

La citazione tratta dal Libro dei Proverbi è ripresa anche da Giacomo, che la colloca in un passaggio che riguarda le cause della guerra e all’interno di un’alternativa secca: "Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio" (Gc 4,4).

Dunque c’è una prima resistenza ed è quella di Dio davanti ai superbi e i cristiani partecipano e sono chiamati a rendere visibile questa resistenza. Essa ha il suo centro nella passione del Signore: è in Gesù che Dio resiste ai superbi, è la croce il luogo di questa resistenza: "A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno nella sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia" (1 Pt 2,21-23).

La resistenza di Gesù si manifesta nella perfetta obbedienza al Padre e al tempo stesso nella resistenza assoluta alla logica violenta della forza, in qualunque modo giustificata e legittimata. Proprio l’obbedienza al Padre chiede questo, proprio la comunione con il Padre genera questo.

Dio resiste ai superbi perché è il Dio della pace e dei poveri, il Dio crocifisso, che giudica i pensieri dei superbi e ne smaschera i mezzi violenti con la consegna del Figlio sulla croce. Dio resiste alla logica del mondo inaugurando con l’evento della croce il tempo del perdono, della condivisione, della pace.

Resistere è vivere la mitezza là dove la violenza è più grande; è testimoniare la pace al cuore dei conflitti, è stare nella casa dei poveri di fronte al dominio dei potenti. Questa è la via di Gesù, iniziata a Nazareth e compiuta sulla croce. Quando Pietro ci indica di seguire le orme di Gesù, indica esattamente questa strada: una strada a caro prezzo.

La resistenza dei credenti

I discepoli del Signore non hanno una loro resistenza da fare, ma partecipano e vivono dell’unica resistenza che Dio ha compiuto in Gesù di fronte al mondo e al suo principe.

Resistenza come sequela

Se la resistenza di Dio si compie in Gesù, la sequela indica per il credente la misura concreta della resistenza cristiana. Pietro indica in una condizione umiliata, nella vigilanza e nella sobrietà le caratteristiche della sequela, là dove Dio dona la grazia della resistenza nella fede. Tutto questo per discernere dove la mondanità e lo spirito del mondo prendono il sopravvento e cercano di catturare il cuore dei credenti, conformandoli al buon senso comune e a una riduzione etica della fede.

I giorni della guerra hanno mostrato un forte adeguamento dei credenti alla ragione politica, spesso giocata sulla menzogna e sulla manipolazione ideologica. Oppure hanno reso visibile un pacifismo ideologico del giorno dopo, che non cerca di prevenire le guerre e i conflitti, ma si contenta moralisticamente di condannarli, spesso con ambigue intenzioni.

Abbiamo percepito in questo tempo un’assenza di profezia e un’assenza di politica, segno concreto di un sale che perde il sapore, di una chiesa che non sa più riconoscere la sua casa tra i poveri e tra le vittime.

Siamo stati operatori di solidarietà, ma non di pace. La pace scandalosa dell’Evangelo è stata messa tra parentesi. È stata consegnata nella mani di generali e politici, con il risultato che ci è toccato di vedere degli agnelli diventati come lupi e dei lupi che pretendevano di apparire agnelli.

Non abbiamo seguito le orme di Gesù, ma quelle dei soldati e dei bombardieri. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che hanno perso la fede e la politica, sono aumentate all’infinito le sofferenze dei poveri e delle vittime, è cresciuto l’odio, sono germogliati motivi per nuovi conflitti.

Resistenza come ascolto di Dio

La resistenza al mondo, ai superbi del mondo, è frutto dell’ascolto di Dio. È’ nell’ascolto del Signore che si genera la forza per resistere: "Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché lo ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi assiste… per questo rendo la mia faccia dura come pietra" (Is 50,5-7).

È perché il servo ha ascoltato, che la sua faccia si è fatta dura di fronte ai violenti del mondo. È la sottomissione a Dio che rende possibile la resistenza di fronte ai potenti. Quando i cristiani si perdono in ragionamenti vuoti che servono a legittimare la guerra e la violenza, mostrano che non sono figli dell’ascolto di Dio, che non sono plasmati da questo ascolto, che preferiscono stare alla tavola dei potenti per elaborare nuove etiche che diano buona coscienza ai signori del mondo, piuttosto che essere incatenati nei pretori, solidali davvero con le vittime della terra. Si vuole essere interlocutori credibili, si cerca di esser efficaci, in realtà si rimane prigionieri nel coro di una cultura di guerra.

Resistenza come ascolto delle vittime

Alla fine di questo secolo, di cui la guerra è la cifra più profonda, possiamo dire che ogni guerra che in esso è avvenuta ha sempre trovato un cristiano pronto a difenderne le ragioni in nome di una astratta etica, che non è mai stato capace di guardare nel profondo il volto delle vittime. Basti pensare alla teoria degli "errori" durante la guerra nel Kosovo, che permetteva alla guerra "umanitaria" di mantenere la sua coerenza anche se si uccidevano civili inermi, che non avevano nessun legame con obiettivi militari, che avevano tutto il diritto di vivere e la cui uccisione è condannata da ogni diritto anche di guerra. Ma le vittime non hanno volto, non hanno nome. Nei filmati sono apparse sempre come una scomoda coreografia di una guerra capace di colpire obiettivi con la massima precisione. Quei filmati in realtà nascondevano tutta la tragedia degli inermi che morivano, delle sofferenze che si aprivano nella vita di molti.

Hanno cercato di spiegarci che tutto questo era, come si dice nella cultura della guerra, un male necessario, che per una pace giusta si dovevano sopportare anche questi errori e che anche i credenti dovevano riconoscere le ragioni di questa guerra. Qualcuno, molto autorevole, è arrivato a parlare dell’ingerenza umanitaria in Kosovo e dunque dell’azione della Nato come la realizzazione storica del "buon samaritano".

Ma i discepoli del Signore che si fa vittima sono chiamati ad ascoltare non le parole dei sapienti della guerra, ma il grido muto delle vittime: perché in quel grido c’è il grido del Signore sulla croce, là dove è vittima in mano di altri: "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio". Dio chiamerà suoi figli gli operatori di pace, perché ameranno i nemici e faranno la pace a misura del Figlio che si fa vittima, resistendo alla tentazione della violenza per sconfiggere il male alla radice, e inaugurando il tempo del perdono. Dio diventa vittima perché le vittime siano ascoltate; i cristiani riconoscono la via della pace secondo Dio e non secondo il mondo quando stanno dalla parte delle vittime, di tutte le vittime.

Resistenza come martyria

La resistenza cristiana ha il suo punto alto nella testimonianza del Vangelo fino alla consegna della vita. Oggi il martirio in molte parti del mondo è la misura di una resistenza cristiana che si affida alle armi del Signore: l’annuncio del Vangelo, la pace, la condivisione di vita e di destino con i poveri e con le vittime.

Da Romero ai sette monaci dell’Atlas, appare una nuova fecondità storica del Vangelo, che non si esprime in un progetto o in una ideologia, che non si affida ai mezzi forti del mondo, ma che si incarna nella vita e nella morte violenta di coloro che resistono alla logica del mondo non cercando un dominio religioso, ma consegnando la vita per tutti, in primo luogo per i nemici, come ha fatto il Signore.

Questa linea di resistenza così è presentata da mons. Claverie, vescovo martire di Orano, in una drammatica omelia in cui affronta il decisivo problema dei cristiani in Algeria, chiamati a scegliere se partire o restare: "È il momento di restare, anche in silenzio ed impotenti, al capezzale di coloro che amiamo: una semplice offerta di presenza, per stare vicini a chi soffre anche solo tenendolo per mano. Questo attesta la nostra volontà di amare gratuitamente… i calcoli troppo umani rischiano di pervertire il meccanismo interiore della missione cristiana: la chiesa non è nel mondo per conquistarlo e neppure per salvarsi, insieme ai suoi beni e al suo personale. Essa è, con Gesù, legata all’umanità sofferente".

Conclusioni

Quando si parla di resistenza cristiana, non si vuole dunque indicare un modo di difendere spazi di società o un progetto per influenzare l’economia e il governo del mondo, ma stili e di forme di presenza ecclesiale che, nella loro debolezza e fragilità, cercano solamente di resistere alla mondanità, nelle sue molteplici forme, con la forza inerme e creatrice del Vangelo.

Non c’è una dottrina della resistenza cristiana, ma ci sono cristiani che, per grazia di Dio, al cuore dei conflitti, là dove sistemi ingiusti pretendono di esercitare il loro dominio, resistono testimoniando che l’amore è più forte della morte: secondo il paradosso evangelico del seme che muore per produrre frutto, del farsi poveri per arricchire tutti, del diventare maledizione perché tutti siano benedetti, del dare la vita per i nemici, del perdonare fino a settanta volte sette. Quando questo accade, diventa visibile la resistenza di Dio nei confronti dei superbi.

Talora questi cristiani non sono riconosciuti dalle chiese, talora le chiese non cercano la sottomissione a Dio e la resistenza alla mondanità, ma al contrario si sottomettono alla mondanità e induriscono il loro cuore di fronte alla Parola di Dio; ma questo non può giustificare nessuno dal venir meno alla vocazione di una resistenza secondo lo Spirito, perché i poveri e le vittime, per continuare a sperare, domandano cristiani che cercano solamente il Regno di Dio e non si arrendono alle culture e ai poteri dominanti.

La democrazia, la giustizia sociale ed economica, l’identità culturale e l’ambiente diventano luoghi teologici nei quali esercitare la profezia della fede, il discernimento della resistenza cristiana. Non si tratta di costruire una nuova dottrina sociale cristiana, ma di generare credenti che nello Spirito sappiano leggere i segni dei tempi, rendano visibile la fecondità storica del cristianesimo secondo un’originalità mai definita una volta per tutte ma continuamente alimentata dall’azione della grazia, e per questo siano capaci di una testimonianza, coraggiosa ed efficace secondo il Vangelo, dell’amore di Dio e del più piccolo dei fratelli.

Non ricette etiche ma la via della testimonianza

Le parole di Bonhoeffer erano dette quando Hitler era vincente in Europa e nel mondo, ma hanno straordinario valore anche per noi, in un tempo in cui la chiesa in Occidente sembra indicare più la via delle ricette etiche che quella della bella testimonianza.

C’è una stanchezza dei credenti, che è figlia di un ruolo etico che la società sembra sempre più domandare, e di un riconoscimento dell’azione ecclesiale, a cui si chiede una legittimazione etica della politica. Il risultato è "lo svuotamento della parola della croce", è il venir meno della testimonianza coraggiosa dei credenti, che sempre più stanno nel coro.

Spesso le parole e i gesti delle chiese sulla guerra e sull’economia hanno più il sapore di vecchie e stanche dottrine, sia pure aggiornate, che l’assunzione davanti al Crocifisso dei drammi della storia. Volendo incidere sui grandi poteri e modificarne i comportamenti, si percorre la via dell’ideologia e non quella della profezia. Il risultato è l’elaborazione di una dottrina sociale, che ha la pretesa di umanizzare l’economia e la guerra, con l’effetto di giustificarne i meccanismi profondi.

La resistenza cristiana

La resistenza cristiana è una resistenza nella pazienza e nella mitezza, che ha il volto della condivisione della vita con chi soffre e con chi è vittima. Una condivisione che ha il prezzo più alto e rappresenta una perfetta assimilazione al mistero di Gesù, il testimone fedele.

P. Christian, priore di Tibhirine, pochi giorni prima del sequestro, indica le parole costitutive della resistenza cristiana: pazienza, povertà, presenza, preghiera, perdono. Così conclude: "Perdono è il primo nome di Dio nella litania dei 99 nomi, Ar Rahman, Ar Rahma. E la pazienza è l’ultimo nome dei 99, Es Sabour. Ma Dio è al tempo stesso povero. Dio è al tempo stesso presente, è al tempo stesso preghiera. Ecco la pace che Dio dona. Non è come la dona il mondo".

Queste parole sono l’ultima consegna di Christian prima del suo martirio e il martirio dà ad esse la parresia del Vangelo.

(da Missione Oggi, dicembre, 1999)

Pubblicato in Dossier Pace

Search